Prefazione a Un cesto di more e di fiori di Fulvia Marconi Un cesto di

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Prefazione a Un cesto di more e di fiori di Fulvia Marconi Un cesto di
Prefazione alla Silloge Un cesto di more e di fiori di Fulvia
Marconi
Prefazione
a
Un cesto di more e di fiori
di
Fulvia Marconi
Un cesto di paglia intrecciata,
farcito di more e di fiori,
compagno di gaie escursioni
nel tempo del gusto alla vita.
La prima cosa che ci colpisce nella silloge di Fulvia Marconi
è la grande esperienza metrica, la grande maestria nel
trattare il verso, nel suo variegato mondo di suoni e colori,
nella sua ampia ragnatela di intarsi e legami. Ed è il
sapiente uso del significante metrico combinato con le note
del pentagramma dell’anima, a dare forza e linearità
all’opera. Dalla serie di tripli trisillabi in novenari a ritmare la
calda intensità memoriale dell’autrice [“Cascine dai muri
sconnessi / e l’erba spaccava le pietre, / i piccoli piedi
giocosi / nascosti da zoccoli grandi.” (Un cesto di more e di
fiori)]; alla serie di tripli quaternari a sollecitare una
cadenza/involucro di un’immagine “che mi avvolge, non si
arrende, non mi lascia…” [“Un pensiero si conficca nel
silenzio, / un pensiero dal colore dei suoi occhi…”(Un
pensiero dal colore dei suoi occhi); dall’uso di versi
ipermetrici a dare sfogo a un subbuglio interiore che, per
delinearsi nella sua immediatezza, ha bisogno di spazi
poetici maggiori e di tecniche verbali che vadano oltre
l’umano intrecciarsi del verbo; all’impiego di un
endecasillabo, frutto di una malizia tecnica, che lo sa
adattare, nelle sue combinazioni, al variare dei giochi
sentimentali. Endecasillabi che come vere cascate musicali,
quasi attacchi di romanze pucciniane, ci coinvolgono con la
loro fluidità, con il loro apporto lirico. Endecasillabi nella loro
varietà strutturale, nella loro complessità versificatoria, a
costituire un valore aggiunto nel contesto dell’opera. Poi, a
completare il panorama stlistico, l’uso di un sonetto
perfettamente costruito sui parametri della tradizione
letteraria; e l’uso di pièces composte di settenari a
raffigurare, con note di spontaneità creativa, immagini di una
vita perduta filtrate da un soffuso sottofondo di malinconia:
“Veglia quel cielo stanco / il colle mesto e il poggio, / dove
illusione è vita / dove la vita … illude!” (Dove la vita illude).
Ma gli impieghi tecnico-fonici, gli accorgimenti figurativi
finalizzati ad una musicalità che la fa da padrona in questo
dipanarsi di canti, il giusto e convincente uso di implicit ed
explicit a racchiudere le emozioni, non sono mai a sé stanti,
ma impiegati per una simbiotica fusione tra dire e sentire; a
fasciare un’anima tutta volta a dire di sé, ad un “aveu”
portato a dilatarsi, se questi stilemi non costituissero un
argine assai robusto per frenarne l’esondazione. E la parola
fa parte di questi giochi espansivi: si articola, si adatta, si
trasforma, si dilata per carpire il senso della vita; per andare
dietro a un’emozione che, fra memoriale e assorbimento del
reale, sembra pretendere sempre di più dalla parola stessa.
D’altronde, come il poeta sa, non esiste verbo sufficiente a
coprire le scansioni del sentire. Ed è proprio il memoriale a
compattare la silloge, a creare quel leit motiv che ne
garantisce l’organicità. Quel memoriale che l’autrice ritesse
in filigrana, fa suo, rinvigorisce e riporta in vita, traducendolo
in alcova dove trovare riposo, o dove trovare lo sconforto di
un’assenza; ma dove i grandi sentimenti come le più piccole
cose si fanno nutrimento di alta poesia, ; “Respiro ancora
fresco il tuo profumo, / che m’accendeva di vigore il petto.”
(Il sole si rifugia ad occidente); “Si condensa nel silenzio il
suo ricordo, / la memoria poi mi assilla e mi tortura, / e
cancello sopra me quel cielo perso / confidando il mio
sconforto a “questo verso””. (Un pensiero dal colore dei suoi
occhi). I grandi sentimenti, sì, le piccole cose, anche, ma
sono soprattutto la coscienza degli ambiti mortali, degli
spazi ristretti di un “soggiorno”, la voglia di andare oltre, o il
motivo del ritorno a completare la circolarità dell’opera: “Ma
forse, fra le nuvole impazzite, / diamanti e stelle brilleranno
ancora / e al soffio di sbandate brezze estive, / forse
confusa … riuscirò a volare”. (Riuscirò a volare) “L’esistenza
è quell’attimo solo / che imprigiona la vita a promesse; /
piedi scalzi e speranze al calare / … sul sentiero odoroso di
mare”. (Un sentiero odoroso di mare). Ed è forse proprio il
mare a simboleggiare quel desiderio di libertà che ognuno di
noi cova in seno, e che mai trova appagato. E quel cesto di
more e di fiori, la mia sera, le fronde che impigliano un
canto, la casa, i ciliegi, la luna, il profumo del mare sono
tanti momenti esistenziali, tanti ambiti sentimentali, sono
tante configurazioni di uno spleen intento a dare corpo ai
propri messaggi interiori. E la natura sembra avvolgere
tutto, rappresentata, a pennellate, da una mano che fa del
panismo esistenziale il fulcro del suo dire. I tramonti, il
vento, la fragranza di un giorno d’estate, l’antica siepe, la
neve “troppo” bianca rimarcano il grande amore che la
poetessa prova per quella natura, che puntualmente la
ripaga, diventando complice del giuoco della sua poesia.
Le assonanze, le rime, gli enjambements, l’uso di figure
retoriche quali l’anafora (“Un pensiero si conficca nel
silenzio / un pensiero …”), l’anadiplosi (“E mi perdo e mi
dissolvo come l’onda / … come l’onda cerco e anelo una
battigia, …”), concorrono a dare forza alla liricità del canto.
Se Quasimodo ha scritto: "Ognuno sta solo / sul
cuore della terra"; se Montale ha affermato: vivere è come
"seguire una muraglia /che ha in cima cocci aguzzi di
bottiglia"; e se Ungaretti ha definito se stesso "uomo di
pena" , anche nella Nostra sembra vincere, alfine, un senso
di stanchezza e accettazione fatale (“mi poso ormai stanca
ed accetto la sorte”). Ma mi piace cogliere nella sua poesia
un raggio di sole che incide le nubi: credere ancora nel
canto e nella vita. E Fulvia Marconi crede nel potere della
poesia fino ad assegnarle il compito non solo di cantare
l’amore, ma anche quello di amare il canto. Anche se:
La vita è solo un fremito celato
in quell’abbaglio che è la giovinezza,
tanto rimpianto come spore erranti
e il resto … è solo il perdersi nel tempo.
Nazario Pardini