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Prefazione Il mio primo ricordo che possa essere definito “politico” risale ad una notte d’inverno a Johannesburg, alla metà degli anni cinquanta. Dovevo avere dodici o tredici anni. Mio padre era in viaggio di lavoro. In queste rare occasioni, come molte famiglie della borghesia sudafricana (soprattutto se ebree e ansiose), assumevamo una “guardia notturna”: un nero adulto, che lavorava per una società privata di vigilanza, nel caso specifico un vecchio zulu (ho nitido il ricordo dei dischi di legno nei lobi delle sue orecchie). Poco prima di andare a letto, guardai fuori dalla finestra e lo vidi accoccolato accanto ad un fuoco di carbonella che si strofinava le mani per riscaldarsi, il bavero del cappotto kaki rialzato. Mentre scivolavo nel mio letto iperriscaldato – lenzuola di flanella, bottiglia di acqua calda, un piumino ben imbottito portato dalla nonna dalla Polonia – mi misi improvvisamente a riflettere sul perché lui fosse là fuori e io fossi dove ero. Mia madre continuava a ripetermi che ero “ipersensibile”. E questo doveva essere il riflesso della mia ipersensibilità, un senso incipiente, non esattamente di colpa – quello sarebbe venuto in seguito – ma che c’era qualcosa di sbagliato. Perché questo vecchio doveva starsene seduto fuori tutta la notte al freddo? Perché alla mia famiglia (e a tutti gli altri come noi) erano stati assegnati, con mansioni di domestici, uomini e donne di colore (che venivano chiamati “ragazzi” e “ragazze” o, semplicemente, “locali”)? Perché vivevano in piccole stanze nel cortile sul retro? Dove erano le loro mogli, i loro mariti, i loro figli? Perché mi si rivolgevano chiamandomi baas cioè “padrone”? Non ricordo cosa pensai dell’epifania di quella notte. Quasi sicuramente mi addormentai, ma anche in seguito, dopo aver cominciato a pensare, in un’ottica sociologica, all’apartheid, ai privilegi, all’ingiustizia e al razzismo, sarei ritornato ad una qualche versione di quel precoce senso di disagio psicologico. Vedevo (e credo con ragione) scaturire questo disagio dal fatto che sapevo che qualcosa era pro13 STATI DI NEGAZIONE fondamente sbagliato, ma sapevo anche che non avrei potuto vivere in uno stato di costante consapevolezza di tale conoscenza. Senza la mia deliberata intenzione, questa consapevolezza, come una luce intermittente, si accendeva o, più spesso, si spegneva. Ci potevano essere settimane o mesi di cecità, amnesia e sonnambulismo. Una cultura politica – che poi si sarebbe chiamata “risveglio della coscienza” – rendeva queste fasi (proprio come dovrebbe essere) meno frequenti. Più tardi cominciai a pormi un’altra domanda, qualcosa su cui ancora discuto con le persone che sono cresciute con me. Perché altri, perfino coloro che provenivano da famiglie, scuole e quartieri simili, che leggevano gli stessi giornali, camminavano per le stesse strade, perché loro, apparentemente, non “vedevano” quello che vedevamo? Vivevano forse in un altro universo percettivo dove spesso gli orrori dell’apartheid erano invisibili e dove la presenza fisica della gente di colore sfuggiva alla consapevolezza? O forse vedevano esattamente ciò che vedevamo noi, ma, semplicemente, non gliene importava o non ci vedevano niente di sbagliato? La mia vita accademica di sociologo mi ha portato per strade piuttosto diverse, ma le mie domande di bambino hanno continuato ad aleggiare. Ho raccolto e tesaurizzato ogni tipo di materiale: ritagli di giornale, appelli Oxfam [Oxford Famine, un’organizzazione non governativa nata nel 1942 a Oxford che ha l’obiettivo di combattere la povertà e le ingiustizie nel mondo, N.d.T.], foto del Biafra e del Vietnam, citazioni, titoli di libri, brani di conversazione. Nella mia immaginazione, un giorno, avrei riportato tutto in quella che, presuntuosamente, chiamavo una “sociologia del diniego”. Il tema, se non la presunzione, è sempre lo stesso: cosa facciamo della nostra conoscenza della sofferenza altrui e cosa fa, a noi, questa conoscenza? Sembrava lapalissiano che una reazione comune, forse universale o perfino “naturale”, sia di bloccare, escludere o rimuovere tale informazione. La gente reagisce come se non sapesse quello che sa. Oppure l’informazione è memorizzata – non vi è alcun tentativo di negare i fatti – ma le sue implicazioni sono ignorate. La gente sembra apatica, passiva, indifferente e insensibile e trova razionalizzazioni convenienti per spiegarlo. Sono rimasto “intrappolato” nel termine “diniego” per indicare quest’intera gamma di fenomeni 1. Sebbene le sue ambiguità concettuali siano così macroscopiche, non sono mai riuscito a trovare un termine alternativo. D’altro canto non sono completamente soddisfatto nemmeno del termine che ho adottato quale antitesi a diniego: “riconoscimento”. Questo è ciò che “dovrebbe” accadere quando la gente è attivamente sollecitata dall’informazione: pensare, provare sentimenti o agire. In 14 PREFAZIONE senso morale e psicologico risponde in modo appropriato a ciò che sa. Vede un problema che richiede la sua attenzione; si sente sconvolta o arrabbiata ed esprime partecipazione e compassione e fa qualcosa: interviene, aiuta, s’impegna. Sulle prime, gli interrogativi iniziali che mi ponevo in Sud Africa mi hanno condotto unicamente in direzione politica: la sofferenza causata dall’ingiustizia, dal razzismo e dalla repressione. In seguito, ho cominciato a riflettere di più sul dolore personale e familiare. Il contrasto tra diniego e riconoscimento sembrava affiorare ovunque – per le strade, negli appelli delle istituzioni di beneficenza, nelle organizzazioni per lo sviluppo o i diritti umani, nei media. Perfino i miei temi accademici – devianza, crimine, controllo sociale, punizione – divennero pertinenti. Ma a quel punto la mia ossessione riemerse da una direzione inaspettata. Nel 1980, con la mia famiglia, lasciai l’Inghilterra per andare a vivere in Israele. Il mio radicalismo “d’annata” degli anni sessanta mi lasciò completamente impreparato a questo cambiamento. Quasi vent’anni in Inghilterra non avevano cambiato molto le opinioni ingenue che avevo assorbito crescendo nel movimento giovanile sionista in Sud Africa. Divenne ben presto evidente che Israele non era assolutamente come lo avevo immaginato. Già con l’invasione del Libano nel 1982 ero rimasto deluso dal movimento pacifista al quale credevo di appartenere. Scivolai in quella che in Israele è definita “l’estrema sinistra”: i margini dei margini. M’impegnai anche nelle tematiche dei diritti umani, in particolare, la tortura. Nel 1990, insieme a Daphna Golan, direttrice delle ricerche dell’organizzazione israeliana per i diritti umani, B’Ttselem, cominciai a lavorare ad un progetto di ricerca sulle presunte torture inflitte ai prigionieri palestinesi. Numerose altre fonti confermarono le nostre prove sull’uso abituale di metodi violenti ed illegali durante gli interrogatori. Ma fummo immediatamente precipitati nella politica del diniego. La risposta ufficiale e tradizionale fu feroce: diniego assoluto (non succede); discredito (l’organizzazione era prevenuta, manipolata o credulona); la definizione era errata (è vero, succede effettivamente qualcosa, ma non è tortura); e giustificativa (comunque era una “cosa” moralmente giustificata). I liberali erano a disagio e preoccupati. Eppure non vi fu indignazione. Presto si cominciò ad udire un certo tono di accettazione. I maltrattamenti erano funzionali alla situazione; non si poteva fare alcunché fino a quando non si fosse trovata una soluzione politica; di tanto in tanto qualcosa simile alla tortura poteva persino essere necessario e, comunque, non vogliamo che la cosa ci venga continuamente rammentata. 15 STATI DI NEGAZIONE Quest’apparente normalizzazione sembrava difficile da spiegare. La ricerca ebbe un impatto enorme sui media: fu dato ampio spazio alle vivide rappresentazioni dei metodi standard di tortura e un tabù divenne oggetto di discussione aperta. Eppure, molto presto, calò di nuovo il silenzio. La tortura non faceva più notizia, il che era assai peggio che non essere nelle notizie. Qualcosa la cui esistenza non poteva essere ammessa, ora poteva essere contemplato. C’era qualcosa che assomigliava ad una tacita collusione per ignorare (o fingere d’ignorare?) l’intera problematica. Migliaia d’israeliani e di turisti passeggiano ogni giorno lungo la strada principale di Gerusalemme, Jaffa Road, sulla quale si affaccia la parte posteriore della “Moscobiya”, la prigione e il centro di detenzione nel Quartiere russo. Tutti sapevano che questo era il luogo dove i palestinesi venivano detenuti, interrogati e torturati dagli Shabaq, i servizi generali di sicurezza. Lì, il 22 aprile 1995, un sospetto palestinese, Abed al-Samad Harizat, ebbe un collasso dopo quindici ore d’interrogatorio. Morì tre giorni dopo all’ospedale senza riprendere conoscenza. Harizat era stato, letteralmente, scrollato, strattonato in su e in giù per il collo della camicia, fino a provocarne la morte. Un avvocato israeliano (su incarico della famiglia) presentò un’istanza chiedendo che quel trattamento fosse definito illegale. No, sentenziò l’Alta Corte, lo scuotimento era perfettamente accettabile. I passanti camminano a pochi metri dalle celle dove questo è accaduto. Nessun segno che ci fosse qualcosa fuori dall’ordinario nella strada e nei vicini caffè affollati (nei quali siedono poliziotti e ufficiali degli Shabaq). Il giorno successivo alla sentenza dell’Alta Corte mi capitò di ascoltare, su un autobus, due persone che discutevano casualmente su cosa effettivamente intendevano gli avvocati con la parola tilltulim, il vocabolo in lingua ebraica per “scuotere”. Questo era il periodo dell’intifada, la rivolta civile palestinese cominciata nel 1987 dopo vent’anni d’occupazione militare. La televisione mostrò al mondo le reazioni israeliane: percosse, torture, umiliazioni quotidiane, massacri senza provocazione, coprifuoco, case rase al suolo, detenzioni senza processo, deportazioni e punizioni collettive. Israele si meritò alcune severe critiche nei rapporti internazionali sulle atrocità come, per esempio, quelli di Amnesty International. Paragonato ad altri paesi censurati Israele sembra un paradiso di democrazia e di rispetto della legge. Le organizzazioni per i diritti umani ed i bravi giornalisti riferiscono in modo critico ciò che accade. E l’informazione pubblica può essere suffragata da ciò che si sa a livello personale. Quasi tutti hanno un’esperienza, più o meno diretta, del servizio militare. I soldati non sono mercenari o poveri militari di car16 PREFAZIONE riera. Tutti fanno il servizio militare o hanno un marito, un figlio o un vicino nella Riserva e ben pochi tengono segrete le loro attività. Eppure anche i liberali non reagirono nel modo in cui “avrebbero dovuto”. Volevo sempre chiedere: «Ma non sapete cosa sta succedendo?». Naturalmente lo sapevano. Fu facile per me vedere tutto ciò come un ennesimo caso di diniego – non il brutale mentire di cinici apologeti, ma la complessa malafede di qualcuno che cerca di sembrare innocente fingendo di non vedere. Era forse giunto il momento per un altro rapporto, un altro comunicato stampa, un altro articolo o documentario nato dalla nostra toccante fede nel “se solo lo sapessero”? No. L’informazione era stata ricevuta ma non “registrata” o meglio, secondo un cliché, non “digerita”. Era affondata nella coscienza senza produrre cambiamenti negli atteggiamenti e nell’opinione pubblica. C’era forse qualche grave pecca nel modo in cui tentavamo di trasmettere il nostro messaggio? O c’era un punto in cui il mero aumento d’ulteriori e migliori informazioni non avrebbe avuto alcun impatto? Fu spontaneo partire dal claustrofobico presupposto che questo problema era unico poiché Israele era orribile in modo unico. Fortunatamente gli emissari della comunità internazionale per i diritti umani ci ricordarono che il problema era universale. Volevano che l’informazione circolasse nell’arena internazionale. Come reagiva l’opinione pubblica all’informazione delle atrocità perpetrate a Timor Est, in Uganda o in Guatemala? Cominciai a pensare ad una simpatica coppia di trentenni, seduti al tavolo della prima colazione davanti a caffè e croissant, a New York, Londra, Parigi o Toronto. Sfogliano il giornale del mattino: “ALTRI MILLE TUTSI MASSACRATI IN RUANDA”. Nella casella della posta due lettere ciclostilate, una da Oxfam: «Mentre tu consumi la tua prima colazione altri dieci bambini muoiono di fame in Somalia», e una da Amnesty: «Mentre tu consumi il pranzo otto bambini da rua vengono uccisi in Brasile». Che impatto ha su di loro questa “notizia” e cosa fanno loro per questa notizia? Che cosa passa loro per la testa? Cosa si dicono? Ancora una volta tornavo alle mie preoccupazioni originarie: le reazioni di fronte ad una conoscenza sgradita, specialmente sulla sofferenza inflitta da un essere umano ad un altro. Che cosa s’intende dicendo che “bisogna fare qualcosa” per queste atrocità? Per i governi ciò suggerisce “intervento”, nel vago senso inteso nei recenti dibattiti su Bosnia, Iraq, Zaire, Ruanda, Kosovo o Somalia. Per la gente comune – il mio vero interesse – significa partecipazione, impegno ed azione: una donazione, boicottare un prodotto, diventare membri di un’organizzazione, sostenere a distanza un obiettore di coscienza, fir17 STATI DI NEGAZIONE mare una petizione, partecipare ad una dimostrazione. Questo è “riconoscimento” piuttosto che diniego. Ancora una volta riposi i miei fascicoli per una “sociologia generale del diniego”. Nel 1992, con l’aiuto di una donazione della Fondazione Ford, iniziai un progetto su come sia trasmessa l’informazione sulle violazioni dei diritti umani. Il fulcro erano le organizzazioni internazionali, con sede sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna e, in modo particolare, Amnesty International, l’unica che tentasse di raggiungere un pubblico più vasto. Guardavo anche a organizzazioni benefiche, d’aiuto e sviluppo; a società pubblicitarie e di ricerche di mercato nel settore del pubblico interesse e ad organizzazioni tradizionali e alternative del sistema mediatico. Le mie fonti erano rapporti pubblici, comunicati stampa, materiale di campagne propagandistiche, contatti per posta, servizi di cronaca; incontri e conferenze; interviste con una cinquantina di persone appartenenti a organizzazioni per i diritti umani, di aiuto e sviluppo e con una ventina di giornalisti. Nel 1995 questo studio fu pubblicato sotto forma di rapporto 2. Finalmente libero dalle insaziabili richieste di una certa politica di vita e attività, ritornai al sicuro mondo della teoria e della ricerca. Cominciai con Freud e le teorie psicologiche del diniego, poi con temi nei quali si presentava tale concetto, fosse l’AIDS, i senzatetto o il surriscaldamento del pianeta. Nel frattempo lo psicoblaterare “del diniego” era entrato nella cultura popolare. Singoli e società intere stavano scivolando nel diniego di (praticamente) qualunque cosa. Mi tuffai nello studio e nella letteratura dell’Olocausto. La mia teoria (quasi di sicuro errata) era che se solo si cerca di capire questo, allora, si può capire qualunque cosa. Lessi altro materiale su genocidio, massacri, torture; guardai film sulla sofferenza umana. La mia teoria (sicuramente errata) era che vedere altre rappresentazioni di sofferenza mi avrebbe insegnato l’approccio a questi temi. Il risultato non fu esattamente quello che avevo previsto. Primo, sebbene io rimanga un sociologo, il lessico psicologico mi viene più naturale. Spetterà a qualcun altro scrivere un’economia politica del diniego. Secondo, sebbene fosse nelle mie intenzioni guardare solo agli osservatori (testimoni) mi sono trovato continuamente ricondotto al diniego di colpevoli e vittime. Terzo, ho scoperto di aver troppo attinto al caso d’Israele. E questo non perché sia particolarmente orribile, ma perché vi ho vissuto per diciotto confusi anni. Il “lettore medio” cui mi rivolgo è, predominantemente, il “noi” etnocentrico e culturalmente imperialista: persone colte, dalla vita comoda in società stabili. Siamo i soggetti di alcuni capitoli, ma, di base, osserviamo gli altri, distanti, in paesi poveri, in luoghi violenti 18 PREFAZIONE ed instabili che fanno notizia per crudeltà e sofferenza o in luoghi dove le giunte, i profughi, gli squadroni della morte e la carestia sono sempre il ricordo del giorno precedente. Ma vivono, costruiscono, resistono: non sono semplicemente le vittime che appaiono nelle mie pagine. E “noi” abbiamo i nostri turpi presenti e passati, i nostri problemi sociali non riconosciuti. Mi sono concentrato sulle atrocità e sulle organizzazioni per i diritti umani, ma ho anche considerato i problemi affrontati da quegli enti che si occupano di aiuti, soccorso, sanità o sviluppo e che recentemente si sono ricollegati al concetto di “sofferenza sociale” 3. Se non specificato in altro modo, userò il termine generico “umanitario” per indicare tutte queste organizzazioni. Fatta eccezione per il capitolo 2 sulla teoria psicologica e il capitolo 3 sulla ricerca, ho cercato di evitare citazioni accademiche non strettamente necessarie. Di tanto in tanto, però, cerco un rifugio pedagogico e passo a scrivere un libro di testo per un immaginario corso sulla sociologia del diniego. S. C. Note 1. Il vocabolo inglese che qui traduciamo con “diniego” è denial. È necessario comunque precisare che in ambito psicoanalitico, accanto a questo termine, se ne incontrano altri due, “rimozione” e “negazione”, sempre volti ad indicare meccanismi di difesa inconsci per allontanare da sé immagini o fatti inaccettabili per il soggetto, e che presentano fra loro alcune significative differenze. Con “rimozione” si indica un atto con il quale il soggetto cerca di mantenere inconsci pensieri e ricordi legati ad un desiderio pulsionale proibito (o vissuto come tale); con “negazione” si indica un atto con cui il soggetto nega che alcuni pensieri, desideri e fantasie gli appartengano; con “diniego”, infine, si indica il rifiuto da parte del soggetto di riconoscere una realtà traumatizzante per il soggetto stesso [N.d.R.]. 2. Stanley Cohen, The Impact of Information about Human Rights Violations: Denial and Acknowledgement, Centre of Human Rights, Hebrew University, Jerusalem 1995. 3. Arthur Kleinman et al. (eds.), Social Suffering, University of California Press, Berkeley 1997. 19