Sei passeggiate nei romanzi di Umberto Eco,Prefazione alle

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Sei passeggiate nei romanzi di Umberto Eco,Prefazione alle
Sei passeggiate nei romanzi
di Umberto Eco
Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, L’isola del giorno
prima, Baudolino, Il cimitero di Praga. Viaggio labirintico
attraverso i romanzi di Umberto Eco, eccetto La misteriosa
fiamma della Regina Luana e Numero zero che non mi hanno
ispirato particolari riflessioni. Il silenzio, il complotto,
il falso, l’inganno, il mistero. Tutte i grimaldelli per
schiudere gli universi narrativi di Eco, con un’intervista
finale sul romanzo storico.
1) IL NOME DELLA ROSA
da Silenzio della fede e silenzio della conoscenza: “Il nome
della rosa” e “Il pendolo di Foucault” «Philosophema», n.
11-12, 1991.
(…)
Il silenzio, dunque, come più alta forma
di conoscenza e come ultimo riscatto. Ma
il silenzio anche come inevitabile
alternativa all’inesistenza di un sapere
sensato.
Non sappiamo quanto Eco abbia voluto
dare senso al “suo” silenzio, di quanta
importanza abbia voluto investirlo;
possiamo
solo
immaginare
una
molteplicità di sensi che il silenzio,
con la sua eloquenza, esprime: tanto più
se si tratta del silenzio della
conoscenza, del sapere umano, della possibilità stessa di
capire e di spiegare l’ordine del mondo.
Un silenzio quindi potente, più potente dello stesso commento
il quale definendosi si limita, un silenzio immenso che
sottintende tutto e non dichiara nulla.
Per Eco, tuttavia, il vero silenzio che tace per non dire è
quello della Fede, il silenzio che nasconde la realtà per
alimentare la paura è quello del timor di Dio: si deve
distruggere tutto ciò che crea distacco come il riso, poiché
esso uccide la paura e senza la paura non c’è Fede.
Questo è ciò che aveva capito Jorge da Burgos, il vegliardo
cieco de Il nome della rosa, che attraverso il suo eccessivo
amor di Dio aveva incarnato l’Anticristo e nel difendere la
sua verità contro l’altrui menzogna aveva fatto morire tutti i
suoi fratelli e lui stesso insieme ad essi.
Anche qui, come ne Il pendolo di Foucault, esiste un sapere
profondo e misterioso che si cela nella labirintica biblioteca
di una sperduta abbazia dell’alta Italia, un sapere non da
scoprire ma da nascondere, per il cui possesso muoiono sette
uomini in sette giorni secondo una catena di delitti scandita
dal suono delle sette trombe dell’Apocalisse.
(…)
È dunque nel secondo libro della
Poetica di Aristotele che si
annida l’eresia paventata ed
esorcizzata da Jorge; è proprio
nel punto in cui si elogia il
riso come forma d’arte e di
sapienza che si autorizza a
deridere la paura della morte e
a dissacrare ogni valore della
Fede.
Il riso capovolge l’alto con il basso, esalta lo stolto e
dileggia il saggio, trova la sua massima espressione nella
Festa dei Folli in cui viene rappresentato un mondo alla
rovescia, scardinato nei suoi valori cristiani e ricostruito
su valori profani, sacrileghi e demistificanti.
Se poi è la massima autorità filosofica che nobilita questa
forma oscena e insana di espressione e la innalza a valore di
purificazione, allora deve essere distrutta ogni traccia che
possa documentare tale eresia legittimando il distacco di Dio,
l’infedeltà e la miscredenza.
Per questo Jorge, nel suo misticismo esaltato e perverso
decide di sottrarre il prezioso manoscritto a tutte le
possibili traduzioni e interpretazioni che i monaci
dell’abbazia attraverso la loro ponderata sapienza potevano
operare e tramandare; per questo egli avvelena le pagine del
libro in modo che chiunque cerchi di sapere la verità
racchiusa nel testo trovi la sua morte secondo il disegno
della volontà di Dio.
(…)
E paradossalmente ridendo Jorge muore. Ma non gli basta fare
di se stesso la tomba del sapere di Aristotele ma fa anche
della biblioteca la tomba di tutta la scienza ivi racchiusa,
scatenando un incendio a catena che devasta tutte le sale e
gli scaffali dell’immenso edificio, trasformandolo in un
inferno apocalittico in cui tutta la preziosa cultura,
conservata e tramandata per secoli dai monaci dotti, si
estingue definitivamente senza lasciare più traccia.
A causa dell’eccessivo timor di Dio e dell’insana fede nella
Verità, l’inestimabile patrimonio bibliografico viene quindi
ridotto in cenere e tutta l’abazia, compresi la chiesa, il
chiostro, l’ospedale e i dormitori, vengono distrutti e
convertiti in un cumulo di salme e di rovine.
Così finisce il mistero dei molteplici delitti consumatisi
all’interno della cinta abaziale, sullo sfondo della disputa
ideologico-religiosa tra domenicani e francescani; così si
conclude la storia di una verità sempre bramata e mai
posseduta, per il rispetto della quale sono state distrutte
centinaia di opere somme e ridotti per sempre al silenzio i
loro autori.
(…)
2) IL PENDOLO DI FOUCAULT
da Silenzio della fede e silenzio della conoscenza: “Il nome
della rosa” e “Il pendolo di Foucault” «Philosophema», n.
11-12, 1991.
.(…)
Sullo sfondo di un intersecarsi
di scienze occulte, società
segrete e complotti cosmici, tre
redattori editoriali di Milano,
attraverso la frequentazione di
autori piuttosto sospetti e la
pubblicazione di opere alquanto
insolite,
si
imbattono
involontariamente in un testo
che sembra indicare una Mappa da
seguire per la rivelazione di un mistero profondo, di un
segreto nascosto, che racchiude la verità ultima del mondo.
La ricostruzione del Piano da attuare per il raggiungimento di
tale conoscenza avviene attraverso l’interpretazione stessa
della Storia, scandita da appuntamenti presso alcuni luoghi
deputati in diversi paesi europei, che i vari ordini
religioso-militari di natura mistica ed esoterica hanno
rispettato nei secoli per scambiarsi i loro frammenti di
testimonianze, finalizzati a un disegno universale di riforma
del mondo.
Si cerca dunque una verità, la Verità, il senso ultimo
dell’esistenza. Si vuole rincorrere un mistero che per secoli
ha ammantato il sapere umano. Si tenta di violare un segreto
che nasconde in sé l’essenza stessa della conoscenza. Si
aspira insomma con tutte le forze diaboliche, sotterranee,
magiche e occulte ad appropriarsi di una scienza che significa
potere, elargisce dominio e investe di controllo tutti coloro
che, possedendola, la esercitano.
È un Piano immenso, potente e fascinoso di appropriazione e
dominazione che impaurisce e seduce allo stesso tempo, dal
quale non è facile fuggire o salvarsi, soprattutto quando per
curiosità indiscreta o per ingenua sprovvedutezza ci si è
precipitati dentro, dando forse troppa fede alla sua
veridicità.
Ed è ciò che succede ai tre protagonisti, tutti sedotti dal
fascino del mistero e dalla passione per l’enigma, e tutti
destinati a trovare in diversi modi la loro fine per aver
inventato un Piano che non esisteva e per aver fatto credere
ad altri che ci fosse una Mappa da conoscere per possedere il
mondo. E invece era tutto un non senso. Un’invenzione
ridicola. Una follia che portava alla morte. Una verità
inesistente. Il non-essere totale.
(…)
L’unica cosa da capire in tutta
la Storia è che non c’era nulla
da capire. L’unica certezza da
raggiungere era che il Piano era
inventato e la Mappa non
esisteva. L’unico modo di
salvarsi dalla morte era quello
di stare al gioco dei diabolici
e far finta di sapere quello che
Essi volevano sapere. La Verità. Ma non c’era nessuna verità.
Se non quella che essa non era mai esistita.
Ormai è troppo tardi però. Nessuno può credere che il
messaggio di Provins, contenente il senso di tutto il Piano,
abbia lo stesso valore di una lista della lavandaia. Nessuno
può convincersi che non esista un sapere da possedere, una
scienza da trasmettere e un mistero da perpetuare. La Storia
deve pure avere un senso e la conoscenza una sua finalità.
Eppure sembra che tutto ciò non si realizzi in nessuna formula
del sapere umano e in nessun ordine della realtà esistente, ma
finisca invece nel vuoto, nel nulla, nel non senso, dove il
commento non ha più ragion d’essere e lascia spazio al
silenzio. E nel silenzio finisce la vera conoscenza. Quando
ormai si sa già tutto e non ha più senso spiegare, confessare,
trasmettere.
(…)
Ed è questo l’unico modo per essere davvero potenti, quello di
non esprimersi per far credere che esista sempre qualcosa da
cercare di incognito e di arcano, che tenga impegnati ancora
per altri secoli frotte di diabolici attorno a messaggi
indecifrabili, a segreti insondabili, a misteri impenetrabili.
(…)
3) L’ISOLA DEL GIORNO PRIMA
da “L’isola del giorno prima”: la ricerca dell’impossibile
Lettera aperta a Umberto Eco, «Philosophema», n. 15-16, 1994.
Caro Professore,
se è vero che nel Seicento si scriveva in
modo aggraziato ma senza rilevanti
contenuti, poiché si trattava di gente
senz’anima – con tutto quello che si dava
da fare per comprendere l’incognito
significato dell’intero Universo – è pur
vero che in questo secolo si trova chi
scrive con grande ingegno, giocando con
tanti registri narrativi, per arrivare
infine a decretare l’impossibilità stessa
della “fine” di un romanzo, o per essere
più precisi di un metaromanzo.
È indubbio che ogni Suo romanzo si sviluppi essenzialmente
seguendo un raffinato processo di interpretazione. Alla base
di ogni testo, per quanto narrativo, esiste sempre un’attenta
ricerca di decodificazione attraverso la quale prende forma la
storia romanzata.
Ma se ne Il nome della rosa era Baskerville a interpretare i
simboli dell’Apocalisse, se ne Il pendolo di Foucault era
Casaubon a interpretare i messaggi di Abulafia, ne L’isola del
giorno prima è l’Autore stesso che interpreta le lettere
d’amore prima e i capitoli del romanzo poi, del suo
protagonista.
L’Autore dunque si fa artefice della storia che narra e allo
stesso tempo diventa il Lettore di quelle stesse carte da cui
attinge la materia del suo romanzo. É una sorta di Io epico
che “interviene” nella storia come autore, come spettatore e
spesso anche come critico.
Ma ciò che risulta particolarmente ingegnoso e allo stesso
tempo ingannevole in tale processo è il fatto che questo
itinerario esegetico non porta mai, come ci si potrebbe
aspettare, a una scoperta risolutiva – dell’enigma, del
sapere, della natura – ma al contrario conduce sempre verso
l’impossibilità di conoscere o più sottilmente verso quella di
essere.
Per questo ritengo che il tratto più fascinoso e – mi permetta
– anche il più perverso di ogni Suo romanzo è quello di
condurre abilmente il lettore lungo le trame di una storia la
cui fine riposa sempre su un Inganno.
(…)
Questa volta, però, l’inganno
contenuto nell’assenza di una
fine del romanzo (o meglio del
romanzo che narra di un uomo che
scrive un romanzo) credo si
spieghi nel fatto che si sia
voluto
infrangere
una
convenzione.
Come giustamente Lei osserva,
nel romanzo “si fa finta di raccontar cose vere, ma non si
deve dire sul serio che si fa finta”. Roberto (o Eco per
lui?), decidendo di dare senso alla sua vita entrando nel suo
romanzo, vìola la convenzione narrativa dell’affabulazione.
Con l’innestare la realtà nella fantasia egli scardina il
processo di finzione e appropriandosene l’annulla. Sfuma
dunque ogni forma di metanarrazione – il protagonista del
romanzo dell’Autore sparisce nelle pieghe del suo stesso
romanzo – e, come è prevedibile, non resta alcuna traccia
della sua fine.
Così il romanzo finisce col non dire, o meglio col dichiarare
che non è possibile concludere laddove non c’è altro da
commentare, e questo – mi perdoni ma ognuno ha i suoi pallini
– non è altro che l’espressione estrema del Silenzio.
Dopo il silenzio di Jorge che tace per non tradire la Parola
di Dio, dopo il silenzio di Casaubon che tace per non avvilire
la Dignità dell’Uomo, dopo ancora il silenzio di Roberto che
tace (suo malgrado) perché non riesce ad assegnare nomi
appropriati alle cose che vede, ecco infine il silenzio
dell’Autore che tace perché ha concluso la sua riflessione
esegetica intorno alle carte del naufrago e, dal momento in
cui Roberto svanisce inghiottito dalla sua stessa fantasia,
ritiene che non ci sia più altro da aggiungere.
(…)
E così come lettrice mi compiaccio (paradossalmente!) proprio
di questo finale. Anche a me, come all’Autore, piace salutare
Roberto per l’ultima volta pensandolo affidato al destino
delle acque, che nuota coraggioso contro un’infausta corrente
– lui che non tollerava nemmeno di bagnarsi – che osserva la
Colomba Color Arancio involarsi verso il Sole – lui che non
sopportava le più pallide luci del giorno – conservando nel
cuore la passione per la donna amata e nella mente il pensiero
del Punto Fisso, con l’ostinato intento di conquistarli
entrambi.
Anche se – ma questo lo sappiamo solo io e Lei che viviamo in
questo secolo – egli non riuscirà mai a raggiungere, per
quanto si inganni, né l’una, né l’altro.
4) BAUDOLINO
da L’immaginario di “Baudolino” , «La Scrittura», n. 14-15,
2002.
(…)
Tutta la narrativa di Eco riposa – e non
poteva essere altrimenti – sul meccanismo
dell’interpretazione.
Interpreta
Baskerville i segni delle sette trombe
dell’Apocalisse per comprendere la
sequenza degli omicidi; interpreta
Casaubon i file del computer Abulafia per
individuare i disegni del Piano;
interpreta persino l’Autore gli scritti
del naufrago per ricostruire la mentalità
(e la visionarietà) del Seicento;
interpreta, quindi, lo stesso Niceta
Coniate i racconti (presunti falsi) di Baudolino, arrivando a
svelarne, paradossalmente, l’intrinseca verità. É lo storico
Niceta infatti, con l’aiuto del veggente Pafnuzio, che mostra
a Baudolino come realmente è morto il padre Federico, a
dispetto di tutte le congetture fatte intorno alle mirabolanti
invenzioni del castello di Ardzrouni. Ed è proprio quello
storico, che per mestiere deve dire la verità, a illuminare un
bugiardo che, pur cosciente delle proprie menzogne, non si era
mai accorto di vivere nell’inganno.
D’altra parte è intorno al contrappunto tra la narrazione
fantastica di Baudolino e le integrazioni storiche di Niceta
che si snoda tutto il romanzo, laddove le imprese favolose del
protagonista si intersecano con le vicende dell’impero di
Federico II, e l’incredibile missione in Oriente dei Re Magi
si conclude con il colossale incendio di Costantinopoli. Ma al
di là del continuo rimando tra cronaca e leggenda, in cui
spesso si stenta a credere alla realtà e ci si lascia
persuadere dalla fantasia, il tratto che più contraddistingue
questo romanzo dai precedenti consiste nell’ingegnosa
alternanza tra un registro popolare-farsesco che caratterizza
le grottesche vicende della città di Alessandria (la
fondazione, l’assedio, la liberazione, il cambio del nome), la
“ruspante” famiglia d’origine del protagonista (mirabilmente
divisa tra miseria e saggezza), lo sfortunato matrimonio di
Baudolino e Colandrina (con lo struggente episodio del figlio
nato morto: «bugia della natura») e, di contro, un registro
filosofico-sapienziale che modula le intricate dispute dei
compagni di Baudolino (prima fra tutte l’irresistibile
disquisizione sull’esistenza o meno del vuoto tra il Boidi e
Borone), le spiegazioni dei prodigiosi marchingegni nel
castello di Ardzrouni (dove si compie il misterioso delitto di
Federico), ma soprattutto il confronto tra le innumerevoli
eresie delle diverse “razze” di Pndapetzim (compresa,
naturalmente, l’affascinante digressione sulla natura di Dio e
sul ruolo delle ipazie).
Un perfetto intreccio tra stile
alto e stile basso, tra sottile
ironia
intellettuale
ed
esilarante paradosso popolare,
in cui si verifica quello che lo
stesso Eco ha
recente (Sulla
spiegato di
letteratura,
Bompiani, 2002), laddove afferma
che una delle eccezioni di
Baudolino
contraddire
consiste
nel
il principio –
costantemente osservato negli altri romanzi – che è la
costruzione del mondo a determinare il linguaggio, dal momento
che in questo caso è invece lo stile a generare personaggi,
ambienti e situazioni. L’altra importante eccezione, di cui
parla Eco nello stesso testo, è la sostanziale mancanza di
un’idea seminale, a fronte di un insieme di idee che hanno
dato vita ai momenti più salienti del romanzo. Vero, il
delitto nella camera chiusa, la resa dei conti tra i cadaveri
mummificati, la sapiente costruzione dei falsi sono tutti
motivi legati a scene ben precise che non danno ragione della
struttura complessiva dell’opera. Tuttavia, se Baudolino
costituisce un’eccezione (stilistica e strutturale) rispetto
ai romanzi che lo hanno preceduto, ne rappresenta al contempo
la sintesi dei principali motivi, riproponendo ogni tema
essenziale di quei romanzi all’interno di un contesto diverso.
(…)
Vi è, infine, un altro motivo che, per la verità, è sempre
presente nei romanzi di Eco, ma solo in quest’ultimo lo si
percepisce con una forza così intensa e distinta: quello
dell’Eros. Tutti i protagonisti di Eco sono attraversati da
brividi di grande passione, che sia quella peccaminosa della
carne, quella vulnerabile del legame amoroso o quella
edulcorata per una donna ideale. (…) Baudolino, dal canto suo,
non vive solo un paradigma dell’amore, ma ne vive tre: quello
puramente “lirico” e platonico per l’imperatrice, moglie di
Federico II e donna irraggiungibile; quello assai più umile e
caduco per Colandrina, che muore di parto dando alla luce un
«mostriciattolo»; quello infine quasi surreale, ma al contempo
stupefacente e drammatico, per quella creatura incredibile che
è Ipazia.
(…)
5) IL CIMITERO DI PRAGA
da “Il cimitero di Praga” o del complotto perfetto, «Le reti
di Dedalus», marzo 2011.
(…)
Grande interprete della cospirazione,
oserei dire complottologo, Umberto Eco
aveva già affrontato il tema della
paranoia cospiratoria ne Il pendolo di
Foucault, quando aveva raccontato la
storia di tre redattori editoriali di
Milano che, imbattendosi in un testo
relativo a una Mappa indicante un
percorso da seguire per la rivelazione
di una verità ultima, quasi per gioco
inventano un Piano che possa condurre a
tale
conoscenza
attraverso
l’interpretazione stessa dei movimenti compiuti dai Templari e
dai Rosa-Croce nel corso dei secoli per conquistare il mondo.
La costruzione immaginifica di un sapere ermetico, scandito
dalle dieci Sefirot della Cabala ebraica, porta tuttavia i tre
protagonisti a diventare vittime delle loro stesse trame,
svelando la fatale infondatezza dl loro Piano e al contempo la
sua irresistibile credibilità.
Ma i complotti cosmici attribuiti agli ordini religiosomilitari che prendono forma nel Medioevo per propagarsi
nell’arco di centenni appartengono, per così dire,
all’archeologia della cospirazione. Gli intrecci sempre più
avvincenti tra ordini mistici, società occulte e servizi
segreti si sviluppano soprattutto nel corso del XIX secolo
quando si immagina un fiorire di complotti ovunque: di ebrei
contro gesuiti, di gesuiti contro massoni, di massoni contro
monarchici, di monarchici contro mazziniani, in una spirale di
rimandi religiosi e politici in cui la realtà storica finisce
con lo sfumare sempre più per lasciar spazio a ingegnosi
interventi di falsificazione e manipolazione.
Così il prodotto finale dei vari innesti di un complotto in un
altro, con insospettabili contaminazioni letterarie, in cui la
stessa sostanza del complotto cambia matrice ad ogni
intervento e da ebraica si fa gesuitica, per poi diventare
monarchica e trasformarsi di nuovo in giudaica, diventa per
così dire il complotto dei complotti, se non addirittura il
complotto perfetto, sintesi di invenzioni, riletture,
spostamenti, attribuzioni, con una precisa destinazione
finale.
(…)
Non meno dei precedenti romanzi
anche quest’ultimo è un saggio
di virtuosismo stilistico e
sapienza affabulatoria. Per
esigenze di continuità narrativa
Eco crea un protagonista che
assume su di sé l’azione di
tanti personaggi, una sorta di
falsario modello, unica mente,
seppur influenzata dai diversi poteri con cui si confronta,
che altera, manipola, traspone i vari testi per giungere alla
redazione definitiva del complotto esemplare, tanto più
potente quanto più falso. Ma per rendere più articolata la sua
personalità l’Autore la sdoppia, attraverso l’ingegnosa
trovata di un trauma da messa nera, di modo che un falsario e
un abate si trovino sotto lo stesso tetto a condividere le
pagine delle stesso diario e a ricostruire oscure vicende
nello spiarsi e interrogarsi a vicenda. Ma il doppio piano di
narrazione tra due voci (o meglio scritture) che cercano di
“interpretarsi” reciprocamente diventa triplo quando a
commento e integrazione dei molteplici eventi interviene la
voce del Narratore che porta avanti le fila della storia con
la visione onnisciente della terza persona.
A dispetto di quanto possa sembrare, il romanzo, pur mettendo
in gioco una miriade di personaggi, complessi rimandi
narrativi e mutevoli visioni prospettiche, è chiarissimo. Sia
perché la triplice narrazione è resa graficamente attraverso
tre diversi caratteri tipografici che ne evidenziano le
molteplici “mani”, sia perché secondo la migliore tradizione
del feuilleton il testo è arricchito da immagini che ne
illustrano alcuni passi salienti, sia perché in appendice al
libro figura uno schema dei capitoli che distingue il piano
dell’intreccio da quello della storia, in modo da orientare
anche quei lettori che magari non si erano intrattenuti lungo
le “passeggiate nei boschi narrativi” oppure all’interno delle
invenzioni esemplari della “forza del falso”.
Ma questa linearità del corso degli eventi, evocati nelle
pagine di un diario scritto nell’arco di poco meno di un mese
(a parte gli ultimi due interventi sfalsati di un anno) e
sviluppatisi lungo circa settant’anni (dal 1830 al 1898), fa
senz’altro di quest’opera un suggestivo romanzo storico,
scandito dall’intersecarsi delle vicende umane con gli
avvenimenti salienti del XIX secolo, senza tuttavia mostrare
ulteriori dimensioni narrative, con cui l’Autore aveva
arricchito altri suoi romanzi.
(…)
6) IL ROMANZO TRA POSTMODERNO E VERITÀ STORICA
da Intervista a Umberto Eco, «Lettera Internazionale», n. 75,
2003
La differenza strutturale tra saggistica e narrativa,
l’interazione tra politica e religione nel romanzo storico, le
costanti tematiche dell’inganno, del falso e del complotto
nella poetica di Eco, le caratteristiche della letteratura
postmoderna tra stile metanarrativo e ironia intertestuale, la
legittimità del doppio piano di interpretazione, l’importanza
delle fonti storiche nell’invenzione narrativa.
In diverse occasioni Lei
ha avuto modo di sostenere che
la differenza tra la saggistica
e la narrativa consiste nel
fatto che la prima intende
dimostrare una “tesi” cercando
di risolvere certi problemi,
mentre la seconda evidenzia le
contraddizioni
della
vita
mantenendo una forte carica di ambiguità. In rapporto alla
dimensione dell’interpretazione, che svolge una funzione
preponderante sia nei suoi romanzi che nei suoi saggi, come si
può conciliare la dimensione della dimostrazione scientifica
con quella dell’invenzione letteraria?
In realtà, non si tratta di conciliarle. Di fatto non è un
caso che alcuni filosofi facciano oggetto di indagine le opere
letterarie. Possono scrivere su Proust e la memoria, ad
esempio, perché si trovano semplicemente di fronte a qualcuno
– il narratore, oppure il poeta – che può dire qualcosa di
interessante anche per loro, secondo le modalità espresse dal
testo. Se un filosofo legge Cartesio è per cercare di capire
nel modo più chiaro possibile che cosa pensasse sul
meccanicismo. Invece quando, per esempio, Enzo Paci leggeva
filosoficamente un poeta come Eliot, lo interpretava da
filosofo e vi cercava un pensiero che non appariva
immediatamente in superficie e più che delle soluzioni o delle
teorie vi cercava delle contraddizioni, dei problemi. Potrei
dire, in termini autobiografici, che ci sono certe cose che
non mi sento di sostenere o di trattare in modo chiaro e
definitivo in un saggio, mentre preferisco mettere in scena
narrativamente il problema. Per semplificare ancora, se la
saggistica lavora verso la risposta, la narrativa lavora in
direzione della domanda e dunque si possono rivelare
complementari.
In merito ai suoi romanzi Lei si è sempre ispirato a una
specifica epoca storica: il Medioevo dei Padri della Chiesa, i
percorsi “mistici” dei Templari e dei Rosacroce, il Seicento
delle grandi esplorazioni, ancora il Medioevo di Federico II e
dei viaggi in Oriente. Centrale è sempre stata la dimensione
religiosa (le dispute, le eresie, le reliquie), non meno di
quella politica (la bramosia di potere, la conquista di nuovi
regni). Non ha mai pensato che si potessero fare alcuni
paralleli con la realtà sociale, politica e civile dei nostri
giorni?
Innanzi tutto quello che mi affascina nello scrivere un
romanzo è passare, come mi è capitato sinora, minimo sei anni
e massimo otto a cercare fonti e a scoprire aspetti di un
mondo lontano. Se dovessi scrivere una storia d’amore che ha
luogo nel presente, non avrei bisogno di fare alcuna ricerca e
troverei la cosa estremamente deludente, per cui in sostanza
scrivo romanzi storici perché mi diverte di più. A parte il
fatto che Il pendolo di Foucault, anche se ha delle ampie
panoramiche di carattere storico, si svolge nel presente, dove
a mio parere vengono toccati alcuni problemi importanti del
mondo politico attuale, come la sindrome del complotto e così
via.
Fatta questa precisazione, il primo fine che mi pongo quando
scrivo un romanzo storico, come è stato nel caso de Il nome
della rosa, de L’isola del giorno prima e di Baudolino, è di
ignorare completamente il presente per cercare di capire quel
mondo. Tuttavia ogni lettura storica, anche quella fatta dallo
storico più rigoroso, è sempre una lettura in prospettiva.
Come diceva Croce, la storia, nel senso della storiografia, è
sempre contemporanea. Comunque noi guardiamo a un tempo
lontano non possiamo evitare di vederlo con i nostri occhi di
contemporanei. Vale a dire che ci sono certe cose che
istintivamente mettiamo a fuoco, mentre ne lasciamo cadere
delle altre. In questo senso, mettendomi a raccontare di un
mondo lontano, magari senza accorgermene, talora invece
accorgendomene persino con una certa malizia, posso mettere a
fuoco delle cose che parlano direttamente ai contemporanei.
Certe volte mi è accaduto di trovare il lettore che vedeva dei
riferimenti al presente che io non avevo in mente, ma proprio
attraverso una lettura più sensibile si poteva riscontrare
un’analogia con i tempi nostri. (…)
Proprio nel suo ultimo saggio
Sulla Letteratura Lei argomenta
le
caratteristiche
della
narrativa postmoderna che sono
state attribuite da alcuni
critici ai suoi romanzi, e che
Lei stesso teorizza nelle
Postille al Nome della rosa.
Queste caratteristiche, come la
metanarratività, il dialogismo, il double coding e l’ironia
intertestuale, hanno costituito per Lei una precisa scelta di
poetica, oppure sono maturate nel corso della sua esperienza
narrativa?
Innanzi tutto vorrei dire che il termine postmoderno me lo
hanno buttato addosso gli altri, benché io non abbia potuto
protestare in quanto alcuni aspetti della poetica postmoderna
sono realmente presenti nel mio lavoro. Tuttavia bisognerebbe
fare chiarezza, per quanto possibile, sul concetto di
postmoderno, se non altro per dire che c’è un postmoderno in
architettura inventato da Charles Jenks, un postmoderno in
letteratura teorizzato da John Barth e un postmoderno in
filosofia proposto da Jean-Francois Lyotard e da altri che non
ha nulla a che fare con i primi due, per una sorta di strano
equivoco terminologico che non si può sciogliere in questa
sede. Personalmente ho trovato nella tematica del postmoderno
un modo interessante per rivisitare la letteratura precedente
attraverso procedimenti citazionistico-ironici. Ma se ci
pensiamo bene questo lo avevamo teorizzato nella seconda
riunione del Gruppo ’63, quando due anni dopo nel ’65, si
diceva che ormai il romanzo sperimentale era arrivato a un
punto zero. Come in pittura si era arrivati alla tela bianca,
in poesia alla pagina vuota, in musica al silenzio, così anche
nella narrativa si era raggiunto un point of no return. Mi
ricordo che Renato Barilli diceva di recuperare un’avventura
“altra”, che non fosse quella tradizionale, ma al contrario
fosse densa di nuove sperimentazioni.
Quindi quando ho iniziato a scrivere romanzi mi sono
ispirato piuttosto a quei discorsi che si facevano allora in
merito a un recupero della narratività attraverso l’ironia
oppure, come si suol dire, la “decostruzione” narrativa,
termine che però non amo usare. Da qui il mio gusto per gli
incassamenti dei punti di vista, i flashback o le strutture
temporali molto complesse e soprattutto per la
metanarrativita’, dove il romanzo riflette su se stesso e
sulla propria forma. Se tutto questo è tipico del postmoderno
allora mi ci ritrovo, come nel caso del doppio codice, secondo
cui se in architettura postmoderna si possono fare citazioni
del frontone del Partenone o di una cupola di Borromini e poi
ci può essere l’utente che coglie questa citazione basata sul
gioco e sull’ironia, e quello che non la coglie ma gode
ugualmente di una struttura architettonica bizzarra,
altrettanto nei miei romanzi, che sono così densi di allusioni
intertestuali, ci può essere questo doppio codice. (…)
Prefazione alle memorie di
Ivano Cipriani
Prefazione al libro di memorie di Ivano Cipriani, intitolato
La gabbietta di Kafka. Memorie di un balilla rispettoso. 1926
– 1943, che attraverso il proprio vissuto affronta il
fascismo, la guerra mondiale, fino all’armistizio e alla
liberazione di Roma.
MEMORIALE DI UNA FORMAZIONE
Ci sono tanti modi di affrontare
un’autobiografia. In genere si procede
dalle origini per poi soffermarsi sui
passaggi più salienti di una vita e
giungere infine a un presente in cui si
tende a tirare un po’ le somme di un’intera
esistenza. Assai più inconsueto è invece
concentrare le proprie memorie in un
periodo circoscritto e per così dire
“originario” del proprio vissuto, ovvero
quello che dalla nascita procede, lungo un
percorso di formazione, fino alla soglia
della giovinezza, per concludersi proprio quando comunemente
si inizia ad avere qualcosa da dire. Insomma quell’infanzia e
quell’adolescenza che spesso sono consegnate all’oblio, quando
non piuttosto mitizzate o viceversa condannate, a seconda
delle “sensazioni” spesso controverse che di queste si
conservano. Ivano Cipriani elegge invece i suoi primi
diciassette anni di vita a paradigma di una storia degna di
essere narrata nei suoi più infinitesimi particolari, iscritta
a sua volta nella Storia più grande che si dipana in un arco
temporale tra il 1926 e il 1943, attraversando il regime
fascista, la guerra mondiale, fino ad arrivare all’Armistizio
e da lì a poco alla liberazione di Roma.
Ma forse la dimensione più interessante di questo affondo in
un passato remoto che intreccia sapientemente il piano privato
dei ricordi personali con quello politico degli avvenimenti
storici, lo scenario intimo delle proprie emozioni con quello
sociale del destino di un popolo, è proprio la prospettiva
attraverso cui viene narrata la storia di un bambino, e poi di
un ragazzo, che cresce protetto da una gabbia di affetto e
attenzioni familiari, che lo tutela a sua volta da una gabbia
assai più efferata, quella costruita dal ventennio fascista,
periodo che il protagonista attraversa quasi “ammantato” da
un’insperata incolumità, un po’ come quel bimbo de La vita è
bella di Benigni che riesce a superare quasi indenne la
tragedia del lager grazie alla costruzione ludica e amorosa
che il padre gli costruisce intorno.
In questa particolare atmosfera vengono richiamati alla
memoria i protagonisti di quella generosa e amorevole famiglia
in cui cresce il protagonista, le loro indoli e personalità, i
loro aneliti e destini, così come vengono ricordati gli
insegnanti e i compagni di scuola, i luoghi d’infanzia nelle
colline toscane, gli spostamenti e le peregrinazioni, sempre
sulla falsariga di una crescita all’insegna del rispetto di un
regime fatto proprio attraverso una latente inconsapevolezza,
che verrà violata quasi di colpo proprio dal crollo di quella
gabbia storica, grazie a eventi cruciali come la liberazione e
la fine della guerra, che spingeranno il ragazzo ormai
cresciuto ad appropriarsi di una coscienza critica, assai più
profonda e radicata di quanto non sarebbe avvenuto attraverso
un processo più graduale.
Uno dei maggiori pregi di questa narrazione riposa inoltre
nella lucidità e nell’esattezza con cui è costruita.
Proprietà, come si sa, molto care a Italo Calvino, che qui
vengono messe a punto non solo attraverso la capacità quasi
chirurgica di andare a cogliere tanti particolari personali
facendoli rivivere in pagine quanto mai intense, ma
soprattutto attraverso l’abilità squisitamente dialettica di
argomentare avvenimenti cruciali grazie a un approccio non
tanto storiografico, quanto interpretativo, alla luce di una
maturità sedimentata nel tempo, che stimola quanto mai alla
riflessione e alla consapevolezza. Senza escludere di contro
affondi prospettici, anticipazioni del futuro, in rigoroso
corsivo, che aprono scorci fulminei su quello che verrà,
lasciando intendere evoluzioni possibili in epoche posteriori,
quasi un contrappunto sinfonico a una partitura squisitamente
memoriale. Il tutto con un tocco puntuale, preciso, si direbbe
cartesianamente chiaro e distinto, con una penna che come un
bisturi seziona dettagli e particolari senza sbavature,
attraverso uno stile adamantino, che non concede zone d’ombra
né risvolti sospesi, piuttosto si mette a servizio di una
lettura immediata, che va dritta al cuore delle cose, con la
stessa urgenza di quel ragazzo che intuisce dentro di sé tutto
il peso di una Storia, di cui riuscirà pienamente ad
appropriarsi solo nel momento in cui romperà il suo guscio.
E proprio quel ragazzo che iniziò il suo processo di
maturazione sullo sfondo delle rovine della guerra e nello
slancio della liberazione dalla dittatura, ora è diventato un
acutissimo (quasi) novantenne della cui saggezza, maturità e
intelligenza ho la fortuna di beneficiare in qualità non solo
di nipote (figlia del fratello della moglie), ma soprattutto
di interlocutore privilegiato di tanti carteggi appassionati
su quelli che ora costituiscono gli snodi cruciali della
Storia; altre dittature, altre guerre, altri estremismi forse
anche più efferati di quelli del periodo nazi-fascista, che
dilacerano in particolare il mondo islamico, e che sono
diventati fulcro di tanti nostri confronti, e nondimeno fonte
di nutrimento e ispirazione per le mie stesse scritture. A
questo anziano signore va dunque tutta la mia gratitudine, la
cui matrice di uomo acuto e sensibile, colto e analitico si
avverte appieno nella sapienza di queste sue memorie e si
intuisce già in nuce in quel ragazzetto timorato e ossequioso,
diligente e curioso che attendeva di spiccare il gran volo
dalla sua gabbietta.
In
ricordo
Colafranceschi
di
Mario
Ricordo personale di Mario Colafranceschi, caro amico e
collega di Università, in occasione della pubblicazione di una
raccolta di alcuni suoi scritti di filosofia, intitolata Caos,
complessità, collaborazione.
necessità della filosofia.
Centralità
della
politica,
QUEL CHE ERA MARIO
Mario era un uomo vorace. Artigliava la
vita con voluttà, mirando al cuore delle
cose, puntando dritto all’essenza. Era
quasi infastidito dagli aspetti superflui,
dai vani dettagli, gli erano solo
d’impaccio e se ne liberava subito, senza
pensarci. Era affilato, tagliente, non si
preoccupava di poterti ferire, gli
interessava solo di centrare il problema,
buttartelo addosso, costringerti a una
soluzione, qualsiasi prezzo avesse avuto.
Non conoscevo nessuno tanto sfacciato da
rimproverarti che le tue disgrazie pesassero ancora come
macigni, che stentavi a risollevarti e che era ormai tempo di
guardare altrove. All’inizio non lo capivo, o meglio facevo
fatica ad accettare che qualcuno mi trattasse così, lo trovavo
arrogante, presuntuoso, nessuno glielo chiedeva; poi però col
tempo cominciai a intuire che dietro quell’apparente ruvidezza
c’era un grande desiderio di generosità.
Mario ha sempre avuto un temperamento dialettico, amava la
sfida, il confronto, il duello leale, ma senza risparmio di
colpi. Era il suo modo di offrirsi, persino di venirti in
soccorso, e a dispetto delle apparenze, quando sembrava di
averti messo sotto scacco, ti aveva invece reso un servizio.
Si donava così, Mario, detestava commiserare, ignorava la
compassione, adorava al contrario provocare, toccando anche
tasti dolenti, ma solo per farti uscire dalla tana e
costringerti a una scelta. La sua era una sorta di maieutica
agonistica, dove le parole avevano il peso delle pietre e la
posta in gioco non erano opinioni ma scelte di vita. Ebbi
bisogno di tempo per capirlo, ma quando ci arrivai non seppi
più resistergli, ero io che lo cercavo, gli offrivo spunti per
affondi, lo spingevo su terreni accidentati, mi divertivo a
rovesciare il gioco, diventando così una sua interlocutrice
prediletta.
Sapendo che non potevo correre Mario mi aveva concesso
l’esonero dai campi da tennis. Passavano tutti di lì i suoi
più cari amici, non gli bastava parlarci, voleva sfidarli su
un vero campo da gioco, anche quello era uno scambio, un modo
di stabilire tensione e complicità, antagonismo e
affiatamento. Torto collo aveva accettato che con me questo
non se lo poteva permettere, ma me lo aveva fatto pagare, a
suo modo, spostando la partita su un tavolo da ristorante.
Negli ultimi anni aveva preso la consuetudine di invitarmi a
cena. Era l’unico modo per avermi dal vivo, per trovarsi
faccia a faccia, senza contentarsi delle sole voci al telefono
che pure erano sempre molto eloquenti. Preferiva guardarmi
dritto negli occhi, studiare le mie reazioni, arrivare subito
al punto, stringere all’osso i discorsi. Il resto non aveva
alcun senso, non ci badava nemmeno, consultava il menù con
svogliatezza e ordinava sempre la solita pizza. Poi la
lasciava freddare nel piatto, quasi se ne fosse dimenticato,
infine la divorava in pochi minuti, tanto per togliersela di
mezzo. Mangiare insieme era un fastidioso accidente, non
gliene importava nulla della tavola, si dimenticava di
ordinare il vino e non mi chiedeva se volevo il dessert.
Eppure era un ottimo cuoco, un grande amante della cucina, a
casa sua faceva ottime cene e non si risparmiava mai coi suoi
ospiti. Ma in quelle occasioni il cibo era solo un pretesto,
contava soltanto quello di cui parlavamo, che alla fine erano
sempre questioni filosofiche che ci spingevano su territori
anche molto complessi, oppure commenti sulle storie che stavo
scrivendo e che a Mario divertivano tanto.
Chi scrive sa che è sempre molto difficile parlare di ciò che
si sta elaborando, a volte può essere utile far leggere
qualche pagina, ma in genere è un viaggio oscuro e solitario
che semmai solo alla fine può trovare uno sbocco. Mario invece
voleva sapere tutto, era curioso come un bambino, mi
interrogava su vicende, sviluppi, finali, dava consigli,
suggeriva idee. Gli aspetti creativi lo stimolavano, diventava
un vulcano, si appassionava a intrecci, tensioni, rovesci,
parlava dei miei personaggi come fossero persone reali, era un
giudice attento e un arguto consigliere. Apprezzava molto che
inventassi storie e non si dispensava dall’elogiarmi. Quando
mi invitava a cena e mi dichiaravo onorata, lui mi rispondeva
che l’onore era tutto suo ad andare a cena con una scrittrice.
Io lo invitavo a farla finita, mi imbarazzavano i suoi
complimenti, ma lui insisteva, dicendo che quando sarei stata
famosa avrebbe potuto dire di avermi conosciuto che ero solo
una ragazzina. Non lo sopportavo, eppure capivo che lo diceva
con sincero trasporto; come non aveva misura nel fare le
critiche, altrettanto non l’aveva nel tessere elogi.
Non finiva mai col sorprendermi, Mario, a volte lo chiamavo
per raccontargli alcune cose, immaginando già le sue reazioni,
invece mi spiazzava sempre, con il bisturi della sua
intelligenza coglieva tratti insospettati, ribaltava punti di
vista, proponeva soluzioni inattese. Anche quando me ne uscivo
con frasi apodittiche come: “mi annoia tutto, fuorché scrivere
e studiare”, lui rispondeva fulmineo: “perché, che altro
c’è?”, ribaltando in un soffio la prospettiva del mio
estremismo. Era difficile portarlo sul proprio terreno,
piuttosto era lui che ti conduceva sul suo. Aveva vissuto
diversi anni a Brescia, trasferitosi per lavoro, ed era
riuscito ad amare persino quella brumosa città, ad apprezzarne
lo spirito refrattario, l’atmosfera asfittica, trovando spunti
di interesse anche negli aspetti più remoti. Quando vi andai
la prima volta per presentare un mio libro, Mario mi impartì
una serie di precetti per visitare al meglio la città. Tornai
dopo una visita sommaria che mi aveva lasciato indifferente e
lui mi disse che non avevo capito niente, non ero stata capace
di cogliere la vera anima della città, i suoi tesori nascosti,
i suoi profondi segreti, e che dovevo assolutamente tornarvi.
Vi tornai, stavolta per intervistare Emanuele Severino, e non
osai andarmene prima di aver visitato a fondo il museo di
Santa Giulia, la pinacoteca Tosio Martinengo, il duomo vecchio
e il duomo nuovo, gli scorci più curiosi, gli angoli meno
consueti. Al rientro gli riferii ogni cosa con la trepidazione
di una scolaretta sottoposta al suo ultimo esame e lui
bofonchiò che sì, va bene, ma potevo ancora capirla meglio.
Tacqui per timore di una terza missione.
Mario era innamorato dell’intelligenza delle persone. Lì
trovava il suo terreno da gioco preferito, gli piaceva
analizzare, stimolare, interagire, il resto contava ben poco,
detestava frivolezze e smancerie, tendeva a stabilire rapporti
virili con tutti, rifuggiva come la peste affettazioni
femminee e svenevoli approcci. Forse il complimento più
imbarazzante che mi abbia mai fatto fu quando mi disse che
avevo un’intelligenza maschile. “Sei essenziale e impudente,
non ti perdi in inutili psicologismi, ti sottrai a ogni
stupido intimismo, ricerchi nella pura astrazione forme di
creatività, affili la tua ironia con buona dose di cinismo,
insomma ragioni proprio come un uomo”. Credo di incarnare
profondamente la mia femminilità e di non potermi immaginare
altrimenti che come donna, ma non mi sono mai sentita tanto
commossa come in quel momento. Nella sua ricerca del paradosso
come intima verità Mario centrava sempre nel segno.
Ma quello che amo di più ricordare di lui non è tanto la
persona ruvida, severa, rigorosa, quanto quella ilare,
leggera, evasiva in cui si raccoglieva la sua natura più
autentica. A dispetto della sua scientifica serietà Mario
aveva una passione sfrenata per l’astrologia. Lo intrigavano i
segni zodiacali, sapeva tutto di case e pianeti, influenze e
ascendenti, per ognuno dispensava i propri consigli e le
indicazioni di compatibilità con gli altri segni. Mi aveva
assicurato che il leone poteva andare d’accordo con tutti,
fuorché il gemelli, che invece gli avrebbe creato seri
problemi. Quando lo misi in croce perché avevo conosciuto un
gemelli che mi aveva fatto impazzire, lui accomodante mi
disse, che, certo, non c’era letteratura, ma si potevano
sempre contemplare eccezioni. Aveva una risposta pronta su
tutto, Mario, teneva ferme le sue convinzioni, ma poi trovava
il modo di essere conciliante, comunque mai ostile. A un certo
punto si era fissato che dovessi accompagnarmi con uomini più
giovani. A me non interessavano, ma lui insisteva, dicendo che
erano molto più stimolanti delle persone mature. Era
appassionato dei giovani, li frequentava molto, ne ammirava
entusiasmi e potenzialità, e alla fine si comportava come
loro, dimenticava i suoi anni, al ritorno dalle cene mi teneva
le ore in macchina, come si fa quando si è adolescenti,
continuando a parlare entusiasta, mentre io lo ascoltavo
intirizzita sentendomi sempre più vecchia.
In Mario c’era un’affascinante commistione tra approccio
razionale e istinto passionale, rigore dell’analisi e slancio
delle emozioni, non si curava che potessero creare
incongruità, viveva a fondo entrambe le cose, seguendo sempre
una propria linea a dispetto di tutte le convenienze. Era
capace di assillarmi allo stremo perché richiedessi tutta
l’assistenza necessaria per il mio stato di invalidità,
ossessionandomi anche con richieste impensate che la legge non
contemplava. Poi quando capitava che camminando per strada con
il mio passo incerto trovassi un inciampo che mi facesse
cadere, lui non perdeva il filo del discorso, mi aiutava
distratto a rialzarmi da terra e riprendeva imperterrito,
assai infastidito che l’avessi interrotto. A me faceva
impazzire questo suo modo di essere così incostante e
mutevole. A volte me lo sentivo troppo addosso, altre volte
non riuscivo a stargli al passo, invadeva e insieme volava,
dovevi stare attento a tenerlo a freno e poi scapicollarti a
corrergli appresso. Non c’erano misure, e questa forse era la
sua maggiore risorsa. Aveva la statura di un vero personaggio,
Mario, con tutte le sue euforie e contraddizioni, le sue
intemperanze e zone d’ombra. Chissà se un giorno riuscirò a
farlo vivere in qualche mia storia.
Gli
Orti
delle
Percorsi d'Autore
Quattro
incontri
sulle
sperimentazioni
Arti
artistiche
-
dei
linguaggi contemporanei tenutesi a novembre e dicembre 2015
presso gli Orti di Trastevere, per approfondire dei percorsi
individuali nell’ambito della musica, del disegno, del teatro
e della narrativa, nell’intento di creare possibili dialoghi
tra le diverse forme espressive.
Daniela Tordi, illustratrice – Dentro e fuori l’albo
illustrato. Viaggio tra creatività e comunicazione – Mercoledì
18 novembre
Alessandro Murzi, compositore – I treni inerti. Indagine
palindroma sul pensiero musicale – Martedì 24 novembre
Vittorio Pavoncello, drammaturgo – Una donna virtuale. Nuovi
personaggi per le scene del futuro – Mercoledì 2 dicembre
Alessandra Fagioli, scrittrice – I bambini di Dio. Abissi e
visioni del racconto civile nell’era del terrore – Giovedì 10
dicembre
In Via Orti di Trastevere 59, ore 18.00
DENTRO E FUORI L’ALBO ILLUSTRATO. VIAGGIO TRA CREATIVITA’ E
COMUNICAZIONE
Daniela Tordi, illustratrice
Ogni libro illustrato è un
piccolo mondo a se stante, un
racconto per immagini e testo
chiamato ad evocare suggestioni
profonde. Nel migliore dei casi,
il risultato soddisfa tanto il
pubblico infantile quanto quello
adulto, toccando vette d’ironia
o di poeticità sorprendenti. A
chi vuole conoscerlo, si disvela allora un universo vario e
raffinato, un ambito della creatività umana dove bravura e
senso del gioco si conciliano e si combinano all’infinito. La
sfida, per chi si misura con questo genere, è avere un tratto
originale e riconoscibile, una cifra stilistica propria. Non è
poco. E’ come acchiappare un gatto per la coda…
I TRENI INERTI. INDAGINE PALINDROMA SUL PENSIERO MUSICALE
Alessandro Murzi, compositore
La ricerca del pensiero musicale
nei labirinti della mente tra
insidie e sorprese: motivazioni
e necessità estetiche del gesto
compositivo di ieri e di
oggi. Il difficile percorso del
compositore
classico
contemporaneo
tra
scelte
poetiche, gabbie formali e
costante confronto con linguaggi
passati e presenti. Un’indagine intorno al ruolo di chi
compone a fronte dell’indebolimento della sua funzione sociale
e del sempre più arduo rapporto con il pubblico. Un viaggio
tortuoso che illumina l’infaticabile ricerca di un linguaggio
autonomo e originale in cui possano convivere passato,
presente e futuro.
UNA DONNA VIRTUALE.
NUOVI PERSONAGGI PER LE SCENE DEL FUTURO
Vittorio Pavoncello, drammaturgo
Una voce, un file, una voce di
sintesi, un personaggio virtuale
chissà?! In un epoca dove i
generi a volte sono solo un
nickname
le
avventure
e
disavventure di una donna che
decide di sposarsi su internet e
che vive un matrimonio virtuale
molto simile a quelli reali sia
nel bene sia nel male. Il matrimonio, i regali, il viaggio di
nozze e l’amara scoperta che c’era un’altra donna non virtuale
ma fatta di quella putrescenza di carne ed ossa. L’unica cosa
che resta è la solitudine e un senso teatrale dell’esistenza.
I BAMBINI DI DIO. ABISSI E VISIONI DEL RACCONTO CIVILE
NELL’ERA DEL TERRORE
Alessandra Fagioli, scrittrice
Una ballata pop per narrare
mafia capitale e i tempi della
crisi, un carteggio tra due
profughi ucraini (un ribelle
filorusso e una Femen antiPutin)
per
raccontare
le
contraddizioni della Russia
odierna, un montaggio parallelo di storie di bambini (un boia,
una kamikaze, un’altra scampata al gas sarin e un altro alle
stragi di Boko Haram) per declinare i molteplici volti della
Jihad. I diversi modi di narrare la crisi, la guerra, il
terrore inventando storie che possano farsi metafora della
realtà.
Omaggio a Pier Paolo Pasolini
Omaggio a Pier Paolo Pasolini composto nel
quarantennale della sua morte
Pasolini poeta, narratore, regista, drammaturgo, critico,
intellettuale. Tutte le sfaccettature dell’opera di Pasolini
nella sua pluralità di linguaggi e nella sua profondità di
contenuti. Dieci omaggi alla sua poesia, ai suoi romanzi, al
suo cinema, al suo teatro, ai suoi articoli, con una
riflessione sul pasolinismo e un uno “scherzo” in versi per
ricordare l’importanza della sua opera assai più che il
mistero della sua morte.
1. STORIE DELLA CITTÁ DI DIO
A me, sopra ogni cosa, manca Pasolini. Gli ho dedicato gli
anni del mio dottorato di ricerca e rimane l’autore che
conosco meglio dopo Shakespeare. A una decina di giorni
dall’anniversario del suo assassinio, in questo periodo di
commemorazione per il quarantennale, desidero tributargli un
mio personale omaggio, pubblicando ogni giorno un brano della
sua opera, magari un po’ distante da quelli più “canonici”. E
in tempi di processi per mafia capitale, carica di sindaco
vacante e imminenze giubilari vorrei iniziare proprio da come
percepiva la “città di Dio”.
Roma malandrina
(…) La sua bellezza è naturalmente un
mistero: possiamo pure ricorrere al
barocco, all’atmosfera, alla composizione
tutta depressione e alture del terreno, che
le dà continue inaspettate prospettive, al
Tevere che la solca aprendole in cuore
stupendi vuoti d’aria, e soprattutto alla
stratificazione degli stili che a ogni
angolo a cui si svolti offre la vista di
una sezione diversa, che è un vero trauma
per l’eccesso della bellezza.
Ma Roma sarebbe la città più del mondo se,
contemporaneamente, non fosse la città più brutta del mondo?
Naturalmente bellezza e bruttezza sono legate: la seconda
rende patetica e umana la prima, la prima fa dimenticare la
seconda.
I punti della città solo belli, e i punti della città solo
brutti sono rari. Quando la bellezza si isola ha qualcosa di
archeologico nel miglior caso: ma più spesso è espressione di
una storia non democratica, in cui il popolo è lì a far
colore, come in una stampa del Pinelli.
E così – al
giunge fin
depressiva e
la storia è
guerra, del
questo piena
contrario – la bruttezza, quando si isola, e
quasi all’atroce, non è mai completamente
scostante: la fame, il dolore vi sono allegoria,
la storia nostra, quella del fascismo, della
dopoguerra: tutta tragica, ma in atto, e per
di vita.
2. ATTI IMPURI – AMADO MIO
Prima che fosse accusato di «corruzione di minori e atti
osceni in luogo pubblico», allontanato dalla scuola media dove
insegnava in Friuli ed espulso dal PCI «per indegnità morale e
politica», tra il ’46 e il ’48 Pasolini scrisse due brevi
romanzi, Atti impuri e Amado mio, in cui intreccia ricordi di
guerra, turbamenti spirituali, paesaggi primitivi e pulsioni
sessuali, sempre combattuto tra desiderio, possesso e senso di
colpa per quello che era il suo vero scandalo: l’omosessualità
diretta perlopiù verso i fanciulli.
Prima di scoprire la borgata romana questi sono alcuni suoi
passaggi più carichi di lirismo, pudore e disincanto.
Atti impuri
Egli, quella sera, era di una bellezza da
potersi toccare come un oggetto: una luce
dorata e minerale che splendeva all’interno
del corpo, accendendo più la sua carne
molle e tiepida che i suoi occhi. Sotto la
lampada elettrica e contro il biancore
delle lenzuola, le sue pupille erano
divenute più cupe, trascolorando l’azzurro
in un indaco velato di rosa. E splendevano,
avide… Infatti io lo accarezzavo senza
posa, giocando col suo piccolo corpo
perfetto…
Sì, mi pareva che tutto tra me e Nisiuti dovesse restare
inespresso. C’erano giorni e giorni in cui io ero tutto in
lui, in cui ero null’altro che un suo sorriso, una sua
espressione. A me erano rimasti solo gli occhi per
contemplarlo, per andare al di là del suo bruno-rosa,
dell’onda nera dei suoi capelli, della sua pupilla affettuosa
e tiepida.
Eravamo ambedue in balia del nostro reciproco amore: il mio
furioso, conscio, impuro, il suo, benché purissimo, non meno
esclusivo. In lui certo prevaleva un affetto appassionato, che
lo avvicinava a me forse ancor più di quanto io fossi
avvicinato a lui dal mio desiderio. Così che per merito suo
anche la mia passione era purificata.
E invece di quelle sere mi restava solo il presente: quel
corpo che mi camminava accanto, quei campi invasi dalla luce,
quella luna violenta e remota. Il nostro amore così esplodeva
senza più ritegni, protetto da quel totale presente, da quella
dolcissima angoscia, e da quelle lacrime (di felicità?) che
restavano negli occhi dopo l’inutile vittoria sul peccato.
Amado mio
«Ma io, amici, non ho il senso del buco, dissi entrando nello
spavento generale, siete in errore. (…) Non ho il senso del
buco, a tre anni cominciò il famoso ciclo di sogni in cui mi
trovavo dentro un cunicolo scavato in un monte: era
spaventoso. A tredici anni cominciai a sognare di donne, ma il
buco non l’avevano: il loro ventre era di pietra. (…) Io ho
amato una volta sola, ma non si trattava di una donna: io non
ho il senso del buco, il buco è tabù, c’è davanti la mano di
Dio. Ho amato, ma non era una donna… (…) Era un puledro.»
3. BESTEMMIA
Sotto quest’unica parola si
raccolgono i quattro volumi di
poesie composte da Pasolini e
suddivise in più di venti
raccolte.
Alcune
davvero
grandissime tanto da persuadermi
che
Pasolini
sia
stato
soprattutto un sommo poeta (e
non solo civile come voleva Moravia). Impossibile selezionare
qualche poesia più significativa, anche perché sono perlopiù
poemi piuttosto complessi, mi limiterò a citare solo un paio
di epigrammi tratti da “La religione del mio tempo”, uno sul
nostro Paese, che sembra scritto ieri, e un altro sui
letterati, alla faccia dei tanto decantati cenacoli
dell’epoca. Perché il Pasolini più irresistibile rimane quello
che fustiga senza pietà!
Alla mia nazione
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Ai letterati contemporanei
Vi vedo: esistete, continuiamo a essere amici,
felici di vederci e salutarci, in qualche caffè,
nelle case delle ironiche signore romane…
Ma i nostri saluti, i sorrisi, le comuni passioni,
sono atti di una terra di nessuno: una… waste land,
per voi: un margine, per me, tra una storia e l’altra.
Non possiamo più realmente essere d’accordo: ne tremo,
ma è in noi che il mondo è nemico al mondo.
4. POESIA IN FORMA DI ROSA
Mi è impossibile non citare
Supplica a mia madre, in dittici
baciati, nella raccolta “Poesia
in forma di rosa”, in cui
Pasolini
esprime
la
sua
lacerazione
interiore
tra
l’amore assoluto per la madre,
che
lo
condanna
alla
“solitudine” e alla “schiavitù”,
e quello per i “corpi senz’anima”, che gli fa sentire tutto il
peso dell’esclusione e della diversità. Conflitto insanabile,
che ha portato il poeta a incontrare la sua morte e la madre a
sopravvivergli; destino atroce dopo averlo già fatto con
l’altro figlio.
Supplica a mia madre
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò che è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore dei corpi senz’anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu,
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
5. UNA FORZA DEL PASSATO
Profeta e insieme primitivo,
capace di intuire sviluppi quasi
“futuribili” e al contempo di
rifugiarsi in un mondo arcaico
fuori dalla Storia, infaticabile
sperimentatore
di
nuovi
linguaggi e al contempo accanito
ricercatore di una sacralità
primordiale,
sostenitore
illuminato di un progresso sociale e politico e al contempo
fustigatore impietoso di uno sviluppo consumistico, di questo
e di altro parlerò con Enzo De Camillis nel presentare il suo
film “Un intellettuale in borgata”, sabato 31 alle ore 19 in
via Selinunte 57, al Quadraro sulla Tuscolana, cui siete tutti
invitati, per omaggiare anche quella borgata troppo amata da
Pasolini come dicono le sue stesse parole:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
6. LA STRAGE DEGLI INNOCENTI
Io non so dire quale per me sia
il più bel film di Pasolini, ma
so dire con certezza quale per
me sia la sua più bella
sequenza: la strage degli
innocenti da Il Vangelo secondo
Matteo. Lì dentro c’è tutto il
suo cinema. I primi piani sui
volti arcaici tanto ricercati da Pasolini nel Terzo Mondo, i
campi lunghi sui sassi di Matera dove egli aveva ravvisato una
Palestina autentica, assai più che in Terra Santa, le zoomate
improvvise sul groviglio di mantelli, pugnali, fantocci nel
caos dello scempio, l’esplodere della musica “sacra” di Bach a
contrasto con la violenza del massacro, i versetti finali dal
Vangelo declamati con solennità sui corpicini esanimi degli
infanti. Pasolini era un autodidatta ma ha rifondato un
linguaggio anche nel cinema, tanto da considerarlo una vera e
propria lingua.
la strage degli innocenti pasolini – Cerca con Google
7. BESTIA DA STILE
Nel marzo del 1966 a Pasolini
venne una bella emorragia per
un’ulcera duodenale. Mi direte,
ora bisogna commemorare pure
l’ulcera? No, l’ulcera nella sua
essenza no. Ma nella sua
conseguenza assai. Costretto un
mese in ospedale buttò giù il
progetto di tutte e sei le
tragedie che compongono il suo
teatro, per poi svilupparle nei
mesi successivi. Opere estremamente allegoriche che
rappresentano le molteplici coercizioni del potere
sull’individuo, messe in scena nel tempo da grandi registi
sotto diverse forme. Bestia da stile è quella più
autobiografica, in cui si celebra il doppio fallimento, della
rivoluzione (nella figura dell’arso vivo Jan Palach) e della
poesia (nella figura del poeta incapace di incidere sul potere
anche con il suo stile).
JAN
Io sono nella mia conoscenza.
Sono nella congiuntura fortunata
in cui Ragione e Saggezza stanno insieme.
Sono nutrito dal mio colloquio col mio popolo.
Ho le spalle sicure, con dietro il suo sorriso.
Perciò non mi nego alle critiche
E alle scandalose contestazioni!
In tanta luce la loro ombra è rassicurante.
La mia lotta di poeta contro la Follia
dei poeti dell’Occidente, la loro oscura intimità,
la loro fuga dentro i propri figliali segreti,
è fatta, sì, in nome della Ragione:
ma, ripeto, questa Ragione sta insieme alla Saggezza.
Mi è perciò ben chiara
la differenza di natura
tra la mia Eresia e l’Ortodossia
che criticamente accetto.
Anzi, la coscienza di questo dramma è la mia poesia!
Ciò che avviene qui
in quest’anima, al centro di Praga,
è indice di ciò che avviene nel mondo.
Sicché posso essere, sia pur dolcemente, spietato
come è sempre chi agisce secondo Realtà.
8. SCRITTI CORSARI
Pasolini corsaro: gli articoli pubblicati su varie testate tra
il ’73 e il ’75 in merito al potere dello Stato sulla Chiesa,
alla crisi della religione, alla fine della culture
subalterne, alla massificazione dei consumi, alle stragi di
Stato, alla “miseria” della contestazione e naturalmente
all’assenza di memoria.
Un Paese senza memoria
Noi
siamo
un
paese
senza
memoria. Il che equivale a dire
senza storia. L’Italia rimuove
il suo passato prossimo, lo
perde nell’oblio dell’etere
televisivo, ne tiene
ricordi,
frammenti
solo
che
potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue
conversioni.
Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto
cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare
davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua
memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla,
sono portatori di veleni antichi, di metastasi invincibili,
imparerebbe che questo è un Paese speciale nel vivere alla
grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici,
si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo,
la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia
alla coerenza, a una tensione morale.
9. LETTERE LUTERANE
Pasolini luterano: gli ultimi articoli del ’75 ancora più
caustici e violenti in cui egli porta all’estremo il suo
rigetto per la Storia, radicalizza il suo rimpianto per il
Mito, sferza i suoi strali contro il vuoto della cultura
creato dal Potere e soprattutto accusa la Dc di aver creato
una spaccatura tra il «Paese» e il «Palazzo», invocando un
processo per condannare la corruzione, gli scandali e le
stragi di Stato.
Il Processo
Dunque: indegnità, disprezzo per
i cittadini, manipolazione di
denaro pubblico, intrallazzo con
i
petrolieri,
con
gli
industriali, con i banchieri,
connivenza con la mafia, alto
tradimento in favore di una
nazione
straniera,
collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid,
responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna
(almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli
esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica
dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica
degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua
totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione,
come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di
ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono
«selvaggio» delle campagne, responsabilità dell’esplosione
«selvaggia» della cultura di massa e dei mass-media,
responsabilità della stupidità delittuosa della televisione,
responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre
tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di
cariche pubbliche di adulatori.
Ecco l’elenco «morale» dei reati commessi da coloro che hanno
governato l’Italia negli ultimi trent’anni, e specie negli
ultimi dieci: reati che dovrebbero trascinare almeno una
dozzina di democristiani sul banco degli imputati, in un
regolare processo penale, simile, per la precisione, a quello
celebrato contro Papadopulos e gli altri Colonnelli.10.
PETROLIO
L’ultima parola naturalmente a Pasolini, non ai pasolinisti, e
a quell’ultimo romanzo cui stava lavorando prima di morire, e
che a sua detta l’avrebbe impegnato per tutta la vita. Un
coacervo di progetti, misteri, appunti, visioni,
caratterizzato da una pluralità di generi e di modelli, da una
diversità di stili e di registri, che non finisce mai di
offrire nuove interpretazioni ogni volta che lo si rilegge.
Una
storia
incentrata
sul
tema
del
doppio,
dell’ossessionedell’identità, della frantumazione, della
metamorfosi, del senso di possedere e dell’essere posseduti.
Concludo dunque il mio omaggio con questa immagine sospesa e
incisiva in cui si fronteggiano Demoni e Dei su quello stesso
prato in cui si sono consumate dissolutezze e sparizioni.
Il pratone della Casilina
Ma insieme a questi Dei, quasi
in sacra combutta per quella
nottata, si sentiva anche la
presenza di Dei sotterranei, di
Demoni: era chiaro; quella notte
così profondamente penetrata
dall’odore dell’erba secca e del
finocchio, così radicata a una
luce lunare che sembrava inesauribile, caduta lì dal cielo per
fondarvi una notte estiva e eterna, era demoniaca: ma non si
trattava affatto di Demoni appartenenti a un Inferno dove si
scontano condanne, ma semplicemente appartenenti agli Inferi,
là dove si finisce tutti. Insomma, poveri Dei, che se ne
andavano in giro lasciando dietro a sé il loro odore di cani,
astuti e rozzi, sinistri e camerateschi, usciti dai loro
simulacri di tufo, oppure di legno divorato dal sole e dalla
pioggia, rendendo funebre l’intero mondo notturno, e il cosmo.
Senza però né lutto, né dolore: poiché nell’essere funebre
consisteva l’odorosa, silente, bianca, e perdutamente quieta e
felice, forma della città notturna, dei prati, del cielo.
11. I DANNI DEL PASOLINISMO!
Muccino scrive su facebook che
Pasolini era un “non” regista,
che usava la macchina da presa
in modo amatoriale, senza stile,
aprendo
le
porte
a
quell’illusione che il regista
fosse una figura accessibile a
chiunque, intercambiabile e
improvvisabile, promuovendo così un anti-cinema in senso
estetico e narrativo in anni in cui il cinema italiano era
cosa altissima e faceva da scuola di poetica e racconto in
tutto il mondo.
Aggiunge anche che da lì il cinema italiano morì in pochissimi
anni con una lunga serie di registi improvvisati che
scambiarono il cinema per qualcos’altro, si misero in
conflitto con i Maestri che il cinema lo avevano nutrito per
decenni, demolirono la necessità da parte del cinema di essere
un’arte popolare e lo privarono di un’eredità importante che
ci portò a essere da seconda industria cinematografica più
grande del mondo a una delle più invisibili.
(Però, pensa quanto casino ha combinato Pasolini quando si è
messo in testa di fare cinema, vai a sapere alle volte!)
In risposta a Muccino in poche ore si scatena su facebook un
vero e proprio linciaggio verbale a suon di attacchi,
critiche, insulti, calunnie di vario tipo con una rabbia e una
violenza inverosimili contro chi aveva osato profanare il
Vate,
il
Maestro,
il
Modello
inoppugnabile
e
incontrovertibile, al punto da costringere lo stesso Muccino a
chiudere il suo profilo facebook, non prima però, badate bene,
di aver ricambiato gli affondi ingiuriosi con non meno
apodittiche sentenze, tacciando i suoi aggressori di attacco
alla libertà d’espressione, di conformismo intellettuale e di
fascismo applicato.
Ora, domineddio, Pasolini è morto da quarant’anni e delle sue
spoglie sarà rimasta solo polvere per cui non può nemmeno
rivoltarsi nella tomba, ma soprattutto non può resuscitare per
sommergere sia adulatori che denigratori con quella stessa
veemenza, precisione e acuzie con cui elaborava le proprie
idee nel pieno rispetto di quelle altrui.
Perché lo scempio che si sta facendo oggi su Pasolini, per lui
o contro di lui, è l’esatta antitesi di quello che era la sua
natura, la sua eleganza, la sua posatezza. Se mi passate la
metafora ornitologica è come accanirsi sul raffinato canto di
una cinciallegra facendola a pezzi a colpi di mannaia.
12. IL POVERO PASOLO
Il povero Pasolo
sotto terra da anni
sta come un moccolo
a far conta dei danni.
Per tutti coloro
che urlano in coro:
– Oh che vate assoluto!
– Oh che inutil rifiuto!
Sia Evviva che Abbasso
ne fan solo un bottino
scatenando un fracasso
se poi arriva Muccino!
– Diventare un modello?
Mi tocca anche quello?
Sbandierar verità?
Ma che assurdità!
Così il Pasolo afflitto
non ce la fa proprio più
ma non si dà per sconfitto
e aspetta tutti laggiù!