Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Mommy è la storia di un rapporto madre-figlio, un amore fusionale, totale e ovviamente melodrammatico, tra un
ragazzo con un bel po’ di problemi caratteriali e una donna vedova, single e nevrotica. Diane “Die” Després si va
a riprendere Steve da una specie di riformatorio: ma che fare di questo ragazzo impossibile? Premio della Giuria a
Cannes, il film del talento emergente e ‘tuttofare’ Xavier Dolan colpisce per la sua forza e originalità.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto e sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
costumi:
scenografia:
musiche:
produzione:
distribuzione:
139 MINUTI
CANADA
2014
XAVIER DOLAN
XAVIER DOLAN
ANDRÉ TURPIN
XAVIER DOLAN
XAVIER DOLAN
COLOMBE RABY
NOIA
METAFILMS
GOOD FILMS
interpreti:
ANNE DORVAL (Diane “Die” Després), ANTOINE-OLIVIER PILON (Steve
O'Connor Després), SUZANNE CLÉMENT (Kyla), ALEXANDRE GOYETTE (Patrick), PATRICK HUARD (Paul Béliveau).
premi e nomination:
2014, 67° Festival del Cinema di Cannes, Premio della giuria (ex aequo con
Adieu au langage di Jean-luc Godard), Nominato Palma d'Oro e Nominato Palma Queer. 2015 Vancouver FF,
Miglior attore protagonista, Miglior attrice non protagonista e Miglior sceneggiatura; Toronto FCAA Nominato
Miglior film canadese.
Xavier Dolan
Xavier Dolan è attore, regista e sceneggiatore. Vive a Montréal, figlio d'arte, dell'attore Manuel Tadros. Ha
iniziato la sua carriera nello spettacolo da bambino, protagonista di diversi spot pubblicitari. Debutta nel film
televisivo Miséricorde, successivamente compare nei titoli J'en suis!, Lemarchand de sable e La forteresse
suspendue, oltre alla serie TV Omerta, la loi du silence. Nel 2008 ottiene visibilità interpretando il ruolo di
Antoine nel controverso film di Pascal Laugierì, Martyrs. Sempre nel 2008, a soli 19 anni inizia la produzione del
suo primo lungometraggio da regista, J'ai tué ma mère, basato su una sua sceneggiatura semi-autobiografica
scritta quando aveva 16 anni. Nell'aprile 2009, il film viene selezionato per la Quinzaine des Réalisateurs del
Festival di Cannes dove vince tre premi; Premio Art Cinéma, Premio SACD e Premio Regards Jeunes. Nel 2010
scrive, dirige e interpretata la sua seconda opera, Les Amours imaginaires presentato a Cannes nella sezione
Uncertain Regard. Come il suo secondo lavoro, il suo terzo lungometraggio Laurence Anyways arriva sulla
croisette francese, dove vince la Palma Queer. Tom à la ferme quarto film del regista, è stato presentato in
Concorso alla 70° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia vincendo il Premio Fipresci, 2013.
Nello stesso anno Dolan scrive e dirige anche il videoclip College Boy per gli Indochine.
Dolan è anche un doppiatore, famoso per prestare la voce al personaggio di Stan nella serie South Park, doppia
Rupert Grint nei vari film della saga Harry Potter e Taylor Lautner nel personaggio di JacobBlack in Twilight.
Mommy oltre ad aver vinto il Premio della giuria all'ultimo Festival di Cannes e svariati altri premi internazionali è
stato scelto dal Canada per rappresentare il Paese agli Oscar 2015, ma non è entrato nella cinquina
dell'Accademy.
La parola ai protagonisti
Note di regia
Sin dal mio primo film, ho parlato molto dell’amore. Ho parlato dell’adolescenza, dei rapimenti e della
transessualità. Ho parlato di Jackson Pollock e degli anni ‘90, di alienazione e omofobia. Dei college e del termine
spiccatamente Franco-canadese, “speciale”, della cristallizzazione di Stendhal e della Sindrome di Stoccolma. Ho
usato un linguaggio sciocco e anche triviale. Ho parlato in inglese, di tanto in tanto, e troppe volte ho anche detto
delle vere e proprie scemenze. Perché è questo il rischio che si corre quando si “parla” delle cose: ossia, il fatto
che ci sia sempre il rischio, inevitabile, di dire delle scemenze. È il motivo per il quale ho deciso di rimanere nel
campo delle cose che conosco, o di ciò che è nelle mie corde, per così dire. Delle tematiche che ritenevo di
conoscere a fondo, o per lo meno a sufficienza, perché fanno parte di me o del quartiere nel quale sono
cresciuto. O perché sapevo quanto vasta fosse la mia paura degli altri, e quanto lo sia ancora. Perché conoscevo
le bugie che raccontiamo a noi stessi quando viviamo in segreto, o l’inutile amore che caparbiamente offriamo ai
ladri del tempo. Sono queste le cose alle quali mi sento sufficientemente vicino per poterne parlare. Ma se c’è un
tema, anche solo uno che conosco meglio di qualsiasi altro, uno che m’ispira incondizionatamente, e che amo
sopra a tutti gli altri, è certamente mia madre E quando dico mia madre, intendo LA madre in senso lato, la figura
che rappresenta. Perché è su di lei che torno sempre. E’ lei che voglio vedere vincere la battaglia, è per lei che
voglio inventare problemi che lei possa avere il merito di risolvere, è attraverso di lei che mi pongo delle
domande, è lei che voglio sentire gridare quando non ci siamo detti una sola parola. E’ lei che voglio abbia
ragione quando avevamo torto, è sempre lei, che ha l’ultima parola su tutto. Ai tempi di J’ai Tué ma Mère, sentivo
di voler punire mia madre. Da allora sono passati solo cinque anni, e credo che per mezzo di Mommy, stia
cercando di farla vendicare. Non chiedetemi altro.
[Xavier Dolan]
Intervista al regista
Cosa avvicina le esperienze drammatiche dei protagonisti di Mommy a quelle più normali e quotidiane degli
spettatori?
Tutti siamo prima figli e poi alcuni di noi diventano anche genitori in senso letterale (come Diane) o in senso lato
(come Kyla). Mommy parla del rapporto madre-figlio in tutte le sue declinazioni possibili: il rapporto che c'è, che
c'è stato, quello di riavvicinamento e di allontanamento. Gli spettatori vanno a vedere questo film con genitori,
con parenti o amici. Non tutti, ovviamente, vivono situazioni e problemi così drammatici, ma al centro della
storia c'è l'amore tra madre e figlio e il desiderio di proteggersi l'un l'altro, nonostante tutto e tutti. E insieme al
desiderio c'è anche la paura di essere privati di questo legame a causa della società che ci allontana per diverse
ragioni.
Nel film, si è inventato una legge per permettere ai genitori di affidare figli problematici alle istituzioni senza il
parere di un medico. Perché? È una provocazione o una presa di posizione?
Mi sono inventato una legge, con cui si apre il film, che permette a un genitore di lasciare il figlio minorenne in
un ospedale psichiatrico senza che un medico lo prescriva. In nessun Paese al mondo un minorenne viene
rispedito a casa dal riformatorio, dopo aver commesso un atto così violento come Steve. Ho girato un film nel
2013 ambientandolo nel 2015 proprio per dire che una realtà simile potrebbe appartenere all'immediato futuro.
I Governi attuali, infatti, piuttosto che investire nella sanità preferiscono farlo nell'economia. Questa legge di
fantasia è ciò che rende credibile il dilemma della madre di Steve: il suo dubbio è vero e non solo ipotetico. Tutti i
genitori di figli normali con cui ho parlato mi hanno detto: «No, io non farei mai questo a mio figlio». E, invece,
tutti i genitori di figli con problemi mentali mi hanno detto: «Ci sono giorni in cui vorrei consegnare mio figlio a
un ospedale psichiatrico». Io non sono mai stato “tradito” da mia madre, ma andavo a scuola lontano da casa da
ragazzino e rivedevo la mia famiglia solo nel week end. Beh, ogni domenica quando dovevo tornare in collegio
piangevo e facevo il diavolo a quattro perché volevo restare con i miei: mi sentivo in questo senso “tradito”.
Riguardo al film, invece, io non vivo la scelta della madre come un tradimento: lei fa il possibile per “salvare” suo
figlio, ma a un certo punto da sola non riesce più a salvarlo da se stesso e deve chiedere aiuto.
Un altro tema presente nei suoi primi quattro film è la ricerca o l’affermazione di un’identità sessuale…
Per me è semplicemente la ricerca di un’identità, di un proprio spazio nella società. L’omosessualità di quei
personaggi è un dato marginale. Faccio film sull’intolleranza nei confronti dei diversi, così intesi in ogni senso, per
il loro temperamento, per i sogni che coltivano. La società non sopporta le differenze perché da queste viene
messa in discussione. Le considera pericolose e ne ha paura, nonostante siano all’origine di ogni forma di
evoluzione, di progresso, di arte.
In mezzo a temi sociali così drammatici, hai inserito scene di leggerezza e lirismo in cui la musica diventa
protagonista. Ci racconti meglio questa scelta?
Volevo dare respiro al film, un senso di pace, serenità e tranquillità. Il film procede come lungo un viaggio sulle
montagne russe. Quelle scene volevano essere una pausa dal rumore, dalle crisi e dagli scatti di violenza, dalle
risate forti e urla eccessive. Dopo la tempesta la calma, insomma. In queste scene la musica è stata scelta prima
della nascita del girato, ma a volte è il contrario o altre volte la canzone arriva addirittura prima dell'idea del film,
la ispira proprio come mi è già capitato. Ascolto una canzone e mi viene in mente una scena, senza sapere dove
la inserirò. Un film è come una partitura per me. Tutto è musica: il dialogo, i rumori, i silenzi. Io stesso monto i
miei film e, dopo la musica, la prima fase è la scrittura, poi il montaggio nella mia testa e infine le riprese. Giro
solo quello che risulterà funzionale al montaggio. Anche se resta sempre spazio per l’improvvisazione. Qualcuno
le ha criticate perché troppo simili a un videoclip: personalmente, trovo più ispirazione nello scoprire ciò che la
gente prova guardando i miei lavori e non ciò che i giornalisti scrivono pensando solo con la critica razionale. E
preferisco appartenere alle persone che vivono il cinema, che lo sentono e non che lo pensano.
Come mai un repertorio tanto pop-commerciale?
Credo che la musica in un film raggiunga una transazione inconscia con ciascuno spettatore, spingendolo a
lasciarsi coinvolgere dal film. Dido, Sarah McLachlan, Andrea Bocelli, Céline Dion o gli Oasis hanno tutti un
legame con ogni cinefilo; quando, ad esempio, Wonderwall suonava nel 1995, qualcuno di loro aveva il cuore in
pezzi, mentre qualcun altro era da solo in qualche bar, o in luna di miele a Playa Del Carmen, o di ritorno dal
funerale di un amico. Quando quei ricordi privati vengono risvegliati dal suono della musica, la storia del film
improvvisamente raggiunge dei livelli molto più profondi, di quelli che avremmo potuto immaginare.
Nell’immobilità di una sala buia, osserviamo in una collettività silenziosa, e credo che questo elemento sia
innegabilmente redditizio per qualsiasi film. Inoltre, il fatto che quasi ogni canzone presente in Mommy provenga
da un mix che il marito di Die le ha fatto prima di morire, e non dalla mia playlist personale, era una cosa nuova
per me, in termini di sistema cinematografico. Ricordo quando Pauline Kael scriveva di Scorsese dicendo che,
nella tipologia di film che faceva, le canzoni non suonavano SUL film, ma NEL film, alla radio, alla tv, o nei bar. C’è
in questo approccio diegetico, un modo di coinvolgere il pubblico nella verità nuda e autentica dei personaggi,
facendogli dimenticare le idee e i desideri del regista. Mi piace molto questa cosa.
Ci parli degli aspetti visivi del film.
Immaginavo Mommy come un film dark, essenzialmente, ma pensavo che esteriormente dovesse essere
patinato, luminoso e caldo. E’ compito del pubblico identificare la vera natura del film, non mio. Da parte mio,
preferivo evitare di dire alle persone cosa pensare, o quando pensarlo. Perciò, immergere Mommy in una sorta di
prevedibile nebbia grigia e umida, mi sembrava un mero automatismo. Sognavo un luogo gioioso per Die e Steve
dove vivere, un luogo dove tutto era possibile. Ricordo di aver giurato a me stesso che avrei fatto di tutto affinché
i miei personaggi apparissero e parlassero come la gente vera del quartiere dove sono cresciuto. Affinché non
risultassero come delle caricature ma fossero, invece, davvero realistici. Anche la fotografia del film doveva
evitare la solita retorica della depressione. I tramonti e i crepuscoli, durante i quali molte delle sequenze hanno
luogo, dovevano drappeggiare gli esterni con dei rossi e dei gialli, e la luce intensa del giorno doveva addirittura
accecare con i suoi bagliori allegri. Per me era cruciale che Mommy, in ogni modo possibile, fosse una fiaba
sfavillante, di coraggio, amore e amicizia. Non vedo la ragione di fare dei film su dei perdenti, e non capisco che
senso abbia osservare questa categoria. Il che non significa che io disprezzi i “perdenti” – al contrario. Ho solo
un’avversione particolare nei confronti di qualsiasi documento artistico che ritragga gli essere umani attraverso i
loro fallimenti. Esseri umani che, credo, non dovrebbero essere definiti in base alle avversità o alle etichette, ma
dai loro sogni e sentimenti. Ecco perché volevo fare un film sui vincenti, qualsiasi cosa possa poi accadergli alla
fine. Spero davvero di essere riuscito almeno in questo.
Quanto all'uso del 1:1?
Dopo aver girato un video musicale in 1:1, lo scorso anno, mi è venuto in mente che questo rapporto creava
grande emozione e sincerità. Il quadrato perfetto è un formato che incornicia perfettamente i volti, con grande
semplicità, e sembrava la struttura ideale per le inquadrature dei “ritratti”. Nessuna distrazione, nessuna
ostentazione è possibile in uno spazio così costretto. Il personaggio è il nostro soggetto principale,
inevitabilmente al centro della nostra attenzione. I nostri occhi non possono perderlo, o perderla. 1:1 è, inoltre, il
rapporto delle copertine degli album nell’industria dei CD, di tutte quelle copertine che hanno lasciato il segno
nel nostro immaginario, nel corso del tempo. Il ‘Die & Steve Mix 4ever’ è il leitmotif per noi, e l’uso dell’1:1 aveva
una eco aggiuntiva. E’ tra l’altro anche il rapporto preferito del mio Direttore della Fotografia, André Turpin:
sognava di utilizzarlo da tutta la vita, senza mai aver avuto il coraggio di farlo (lui è anche un regista). Dopo aver
trascorso un anno assieme a lui, rompendomi le scatole su quasi ogni inquadratura, pentendomi del nostro
famigerato rapporto di immagine, ho imparato due cose: André ama il cinemascope, ed io, per una volta, non ho
assolutamente nessun tipo di pentimento al riguardo.
Lei usa spesso gli stessi attori: Anne Dorval, Suzanne Clément, Antoine Pilon. C’è un filo conduttore tra i
personaggi che di volta in volta interpretano?
No, non direi. Come sempre, volevo che gli attori fossero al centro di tutto. Provo un’infinita attrazione verso di
loro, e amo studiare l’arte della recitazione, studiarne tutte le forme e gli stili, analizzarne la struttura, affinarla e
comprenderla, è questo il mio obbiettivo più grande. Questa volta, speravo di portare il cast su un percorso meno
“latino”, meno esuberante rispetto a Laurence Anyways, e meno cerebrale di Les Amours Imaginaires. I
personaggi di Mommy non giocano, e non sanno come esprimere i loro sentimenti con la facilità immodesta
tipica di molti dei miei personaggi precedenti. “Die”, Steve e Kyla non si danno delle arie. Ma sono molto
turbolenti, sono esseri vivaci capaci di far valere il proprio punto di vista in maniera coerente, sulla base dei loro
rispettivi background e situazioni. Per me, lavorare di nuovo assieme a Anne Dorval e Suzanne Clément non
significava tornare a vecchi modelli, ma trovarne di nuovi. E’ stata una delle sfide più emozionanti del film, il fatto
che non dovessero essere riconoscibili. Per quanto riguarda Antoine, lui è stata la sorpresa, ovviamente. Qualsiasi
filmmaker è orgoglioso di scoprire nuovi talenti, o di confermarne di vecchi. Per me è appassionante lavorare con
dei grandi artisti e creare assieme a loro delle grandi performance, cercare di innescare delle grandi emozioni.
Credo che col passare del tempo il nostro amore nei confronti di personaggi realistici e precisi sia appassito e sia
stato sostituito da ruoli belli e pronti da indossare, a beneficio dell’efficienza. Gli rubiamo i cognomi, la storia, i
tic, i piaceri proibiti, i dettagli. Spediamo gli attori in scatole già etichettate, a patto che siano inseribili in una
sorta di griglia narrativa intelligibile e proficua. Ma gli esseri umani interessanti (per lo meno gli eroi della mia
infanzia) sono sempre esistiti in una forma molto più concreta, e gli attori che ammiro, e coi quali amo lavorare,
mettono sempre la realtà concreta che hanno conosciuto e osservato al servizio di un film. E secondo me, è
questo che è tipico dei grandi attori: creano dei personaggi non delle performance.
È spontaneo avvicinare Mommy al tuo esordio, J'ai tué ma mère...
Ci sono diverse linee parallele che possiamo tracciare tra il mio primo film e Mommy. Ma solo sulla superficie.
Per quanto mi riguarda, dalla regia al tono, dallo stile recitativo all’aspetto visivo, quei due film sono due pianeti
differenti. Uno si dispiega attraverso gli occhi di uno stravagante adolescente, l’altro contempla le difficoltà di una
madre. A parte il già di per se importante cambio di punto di vista, ecco perché credo che quei due film siano
intrinsecamente dissimili: J’ai Tué ma Mère ruota attorno alla crisi della pubertà. Mommy, invece su una crisi
esistenziale. Inoltre, non ha senso per me fare lo stesso film due volte. Sono felice per l’opportunità di poter
tornare su queste dinamiche madre-figlio, perché questo tema è sempre stato parte dei miei film. Ma ancor di
più, sono felice per l’opportunità non solo di poter cercare di esplorare la novità nella mia stessa filmografia, ma
di esplorare la novità su una scala ben più ampia; quella del genere del family movie. Perché questo genere
rappresenta la forma di comunicazione più emotiva con il pubblico. La madre è ciò da cui deriviamo, è chi siamo,
e chi siamo diventati. Non siamo mai davvero in pace con queste questioni Freudiane, sono una parte indelebile
di noi stressi.
Mommy è parlato in uno slang difficile da tradurre. Ha visto la versione doppiata in italiano?
No, non l’ho vista. Il doppiaggio fa sempre perdere qualcosa, ma è inevitabile se si vuole raggiungere un pubblico
largo. Poi, guardi, la versione tedesca di Laurence Anyways (il suo terzo film, ndr) era bellissima, mi ha sbalordito.
I suoi film rimandano al grande cinema di un passato recente. A chi si è ispirato?
Non ho nessuna formazione cinematografica. Vengo da un ambiente popolare e la mia educazione è limitata.
Guardavo film per famiglie. A 17 anni ho abbandonato gli studi ma per fortuna un’amica di mio padre
sceneggiatrice mi ha dato dei buoni libri da leggere e mi ha fatto scoprire Lezioni di piano di Jane Campion e
alcuni film di Wong Kar -way. Ma i miei principali riferimenti sono Batman Returns, Mamma ho perso l’aereo….
Ho iniziato a fare film a 18 anni… Tanti film da vedere, così poco tempo…Mi ispiro di più ai fotografi che amo,
come Avedon, Penn o anche solo le foto di moda che trovo nelle riviste. E le riproduzioni di quadri di Matisse,
Chagall, Picasso.
Conosce un po’ il cinema italiano? E Godard, con cui ha diviso il premio a Cannes, l'ha visto?
Ho visto alcuni film di Bertolucci, Visconti, De Sica… sono molto emozionanti. Antonioni è per me troppo freddo,
‘design’. 8½ di Fellini è un film intelligente, rivoluzionario, ma in un film mi impressionano i sentimenti, non tanto
l’intelligenza. Due o tre film di Godard sì, li ho visti! Lui aveva detto cose molto dure sul mio film senza averlo
visto, ha detto che non sarebbe andato a vederlo perché sapeva già di cosa si trattava...
Mommy è stato scelto per rappresentare il Canada agli Oscar.
È emozionante, certo, ma già da due anni ho scritto una sceneggiatura in inglese per girare un film americano e
ora, anche se non ho neppure la candidatura, lo farò comunque. Si chiama The Death and Life of John F.
Donovan e racconterà le conseguenze del successo nella vita di un attore trentenne e le ripercussioni sulla sua
famiglia. Jessica Chastain sarà una giornalista demoniaca. Tutto ruoterà questa volta attorno ad un uomo ma
non sarà un padre. Certe cose non cambiano.
Recensioni
Christian Raimo. Internazionale.it
(…) È difficile non considerare Mommy uno dei migliori film dell’anno, un quasi capolavoro, un’opera incredibile
se si considera che il regista Xavier Dolan è uno che ormai è perfino stucchevole reputare un enfant prodige ed è
difficile non ammettere la bellezza di Mommy fin dal primo minuto. Ossia fin da quando Dolan decide di
restringere lo schermo a un quadrato. Una dimensione 1:1 invece di un 4:3 o di un 16:9, due barre di nero al lato
dunque che producono subito due effetti. Primo, farci sentire attraverso questo piccolo stratagemma il senso di
artificio rispetto a quello che stiamo vedendo; secondo, stringere il fuoco intorno agli attori come a volerli
placcare, con una camera piazzata addosso. (...) Dolan sa che può osare, e inserire tutto ciò che ha a portata di
mano. Quindi, come a saturare lo spazio disponibile, getta dentro da subito un sonoro sporco e onnipresente
(rumori di chiavi, chiacchiericcio, traffico…) e una presenza musicale schiacciante. Autoradio in sordina e volumi
che si alzano e si abbassano, stereo a palla che si sovrappongono a altre fonti musicali, una colonna sonora già di
suo invadente, cafonissima, iper-pop: i brani più sputtanati di Craig Armstrong, Dido, Counting Crows, Lana Del
Rey, Oasis. Ma tutto questo eccesso – la recitazione iperemotiva, la camera attaccata ai corpi, i grandangolari, i
primissimi piani, sequenze di volti come una serie continua di fototessere, campi e controcampi quasi da soap, la
musica a cascata… ancora non basta a Dolan per creare una sua estetica compiuta e ammaliante. Occorre la
fotografia di André Turpin, che satura anche lui: gli esterni allagandoli di luce solare che alle volte ci mostrano
una sorta di apocalisse tropicale in Canada, e le scene d’interni virandole al verde, al giallo ocra, al rosso, al
dorato, al blu elettrico (…) E ancora: una sapienza di montaggio (sempre Dolan, che firma regia, sceneggiatura,
produzione, costumi, e montaggio appunto) per cui i non detti, le elisioni, le omissioni sono lasciati alla
sceneggiatura, mentre se c’è qualcosa che ci viene mostrato, noi lo ipervediamo. Clinicamente, senza pudore. Ed
ecco per esempio l’uso, l’abuso del ralenti, che è una cifra stilistica di Dolan. Perché accade tutto questo in
Mommy e non ci sembra di avere a che fare con un prodotto kitsch? (…) Dolan è seduttivo e geniale perché arriva
a ridefinire che cos’è il pop, e lo fa come se la storia del cinema non esistesse e fosse stata sostituita da una
specie di continua rappresentazione diffusa: lì il suo inconscio si è formato, tra i riferimenti commerciali degli
anni novanta. E da regista cresciuto nel mondo di YouTube e film in streaming, non ha soggezione nei confronti di
nessuno, né desiderio di emulazione. Dolan è più libero di quella generazione di registi iconoclasti come
Tarantino e Almodóvar, perché non rielabora, non usa il grottesco, o l’ironia, e non rovescia nemmeno il melò per
rifarlo in salsa gay. Dolan letteralmente dilaga, è bulimico, incontenibile, fa tutto, e vuole tutto. Questa è la sua
forza. (...)
Roberto Nepoti. La Repubblica
Nel 2015 il Québec approva una legge che permette ai genitori di liberarsi dei figli problematici facendoli
internare per sempre. Diane, detta “Die”, vedova sulla quarantina, è la madre del quindicenne Steve, nel quale
deficit di attenzione e iperattivismo sfociano in crisi di violenza. Tuttavia Diane decide di tenerlo con sé. Benché i
due si amino molto, la convivenza è piena di urla, litigi, malintesi. Finché “Die” non chiede a Kyla, insegnante in
congedo terapeutico, di dare ripetizioni a Steve. Enfant prodige del cinema canadese, il venticinquenne Xavier
Dolan è dotato di un ego extralarge, ma di un talento in proporzione. Cannes gli ha attribuito il Gran Premio della
giuria, ex-aequo con Godard. Su un soggetto da mélo, Dolan attiva un formidabile armamentario pop che sposa il
mélo hollywoodiano col videoclip, il “muto” e la pausa musicale con l’estetica del cinema di Cassavetes.
Regalando ad Anne Dorval una parte che, forse, avrebbe ispirato Anna Magnani.
Alessandra Levantesi Kezich. La Stampa.it
A Cannes ci era sembrato che l’ex-aequo della Giuria a Adieu au Langage e Mommy, consacrando l’84enne JeanLuc Godard nel suo aureo crepuscolo avesse penalizzato il 25enne Xavier Dolan nel suo irruento emergere. Ma è
indubbio che, oltre a rappresentare un onore in sé, il premio a pari merito col maestro della Nouvelle-Vague ha
ben sottolineato il carattere sperimentale/spericolato del cinema del regista canadese. Il quale si è sempre
dimostrato pronto a osare, esponendosi (è anche attore) in ruoli gay a rischio di kitsch, proponendo personaggi
estremi e usando soluzioni formali altrettanto radicali (…) Così, in Mommy, il desueto formato 1:1 non è un vezzo,
è un modo per stare addosso ai protagonisti (straordinari interpreti), imprigionandone il vitalismo disperato e
fuori misura nell’ideale doppia cornice – l’inquadratura e la periferica realtà di Montreal - in cui si muovono.
Andrea Chimento. Il Sole 24 Ore.com
(…) Nato a Montréal nel 1989, Xavier Dolan ha all'attivo già cinque film e tutti di grande fascino. Mommy
dimostra nuovamente il suo formidabile talento, tanto da regista quanto da sceneggiatore, grazie a una messa in
scena esplosiva, irresistibile e ricca di scelte coraggiose e mai banali. L'autore gioca con il formato dello schermo,
riducendolo per quasi tutto il film (così da trasmettere allo spettatore la situazione claustrofobica in cui vive la
protagonista) e allargandolo in un paio di sequenze: non si tratta di un semplice esercizio di stile, ma di una scelta
tesa a rappresentare le emozioni dei personaggi. Splendide diverse sequenze, a partire da un commovente
momento onirico in cui la madre immagina per suo figlio un futuro “normale” sulle note di Experience di
Ludovico Einaudi. Ottime anche le performance dei tre protagonisti: Suzanne Clément (Kyla), Antoine-Olivier
Pilon (Steve) e la strepitosa Anne Dorval (Diane).
Monica Straniero. Cinemaitaliano.info
Ambientato in un Canada, immaginario dove una legge permette ai genitori di abbandonare i propri figli
“disturbati” in un ospedale psichiatrico senza necessità di esami e perizie, il giovane regista canadese Xavier
Dolan porta sul grande schermo un trio di personaggi che la società non accetta. Diane, Anne Dorval è una madre
vedova, una donna ancora piacente, ma dalla parolaccia facile. Suo figlio adolescente, Olivier Pilon, è alle prese
con problemi comportamentali molto seri. A loro si aggiunge una misteriosa vicina di casa, Kyle, Suzanne
Clément, per un insolito triangolo amoroso. Dolan, considerato ormai il nuovo enfant prodige del cinema
mondiale per aver realizzato cinque film in sei anni, sembra in preda all'ansia di dimostrare la propria levatura
stilistica e autoriale. (...) con Mommy torna al suo tema preferito, il rapporto di odio-amore-odio fra madre e
figlio. «Una fonte inesauribile di ispirazione, la base di quasi tutti i film di Hitchcock», aggiunge il regista. E come
Kubrick, noto per il suo perfezionismo maniacale che non ammetteva alcun tipo di intrusione, Dolan non si
accontenta di aver costruito una sceneggiatura solida e ben strutturata. Le ambientazioni molto luminose e
colorate evitano la solita retorica della depressione, mentre una colonna sonora impeccabile, con canzoni di
Dido, Sarah McLachlan, Andrea Bocelli, Céline Dion , e gli Oasis, mirano a creare empatia verso personaggi che
fanno fatica a dominare le proprie emozioni. Tutto all’interno di formato immagine 1:1. Una scelta rischiosa ma
necessaria, a detta del regista, per contrastare l’artificiosità della messa in scena del 3d e dell'Imax, ma anche
l’unica in grado di catturare l’espressività dei volti, «perché nessuna distrazione è concessa allo spettatore in uno
spazio così ristretto». (...)
Elena Pedoto. Everyeye.it
(…) Dolan porta alla vita opere attraversate da un profondo senso di smarrimento e allo stesso tempo animate da
una incredibile linfa vitale. In questo imprinting artistico rientra senza alcun dubbio anche quest'ultimo lavoro
Mommy, storia tragica e profondamente umana di un rapporto madre-figlio disturbato e bellissimo, disperato e
assoluto. Diane(soprannominata “Die” forse anche per un'allusione a quel tangibile senso di fine che anima la
sua vita), è una madre single dal look e dall'approccio aggressivi che tendono però a mascherare una disperata e
incolmabile insicurezza e una profonda fragilità. Suo figlio Steve ha assorbito da lei e dalla precoce scomparsa del
padre quel senso di inadeguatezza che ha poi trasformato in un atteggiamento violento ed iperattivo che
s'inscrive nel complesso disturbo da deficit di iperattività. (...) Alla sua quinta prova Xavier Dolan realizza un film
che è un fiume in piena di emozioni ed emotività. Inquadrato e cesellato attraverso momenti di rara potenza
audiovisiva (su tutte la fuga in skate sulle note di Colorblind, la scena del ballo a tre sulle magnifiche note di On
ne change pas, e il momento lacerante del karaoke in cui va in scena una versione snaturata di Vivo per lei) il
rapporto che Dolan descrive è un amor fou madre-figlio, un rapporto impossibile sia da vivere sia da non vivere.
Ed è attorno a questa dannazione esistenziale ed emotiva che Mommy si trascina appresso una carica ribelle e
vitale che tocca in alcune scene punte di un parossismo espressivo fenomenale. Anche la scelta di utilizzare un
formato ‘striminzito' 1:1 che marca in maniera ancora più lampante il confine tra l'asfissia del rapporto e
l'incontenibile esuberanza alla quale tende risulta infine una scelta assai funzionale per far aderire il contenuto al
mezzo. Dolan usa una regia ribelle ed elettrica che sfila via come una sfrenata discesa in skateboard, tra salti,
iperboli, movimenti sussultori, ralenty. Eppure, la rapsodia di uno stile in perenne moto, non toglie al giovane
regista la capacità di seguire con altrettanta freschezza (ma anche rigore) lo sviluppo narrativo della sua storia.
(...)