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RASSEGNA STAMPA
giovedì 2 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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IL FATTO
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L’ESPRESSO
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LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore Sociale del 01/07/15
Summer school sull’antirazzismo al meeting
dell’Arci a Cecina
Numerosi incontri e conferenze dove i partecipanti potranno
approfondire i temi delle migrazioni e delle discriminazioni. Tra gli ospiti
De Giorgi, Scannavini e Musarò
FIRENZE – Durante il Meeting antirazzista dell’Arci in programma da oggi al 5 luglio a
Cecina, si terrà la Summer school sull’antirazzismo, tre giorni di full immersion, tra incontri
e conferenze, dove i partecipanti potranno approfondire i temi delle migrazioni e delle
discriminazioni. Il progetto, co-finanziato dal programma Fundamental Rights and
Citizenship dell’Unione Europea, riportando l’attenzione sulle manifestazioni più subdole e
pervasive del razzismo, intende offre l’opportunità per riprendere il filo dei ragionamenti su
questa situazione, ridefinire un contesto dal punto di vista della convivenza, superare la
sindrome dell'emergenza e aggiornare una strategia nazionale antirazzista. Tra gli ospiti ci
saranno Marco De Giorgi, direttore nazionale Unar, la sociologa Katia Scannavini, il
sociologo Pierluigi Musarò, la mediatrice culturale Leyla Dauki.
Da Immezcla.it del 01/07/15
Arci, a Cecina Summer school
sull'antirazzismo
Durante il Meeting antirazzista dell’Arci in programma da oggi al 5 luglio a Cecina, si terrà
la Summer school sull’antirazzismo, tre giorni di full immersion, tra incontri e conferenze,
dove i partecipanti potranno approfondire i temi delle migrazioni e delle discriminazioni. Il
progetto, co-finanziato dal programma Fundamental Rights and Citizenship dell’Unione
Europea, riportando l’attenzione sulle manifestazioni più subdole e pervasive del razzismo,
intende offre l’opportunità per riprendere il filo dei ragionamenti su questa situazione,
ridefinire un contesto dal punto di vista della convivenza, superare la sindrome
dell'emergenza e aggiornare una strategia nazionale antirazzista. Tra gli ospiti ci saranno
Marco De Giorgi, direttore nazionale Unar, la sociologa Katia Scannavini, il sociologo
Pierluigi Musarò, la mediatrice culturale Leyla Dauki.
http://www.immezcla.it/notizie-immigrazione/item/1046-arci,-a-cecina-summer-school-sullantirazzismo.html
Da Repubblica.it del 01/07/15
"Riaprite le trattative". Grexit, il dibattito è
online
Carmine Saviano
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Gli inviti alla responsabilità. Fare di tutto per riaprire le trattative. Anteporre la politica alla
finanza. Interrompere un processo che rischia di avere ripercussioni sui principi in base ai
quali è edificata l’Unione Europea. Il caso Grecia. Il rischio default. E se il tema è in cima
all’agenda del governi del mondo, negli ultimi giorni la rete offre una enorme possibilità di
confronto anche per tutti i cittadini europei. Consapevoli che il voto al referendum di
domenica non riguarda solo Atene. Ma tocca la possibilità di continuare a credere nel
sogno europeo.
Gli appelli sono decine. Da quello firmato da Barbara Spinelli ed Étienne Balibar – e
pubblicato su Repubblica – fino a quello degli “economisti”: Stiglitz, Picketty, Kaldor,
Galbraight. Inviti alla consapevolezza, inviti a non compiere “atti di forza”. Inviti a
considerare che esistono modi possibili per mettere in condizione il governo greco di far
fronte ai propri debiti.
Poi le mobilitazioni dal basso. Il caso più eclatante degli ultimi giorni è quello del
crowdfunding lanciato per raccogliere il miliardo e 600 milioni di euro necessari per
consentire alla Grecia di restare in Europa. Un invito rivolto a ogni cittadino europea
affinche, in nome della solidarietà, faccia la propria, piccola, parte.
L’Europa è a un bivio. Questa la lettura che offre la piattaforma “Change4All”. Segue lo
slogan: no all’austerità, sì alla democrazia. Migliaia di firme raccolte in pochi giorni per
appoggiare la scelta fatta da Alexis Tsipras. E l’appello è ripreso anche da molte
associazioni italiane: l’Arci in primis. Molte altre a seguire, tra cui la Rete della
Conoscenza, una delle associazioni studentesche più attive nel nostro Paese.
Numerose anche le iniziative di singoli cittadini. Che utilizzano piattaforme come quella di
Change.org per coinvolgere nella discussione quante più persone possibili.
Migliaia di firme anche per la lettera di sostegno a Tsipras pubblicata sul sito di
Micromega: “Siamo con la democrazia, che è sempre "giustizia e libertà", contro la
protervia dei poteri finanziari che vogliono imporre al popolo greco le politiche di liberismo
selvaggio che hanno scatenato la crisi mondiale”.
http://saviano.blogautore.repubblica.it/2015/07/02/riaprite-le-trattative-grexit-il-dibattito-eonline/
Da Riviera24 del 02/07/15
Al via a Ventimiglia i Campi Antimafia,
promossi da ARCI-CGIL-SPI e E!STATE
LIBERI 2015, in collaborazione con LIBERA e
SPES Auser Onlus
Testimonianze, formazione ed escursioni si alterneranno a momenti di
animazione anche in spiaggia con gli utenti disabili dell’associazione
ospitante
Ventimiglia. Legalità, Costituzione, Resistenza A ponente, tra mare, monti ed integrazione
sociale, è questo il tema scelto quest’anno per i campi della legalità promossi da Arci e
Cgil Spi nell’ambito del programma di “Estate liberi”,. Nel settantesimo della Liberazione,
gli organizzatori hanno deciso di invitare i giovani partecipanti a riflettere ed impegnarsi sui
temi della resistenza e della costituzione.
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Da venerdì 3 luglio e sino a sabato 11 luglio, giovani tra i 18 ed i 25 anni, provenienti da
varie parti di Italia si ritroveranno a Ventimiglia per una esperienza unica di volontariato ed
impegno sociale.
Apertura ufficiale del campo, sabato 4 luglio in Biblioteca “Aprosiana” per dibattere di
mafie e legalità insieme al Sindaco Ioculano, alla Senatrice Albano ed all’esperto
dell’osservatorio Mafie in Liguria, Luca Traversa di Libera Genova.
Presso i terreni e gli orti dell’associazione di volontariato Spes, si propone l’inserimento in
attività di orto sociale o animazione insieme a ragazzi con handicap e momenti di
formazione e tempo libero. Testimonianze, formazione ed escursioni si alterneranno a
momenti di animazione anche in spiaggia con gli utenti disabili dell’associazione ospitante.
http://www.riviera24.it/2015/07/al-via-a-ventimiglia-i-campi-antimafia-promossi-da-arci-cgilspi-e-estate-liberi-2015-in-collaborazione-con-libera-e-spes-auser-onlus-198919/
Da La Nazione.it del 02/07/15
L’ex caserma dei pompieri ai migranti
Cecina, il sistema dell’accoglienza è al collasso: ecco le proposte
di Cecilia Morello
Cecina (Livorno), 2 luglio 2015 - «Oggi arrivano 22 profughi da sistemare in provincia,
stanotte 10 a Livorno. Li prendete?». Intorno alle 16 al Meeting antirazzista, in attesa che
comincia un dibattito, appunto, sull’accoglienza, suonano i telefoni del sindaco Samuele
Lippi e poi quelli di Claudia Franconi e di Marco Solimano, dell’Arci. E’ la prefettura che,
come avviene ormai quasi ogni giorno, chiede aiuto per far fronte agli sbarchi, da due mesi
anche due al giorno: ad oggi Livorno ospita quasi 300 profughi, la provincia poco meno di
500. Alla fine i 22 andranno a Rosignano (che già ne ha 45) ma dove, ieri sera, non era
stato definito, gli altri 10 resteranno nel capoluogo ma anche in questo caso la soluzione, a
poche ore dall’arrivo, non c’era. Basterebbe questo a dare l’idea dell’emergenza. «Siamo
al collasso – ammette Claudia Franconi -. Abbiamo cominciato ad occuparci
dell’accoglienza oltre un anno fa. Oggi l’emergenza non è rientrata, anzi, è ancora più
importante e fatichiamo a rispondere». Mancano prima di tutto le strutture, anche se quelle
da sole non basterebbero. Cecina ad esempio non è stata in grado di trovare soluzioni. «Il
prefetto mi ha rinnovato la richiesta – ammette il sindaco Lippi –. E io ieri ho fatto
nuovamente il giro di telefonate a tutti i costruttori della zona, a chiunque potesse avere
degli appartamenti, ma niente». Una opportunità poteva arrivare in bassa stagione da un
albergo in viale Vittoria a Marina ma è stata la stessa amministrazione a dire di no.
«Abbiamo 15-18 famiglie sfrattate che d’inverno alloggiano nei residence e d’estate si
spostano nelle roulotte dei campeggi. Accogliere profughi in un albergo sarebbe stato un
messaggio sbagliato». Un aiuto arriverà dall’immobile in centro messo a disposizione dalla
Regione m nessuno sa da chi sarà gestito o come.
«Pensiamo di poter utilizzare anche l’ex caserma dei vigili del fuoco, in via dei Parmigiani,
ma è una struttura che va messa a norma». Che il problema è proprio l’immediatezza. «Ci
sono dei necessari passaggi, ogni struttura deve essere vista dall’Asl per definire il
numero di persone che può accogliere. Anche quando troviamo degli appartamenti,
l’ultimo a Montescudaio, serve tempo tra contratti e il resto – spiega Franconi -, invece qui
ci chiedono di trovare soluzioni nell’arco di due ore». E c’è poi anche il problema della
gestione della permanenza. «Ci sono persone arrivate a Castiglioncello ad agosto 2014 e
ancora sono lì. La mattina facciamo loro formazione, lingua ed educazione civica. Ma è
necessario impiegarli». E in questo senso un aiuto arriverà dal protocollo per i lavori
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socialmente utili. «Lo porteremo al prossimo consiglio comunale – annuncia Lippi – poi
servirà la firma del prefetto».
http://www.lanazione.it/livorno/l-ex-caserma-dei-pompieri-ai-migranti-1.1109862
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ESTERI
Del 2/07/2015, pag, 2
Passa la linea tedesca un sì per silurare
Alexis e riaprire il negoziato con un nuovo
governo
IL RETROSCENA
DAL NOSTRO INVIATO
ALBERTO D’ARGENIO
BRUXELLES . Alexis Tsipras rimane intrappolato nel suo stesso referendum. Fino a
poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Prevedeva
che i greci ritirassero la consultazione popolare e gli europei offrissero ad Atene un terzo
programma di salvataggio con una serie di concessioni per renderne le condizioni meno
amare. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti.
Ora si guarda a lunedì, il giorno dopo il referendum. A Bruxelles, Berlino, Atene e nelle
altre capitali si studiano piani e scenari. Molti leader ora puntano a far fuori una volta per
tutte Tsipras, determinato invece a resistere a prescindere dal risultato del voto.
La fine ha avuto inizio ieri notte, quando a Bruxelles è arrivata la seconda lettera in poche
ore con le richieste di Tsipras per annullare il referendum. Per la prima volta accettava il
testo Juncker – piuttosto generoso - con riforme e impegni per Atene in cambio del
salvataggio. Ma a sorpresa il capo del governo greco ha aggiunto cinque punti
irrinunciabili. Il viceministro Euclid Tsakalotos si prodigava a spiegare a Bruxelles il perché
di tanta rigidità: «Abbiamo bisogno di queste ulteriori concessioni altrimenti l’accordo non
passa in Parlamento». Ma l’ennesimo gioco al rialzo di Tsipras ha irritato diversi governi e
ha fornito ai falchi un comodo match point per chiudere la partita. L’Eurogruppo viene
spostato dalle 11.30 alle 17.30, ma il tempo non basta a negoziare le nuove richieste di
Tsipras. Quindi Schaeuble e la Merkel pubblicamente affondano ogni speranza di accordo.
Tsipras gli risponde in tv con parole altrettanto dure. In quei minuti Matteo Renzi è a
colloquio a Berlino con Angela Merkel. Uscendo dalla stanza della Cancelliera confida al
telefono a un ministro che lo chiama da Roma: «È finita, non c’è più niente da fare».
Eppure fino a ieri mattina la soluzione sembrava a portata di mano, con Juncker, Renzi e
Hollande che avevano fatto di tutto per avvicinare Merkel e Tsipras ed evitare all’Europa
altri giorni di fuoco. Solo 60 milioni dividevano le parti, niente rispetto ai 240 miliardi già
mobilitati per salvare la Grecia. Una rottura non solo tecnica, ma molto politica. Descrive
bene l’accaduto Roberto Gualtieri (Pd), presidente della commissione economica
dell’Europarlamento tra gli ufficiali di collegamento nel negoziato: «Tsipras è stato cinico
nel non volere l’accordo ed è sua gran parte della responsabilità del fallimento, ma anche
altri governi sono stati inutilmente rigidi».
Ieri Juncker ha tenuto una lunga discussione con i commissari europei per fare il punto
della situazione. «I canali con Atene rimangono aperti – spiegava - ma non c’è più nessun
movimento». Intanto i ministri delle Finanze dei paesi dell’euro hanno cancellato tutti gli
impegni di lunedì, pronti a volare a Bruxelles per rispondere al voto greco.
Gli uomini di Tsipras fanno sapere agli europei le intenzioni del loro leader. Se passa il
referendum, il premier si dimetterà ma metterà l’ala moderata del partito a disposizione di
un governo di unità nazionale che firmi il memorandum per il terzo pacchetto di aiuti. Un
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minuto dopo si sfilerà dalla maggioranza provocando le elezioni anticipate, che si dice
certo di vincere. In caso di vittoria del “no”, che lui sostiene, tornerà invece a Bruxelles
chiedendo tutte le concessioni che ha richiesto in questi mesi. Da ieri Atene è fuori dal
programma di salvataggio ed inadempiente con l’Fmi, ma per il default tecnico restano
ancora un paio di settimane. Ma dovrà fare i conti con gli altri. Con la vittoria del “sì” a
Berlino e in altre capitali contano di sbarazzarsi una volta per tutte di Tsipras. Non tutti i
governi sono così determinati sul punto, ma tutti quanti sono estremamente irritati con il
premier greco accusato di scarsa affidabilità e di avere trasformato un suo problema
interno in un problema europeo che aizza populisti di destra e sinistra in giro per il
continente. Se passasse il “no”, invece, la Merkel e gli altri leader sono determinati a non
concedere tutto al collega di Atene. Ripartirà il negoziato con Tsipras che minaccerà la
rottura dell’eurozona e gli europei che risponderanno con lo spettro di un taglio definitivo
dei viveri ad Atene costringendo il premier greco a lasciare.
Rende bene la situazione la battuta di un diplomatico mitteleuropeo: «Tsipras doveva
decidere se morire firmando o non firmando il salvataggio. Sembra avere deciso la via più
dolorosa per tutti». La vittoria del “sì” farebbe ripartire il braccio di ferro, con i tedeschi
decisi a non concedere quasi nullaalle autorità elleniche L’ennesimo gioco al rialzo del
leader di Syriza ha fornito ai falchi dell’eurozona un comodo assist per chiudere la partita.
Del 2/07/2015, pag. 1-2
Tsipras: Non rispettano la democrazia e ci
accusano di golpismo
Grecia. L'appello televisivo del premier greco
Alexis Tsipras
Il referendum di domenica non riguarda la permanenza o no della Grecia nell’eurozona.
Questa è scontata e nessuno può contestarla. Domenica dobbiamo scegliere se accettare
l’accordo specifico oppure rivendicare subito, una volta espresso il responso del popolo,
una soluzione sostenibile.
In ogni caso voglio assicurare al popolo greco che la ferma intenzione del governo
è quella di ottenere un accordo con i partners, in condizioni però di sostenibilità e di prospettiva per il futuro. Già l’indomani della nostra decisione di proclamare un referendum
sono state poste sul tavolo proposte riguardanti il debito e la necessità di ristrutturarlo,
migliori di quelle che ci erano state presentate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate
cadere. Abbiamo immediatamente presentato le nostre controproposte, chiedendo una
soluzione sostenibile. È per questa ragione che c’è stata la riunione straordinaria
dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riunione oggi pomeriggio. Se ci sarà una conclusione positiva, noi risponderemo immediatamente. In ogni caso, il governo greco rimane al
tavolo del negoziato e continuerà a rimanerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su questo tavolo
anche lunedì, subito dopo il referendum, in condizioni più favorevoli per la parte greca. Il
verdetto popolare, infatti, è sempre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vorrei
anche ribadire che il ricorso alla volontà popolare è uno dei fondamenti delle tradizioni
europee. In momenti cruciali della storia europea, i popoli hanno preso decisioni importanti
attraverso lo strumento del referendum. E’ successo in Francia e in tanti altri paesi, dove si
sono svolti referendum sulla Costituzione europea. E’ successo in Irlanda, dove un referendum ha temporaneamente sospeso il Trattato di Lisbona e ha condotto a un nuovo
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negoziato, dal quale l’Irlanda ha ottenuto condizioni migliori. Nel caso della Grecia, purtroppo, si usano due metri e due misure.
Personalmente, non mi sarei mai aspettato che l’Europa democratica non riesca a comprendere la necessità di lasciare a un popolo sovrano lo spazio e il tempo necessario perché faccia le sue scelte riguardo al proprio futuro. Sono prevalsi ambienti estremisti conservatori e di conseguenza le banche del nostro paese sono state portate all’asfissia.
L’obiettivo è evidente: esercitare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni singolo cittadino greco. E’ infatti inaccettabile in un’Europa della solidarietà e del rispetto reciproco, vedere queste scene vergognose: far chiudere le banche proprio perché il governo
ha deciso di far parlare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, malgrado
l’asfissia finanziaria, il governo si è preoccupato e ha fatto in modo che la loro pensione
fosse regolarmente versata nei loro conti. A queste persone dobbiamo delle spiegazioni.
E’ per proteggere le vostre pensioni che stiamo dando battaglia tutti questi mesi. Per proteggere il vostro diritto a una pensione dignitosa e non a una mancia. Le proposte che, in
maniera ricattatoria, ci hanno chiesto di sottoscrivere prevedevano un taglio consistente
delle pensioni. Per questo motivo ci siamo rifiutati, per questo oggi si vendicano.
E’ stato dato al governo greco un ultimatum che comprendeva esattamente la stessa
ricetta, comprendente tutte le misure ancora non applicate del vecchio Memorandum di
austerità. Come se non bastasse, non hanno previsto alcuna forma di alleggerimento del
debito né di finanziamento dello sviluppo. L’ultimatum non è stato accettato. Poiché in
regime di democrazia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di
rivolgerci al popolo, ed è stato esattamente quello che abbiamo fatto.
Sono pienamente consapevole che in queste ore c’è un’orgia di catastrofismo. Vi ricattano
e vi invitano a votare sì a tutte le misure chieste dai creditori, senza alcuna visibile via
d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come succedeva nei quei giorni bui
della nostra vita parlamentare che abbiamo lasciato dietro di noi, sì a tutto. Farvi diventare
simili a loro, complici nel piano di farci rimanere per sempre sotto l’austerità.
Dall’altra parte, il no non è una semplice parola d’ordine. Il no rappresenta un passo decisivo verso un accordo migliore che puntiamo a sottoscrivere subito dopo la proclamazione
dei risultati di domenica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue condizioni
di vita nei giorni a venire. No non significa rottura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei
valori. No significa pressione potente per un accordo economicamente sostenibile che
trovi una soluzione al problema del debito, non lo farà schizzare a livelli insostenibili, non
costituirà un eterno ostacolo verso i nostri sforzi per far riprendere l’economia greca e dare
sollievo alla società. No significa pressione forte per un accordo socialmente equo che
distribuirà il peso ai possidenti e non ai lavoratori dipendenti e ai pensionati.
Un accordo cioè che porterà in tempi brevi il paese a essere di nuovo presente nei mercati
finanziari internazionali, in modo che si ponga termine alla sorveglianza straniera e al commissariamento. Un accordo che comprenda quelle riforme che puniranno una volta per
sempre gli intrecci insani tra politica, mezzi d’informazione e potere economico che hanno
contraddistinto in tutti questi anni il vecchio sistema politico. Nel contempo potrà affrontare
la crisi umanitaria: stenderà, in altre parole, una rete di sicurezza per tutti quelli che oggi
sono stati spinti all’emarginazione grazie alle politiche seguite in tutti questi anni nel nostro
paese.
Greche e greci, sono pienamente consapevole delle difficoltà che state affrontando. Mi
impegno personalmente a fare qualunque cosa perché siano provvisorie. Alcuni fanno
dipendere la permanenza della Grecia all’eurozona dal risultato del referendum. Mi accusano di avere un’agenda segreta: nel caso di vittoria del no, far uscire il paese dall’Unione
Europea. Mentono sapendo di mentire. Sono quelli stessi che dicevano le stesse cose nel
passato e rendono un pessimo servizio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde,
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sapete bene che un anno fa io stesso ero candidato per la presidenza della Commissione
alle elezioni per il Parlamento europeo.
Anche allora ho detto agli europei che le politiche di austerità devono finire, che non
è questa la strada per uscire dalla crisi, che il programma applicato alla Grecia è stato un
fallimento. E che l’Europa deve smettere di comportarsi in maniera non democratica.
Pochi mesi più tardi, nel gennaio del 2015, il nostro popolo ha sigillato questa scelta. Sfortunatamente, alcuni in Europa si rifiutano di comprendere questa verità, non la vogliono
ammettere. Quelli che preferiscono un’Europa ancorata in logiche autoritarie, di disprezzo
verso le regole democratiche, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epidermica
e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono politici senza
coraggio che non riescono a pensare come europei.
A loro fianco sta il nostro sistema politico che ha portato il paese alla bancarotta e ora si
propone di gettare la colpa a noi, a chi cerca di far finire questa marcia verso il disastro.
Sognano il loro ritorno: lo hanno progettato nel caso che noi avessimo accettato
l’ultimatum – hanno pubblicamente chiesto la nomina di un altro premier per applicarlo–
ma continuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Parlano di colpo di
stato. Ma la democrazia non è un colpo di stato, i governi nominati da fuori sono un colpo
di stato. Greche e greci, voglio ringraziarvi con tutto il cuore per la calma e il sangue
freddo che state mostrando in ogni momento di questa settimana difficile. Voglio assicurarvi che questa situazione non durerà a lungo. Sarà provvisoria. Gli stipendi e le pensioni
non andranno persi. I conti dei cittadini che hanno scelto di non portare i loro soldi
all’estero non saranno sacrificati sull’altare dei ricatti e delle oscure manovre politiche.
Assumo io personalmente la responsabilità di trovare una soluzione al più presto, subito
dopo la conclusione del referendum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di sostenere questo processo negoziale, vi chiedo di dire no alle ricette di austerità che stanno distruggendo l’Europa. Vi chiedo di accettare la strada di una soluzione sostenibile, di aprire una
brillante pagina di democrazia, nella speranza certa di un accordo migliore. Siamo responsabili verso i nostri genitori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.
(a cura di Dimitri Deliolanes)
Del 2/07/2015, pag. 3
ITALIA DOMANI IN PIAZZA
Mobilitazione in tutt’Italia promossa dall’«Altra Europa con Tsipras» e non solo. Stasera
(ore 19) è in programma un’assemblea pubblica a Bari in via De Rossi, mentre alle ore 21
in piazza della Signoria a Firenze è convocato un flash mob a sostegno del governo greco.
Domani le manifestazioni a Roma (fiaccolata alle 19 da piazza Farnese) e Milano (alle
18.30 alla Darsena). In piazza anche Genova (17.30 piazza Ferrari), Brescia (ore 20 Largo
Formentone), Ancona (ore 21 piazza Cavour), Verona (ore 18 piazza dei Signori). Le
iniziative si moltiplicano di giorno in giorno. Sempre il 3 luglio a Padova è stato organizzato
un presidio davanti alla prefettura, come pure a Catania. A Bari, l’appuntamento è alle
17.30 davanti al consolato greco di via Amendola. Stessa ora anche a La Spezia sempre
di fronte alla prefettura. A Venezia, alle 18.30 davanti alla sede regionale della Rai. A
Crema nel pomeriggio volantinaggio nelle vie del centro cittadino, a Savona un gazebo in
Corso Italia, a Torino presidio in piazza Castello. Il 4 luglio, invece, sarà la volta di Reggio
Emilia: alle ore 11 è stato promosso un presidio alla vigilia del referendum in piazza
Martiri.
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Del 2/07/2015, pag, 9
Renzi con Angela per archiviare Tsipras
“Errore referendum”
Il premier:“Austerity fallita ma le regole si rispettano” E la Cancelliera
loda l’Italia: “Riforme impressionanti”
CARMELO LOPAPA
BERLINO. La foto di qualche giorno fa, Matteo Renzi con Alexis Tsipras sotto braccio, è
già sbiadita. Il premier greco non è più un interlocutore credibile per le cancellerie
europee, di certo non lo è per quella tedesca e per quella italiana.
L’ultima “offerta” di Atene è stata ritenuta poco più che un bluff. «A questo punto non resta
altro da fare che attendere il referendum di domenica e confidare in un voto saggio del
popolo greco», si sono detti Angela Merkel e Matteo Renzi nel faccia a faccia durato circa
45 minuti nella sede della Cancelleria di Berlino. Sulla crisi, la linea è convergente.
Puntare sul referendum, attendere ormai domenica, scommettere su una sconfitta di
Tsipras e sul fallimento di Syriza. E dopo? Ecco, è su lunedì che nel loro colloquio Renzi e
Merkel hanno acceso i riflettori. Le speranze, «per aiutare il popolo greco» e sottrarlo alla
forza antieuropeista che lo governa, sono puntate sulla nascita di un governo di unità,
meglio, di salvezza nazionale. E con quello avviare poi una trattativa più seria e soprattutto
rigorosa per recuperare l’indebitamento, spalmarlo negli anni, ma con tanto di riforme da
mettere nero su bianco. Renzi è quasi sprezzante quando taglia corto sulle ultime mosse
di Atene. Grecia, certo, «ma ci sono altri 27paesi in Europa, speriamo si finisca presto di
parlarne per occuparci di economia europea». Quasi con distacco: «Capisco l’attenzione
per la situazione greca, ma sono un pochino più preoccupato per il terrorismo, la vera
questione in Europa è la crescita per tutti, non l’iva delle isole greche». Come la pensasse
sul referendum indetto dal collega greco Renzi lo aveva detto in mattinata anche davanti
alle centinaia di studenti e decine di docenti della prestigiosa Humboldt Univesitat. Tempio
del pensiero politico e della dottrina europeista, dove Albert Einstein ha studiato e dove
Marx e Marcuse hanno insegnato: prima di lui, Giorgio Napolitano nel 2010 tra i pochissimi
italiani invitati a parlare. Il presidente del Consiglio tiene una lectio sul “Ritorno al futuro”
dell’Europa che deve abbattere «il muro della paura », ritrovare coraggio e identità, farsi
carico del dramma dell’immigrazione, «superare il regime di austerity che forse avrà fatto
bene alla Germania ma non agli altri», «trovare una terza via tra irresponsabilità e
austerity». E proprio da quella tribuna punta l’indice su Atene. Il referendum indetto lo
ritiene un errore, «anzi un azzardo», ma va rispettato, come si diranno da lì a qualche ora
con la Merkel. Guai a fare campagna per il sì come qualcuno (leggi Juncker) si è
sbilanciato a fare. Sarebbe «un regalo a Syriza». E poi rincara, al fianco della Cancelliera:
«Non possiamo fare la guerra all’evasione e poi non far pagare le tasse agli armatori greci,
non possiamo tagliare le baby pensioni in Italia, come abbiamo fatto, per mantenerle ad
Atene: le regole in una comunità vanno rispettate, da parte di tutti».
Da Roma Massimo D’Alema puntualizza: «Dice bene Renzi, ora basta austerità o il malato
muore. Ma i soldi che l’Ue ha dato alla Grecia, 220 miliardi, sono stati destinati non a
pagare le pensioni dei greci ma le banche tedesche e francesi». L’assemblea dei deputati
pd svolta nel pomeriggio è un catino in ebollizione, si schiera per la trattativa coi greci e
Alfredo D’Attorre attacca il governo per la linea dura. Lontano da lì, Frau Merkel nella
conferenza stampa con Renzi («Mi spiace, qui non ho il David alle spalle come nell’ultimo
vertice a Firenze, solo una parete blu» ha scherzato) mette l’Italia in contrapposizione al
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fanalino di coda greco: «La Grecia faccia le riforme come le ha fatte l’Italia, il vostro
programma è importante, impressionante, come il jobs act. Le prospettive per la crescita in
Italia sono buone e la direzione è giusta». Musica per le orecchie del premier che parla di
«Italia ripartita », addirittura che «corre » con l’obiettivo di «superare la Germania».
All’università di Berlino Renzi incassa encomi e grandi aperture di credito, applaudito dagli
studenti quando parla di una «Europa che per come è stata pensata finora ha fallito».
Accanto alla Merkel più tardi riconoscerà: «Io e Angela non abbiamo le stesse idee su
tutto, ma è la democrazia bellezza». Prima di raggiungerla in Cancelleria aveva fatto un
blitz all’azienda Chemie Berlin Menarini, alla periferia di Berlino, esempio di alleanza italotedesca (con radici fiorentine), alla faccia dei «tanti gufi italiani». A Roma, a sorpresa
anche Berlusconi prende le distanze da alcuni dei sui (da Brunetta alla Santanché) e
attacca Tsipras, espressione della «sinistra peggiore, un mix di ideologia e di demagogia
anticapitalista dagli effetti disastrosi». L’Europa, scrive l’ex premier in una lettera al
Giornale, tuttavia «non può permettersi di perdere la Grecia».
Del 2/07/2015, pag. 3
Grecia: danni collaterali per l’intesa ParigiBerlino
Aspettando il referendum. Hollande a favore di un accordo prima di
domenica. Merkel rifiuta e trascina la Commissione. Juncker: ho dato
ordine che nessun commissario parli con la Grecia. I falchi puntano alla
vittoria del "si'" per far fuori Tsipras. Tredicesimo Eurogruppo inutile.
L'Fmi deciderà la prossima settimana sulla domanda greca di proroga
del pagamento, per evitare il default.
Anna Maria Merlo
Danni collaterali allo stallo in cui si dibatte la tragedia greca in queste ore: è saltato
l’accordo di facciata tra Francia e Germania. Angela Merkel ha chiuso il dialogo con Atene,
nessun negoziato “prima del referendum”. Mentre François Hollande, ancora poco prima
della solenne e dura dichiarazione di Alexis Tsipras che ha ribadito il “no” al referendum,
ha chiesto “un accordo subito, non si puo’ aspettare domenica”. La Germania ha trascinato con sé la Commissione. L’ambiguo Juncker, a fine pomeriggio, ha chiuso la porta:
“ho dato mandato perché nessun commissario parli con la Grecia”. Juncker, dopo le tensioni dei giorni scorsi, ha cosi’ ritrovato l’intesa con Donald Tusk, presidente del Consiglio
Ue, che ha dichiarato: “l’Europa vuole aiutare la Grecia, ma non si puo’ aiutare nessuno
contro la sua volontà”.
Ieri pomeriggio si è tenuto il 13esimo Eurogruppo sulla Grecia, sicuramente l’ultimo prima
del referendum. Il presidente Jeroen Dijsselbloem ha anch’egli chiuso il dialogo con Tsipras: “con questo ultimo discorso, ci sono poche possibilità di progresso”, anche se Tsipras aveva inviato una lettera all’Eurogruppo dove si è detto “assolutamente determinato
a rimborsare il debito estero, in un modo che assicuri la viabilità dell’economia, la crescita
e la coesione sociale in Grecia”.
Il “là” delle reazioni è stato dato dalla Germania. Per Wolfang Schäuble, la Grecia “deve
chiarire le sue posizioni”. Il ministro delle finanze tedesco pensa che le ultime proposte
greche “non sono una base per discutere misure serie”. Del resto, Schäuble fa finta di non
aver capito “cosa vuole veramente” la Grecia. I francesi sembravano averlo capito. Hol11
lande ha tentato di tenere aperto il dialogo. Il ministro Michel Sapin rinuncia ad accompagnare Hollande nel breve viaggio in Africa dei prossimi giorni e resta a Parigi. Anche il
primo ministro Manuel Valls si è espresso a favore di un “accordo subito”. Invano. Merkel
ha deciso: “aspettiamo con calma i risultati del referendum”, e rifiuta “un compromesso
a qualunque prezzo”. Per la cancelliera la Grecia non rimette in causa “l’avvenire
dell’Europa”, perché “l’Europa è forte grazie alle riforme degli ultimi anni”. La Germania
ribadisce la posizione sull’euro, che tiene perché tutti rispettano le regole: “non si tratta di
400 milioni o di 2 miliardi, si tratta dell’Unione come comunità di destini, si tratta di comunità di diritto e di responsabilità”. Le cifre della divergenza tra le ultime proposte di Tsipras,
nelle due lettere inviate a Bruxelles – una nella serata di martedi’, l’altra ieri mattina – e le
posizioni dei creditori sembrano in realtà molto più vicine: Juncker ha addirittura citato la
cifra di “60 milioni”, ma solo per puntare il dito contro “la mancata volontà di chiudere” del
governo Tsipras. Ieri, ha regnato un clima di confusione, ma quello che emerge è la
volontà tedesca di puntare alla vittoria del “si’” per far fuori il governo Tsipras e trovare
interlocutori più malleabili ad Atene. E’ anche la posizione dell’Spd: Sigmar Gabriel è stato
ancora più duro contro la Grecia nell’intervento al Bundestag che ha seguito quello di Merkel: “due programmi di aiuti alla Grecia sono falliti – ha detto – abbiamo sottovalutato i problemi strutturali, il clientelismo, la corruzione un sistema politico che blocca”. Non tutti i cittadini europei ci stanno: oggi a Parigi, alla Bastiglia, ci sarà una manifestazione di sostegno alla Grecia. Il Consiglio d’Europa ha giudicato ieri che il referendum greco “non è conforme agli standard europei”, perché la domanda è stata formulata tardi, troppo a ridosso
del voto (ci sarebbero volute almeno due settimane), il quesito è troppo complesso e non
c’è tempo per nominare degli osservatori. Il governo greco ha risposto che la domanda
è chiara e che si riferisce a due testi dei creditori del 25 giugno (il parere del Consiglio
d’Europa, organismo nato nel ’48 che raggruppa 47 paesi, è solo consultivo).
L’Fmi, che non ha ricevuto il rimborso di 1,57 miliardi entro la scadenza del 30 giugno, ha
fatto sapere ieri che la prossima settimane si esprimerà sulla domanda di proroga del
pagamento fatta da Atene, che potrebbe evitare il default. Il portavoce, Gerry Rice, ha
comunque precisato che “la Grecia non potrà più avere finanziamenti fino a quando non
paga”. Finiti anche i finanziamenti della Ue, 16 miliardi congelati per la fine del secondo
piano di aiuti. Tsipras ha chiesto indirettamente un terzo piano. Ma tutti aspettano lunedi’,
per soppesare i rapporti di forza.
Del 2/07/2015, pag. 4
Tutte le menzogne della Troika
Creditori. Dai documenti segreti di Fmi, Bce e Commissione europea,
emerge la consapevolezza del bisogno di una massiccia ristrutturazione
del debito greco se il paese vuole avere una qualche chance di
risollevare la propria economia, come hanno ribadito di recente
economisti di rilievo come Piketty, Krugman, Stiglitz, Kaldor e molti
altri.
Se la Grecia dovesse piegarsi alle richieste delle istituzioni e accettare di implementare il
pacchetto di «riforme» preteso dai creditori — un mix di aumenti delle tasse e drastici tagli
alla spesa pubblica — il suo rapporto debito/Pil non si stabilizzerà, ma al contrario continuerà a mostrare evidenti caratteri di insostenibilità anche nel 2030.
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Non è una stima del governo greco ma della stessa troika. È quanto emerge da una serie
di documenti segreti redatti da Fmi, Bce e Commissione europea e venuti in possesso
della Süddeutsche Zeitung e del Guardian.
I documenti – allegati alla proposta «finale» presentata alla Grecia venerdì scorso —
dimostrano che, anche a fronte di quindici anni di crescita economica sostenuta — una
stima che già di per sé appare irrealistica, il paese ellenico continuerà a registrare un rapporto debito/Pil pari al 118%, superiore dunque alla soglia del 110% che nel 2012 lo
stesso Fmi aveva stabilito come «tetto massimo» per garantire la sostenibilità del debito
greco. Anche in base allo scenario più ottimistico — che prevede una crescita annua assolutamente improbabile del 4% per i prossimi cinque anni — il debito scenderà dal 175% di
oggi al 124% solo nel 2022. In altre parole, dai documenti emerge che la troika è perfettamente consapevole che la Grecia ha bisogno di una massiccia ristrutturazione del debito
se vuole avere una qualche chance di risollevare la propria economia, come hanno ribadito di recente economisti di rilievo come Piketty, Krugman, Stiglitz, Kaldor e molti altri.
Nei documenti si fa un esplicito riferimento al fatto che il paese avrà bisogno di «concessioni significative» per essere in grado di rispettare i suoi obblighi finanziari. È significativo,
però, che in nessuno degli scenari previsti dalla troika la Grecia sarà in grado di portare il
proprio livello di debito «ampiamente al di sotto del 110% entro il 2022» – l’obiettivo fissato
dall’Eurogruppo nel 2012.
Come si legge in uno dei documenti: «È evidente che gli slittamenti politici e le incertezze
degli ultimi mesi hanno reso impossibile il raggiungimento del target stabilito nel 2012».
Nonostante questo, però, la proposta dei creditori non contiene alcuna misura concreta
per garantire la solvibilità del debito greco (ad eccezione di un’«analisi della sostenibilità
del debito» rinviata a data futura), mentre è stata rispedita al mittente, per l’ennesima
volta, l’ultima contro-proposta greca, che prevedeva un accordo di due anni con il Mes
(Meccanismo europeo di stabilità, il fondo salva-Stati impiegato per Cipro e per la ristrutturazione delle banche spagnole) per coprire le necessità finanziarie elleniche e ristrutturare
il debito. I documenti resi pubblici dai due quotidiani gettano anche luce sul «generoso»
pacchetto di investimenti da 35 miliardi di euro contenuto nella proposta dei creditori, che il
governo ellenico, secondo le dichiarazioni stizzite di varie cancellerie europee, avrebbe
ingratamente rifiutato: dalle carte, infatti, emerge che la somma non rappresenta un investimento ad hoc destinato alla Grecia ma piuttosto una normale sovvenzione europea
a cui hanno diritto tutti gli Stati membri (che tra l’altro richiederebbe un cofinanziamento
del 15% che il governo greco non può assolutamente permettersi; la Grecia vanta già 38
miliardi di prestiti europei non spesi proprio per questo motivo).
Un altro documento rivela come la Grecia, nella proposta dei creditori, avrebbe ricevuto 15
miliardi di euro – in cinque tranche a partire da giugno – per coprire le proprie esigenze di
finanziamento da qui a novembre. Il 93% dei fondi, però, sarebbe servito unicamente
a rimborsare i debiti in scadenza in quell’arco di tempo. Come è noto, l’ultima proposta dei
creditori prevedeva, tra le altre cose, anche l’eliminazione della tassa sui ricchi proposta
da Tsipras per redistribuire un po’ del peso dell’aggiustamento sulle classi più abbienti –
giudicata «recessiva» dalla troika — un saldo primario crescente negli anni sino al 3,5%;
un aumento generalizzato dell’Iva al 23%; e il tetto dell’età pensionabile a 67 anni entro il
2025 e non il 2037 come richiesto dalla Grecia, accompagnato da un’ulteriore riduzione
del livello delle pensioni. Una proposta giudicata inaccettabile dal governo greco, per il
semplice fatto che avrebbe decretato la morte politica di Tsipras — probabilmente uno
degli obiettivi dei creditori — nonché la continuazione dell’agonia economica e sociale in
cui versa il paese. Come scrive Euclid Tsakalotos, capo negoziatore della Grecia, in un
documento che sarà pubblicato in esclusiva nell’inserto di Sbilanciamoci! di venerdì: «Le
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proposte dei creditori non avrebbero risolto né la crisi greca, né la minaccia di Grexit ma
avrebbero semplicemente acuito la prima e posticipato la seconda.
In questo senso, il referendum non intende sostituirsi al processo negoziale ma piuttosto
contribuire ad una sua risoluzione positiva, inducendo i creditori ad una maggiore
flessibilità».
del 02/07/15, pag. 4
La farmacia che cura gratis
le ferite della grande crisi
Fondata da un pensionato, non accetta soldi né ricompense “La
recessione è una tragedia: fare qualcosa era un dovere”
Quando è arrivato a bussare alla porta della farmacia sociale di via Elispondou, il signor
Manesis non si reggeva sulle gambe. «Posso avere un po’ d’acqua?», è la prima cosa che
ha domandato. Era tutto sudato e tremava, anche per la rabbia. «Sto dimagrendo ogni
giorno - ha detto - ho perso quattro chili e mezzo nell’ultimo mese. Camminare mi affatica.
Anche pochi passi. Sono andato all’ospedale Sotiria, i dottori sembravano piuttosto
preoccupati. Mi hanno detto che servono esami costosi, ma non possono farmeli. Dovrei
andare in una clinica privata, per poi tornare con i referti. Dove li trovo questi soldi?».
Dall’altra parte della scrivania c’era e c’è ancora - anche oggi, come tutti i giorni - il
marconista in pensione Dimitris Souliotis, 79 anni, «un comunista», come ama definirsi. È
lui che avuto l’idea di aprire un posto così, a dieci minuti dal centro di Atene. Era il 12
ottobre del 2012. «Avevo fiutato nell’aria quello che stava portando la crisi. Anzi, ci tengo a
precisare, voi la chiamate crisi, io la chiamo Tragedia. Ci siamo ritrovati a parlarne con un
po’ di cittadini di questo quartiere, Vironas. E abbiamo deciso di fare qualcosa. Io credo
che sia un nostro dovere».
Sulla porta c’è scritto «Farmacia Sociale». E poi il motto: «Uno per tutti, tutti per uno». Due
stanze spoglie al pian terreno. Oggi non funziona l’elettricità. C’è una torcia a pile sulla
scrivania già accesa, per guardare bene sugli scaffali, dove i medicinali sono in ordine
alfabetico. «La cosa che mi ha colpito di più è stata la grande disponibilità dei medici spiega Souliotis - hanno aderito 294 dottori di tutte le specializzazioni. Offrono il loro
servizio gratis. Tutto è gratis, qui. Anche i medicinali: arrivano da cittadini e farmacie. Non
siamo una Ong. Non siamo in nessun programma europeo. Non accettiamo denaro e non
permettiamo ricompense. Siamo un’alleanza».
Niente sussidio
Dal giorno dell’inaugurazione, sono già passate 8732 persone. Oggi 29 clienti, che hanno
ritirato 113 confezioni di medicinali. Farmaci per il diabete. Per la pressione alta. Per il
colesterolo e per il cuore. Anche aspirine per l’influenza. «Arrivano disoccupati. Genitori
con bambini handicappati. Persone che avrebbero diritto a un sussidio, ma non lo ricevano
da mesi. È qui che vedi la Tragedia. Sono 3 milioni i greci senza assicurazione sanitaria,
senza libretto. Senza accesso alle cure. Abbiamo avuto il caso di una ragazza incinta che
non riusciva a farsi ricoverare, mentre ormai aveva le doglie. E poi, la disoccupazione. Ieri
si è presentata una famiglia, due genitori anziani e tre figli grandi: non lavorava neanche
uno di loro».
Gli anni in esilio
Dimitris Soulioti ha girato il mondo parlando alla radio su grandi navi mercantili. È stata in
esilio politico ad Amburgo dal 1967 al 1974, in quanto comunista, durante la dittatura dei
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colonnelli. Le sue idee non sono cambiate molto da allora: «Sono felice di questo
referendum. Se non ci ribelliamo alla dittatura delle banche, della finanza, della
competizione esasperata, non ci sarà speranza. Un Paese come il nostro, ma anche
l’Italia, la Spagna e persino la Francia, non decide più nulla. Altroché popolo sovrano. Noi
siamo i primi ad aver rimesso al centro la gente, la democrazia».
Arriva una signora con un sacchetto di verdura, si giustifica. «Sono solo venuta solo a
capire come funziona questa farmacia. Mio marito ha la bronchite da tre mesi, non si
cura». Souliotis, assieme ad altri 30 volontari del quartiere, cerca risposte per tutti.
«Mandiamo i clienti dai nostri dottori. Molti ammalati tornano con prescrizioni per
psicofarmaci e antidepressivi. Anche questo è un effetto della tragedia». Bussano mamme
sfrattate. Padri divorziati. Eroinomani, perché l’eroina in Grecia è tornata tragicamente di
attualità.
Le campagne pubbliche
E il signor Manesis, cosa è successo al signor Manesis, che era dimagrito 4 chili e mezzo
in un mese? «Abbiamo fatto pressione sull’ospedale, minacciando articoli di giornale,
lettere ai politici. Spesso serviamo anche a questo: a restituire alle persone quello che
dovrebbero avere per diritto. Alla fine hanno accettato di ricoverarlo. Gli hanno trovato un
cancro molto brutto ai polmoni. Ecco perché era così smagrito e pallido, povero signor
Manesis. Purtroppo le tragedie hanno questo: non finiscono bene».
Del 2/07/2015, pag. 1-8
Isis. Attacco in massa nel Sinai, decine di
soldati uccisi
Egitto. I jihadisti del gruppo Ansar Bayt al Makdes, affiliato allo Stato Islamico,
hanno lanciato ieri un'ondata di attacchi simultanei senza precedenti per ampiezza e
potenza. E' stato un bagno di sangue. Le forze di sicurezza egiziane uccidono al
Cairo nove presunti militanti dei Fratelli Musulmani
Michele Giorgio
Si combatteva ancora ieri sera nel nord del Sinai, dentro e intorno la cittadina di Sheikh
Zweid, lungo le strade per el Arish e si registravano forti esplosioni nella zona di Rafah,
a ridosso della Striscia di Gaza. I jihadisti del gruppo Ansar Bayt al Makdes, affiliato allo
Stato islamico, hanno lanciato un’ondata di attacchi simultanei senza precedenti per
ampiezza e potenza. E’ stato un bagno di sangue, decine di morti e feriti. Più di tutto
è stata una pesante dimostrazione di forza alla vigilia del secondo anniversario del colpo
di stato militare contro il presidente islamista Mohammed Morsi e all’indomani
dell’attentato al Cairo in cui ha perso la vita il procuratore generale Hisham Barakat.
Eppure non contro i jihadisti ma i Fratelli Musulmani è calata ancora una volta la scure del
regime del presidente Abdel Fattah al Sisi. Nove egiziani, presunti “terroristi” e militanti
della Fratellanza, sono stati uccisi ieri in un blitz delle forze speciali della polizia nel
distretto del “6 Ottobre”. Tra le vittime figura anche un ex deputato, Nasser el Hafi.
Secondo un portavoce, gli agenti avrebbero risposto al fuoco dei “sospetti” individuati in
alcuni edifici. Ma le circostanze di questo ennesimo bagno di sangue al Cairo sono avvolte
nel mistero. I “Leoni del Califfato”, in linea con la nota strategia da combattimento delle
milizie dello Stato islamico, hanno usato un kamikaze a bordo di un veicolo imbottito di
esplosivo per infliggere un primo decisivo e devastante colpo agli avversari. Poi sono scattati gli altri attacchi, in contemporanea e in diversi punti del nord del Sinai, con missili, mor15
tai e armi anticarro contro una quindicina di posti di blocco e postazioni dell’esercito. Colti
di sorpresa per molti soldati egiziani la morte è stata istantanea. Quindi è partito l’attacco
al commissariato di polizia di Sheikh Zweid, dove i miliziani di Ansar Bayt al Makdes
hanno issato per qualche ora le bandiere nere del Califfato e fatto prigionieri alcuni agenti
e militari, prima di essere costretti ad arretrare (ma ieri sera qualche fonte sosteneva che
l’edificio era ancora nelle mani dei jihadisti, assieme ad alcune zone di Sheikh Zweid).
I combattimenti sono stati intesi e l’esercito ha cominciato a riprendere il controllo del terreno perduto solo grazie ai bombardamenti aerei, di F-16 e elicotteri, sulle postazioni degli
affiliati all’Isis. Oltre 70 soldati e civili sarebbero rimasti uccisi, secondo un bilancio fornito
da fonti mediche locali. Le autorità del Cairo parlano invece di una cinquantina di morti tra
soldati e civili e di decine di miliziani uccisi. «L’Egitto è in stato di guerra», ha affermato
a gran voce il premier Ibrahim Mahlab annunciando l’adozione di nuove misure anti terrorismo. Misure che poco dopo sono state approvate dal governo e che attendono ora solo la
firma di al Sisi per diventare un decreto. L’agenzia di stato Mena non ha fornito particolari
sulla nuova legislazione ma dalle notizie filtrate dal Cairo, le procure avranno più poteri
mentre le forze di sicurezza potranno estendere le detenzioni di sospetti, senza
l’assistenza degli avvocati, per periodi ancora più lunghi rispetto agli attuali. Si apre la
strada ad una nuova stretta sui diritti umani e politici destinata a colpire più dissidenti ed
oppositori, laici e islamisti, che i responsabili veri degli attacchi armati. Comunque sia,
l’attentato al Cairo di due giorni fa contro il procuratore Barakat e l’offensiva di ieri dell’Isis
a Sheikh Zweid dimostrano la fragilità del regime di al Sisi che ha fatto della guerra ai Fratelli Musulmani e ai jihadisti nel Sinai i punti principali della sua azione. L’Egitto ora si trova
stretto a Ovest (Libia) e a Est (Sinai) tra migliaia di sostenitori armati dello Stato islamico.
I “Leoni del Califfato” ora bussano anche alla porta di Gaza e di Israele. In un video diffuso
due giorni fa, lo Stato Islamico dichiara guerra al movimento islamico palestinese Hamas,
che considera debole e incapace di imporre la legge islamica (sharia). «Trasformeremo la
Striscia in un altro feudo del Califfato per strappare l’enclave (Gaza) ad un gruppo che non
impone la religione ai civili…Estirperemo lo Stato degli ebrei e voi, tiranni di Hamas,
e Fatah, tutti i laici sono nulla e calpesteremo le vostre moltitudini striscianti…La legge
della Sharia sarà attuata a Gaza, nonostante voi. Giuriamo che quello che sta avvenendo
nel Levante oggi e in particolare a Yarmouk avverrà anche a Gaza», proclama nel video
un jihadista con il volto mascherato. Il controllo di Hamas resta forte a Gaza ed appare
inverosimile che i gruppetti salafiti palestinesi che si dicono membri del Battaglione Sheikh
Omar Hadid e parte dell’Isis, possano metterlo in seria difficoltà. Tuttavia negli ultimi mesi
la tensione tra le due parti è aumentata. Il braccio armato di Hamas ha inferto diversi colpi
ai sostenitori dello Stato Islamico che da parte loro reagiscono lanciando razzi contro il sud
di Israele allo scopo di innescare le reazioni del governo Netanyahu contro Gaza
e Hamas. Israele da parte sua ieri ha chiuso i valici meridionali ed espresso solidarietà
all’alleato al Sisi.
Del 2/07/2015, pag, 16
Padre,madre e sorella:la famiglia di Lady
Jihad pronta a unirsi all’Is
Milano, i parenti della combattente italiana in Siria fermati mentre
stavano per partire e raggiungerla
MILANO
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Maria Giulia, rinata come Fatima Zahra dopo la conversione, voleva combatere per l’Is in
Siria. Per partire, secondo la sharia, aveva bisogno di un marito. Per questo ha sposato
l’albanese Aldo Kobuzi, 27 anni come lei, pronto all’addestramento come mujahed. Dal
matrimonio celebrato il 17 settembre 2014 — “martese”, in lingua albanese — prende il
nome l’inchiesta della procura di Milano che ha portato il gip Ambrogio Moccia a emettere
dieci ordinanze di custodia in carcere. Oltre ai due giovani, il provvedimento colpisce i loro
familiari, «attivi nell’organizzazione della partenza» di Aldo e Fatima. E che a loro volta
erano pronti «al martirio in guerra», come si legge nelle 42 pagine dell’ordinanza. «Qui
stiamo ammazzando i miscredenti per allargare lo Stato islamico», scriveva Fatima a
Marianna, per convincerla a partire. Cinque arresti sono stati eseguiti ieri fra Lombardia,
Toscana e Albania. Cinque indagati, fra cui Fatima e Aldo sono latitanti, in guerra contro
gli infedeli. Sono accusati di associazione con finalità di terrorismo e organizzazione del
viaggio per finalità di terrorismo. Cinque italiani, quattro albanesi e una canadese di origini
libanesi, nata a Bologna. È lei, la 30enne Haik Bushra, la figura cardine, La reclutatrice 2.0
che indottrinava le sorelle Sergio via Skype in un gruppo chiamato “Aqidah e Tafsir”, in cui
incitava alla jihad citando un dossier di 60 pagine sullo Stato islamico attribuito a Haili El
Mahdi, indagato nel 2013 a Brescia. E predicava «la pena del contrappasso » che
consente «anche di bruciare una persona ». L’inchiesta ha ricostruito come nel settembre
2014 Fatima sia stata affidata a una rete di reclutamento con base in Turchia, coordinata
dalla struttura centrale dell’Is. Nelle carte compaiono i nomi di Ahmed Abu Aiharith,
organizzatore dei foreign fighters, del libico Bassiouni Abdallah, coordinatore dei
combattenti in arrivo dalla Libia, e di Abu Sawarin, responsabile dei “francesi” dell’Is. Tutto
secondo l’insegnamento di al Bagdadi, per cui chi non può partire per la Siria deve
«uccidere i miscredenti nel suo paese». Al termine dell’addestramento, Fatima si dice «in
grado di usare kalashnikov e pistola». Si vanta del marito, che ha partecipato «alla
lapidazione di un adultero». E racconta eccitata di due kosovari decapitati. Secondo il gip,
lei stessa sarebbe «disponibile al martirio». Era un meccanismo efficiente ai limiti della
paranoia, quello del reclutamento, che gli investigatori hanno scardinato. Una rete di
telefoni cellulari (vecchi modelli, mai smartphone) in uso a più persone, in Tur- chia come
in Siria, a cui si rispondeva in italiano, francese, inglese, spagnolo. Ed è intercettando
alcune chat online che gli investigatori sono arrivati a eseguire le ordinanze, nello stesso
giorno in cui il Ros ha smantellato una cellula qaedista, dopo un’indagine della Procura di
Roma. Sergio Sergio, mamma Assunta Buonfiglio e la sorella Marianna sono stati arrestati
a Inzago, in provincia di Milano, dove vivevano. La 41enne Arta Kacabuni a Scansano, nel
Grossetano, e Baki Coku, di 37 anni, a Lushnje, 70 chilometri a sud di Tirana. Oltre ad
Aldo, Fatima e Haik, sono latitanti la 44enne Donika Coku e la 19enne Serjola Kobuzi. Le
indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, hanno ricostruito il
percorso verso il martirio di Fatima e Aldo. Cinque giorni dopo il matrimonio, il 21
settembre, si imbarcano a Fiumicino per Istanbul. Una coppia in viaggio di nozze. Il 22
prendono un volo interno per Gaziantep, da dove il 2 ottobre raggiungono via terra la Siria.
A novembre Kobuzi inizia l’addestramento in Iraq: dopo sei settimane è mujahed e
combatte. A febbraio anche Fatima si addestra con le armi. A marzo la famiglia Sergio
decide di raggiungerla: in aprile il padre si licenzia, la partenza è fissata per settembre. Ma
arriva prima la digos. «Oggi è una giornata importante » , esulta il ministro dell’Interno,
Angelino Alfano. Romanelli precisa che «non sono emersi elementi che fanno pensare ad
attentati in Italia»
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del 02/07/15, pag. 11
Così il colonnello del Califfo reclutava i
combattenti in Italia
Gli ordini di Abu Alharith agli aspiranti soldati: «I telefonini sono vietati»
MILANO Il coordinatore dei combattenti «stranieri» che bramano di unirsi al Califfato
fornisce istruzioni scrupolose. Comprensive di marche e modelli: «Non portare con te
computer, laptop e telefonini intelligenti, come iPhone o Samsung Galaxy».
L’aspirante mujaheddin ha ancora qualche dubbio prima del viaggio: «Fratello, non ho
capito, non dobbiamo partire con i telefonini?». Il colonnello del Califfo, Ahmed Abu
Alharith, dalla Siria non perde la pazienza: «Puoi venderli in Libano, compra un piccolo
telefonino, come il Nokia, solo per fare telefonate e per contattarmi quando arrivi in
Turchia. L’altro tipo di telefoni è vietato all’interno dello Stato».
L’intercettazione del 4 gennaio scorso restituisce in diretta la forza dell’organizzazione che
da tempo invita e accoglie circa mille foreign fighters al mese nei ranghi dell’Isis. I poliziotti
dell’antiterrorismo della Digos di Milano, guidati per oltre un decennio dal dirigente Bruno
Megale, sono una delle squadre investigative più esperte e qualificate d’Europa. Ma non
s’aspettavano, seguendo le tracce della convertita Maria Giulia Sergio, di ritrovarsi ad
ascoltare la voce di uno dei massimi dirigenti dello Stato Islamico: il suo reclutatore.
Gli smartphone sono facilmente localizzabili dagli investigatori. Dunque, un pericolo. Da
qui, l’obbligo: prima dell’arruolamento, vanno abbandonati. Oltre che una necessità
operativa, la dismissione della più moderna tecnologia diventa gesto simbolico: uomini e
donne che entrano nella prospettiva del martirio.
Il telefonino di Abu Alharith agganciato dalla polizia è uno snodo, porta dritti dentro la
quotidianità del centro di smistamento. La sua utenza turca è in contatto con 22 numeri di
Afghanistan, Algeria, Bosnia, Marocco, Arabia Saudita, Georgia, Libia, Libano, Francia,
Oman, Svezia, Iraq, Svizzera e San Marino. A quel cellulare fanno riferimento il
coordinatore dei combattenti dalla Libia alla Siria e il responsabile dei «francesi» per l’Isis.
Le richieste di arruolamento si accalcano. Flusso continuo. La lingua araba non è un
ostacolo. Intorno a quel cellulare c’è sempre qualcuno pronto a dare assistenza in diverse
lingue. Nessun combattente deve restare indietro. Sono state registrate conversazioni in
inglese, francese, russo, svedese. Solo scorrendo i tabulati di quel cellulare si può avere
un’idea della massa di mujaheddin pronti a partire da Europa, Medio Oriente e Maghreb
per sbarcare a Istanbul con un volo low cost . Quella della Digos di Milano è la prima
inchiesta che svela il meccanismo dall’interno.
Sostegno completo. Soldati volontari guidati come bambini. Direttive dopo l’arrivo in
Turchia: «Compra una scheda telefonica turca. Una Turkcell da un’ora. Poi vai alla
stazione dei bus, sei capace? Prendi un taxi e gli dici autogar , cioè il capolinea». Il
combattente si trova probabilmente in una città di confine Turchia-Siria. Ultimo
accorgimento per passare: «Fratello, prepara un foglio e una penna — conclude il
coordinatore — si tratta di due parole da ricordare. Richiamami». Bisogna partire solo con
una valigia, perché per tutto il resto provvederà il welfare dell’Isis grazie al ghanim’tum , il
bottino di guerra.
Passati in Siria, uomini e donne saranno inviati nei centri di smistamento o addestramento.
Una donna chiama da un cellulare spagnolo e chiede perché le compagne russe arrivate
dal Belgio siano passate dalla città di Gaziantep e lei invece no: «Trattano le sorelle in
base alle loro origini. Hai capito?». Il «corrispondente» libico viene maltrattato: «In Libia
c’è stato già il riconoscimento dello Stato Islamico, quindi non c’è più bisogno di inviare
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fratelli in Siria. Possono operare in Libia, e anche in Tunisia». La motivazione delle
partenze la sintetizza il gip di Milano, Ambrogio Moccia, quando spiega che dall’inchiesta
emerge «l’assoluta obbligatorietà della jihra (emigrazione) verso lo Stato Islamico e la
prospettiva della guerra e le gravissime conseguenze per chi, essendo in condizioni di
farlo, non la pratica».
Dalla «terra promessa», Maria Giulia Sergio racconta estasiata che «i mujaheddin
lasciano casa, soldi, figli e vengono qui, e vanno a combattere... Ragazzi di 15-16 anni
che ammazzano 50 miscredenti, Allah è grande, no?».
Viaggi che rappresentano anche un riscatto sociale. Gli infedeli vanno eliminati. O
comunque abbandonati. Come spiega rabbiosa Maria Giulia al padre, per spingerlo a
raggiungerla, dopo una vita da operaio in provincia di Milano: «Sono loro che devono
essere nostri schiavi, non più noi. È finito il tempo del musulmano che sta nella terra del
miscredente, quello era il tempo dell’ignoranza, adesso c’è il khalifa ».
Gianni Santucci
Del 2/07/2015, pag, 16
IL CASO /ARRESTATI DUE MAGHREBINI
Propaganda sul web in nome di Al Qaeda a
Roma i reclutatori
CARLO BONINI
ROMA. «Siamo venuti per sgozzarvi», scrivevano in uno delle migliaia di post quando l’Isis
ancora non aveva cominciato a brandire i suoi trofei di carne in alta definizione. E
aggiungevano: «Nazionalità: Maghreb islamico. Hobby: sport e sesso. Messaggio alla
Umma: alzatevi, scrollatevi il sonno di dosso. L’Islam è tornato. Noi non ci arrendiamo.
Vinciamo o moriamo». E non scherzavano. Perché, ammonivano, «la Jihad mediatica non
è un passatempo. È un’inespugnabile fortezza, una delle armi più importanti con cui
affrontare la campagna dei crociati». Ebbene, ora, per la prima volta in Italia, la Jihad della
parola, la propaganda del sangue, del reclutamento, dell’auto indottrinamento, della
celebrazione del martirio, conoscono uno svelamento dettagliato in un’inchiesta penale.
Che racconta la centralità della Rete e dei social media nella nuova dimensione
“molecolare” della minaccia islamista. “Jweb”, “Jihad e Rete”, per dirla con il gergo
dell’Antiterrorismo. Per quattro anni, la procura di Roma, i carabinieri del Ros, l’Aisi
(l’Intelligence interna), l’Fbi, i servizi segreti marocchini hanno ascoltato, compulsandone
ogni messaggio e sequenza video, uno degli snodi in Rete di Al Qaeda.
All’indirizzo www.i7ur.com, acronimo in lingua araba di “Ashak al-Hur”, gli Amanti delle
Vergini (ricompensa dovuta ai martiri di Allah), il cittadino tunisino Ahmed Masseoudi (da
ieri ricercato in patria), il marocchino residente a Roma Abderrahim El Khalafi (arrestato al
Pigneto dove aveva un banco di abiti usati), e il suo connazionale Mohammed Majene (ora
detenuto in Marocco) hanno lavorato come aggregatori di odio e sostegno logistico in Rete
ad Al Qaeda e alle sue diverse sigle. Nel tempo – si legge nelle 400 pagine di ordinanza –
con il contributo di almeno una dozzina di altri “fratelli” che ancora non hanno un nome,
ma solo dei nickname “geo-localizzati” in Africa e Medio Oriente, hanno celebrato il
massacro francese di Charlie Hebdo e ancor prima quello di Mohammed Merah (il
francese di origine algerina che, nel marzo 2012, uccise tre paracadutisti, un bambino, un
rabbino e i suoi figli) come «lodevole esempio di Jihad individuale». Hanno avviato al
fronte siriano decine di foreign fighters. Hanno salutato, rendendole onore, la fine violenta
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di un diciannovenne algerino, Khaled Amroune, prodotto dell’auto indottrinamento ricevuto
sul sito e andato a morire in Siria con Jabhat Al Nusra. E, inconsapevoli di essere
“monitorati”, hanno condiviso le notizie di un piano (per questo motivo sventato) che, nel
2012, avrebbe dovuto colpire il Parlamento marocchino e un festival della musica a Rabat.
«Tra il gennaio del 2011 e il febbraio del 2013 – scrive il gip Stefano Aprile – il forum
i7ur.com posta 236 documenti. 182 sono prodotti da Al Qaeda. 78 da organizzazioni
affiliate. 49 sono video di sigle alleate all’organizzazione». E nel meccanismo per cui ogni
membro del forum è a sua volta connesso a profili Facebook e Twitter, la capacità di
«penetrazione capillare» del messaggio jihadista si moltiplica raggiungendo migliaia di
“fratelli” fermi su quella linea di confine che, in Europa, piuttosto che nel Maghreb, separa
l’attesa dall’odio. Che li rende tutti potenzialmente “lupi solitari”. Come del resto sono
Ahmed Masseoudi e Abderrahim El Khalafi, gli architetti del forum. Ventinove anni il primo,
37 il secondo. Per un po’ insieme a Roma. Fino a quando Masseoudi non parte per la
Germania e da lì raggiunge la Tunisia con l’intenzione di rientrare presto in Europa.
Confidando nell’appoggio di quel Abderrahim che nessuno – nei quartieri Centocelle e
Pigneto dove vive e lavora – direbbe mai cultore dell’odio. Ma che, al contrario, mentre di
giorno sbarca il lunario mettendo in piedi prima un pizza-kebab, quindi un ortofrutta e
infine un banchetto di stracci, di notte è zelante custode della qualità del materiale con cui
alimentare il forum. Sia «l’audio-corso “la Fabbrica del Terrorismo”» di tale qaedista
Abdullah Adam, piuttosto che il video con copyright Al Qaeda “Incarica solo te stesso”,
breviario della nuova dottrina che dovrebbe trasformare ogni “fratello” nel terrorista della
porta accanto.
Del 2/07/2015, pag. 8
Amnesty condanna l’Egitto del golpista al
Sisi: «Repressi i movimenti giovanili»
Egitto. Sisi: «Pena capitale per morte procuratore»
Giuseppe Acconcia
Fino a che punto dovrà arrivare la trama stragista prima di fermare il sanguinario presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi? Oltre cento morti nel Sinai si sommano alle centinaia
di vittime che negli ultimi due anni hanno segnato la guerra tra esercito e jihadisti. E alla
morte eccellente dello scorso lunedì, nel gravissimo attentato di via Mostafa el Nahas ad
Heliopolis, del procuratore Hisham Barakat, uno degli artefici delle oltre mille condanne
a morte contro gli islamisti e degli ergastoli ai giovani dei movimenti.
«Eseguiremo le pene di morte», ha gridato al-Sisi alla fine dei funerali di Barakat riproponendo il volto vendicativo dello Stato come da due anni a questa parte. Ormai l’ex presidente Morsi o il murshid Badie potrebbero ad horas apparire appesi a una forca e allungare la lista dei leader della Fratellanza assassinati o condannati a morte da Sayd Qutb
a Hassan al-Banna, Ad ogni ondata di violenze corrisponde, come è ormai prassi consolidata, un inasprimento della repressione già a livelli senza precedenti nel paese. E così alSisi ha colto l’attimo per annunciare riforme per velocizzare la giustizia penale. Per il sanguinario ex ministro della Difesa non dovranno passare anni prima che i leader del principale partito di opposizione, messo fuori legge lo scorso anno, vengano impiccati. Secondo
lui, gli islamisti in carcere continuano ad ordinare stragi da dietro le sbarre.
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Il governo egiziano ha accusato proprio i Fratelli musulmani di essere responsabili
dell’attentato contro Barakat. Il movimento islamista ha negato responsabilità nell’agguato
che ha sventrato le vie adiacenti all’Accademia militare.
Per tempistiche e modalità anche questo attacco sembra rispondere alla logica della lotta
di potere all’interno dei Servizi segreti militari e civili dopo il colpo di stato di cui domani
ricorre il secondo anniversario. Strategia che viene confermata anche dall’attivazione
simultanea dei jihadisti del Sinai. Venti attivisti del gruppo jihadista Resistenza popolare,
affiliato al gruppo Beit al-Mekdisi, che spopola nel Sinai, e vicino allo Stato islamico, sono
stati arrestati ieri a Giza con l’accusa di aver preso parte all’attentato.
E così sono stati cancellati i festeggiamenti del 30 giugno, seconda ricorrenza della protesta, innescata dai militari per giustificare il golpe infiltrando di agenti il movimento Tamarrod (ribellione). Il ministro della Giustizia al-Zind ha anche cancellato le ferie per i giudici.
Proprio ieri Amnesty International ha pubblicato un report («Dalle piazze al carcere») in cui
denuncia la repressione dei movimenti giovanili in Egitto. Se i giovani sono stati additati
come il simbolo delle proteste del 2011, il loro impegno a favore di libertà e giustizia
sociale è finito dietro le sbarre. Secondo il think tank, restano in prigione oltre 40 mila attivisti nel paese, tra loro alcuni tra i più strenui difensori al mondo dei diritti umani, che subiscono processi irregolari. Amnesty cita gli attivisti Ahmed Maher e Mohamed Adel del
movimento fuori legge 6 aprile, il blogger Ahmed Douma, l’attivista socialista Alaa Abd El
Fattah, i difensori dei diritti umani Yara Sallam e Mahienour El-Massry. Insieme a loro, il
report ricorda il carcere duro a cui sono sottoposte le voci critiche contro il golpe dal cittadino irlandese Ibrahim Halawa, alle studentesse Abrar Al-Anany, Menatalla Moustafa
e l’insegnante Yousra Elkhateeb. Altri sono in carcere da lungo tempo senza accuse né
processi. Tra questi, viene citato lo studente Ahmed Hussein, arrestato mentre tornava
a casa dopo aver preso parte a una protesta, solo a causa dello slogan scritto sulla sua
maglietta. Solo ieri è stata diffusa la notizia del corrispondente de El Pais al Cairo, Ricard
Gonzalez (a cui va la nostra solidarietà), costretto a lasciare il paese per una minaccia di
arresto. Gravissimi sono stati i provvedimenti presi contro i giornalisti di Al-Jazeera
costretti a preferire l’espulsione a sette anni di carcere. Amnesty ha infine puntato il dito
contro la legge anti-proteste. Secondo il think tank, la reazione delle autorità egiziane
è stata sempre sproporzionata rispetto all’entità delle contestazioni che sono andate avanti
a bassa intensità dopo il golpe.
Del 2/07/2015, pag, 30
In diretta tv lo storico annuncio del presidente Barack Obama: “Dopo 54
anni ristabiliamo le relazioni con l’isola” Abbiamo seguito l’evento con i
cubani che festeggiano. Ma la strada da percorrere è ancora lunga
Tra le bandiere yankee a L’Avana
FEDERICO RAMPINI
«PIÙ di 54 anni fa, al culmine della guerra fredda, gli Stati Uniti chiusero l’ambasciata
all’Avana. Oggi annuncio che ristabiliamo le relazioni diplomatiche con Cuba, riapriamo le
rispettive ambasciate. E’ un passo storico, l’inizio di un nuovo capitolo coi nostri vicini delle
Americhe». Barack Obama sta parlando dal Rose Garden della Casa Bianca. Un coro di
approvazione, sollievo e gioia, si leva attorno a me; seguito da qualche fremito di
scetticismo e preoccupazione. La dichiarazione del presidente americano io la sto
seguendo in tempo reale all’Avana, con amici cubani, in una casa privata. Tutti i canali tv
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locali la stanno dando in diretta, da CubaVisiòn a TeleSur. Lo storico annuncio di Obama è
trasmesso integralmente, senza censura neppure quando invoca il rispetto dei diritti umani
nell’isola governata dai fratelli Castro. Segue nei notiziari tv la lettura dei comunicati
ufficiali dell’Avana, ben tre lettere: di Raul Castro a Obama, del governo rivoluzionario, e
delle forze armate: una sovrabbondanza che la dice lunga sulle stratificazioni del regime.
Le richieste principali: «Gli Usa risarciscano i danni dell’embargo. Stop alle trasmissioni
destabilizzanti via radio e tv. Restituiteci Guantanamo». La prima e la terza richiesta
appartengono alla propaganda più che ai reali contenuti dei negoziati bilaterali. Curiosa la
seconda, la richiesta di sospendere programmi «sediziosi» via etere, in un’isola a
mezz’ora di volo dalla Florida con i suoi 300 canali tv; in un paese dove tuttora vige la
censura e malgrado questa i miei amici cubani sono più aggiornati di me sulle ultime
puntate di “House of Cards”, la serie tv che almeno un’élite con accesso a Internet scarica
in videostreaming da Netflix. Questa giornata memorabile che passiamo incollati davanti al
televisore prosegue con dibattiti fra giornalisti ed esperti locali. Applaudono Obama.
Ricordano che molto resta da fare: sul fronte Usa, la levata dell’embargo che il presidente
auspica è in mano al Congresso. La posta in gioco è enorme, se vista dall’Avana, più
simbolica e politicamente scottante se vista da Washington. C’è l’embargo sul commercio
e sui servizi: non ci sono prodotti made in Usa nei supermercati (semivuoti, “sovietici”) e
qui non funziona il mio cellulare Usa. Sulle transazioni finanziarie: nessuna carta di credito
Usa è utilizzabile sull’isola. Sui voli: con l’esclusione dei cubani-americani che tornano a
visitare le famiglie, e poche categorie con autorizzazioni speciali, i turisti dagli Stati Uniti
sono costretti a voli di 10 ore con scali a Toronto, Cancùn, Panama, Bahamas. I talk show
della tv cubana fanno un’analisi realistica sulla situazione a Washington: ricordano che le
posizioni sull’embargo non riflettono gli schieramenti destra-sinistra. Ci sono repubblicani
legati alla lobby agricola del Midwest che premono per levare l’embargo e invadere l’isola
di esportazioni alimentari. Ma quanto resta da fare da parte del governo cubano, perché
diventino realtà le speranze suscitate da questa giornata eccezionale? “Bloqueo=
Genocidio”. In un paese magicamente libero da ogni pubblicità commerciale, l’unico
grande manifesto che mi ha accolto al mio arrivo, sulla strada dall’aeroporto in città,
raffigura la corda di un impiccato. E quello slogan che equipara il “bloqueo”, cioè
l’embargo, allo sterminio di un popolo. Un po’ eccessivo visto che i cubani, unici in
America latina, grazie alla qualità della propria sanità pubblica godono di una speranza di
vita eguale agli abitanti della Florida. Il manifesto sull’autostrada riflette il tentativo di
addebitare tutta la povertà all’imperialismo arrogante de- gli Yankee. La storia è più
complessa. “ Ascolta Yankee”: nel lontano 1960 con questo titolo in un pamphlet
magistrale il grande sociologo americano Wright Mills spiegava ai suoi connazionali gli
enormi errori che stavano facendo, con l’isolamento che spinse Fidel Castro nelle braccia
dell’Unione sovietica. Poi però gran parte delle sventure cubane hanno seguito i fallimenti
di tutti i sistemi socialisti. Via via che gli aiuti da Mosca (o più di recente dal Venezuela)
venivano meno, per la dissoluzione dell’Urss e la fine di Chavez, il bilancio del castrismo
diventava sempre più negativo. Nel giorno dell’annuncio di Obama, ho avuto diritto come
tutti gli abitanti del quartiere di Vedado a quattro ore di blackout elettrico. Una visita ai
supermercati consente di scegliere fra pochi prodotti di prima necessità. L’Avana Vieja, il
magnifico centro storico che è patrimonio dell’Unesco, casca a pezzi come i bassi di
Napoli ai tempi di Edoardo, subito dopo i bombardamenti della guerra. Ha il fascino della
decadenza, di un passato coloniale esuberante e lussureggiante, ma solo a chiazze si
sono avviate delle operazioni di restauro e recupero. Lo straniero rimane sedotto
dall’atmosfera retrò, dalle Cadillac anni Cinquanta, per i tre milioni di abitanti dell’Avana
questo disfacimento urbanistico è il riflesso della loro precarietà. Interi palazzi del barocco
spagnolo sono dei ruderi in attesa di crollare, sovrappopolati da famiglie numerose in
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coabitazione plurima. Basta un uragano perché altri splendori ottocenteschi crollino per
sempre.
Lo scetticismo con cui i miei amici cubani – capirete che non ne faccia i nomi – hanno
accolto l’annuncio di Obama, riguarda la transizione verso un sistema economico più
efficiente. “Modello Cina, modello Vietnam”: tutti ripetono questo slogan che incarna una
speranza. Comunismo capitalista, partito unico ed economia di mercato. Avendo vissuto a
lungo in Cina, mi sembra azzardato il paragone. La Cina ebbe una fiorente economia
mercantile prima del suo declino nell’Ottocento; era più ricca dell’Europa cinque secoli fa.
Cuba come tutti i Caraibi e l’America latina ha conosciuto la modernizzazione insieme con
la rapina coloniale e lo schiavismo, i latifondi e l’oppressione straniera.
«Quando chiudemmo l’ambasciata nel 1961 nessuno pensava che sarebbe passato più di
mezzo secolo per riaprirla. Dopotutto siamo solo a 90 miglia. L’embargo non ha
funzionato». Tocca a Obama voltare pagina rispetto agli errori di un altro giovane
presidente democratico, John Kennedy. Progressista su altre questioni, non certo nelle
scelte dissennate che fece sull’America latina. Nelle parole di Obama c’è il riconoscimento
di una lunga catena di errori, seguito da una promessa. E anche una sorta di minaccioso
interrogativo: cosa accadrà di quest’isola di 11 milioni, se torna in forze il capitalismo
Yankee? Per una curiosa coincidenza, lo stesso giorno in cui Washington annuncia lo
scambio di ambasciatori, l’Organizzazione mondiale della sanità offre a Cuba un
riconoscimento notevole: nomina quest’isola come la prima nazione al mondo che ha
«sradicato completamente il contagio in gravidanza madre-figlio sia per l’Aids che per la
sifilide»; l’Oms indica L’Avana come «un modello per i sistemi pubblici sanitari nel resto
del mondo». Questa non è propaganda di regime. E’ una notizia che serve a capire perché
il “salsa-socialismo” di Fidel ha continuato ad avere ammiratori nel mondo intero,
soprattutto in America latina. I medici cubani “prestati all’estero”, ricercatissimi per la loro
competenza, con le loro rimesse sono la terza fonte di entrate per L’Avana. Gli
investimenti nell’istruzione e nella sanità rimangono un fiore all’occhiello. Anche questi,
però, sono risultati di un modello che vacilla, e potrebbe non sopravvivere al suo ingresso
tardivo nella globalizzazione made in Usa.
Del 2/07/2015, pag, 31
MEZZO SECOLO DI STENTI MA ALLA FINE
VINCE FIDEL
NORBERTO FUENTES
UNA volta Fidel Castro disse che la sua più grande preoccupazione, in caso di guerra
contro gli Stati Uniti, era che i cubani la vincessero. Ora tutto sembra indicare che quel
giorno è arrivato, anche se forse non nella forma che lui poteva prevedere, con i suoi
barbudos che marciavano su Washington a bordo dei loro carri armati T-62, e costretti a
farsi carico immediatamente degli affari della General Motors e della AT&T.
È certo che i cubani hanno messo abbastanza morti nella contesa, e che la proporzione è
minima in rapporto alle perdite di cittadini americani causate dai cubani. C’è da dire che
non c’era americano che venisse catturato (a Cuba o in Angola) che Fidel non mandasse
a giustiziare. In tutto non devono essere più di dieci. Il resto delle loro truppe sono sempre
state la carne da cannone messa a disposizione dalla controrivoluzione annidata a Miami.
Ma è stata soprattutto una guerra combattuta sul terreno della retorica, e in questo senso
dobbiamo a Fidel Castro due cose: la sua abilità di non arrivare mai a uno scontro militare
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diretto («Fidel ha la capacità geniale di avanzare di concerto con il nemico», diceva il Che
Guevara a quelli più intimi), e il fatto che in quelle battaglie di discorsi e propaganda è
sempre riuscito a spuntarla, e a loro volta gli fornivano l’indispensabile ossigeno di
rappresentatività internazionale che gli ha consentito di sopravvivere per cinquant’anni.
È rivelatore, in questo senso, quello che ha detto Obama nella sua conferenza stampa di
questo mercoledì alla Casa Bianca per annunciare la riapertura – dopo 54 anni – delle
relazioni diplomatiche a livello di ambasciate fra gli Stati Uniti e Cuba.
È indubbio che la rottura delle relazioni diplomatiche sia durata «troppo a lungo». Però
quando aggiunge che nel momento in cui furono sospese, nel 1961, «nessuno si
aspettava che sarebbe durato tanto», comincia la distorsione, e una volta di più
precipitiamo nell’abisso della vecchia retorica. Perché sì, è vero che quando Eisenhower
ordinò la rottura delle relazioni diplomatiche sperava che la normalizzazione potesse
arrivare in «un futuro non lontano », ma quello che Obama elude, dimentica, o non
racconta a se stesso è che nell’istante in cui Ike prese la decisione la Cia aveva duemila
uomini che si addestravano a Retalhuleu, in Guatemala, e tutte le possibili componenti di
un’invasione di Cuba – inclusi aviazione, mezzi navali ed elettronici – si stavano
preparando. Ah, my dear friend, ora sì che ci capiamo. Le relazioni si sarebbero ristabilite
subito perché ci saremmo sbarazzati di quegli impudenti nel giro di tre mesi. E quelli che
occuperanno le rovine fumanti del palazzo presidenziale all’Avana saranno i nostri uomini,
i nostri stipendiati, per dirlo con esattezza.
Quello che è successo dopo, e il marasma delle relazioni fra i due Paesi (che non era,
ovviamente, nei piani della Cia) che si è prolungato per mezzo secolo, lo si deve
all’incredibile capacità di resistenza che Fidel impresse a quel processo. E dunque, a
guardar bene, in realtà si può dire che abbia vinto la guerra. Ma in modo differente.
Portando acqua al suo mulino, Obama dice che non appena riapriranno le ambasciate, il
20 luglio, «la bandiera a stelle e strisce potrà sventolare sull’Avana». Ha i toni di un
conquistatore militare. Ma non vi lasciate trarre in inganno. Quello stesso giorno, e alla
stessa ora, sventolerà a Washington anche la modesta bandiera con la stella solitaria.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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INTERNI
Del 2/07/2015, pag, 14
Senato elettivo più vicino E il premier
annuncia: referendum a giugno 2016
Vertice tra Boschi e Finocchiaro per blindare i voti della minoranza Pd
Tensioni nell’Ncd: sbagliato andare a braccetto con i Democratici
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA. Un vertice serale tra Maria Elena Boschi e Anna Finocchiaro apre la strada alla
correzione della riforma costituzionale nel punto più controverso: l’elettività dei senatori.
«Si può fare immaginando il voto dei cittadini sui consiglieri regionali da mandare a
Palazzo Madama », dice la presidente della commissione Affari costituzionali. Un’elezione,
come dire, “semi-diretta”, realizzata attraverso un listino speciale. Il governo non esclude
questa ipotesi, anzi ci sta lavorando. «Anche perché — dicono nella sede della presidenza
del Consiglio — se vogliamo correre dobbiamo fare i conti con i numeri. Adesso n on
abbiamo più il sostegno di Forza Italia». Ovvero: serve un patto blindato con la minoranza
del Pd e con il Nuovo centrodestra che al Senato vanta una pattuglia di ben 36
parlamentari, molti dei quali non sfuggono al richiamo della foresta berlusconiano. Sono
voti decisivi per la tenuta della maggioranza, soprattutto sulla riforma.
La Boschi ha incontrato la Finocchiaro alla vigilia dell’incardinamento del testo in
commissione Affari costituzionali. Un primo passaggio fondamentale per rispettare i tempi
dettati dall’esecutivo: voto in terza lettura entro l’8 agosto. Con l’orizzonte già definito e
indicato ieri da Matteo Renzi. «Faremo il referendum sulle riforme nel giugno 2016», ha
detto il premier confermando la volontà di abbinarlo alle elezioni amministrative di città
come Milano, Torino, Napoli e Trieste. Il Senato “semi- elettivo” è la richiesta minima della
sinistra Pd dopo l’approvazione dell’Italicum. Insieme all’attribuzione di competenze
maggiori alla futura assemblea di Palazzo Madama. «Nel passaggio alla Camera —
avverte la Finocchiaro — sono sparite molte funzioni del Senato. Vanno ripristinate».
Toccherà a Renzi verificare se è possibile siglare un accordo politico con la minoranza Pd
e con Alfano. Tecnicamente il listino verrebbe previsto da una legge ordinaria ma la
Costituzione dovrà contenere un riferimento a questa ipotesi. Saranno gli esperti a trovare
la soluzione. Il punto è avere garanzie dal Pd. Il premier pensa di poter trovare voti sparsi
per far passare senza correzioni la riforma, bypassando le intese tra partiti. Un patto
invece avrebbe il potere di blindare il testo anche per il successivo passaggio a
Montecitorio in modo da avere le copie conformi e passare subito alle ultime due votazioni
secche. È l’unico modo per sperare nel referendum a giugno 2016.
Palazzo Chigi sta facendo i conti con questi incroci. Oggi è il giorno di partenza ma la
salita è tutta da fare. Già nella commissione presieduta dalla Finocchiaro, dopo la rottura
del patto del Nazareno, maggioranza e opposizione ha un numero pari di rappresentanti.
E sull’intero impianto incombe la richiesta di Forza Italia di rivedere anche l’Italicum,
richiesta sposata dalla minoranza del Pd. Sotto traccia, lo stesso messaggio è stato fatto
arrivare a Renzi anche dal Nuovo centrodestra. L’altra sera si è svolta una tesa riunione
della direzione Ncd. Alcuni senatori hanno fatto notare che andare al referendum a
braccetto del Pd e contro tutti gli altri partiti costringerebbe i centristi a confluire nel partito
di Renzi. Giocoforza. È una prospettiva indigeribile per una bella fetta degli alfaniani. Per
questo l’Ncd chiede, senza clamore e senza fretta, di cambiare la legge elettorale. Anche
perché solo due giorni fa Renzi ha sentenziato: «L’Italicum non si tocca».
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Del 2/07/2015, pag, 15
Partiti inadempienti e pochi mezzi salta così il
controllo sui bilanci
LA RELAZIONE DEI MAGISTRATI DOPO L’ABOLIZIONE DEL FINANZIAMENTO
LIANA MILELLA
ROMA . Doveva essere la relazione, da consegnare entro il 30 giugno, sui bilanci dei
partiti dopo la legge Letta del luglio 2012 che ha abolito il finanziamento pubblico. Ci
hanno lavorato cinque magistrati scelti ad hoc tra Corte dei conti, Consiglio di Stato e
Cassazione. Il risultato, consegnato ai presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso,
sta in cinque pagine, più nove di allegati, per dire che la mole di lavoro era enorme, la
commissione avrebbe potuto lavorare, ma non è stata messa in condizione di farlo per
mancanza del personale richiesto. Scontro inevitabile tra le cinque toghe con Boldrini e
Grasso che dicono di aver dato gli uomini, ma purtroppo senza una leggina che avrebbe
dato i tecnici. Ma cosa si può scoprire dalle esigue carte della commissione? Stiamo ai
dati relativi ai bilanci 2013. Erano 85 i partiti «tenuti a presentare il rendiconto ». Di questi
«36 hanno ottemperato agli obblighi, gli altri 49 sono stati oggetto di contestazioni per
inadempienza totale o parziale». Alla fine 21 posizioni sono state archiviate «per
decandenza », 18 partiti hanno inviato ulteriore documentazione, 9 sono rimasti fuori
regola. Il dato rilevante è che comunque 44 partiti hanno mandato i loro conti.
Merita spulciare i nudi elenchi per capire chi è in regola e chi no. Al 15 luglio 2014
risultavano «inadempienti» Azione civile dell’ex pm Ingroia, la Destra di Storace, l’M5S di
Beppe Grillo, Pittella Presidente, l’Union Valdotaine, il Movimento per le Autonomie di
Lombardo, i Pugliesi di Rocco Palese. La commissione ha chiesto giustificativi ad Alleanza
per l’Italia, Centro democratico, Monti per l’Italia, Verdi, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Grande
Sud, Di Pietro, Puglia di Vendola, alla lista civica di Zingaretti, a quella di Maroni
presidente, di Storace presidente, a M5S, Pd, Nuovo Psi, Scelta civica, Udeur, Udc.
Tra i partiti archiviati ci sono M5S, Union Valdotaine, Destra, Verdi, Palese, Storace,
Lombardo. Tra i nove partiti che risultano comunque inadempienti al 31 ottobre 2014 ecco
Azione civile, Insieme per Bresso, Udc e Fli con Bongiorno per il Lazio, il Pci. Singolare la
fine della relazione del presidente Luciano Calamaro della Corte dei conti, di Laura
Cafasso e Luca Fazio, entrambi magistrati contabili, Bruno Polito del Consiglio di Stato e
Roberta Vivaldi della Cassazione, cui la legge non riconosce il distacco dall’attività
ordinaria, né un compenso. Il 18 maggio hanno scritto a Grasso e Boldrini per notificare
«l’impossibilità di procedere al controllo dei rendiconti con le risorse assegnate». Adesso
concludono: «Pertanto l’esame non si è potuto effettuare stante l’impossibilità di
funzionamento della commissione». Boldrini e Grasso sostengono di aver dato alla
commissione quanto dovevano. Ma, guarda caso, c’era una leggina da fare che non è
stata fatta.
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Del 2/07/2015, pag. 7
Procreazione assistita, arrivano le linee
guida. Restano le lacune
Filomena Gallo
Finalmente ieri il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha emanato le nuove linee guida
che regolano la Procreazione medicalmente assistita. Le ultime risalgono al 2008
e secondo quanto previsto dalla legge 40/2004 sarebbero dovute essere aggiornate
almeno ogni tre anni. Facendo pochi calcoli semplici, il ministero per quattro anni, presupponendo un eventuale aggiornamento nel 2011, ha violato la legge. Questo lo abbiamo
fatto presente più volte, presentando anche una diffida formale contro il ministero.
Avevamo proprio bisogno di una bussola per esplorare il nuovo terreno della fecondazione
assistita che è mutato molto dalla promulgazione della legge. Basti pensare che dal 2008
ci sono state ben tre sentenze della Corte Costituzionale, che hanno rimodulato la legge
40 del 2004, eliminando, rispettivamente, il numero massimo di tre embrioni da creare
e trasferire in un unico e contemporaneo impianto, il divieto di fecondazione eterologa, il
divieto di accesso alla diagnosi pre-impianto per le coppie fertili portatrici di patologie
genetiche. Proprio quest’ultima decisione della Consulta, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il
5 giugno, è stata ignorata nelle linee guida, nonostante i giudici nel testo della sentenza
avessero sottolineato la necessità di un intervento del legislatore in base all’evoluzione
tecnico scientifica. Inoltre manca l’indicazione per una campagna informativa per la donazione dei gameti, sia maschili che femminili, utili per la fecondazione eterologa: sono tantissime le coppie che scrivono all’Associazione Luca Coscioni per denunciare la mancanza
di ovociti e spermatozoi nei centri di fecondazione.
Come si può apprendere dal sito del ministero della Salute nel 2014 e nel 2015 sono state
effettuate undici campagne informative: perché non farne una che potrebbe far capire
a molti cittadini che insieme si possono far nascere molti bambini? Eppure la piaga della
bassa natalità che affligge il nostro Paese sta a cuore al ministro Lorenzin.
Poi, c’è sempre lo spauracchio dell’eugenetica. Nel comunicato del ministero si può leggere: «Per escludere illegittime selezioni eugenetiche, alle coppie che accedono
all’eterologa non è consentito scegliere particolari caratteristiche fenotipiche del donatore». In Italia non c’è mai stata la scelta delle caratteristiche fenotipiche, ma solo la richiesta di abbinamento in base alla compatibilità sanitaria e di caratteristiche somatiche della
coppia con il futuro bambino.
Perché strumentalizzare alcuni termini? Forse è solo un pretesto per ostacolare
l’applicazione della tecnica? Inoltre, il ministero continua ad affermare che le tecniche di
Pma saranno incluse nei Livelli essenziali di assistenza. Ma quando verranno aggiornati?
Anche su questo punto i malati e i disabili stanno vivendo da troppi anni una situazione di
completo abbandono e indifferenza da parte del governo che ha scelto di non impegnarsi
nell’aggiornamento. Si ribadisce, in ultimo, che è vietata qualsiasi sperimentazione sugli
embrioni non idonei per una gravidanza: gli scienziati italiani sono oggi costretti ad utilizzare cellule staminali embrionali importate dall’estero, come ha sottolineato lo scienziato
Michele De Luca in un appello inviato proprio ieri ai parlamentari e ai membri di governo.
Un paradosso che potrebbe essere eliminato cancellando questo divieto dalla legge 40
e permettendo ai ricercatori italiani di tentare la strada per nuove cure a malattie al
momento inguaribili. Basterebbe un atto del governo ad anticipare un nuovo intervento
della Corte costituzionale che su questo si dovrà pronunciare.
*Segretario dell’Associazione Luca Coscioni
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del 02/07/15, pag. 14
L’era dell’astensionismo di «opinione» che
mette a rischio la democrazia
Sembra che non ci si ricordi già più dell’astensionismo clamoroso alle elezioni del 31
maggio in alcune tra le più importanti regioni italiane, la Toscana, la Liguria, il Veneto, la
Puglia, la Campania, le Marche, l’Umbria. Il problema è stato furbescamente rimosso. È il
diritto di voto, non il suo uso, a dare il potere sovrano ai cittadini, vien detto: anche se gli
elettori sono tre su mille i risultati della consultazione hanno ugualmente valore.
Ineccepibile. Non si tiene però in alcun conto l’esistenza e l’essenza della società
nazionale che in pratica rifiutando il voto cancella se stessa, la sua forza comunitaria e nel
vuoto lasciato dal fallimento della politica cerca di risolvere i suoi problemi come può.
Dopo la seconda guerra mondiale e il fascismo fu una festa il giorno del voto. Potevano
votare anche le donne, finalmente, l’anello forte della catena sociale che in quegli anni
aveva retto con coraggio la sorte delle famiglie, gli uomini al fronte, le città distrutte, la
miseria, la fame.
Per decenni il voto è stato considerato un obbligo sociale o anche un’abitudine, più o
meno sentita, da non rompere. La caduta è di questi ultimi anni: in maggio è andato ai
seggi un italiano su due e quello dell’astensione è diventato il primo partito del Paese.
Le differenze col passato sono sostanziali. A non votare, un tempo, erano, con gli
anarchici, tradizionali nemici del sistema, coloro che rifiutavano le regole della democrazia,
i qualunquisti di sempre, gli analfabeti del vivere collettivo, quanti ritenevano che i politici
sono, senza eccezione, tutti uguali nel malfare ed era quindi inutile prender parte a quella
tenzone.
Gli astensionisti di oggi, se si ascoltano le voci dell’opinione pubblica, i giornali, i blog, i
talk-show, anche se ospitano ossessivamente le stesse persone lottizzate, se si ascolta la
radio e si va sul tram o sul metrò, si ha, naturalmente senza alcuna scientificità, la
risposta. L’astensionismo è ora in buona parte di opinione, ben cosciente, ne sono
protagoniste persone informate che leggono libri e giornali, non sono né antipartito né
antipolitica, non sono indifferenti per nulla, conoscono i problemi, ne sono le vittime. È un
astensionismo di protesta il loro, interclassista, critico, gonfio di risentimenti, di rancori, di
delusione, nei confronti delle promesse non mantenute, delle parole in libertà che si
sentono ogni giorno. È l’astensionismo doloroso di milioni di persone che hanno creduto
nei valori della democrazia conquistati con tanta fatica, con il sangue, siglati da una
Costituzione scritta da uomini di prim’ordine, svillaneggiata dal ventennio berlusconiano
fino a oggi. Viene considerata un inciampo da una classe dirigente che si ritiene in buona
parte all’avanguardia, da governanti inadeguati, senza storia e senza cultura, abili tattici
del vivere quotidiano, privi di una visione del mondo rotto e corrotto, da ricostruire non con
l’autoritarismo, gli ultimatum, l’ottimismo di maniera privo di fondamento, l’incapacità di
mediazione, essenziale nell’arte della politica.
L’astensionismo può essere una malattia mortale che mette a rischio la stessa
democrazia, apre la via ai populismi d’accatto, alla destra violenta, agli estremismi
travestiti da moderatismi apparentemente indolori. Riguarda tutte le opinioni politiche,
soprattutto la sinistra che in passato andava compattamente e orgoglio- samente al
seggio. La Toscana e l’Emilia-Romagna sono l’esempio del vento cambiato.
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Gli elettori di sinistra si son trovati a dover votare per un partito, il Pd, con il quale non si
sentono più consonanti, un partito personale con una politica divenuta centrista che ha
fallito i suoi progetti: conquista di parte dell’elettorato di centrodestra conservando
l’elettorato di sinistra. Risultato: la fiducia in Renzi, secondo il recentissimo sondaggio di
Nando Pagnoncelli, è scesa dal 70 per cento dei consensi avuti dopo le mitiche elezioni
europee al 36 per cento di oggi. La stessa percentuale della Lega di Salvini che invece
avanza con il suo straparlare e cerca di diventare il padre padrone del nuovo centrodestra.
Mentre i gruppi e i movimenti alla sinistra del Pd, divisi in mille rivoli, sono incapaci di dare
un volto unitario ad almeno due milioni di persone prive di ogni rappresentanza politica.
Non bastano gli slogan e i tweet per risolvere, con la velocità del velodromo, problemi
come il lavoro, le disuguaglianze sociali, le tasse, la riforma della scuola — ha fatto
perdere al Pd milioni di voti —, la burocrazia, gli sprechi, la corruzione che dilaga in tutti gli
angoli della società, la Mafia capitale che fa rabbrividire anche chi ha studiato i poteri
criminali.
Sono queste, più o meno, le ragioni del non voto e del rifiuto. I problemi vanno affrontati
senza oltranzismi, con umiltà. È necessario rendere partecipi di un possibile
ricominciamento i cittadini assenti, dar loro speranze prive di inganni. La scheda è il segno
della libertà se la legge non è una truffa e rispetta i diritti degli elettori .
Corrado Stajano
Del 2/07/2015, pag. 7
Radicali e antiproibizionisti ai tavoli degli
Stati generali sul carcere
Giustizia. Orlando agli esperti: «Ma fate presto, c'è poco tempo»
Di Eleonora Martini
A coordinare il tavolo che si occuperà dell’affettività in carcere e della territorializzazione
della pena, c’è la radicale Rita Bernardini. Mentre quello sulla minorità sociale, la vulnerabilità e le dipendenze è stato affidato alla supervisione di Grazia Zuffa, componente del
comitato nazionale per la Bioetica e direttrice di Fuoriluogo.it. E se il presidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale, Mauro Palma, dirigerà i lavori del
tavolo su istruzione, cultura e sport, Franco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, farà altrettanto sulla salute e il disagio psichico dietro le sbarre.
Nomi di spicco che danno il segno di una “svolta”, per i 18 tavoli tematici degli Stati generali del carcere che ieri hanno aperto i lavori e attorno ai quali il ministro di Giustizia
Andrea Orlando ha riunito circa duecento esperti, tra avvocati, magistrati, docenti universitari, operatori penitenziari e sanitari, assistenti sociali, volontari, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile, garanti delle persone private di libertà e detenuti stessi.
Le linee di azione generali su cui lavorare per arrivare a novembre a tirare le somme sullo
stato attuale delle carceri italiane e sulle possibili soluzioni ai vari e cronici problemi che le
attanagliano, sono state predisposte dal Comitato scientifico presieduto dal professor
Glauco Giostra e al quale siedono, tra gli altri e oltre allo stesso Mauro Palma, anche don
Luigi Ciotti e Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti umani. Tutti
al lavoro a titolo gratuito. Ieri, durante la prima riunione dei coordinatori nella Sala Livatino
di via Arenula il Guardasigilli l’ha definita, a ragione, «la scommessa politica più rilevante
che questo ministero realizzerà nel corso del 2015».
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L’attuale modello del nostro sistema carcerario, ha detto Orlando, costa «ogni anno circa
3 miliardi di euro e produce un tasso di recidiva tra i più alti d’Europa; invece di produrre
un più alto livello di sicurezza sociale rischia di diventare un moltiplicatore di insicurezza».
È evidente quindi che «la strada intrapresa è sbagliata». Gli obiettivi, per il ministro, sono
due: «Alimentare e sostenere l’elaborazione scientifica, normativa e organizzativa necessaria al cambiamento e al contempo promuovere una mobilitazione culturale in grado di
incidere profondamente sulla percezione collettiva dei temi della pena e del carcere che
spesso si prestano a improprie semplificazioni e usi strumentali». A tal fine gli esperti raccoglieranno contributi e riflessioni anche in vista dell’iter della delega per la riforma
dell’ordinamento penitenziario contenuta nel ddl sul penale. «La scelta di un percorso
aperto è oggi possibile perché la situazione delle carceri non è più esplosiva dal punto di
vista del sovraffollamento. Allora una discussione sulla finalità e sul senso della pena
sarebbe stata surreale», ha affermato Orlando rivolgendosi in particolare a Rita Bernardini,
rimasta da sola insieme a Marco Pannella e ai Radicali a denunciare l’ancora drammatica
condizione penitenziaria. «Ma vi prego, è molto importante che rispettiate i tempi che ci
siamo dati per consegnare i lavori perché siamo nell’epoca dell’incertezza», ha aggiunto il
ministro del governo Renzi riferendosi ai sei mesi che sono il termine ultimo concesso per
ultimare gli Stati generali del carcere. «Sappiamo — ha concluso — che fino ad un certo
periodo c’è la certezza di poter lavorare, più avanti non è detto».
del 02/07/15, pag. 9 (Roma)
I condannati puliscono i parchi
La prima iniziativa in Italia
Ostia, la squadra «salva-verde» composta da 14 persone
Un esperimento sociale e un risparmio per le casse comunale. Ma anche l’occasione di un
nuovo inizio. Tanti gli obiettivi del progetto inaugurato ieri a Ostia nella sede del X
Municipio e che, per i prossimi mesi, vedrà protagonisti 14 condannati sottoposti a misure
alternative al carcere. Saranno loro la squadra «salva-verde» del litorale, persone non
socialmente pericolose che, appunto, avranno il compito di ripulire i parchi e i giardini del
municipio più grande della Capitale.
Un’iniziativa, unica in Italia ma già realtà in molti paesi, che potrebbe servire anche per il
prossimo Giubileo. «Sono felice di farlo per primo. Speriamo di dare una sistemata ad
Ostia che ne ha tanto bisogno» ha detto Alfonso Sabella, assessore capitolino alla
Legalità e delegato del X Municipio presentando ieri il progetto, frutto di una convenzione
sottoscritta con l’Uepe, l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di Roma e Latina.
La squadra di lavoratori si è messa subito all’opera ieri, bonificando il parco XXV
Novembre e, nei prossimi tre mesi, si occuperanno di altri giardini e anche di alcune
spiagge. Costo del progetto, circa 65mila euro in voucher per i neo-giardinieri, che sono
stati individuati dall’Uepe fra gli affidati in prova ai servizi sociali, residenti nel Comune di
Roma, e inoccupati, soggetti ai domiciliari o sottoposti all’obbligo della firma.
«Il lavoro non è soltanto una necessità di vita ma ha anche una forte valenza trattamentale
e svolge una importante funzione rieducativa», ha commentato l’iniziativa Emilia Turiano,
direttrice dell’Uepe.
Un «modello», quello in sperimentazione a Ostia, che non solo offre una seconda chance
ai singoli lavoratori, ma che si potrebbe replicare per il Giubileo imminente. «Il sistema dei
buoni lavoro riguarda normalmente le categorie di lavoratori svantaggiati, come i giovani
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sotto i 29 anni - ha spiegato Sabella, tra i supervisori per l’atteso evento religioso di fine
anno -. Così come l’abbiamo fatto ora, senza nemmeno conoscere il nome dei lavoratori,
allo stesso modo si potrà fare per il Giubileo scorrendo semplicemente le liste del
collocamento. Metodo trasparente che salva dal solito balletto di assunzioni di amici degli
amici».
Val. C.
Del 2/07/2015, pag, 28
LA CARTA DI MILANO DUE MESI DOPO
CARLO PETRINI
MENTRE IL programma di Expo, a due mesi dalla sua apertura, si fa ogni giorno più
articolato, è ora di tornare a ragionare sugli aspetti più politici di questo evento. La Carta di
Milano, nata grazie ad un sistema inclusivo di confronto sui tanti temi, con il
coinvolgimento di centinaia di attori della comunità scientifica, della società civile e delle
istituzioni, deve diventare un’agenda politica. Viviamo in un’epoca che non ha fiducia nelle
parole ufficiali di documenti, trattati, dichiarazioni. Invece i documenti ufficiali sono
importanti, perché sono le basi su cui costruire relazioni e perseguire obiettivi. Se non
vengono presi sul serio diventano foglie di fico, citazioni ad effetto la cui sostanza nessuno
verifica. Oggi abbiamo una Carta di Milano aperta, che può essere migliorata. Certo, uno
strumento come quello non può diventare una summa sulla sostenibilità applicata al
sistema alimentare mondiale, ma quello della sostenibilità del sistema alimentare non è un
tema accessorio. È il titolo dell’Expo di Milano 2015, perché “nutrire il pianeta” creando al
tempo stesso “energia per la vita” significa questo: trovare una via sostenibile alla
produzione di cibo per tutti i viventi.
Il 7 febbraio i lavori degli oltre 50 tavoli tematici aperti per costruire i contenuti della carta,
si sono aperti con un messaggio del Santo Padre che ha chiarito che occorre una critica
senza sconti ad un sistema orientato esclusivamente al profitto e che su quell’altare
sacrifica anche l’etica di una politica che dovrebbe concentrarsi su un unico obiettivo, il
bene comune. Quindi, se vogliamo iniziare l’elenco di quel che bisogna integrare nella
Carta di Milano, al primo posto c’è questo: manca una critica serena e ragionata al
sistema del libero mercato che, come efficacemente suggerito da Latouche, è un sistema
di libere volpi in liberi pollai. Dopo la pubblicazione dell’enciclica “Laudato si’”, a maggior
ragione non è pensabile che quella Carta bypassi le parole di Francesco. Il 2015 non è
solo l’anno dell’Expo. È anche l’anno di questa enciclica, nella quale si legge (198): “La
politica e l’economia tendono a incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà
ed il degrado ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e
trovino forme di interazione orientate al bene comune”. Proseguendo l’elenco delle
principali tematiche assenti, arriviamo ai semi: non c’è cibo, non c’è agricoltura, non c’è
possibilità di sopravvivenza senza i semi. Il sistema economico di cui sopra ha permesso
che l’elemento di base della sopravvivenza del pianeta diventasse oggetto di mercato e
non ha trovato la strada, che andava cercata prima nelle coscienze, poi nei cervelli, quindi
nelle leggi, per proteggere un ambito che da sempre l’agricoltura familiare ha considerato
non solo essenziale, ma anche inviolabile e sotto la tutela di un’idea di condivisione che ha
attraversato i millenni. Una Carta che nasce da Expo non può non dire nulla sui semi, non
può non porre il tema delle sementi — la loro protezione, il loro ruolo ecologico, i sistemi in
base ai quali vengono prodotti, scambiati, distribuiti, moltiplicati — al centro di un discorso
sul futuro del cibo. E lo stesso respiro etico e normativo andrebbe dedicato al tema
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dell’acqua, che certo (a differenza dei semi) viene almeno citata più volte nel testo della
Carta, ma di cui non si dichiara mai in modo esplicito l’appartenenza al reame delle
proprietà collettive e dunque (ancora) la sua totale incompatibilità con il sistema del libero
mercato. Molto pensiero si sta dedicando in questi giorni alla Carta, molte organizzazioni,
stanno presentando al ministro Martina e al primo ministro Renzi le loro osservazioni, e
bisogna che questa energia si concretizzi in azioni di miglioramento e revisione di quel
testo, oltre che in provvedimenti concreti che — almeno a livello nazionale — possono far
sì che le parole che diciamo definiscano le azioni che faremo.
Per questo mi preme sollevare un’ulteriore questione: chi parla in questa Carta? Perché i
lavori promossi e coordinati dal governo sfociano in una carta che si apre con “Noi,
cittadini e cittadine di questo pianeta”? Non sarebbe più opportuno, efficace, promettente,
che quella carta fosse il messaggio del governo che ospita Expo ai governi del resto del
mondo? La Carta di Milano deve essere anche e soprattutto un impegno dei Paesi, delle
istituzioni: perché i privati cittadini si possono impegnare su tutto, e se tanti di loro non lo
avessero fatto, saremmo già andati a rotoli da un pezzo. Ma un impegno preso da un
governo è un impegno sul quale i cittadini possono chiedere conto. L’epoca dei buoni
propositi e dei comportamenti virtuosi ma individuali deve evolversi in un’epoca di impegni
cogenti e di interventi strutturali.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 02/07/15, pag. 16
Mafia Capitale, Pignatone attacca il sistema
coop
Il procuratore: “Sono privilegiate, e senza controlli interni”
Francesco Grignetti
Sono parole che pesano come macigni, quelle cesellate dal procuratore capo di Roma,
Giuseppe Pignatone. Così è accaduto, ieri, nel corso di un’audizione davanti alla
commissione Antimafia, che il magistrato abbia buttato là, con curata nonchalance,
premesso che naturalmente la stragrande maggioranza è di onesti, un giudizio al vetriolo
sul sistema cooperativo: «C’è una riflessione da fare sul ruolo delle cooperative. C’è da
riflettere sulle agevolazioni, sulle simpatie e sui tipi di controlli di cui godono le cooperative.
Ma questo non è compito della procura, è più compito della commissione».
Pignatone parlava delle coop malate di Mafia Capitale. Ad esempio di quella «19 Giugno»
che era nata per dare lavoro a ex detenuti, ma era piuttosto una società mascherata di
Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Il contraccolpo, però, non è mancato. La presidente
Rosy Bindi è andata a ruota: «Alla Commissione Antimafia non è sfuggita l’importanza
delle cooperative. Sentiremo i responsabili della Cascina». E il mondo cooperativo s’è
sentito sul banco degli accusati.
Coop sotto accusa
«Siamo i primi a chiedere di punire severamente chi sbaglia e di fare pulizia, perché chi
commette reati danneggia profondamente nell’immagine la vera ed autentica
cooperazione, ma diciamo no ai processi sommari», ha affermato Maurizio Gardini,
presidente Confcooperative.
Ricordato che la cooperazione in Italia dà lavoro a 1,3 milione di persone e sono oltre 12
milioni i soci, è stato soprattutto l’accenno alle agevolazioni che ha preoccupato Gardini.
Che dunque replica: «Una decina di cooperative non può essere presa a modello per
demolire e danneggiare tutte le altre».
Già, ma il ragionamento del magistrato parte da alcuni fatti appurati dall’inchiesta su Mafia
Capitale. Primo, l’organizzazione del duo Carminati-Buzzi è assolutamente inedita,
associando un mondo criminale, quali gruppi di rapinatori e estorsori, a uno nobile quali le
cooperative sociali, eppure utilizza i metodi mafiosi dell’intimidazione associata alla
corruzione: ci sono già due pronunce in merito della Cassazione. Secondo, seppure non
c’è paragone con i collegamenti di alto livello che Mafia Capitale poteva vantare nella
gestione Alemanno, il cambio di maggioranza in Campidoglio non aveva preoccupato più
di tanto i vertici dell’organizzazione. Si sentivano coperti a destra come a sinistra.
Trattamenti privilegiati
«Restano - ha spiegato il procuratore - i trattamenti privilegiati con Buzzi per tutta la durata
delle indagini. Si registra per tutta la durata delle indagini una vera e propria attività di
lobbing da parte di Buzzi e Carminati per imporre ai vertici personaggi amici». Dalle
indagini emergono alleanze inimmaginabili per controllare gli appalti. Ed ecco perché
Pignatone invita a ripensare al sistema. «I controlli interni nelle cooperative non hanno
funzionato. Quanto ai controlli esterni, noi in procura non abbiamo ritenuto di trovare
contestazioni di reati da attribuire ai funzionari del Viminale o della prefettura. Poi
sull’efficienza o meno dei controlli, noi allo stato non siamo in grado di dirlo».
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E' formalmente conclusa, intanto, l’inchiesta sul Centralino unico prenotazioni per la sanità
regionale. Finirà a processo Maurizio Venafro, l’ex assistente del Governatore Zingaretti,
ma nessun politico.
Del 2/07/2015, pag, VII RM
“Per le coop di Buzzi boom di fatturato con la
giunta Alemanno”
L’audizione all’Antimafia del procuratore Pignatone “In città più clan. Da
capire l’alleanza con Carminati”
GIOVANNA VITALE
DICE e non dice, il procuratore Giuseppe Pignatone, com’è normale che sia. Sentito per la
seconda volta in Commissione Antimafia sull’inchiesta che sta facendo tremare la politica
romana, disegna con la precisione di un cartografo la mappa dei «diversi gruppi criminali,
alcuni mafiosi, che nella capitale coesistono ed evitano conflitti tra loro: questo è il modo
migliore per prosperare e fare affari». Ma attenzione: «Roma non è Palermo, Reggio
Calabria e neanche Napoli, è troppo complessa e vasta per essere controllata da una sola
organizzazione », avverte il capo dei pm. Limitandosi poi — in relazione alla terza ondata
di arresti che tutti danno ormai per imminente — a una dichiarazione laconica eppure
sibillina: «Continuiamo a lavorare, vedremo cosa esce, nessuno lo sa».
Una relazione, la sua, che racconta con la forza delle prove acquisite e delle sentenze
della Cassazione che hanno finora confermato l’impianto accusatorio, la presenza in
Campidoglio — a cavallo tra il 2012 e il 2014 — di un’associazione mafiosa dedita a
corrompere politici e funzionari per aggiudicarsi appalti e commesse pubbliche. Rivelando
però, anche sulla scorta della seconda ordinanza emessa un mese fa, particolari inediti.
Perché se da un lato resta assodata l’estraneità del sindaco Marino agli affari del clan, più
compromessa appare invece la sua maggioranza. Dove ricoprivano ruoli non certo
secondari «5 componenti dell’assemblea capitolina: l’ex presidente e un ex assessore »,
elenca Pignatone, «oltre all’ex presidente di Ostia» e due consiglieri, tutti ancora ai
domiciliari. «Più numerosi funzionari, alcuni dei quali raggiunti dal 416 bis».
È perciò vero che con l’amministrazione Marino i contatti di Mafia Capitale «a livelli alti non
ci sono più, ma rimane la presenza pesante di Buzzi nel mondo delle cooperative. I
rapporti sono diversi, ma tutto sommato Buzzi e Carminati erano tranquilli sull’esito delle
elezioni, non si aspettavano particolari problemi chiunque avesse vinto: vantavano di
avere candidati amici in entrambi gli schieramenti », scandisce Pignatone. «Con la giunta
guidata dall’allora sindaco Alemanno si registra l’esplosione del fatturato delle coop che
ruotavano attorno a Buzzi. Ed è avvenuta la nomina di soggetti graditi al vertice di società
partecipate. Ma anche con l’amministrazione successiva », aggiunge il magistrato, «il
gruppo Buzzi-Carminati mantiene rapporti privilegiati con funzionari e politici. Le indagini
hanno portato alla luce il metodo raffinato con cui il sodalizio criminoso si inseriva negli
apparati comunali con una attività di lobbyng illecita finalizzata ad imporre nomi o a
rimuovere quei soggetti con i quali non era possibile fare accordi». Sollecitato dalle
domande dei parlamentari e della presidente Bindi, il procuratore ammette di non essere
«in grado di rispondere su quando si forma il sodalizio Buzzi-Carminati, che è certamente
antecedente l’inizio delle nostre indagini. Forse qualche elemento interessante potrà
arrivare dalla relazione della Commissione di accesso, con i fatturati delle cooperative di
Buzzi». Quasi 900 pagine, ora all’esame del prefetto Gabrielli. Sebbene qualche dato
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appaia già acclarato: per esempio la prassi delle somme urgenze, utilizzata da Mafia
Capitale per ottenere lavori in affidamento diretto. Spiega sul punto Pignatone al senatore
Esposito: «Non sono in grado di dire se con Marino c’è stata una diminuzione, anche se
l’assessore Sabella durante un convegno ha detto di no». In questo quadro «meno
rilevanti appaiono i legami con la Regione Lazio», precisa infine il procuratore, «con
l’attività di turbativa d’asta portata avanti da Gramazio su richiesta di Carminati in relazione
alla gara Cup». A tal proposito «all’ex capo di gabinetto Maurizio Venafro è stato notificato
l’avviso di conclusione indagine, che prelude a un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio. A
meno che nei 20 giorni che il Codice prevede, non si facciano presenti circostanze che ci
facciano cambiare idea». Esulta il sindaco Marino: «Dalle parole di Pignatone emerge la
chiara discontinuità tra Alemanno e la mia giunta».
Del 2/07/2015, pag. 6
L’altra faccia di «Mafia Capitale», gli operatori
sociali senza stipendio
Roma. Il movimento dei lavoratori dell’accoglienza (A.l.a.) contro
precarietà, demansionamento e sfruttamento nel loro lavoro e chiede di
smantellare i «megacentri» fonte del "business" dei migranti
Precarietà, sfruttamento, demansionamento. È la condizione degli operatori dei centri di
accoglienza per migranti e rifugiati a Roma, molti dei quali non ricevono lo stipendio da
mesi. è l’altra faccia di «Mafia Capitale», quella del lavoro, lontana dalla luce dei riflettori
e degli inquirenti. In questo mondo ampio, oltre agli operatori, lavorano legali, insegnanti,
educatori, assistenti , addetti alla pulizia. Dopo il blocco delle assunzioni nella pubblica
amministrazione, la crisi del terziario avanzato e l’esplosione della bolla occupazionale
creata dalla lunga stagione veltroniana dei “grandi eventi culturali”, a Roma questo terzo
settore è sembrato l’unico capace di produrre un’occupazione precaria e, talvolta, anche
un reddito. «Mafia Capitale» ha mandato in tilt questo sistema che oggi conta su una
decina di cooperative – compresi i consorzi — e circa duemila addetti.
L’emergenza ha spinto gli operatori a riunirsi nell’assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici dell’accoglienza (A.l.a) che ieri si sono incontrati in un’assemblea all’entrata
dell’assessorato delle politiche sociali di viale Manzoni a Roma. Sul posto c’era anche
l’Unione sindacale di base (Usb) che ha denunciato il ritardo di tre mesi per i lavoratori di
una cooperativa Eta Beta.Dai loro racconti emerge una realtà quotidiana caratterizzata
anche dalla mancanza di chiarezza sulle mansioni da svolgere. Nel video «quel che non vi
raccontano dell’accoglienza», diffuso dall’A.l.a. su Youtube, una giovane operatrice legale
sostiene che «non esiste un mansionario stabile e nella cooperativa svolgo qualsiasi mansione, dalla distribuzione dei pasti alla pulizia dello stabile».
«Spesso le strutture sono inadeguate e prive di servizi per gli ospiti». «Quello
dell’operatore sociale che si occupa di accoglienza è un profilo professionale relativamente giovane, risale a una quindicina di anni fa – racconta un’altra operatrice che preferisce mantenere l’anonimato – Nel nostro contratto nazionale manca la certezza
dell’inquadramento. Questo significa che sul lavoro ci viene chiesto di svolgere tutti i ruoli,
anche quello di sorveglianza e guardiania nei centri».
L’incertezza delle mansioni, oltre che del reddito, neutralizza di fatto il ruolo dell’operatore
che è delicatissimo. Il suo compito è mediare tra le esigenze basilari del migrante e la
società di accoglienza. Per farlo sono necessarie competenze, e formazione, che non ven35
gono riconosciute né al momento della stipula dei contratti, né nell’attività quotidiana.
«Questa situazione c’era prima di Mafia Capitale e purtroppo è destinata a continuare
anche dopo» aggiunge l’operatrice. Alla base c’è un baco del sistema che, nel recente
passato, ha imposto il terribile scambio biopolitico tra appalti e profitti sulla pelle dei rifugiati e oggi continua a creare nuove emergenze. A Roma si è manifestata con lo sgombero di una piccola baraccopoli a Ponte Mammolo e con l’incredibile vicenda dei profughi
alla stazione Tiburtina. In questo contesto si muove l’A.l.a, un’esperienza di autoorganizzazione degli operatori sociali sostenuta dalle Camere del lavoro autonomo e precario (Clap). Nell’incontro ottenuto oggi dall’assessora capitolina alle Politiche Sociali
Francesca Danese chiederanno chiarezza sui pagamenti alle cooperative che giustificano
i ritardi con il blocco dei versamenti da parte del comune. Al comune chiedono anche di
farsi garante dei diritti dei lavoratori negli enti che hanno in gestione i suoi appalti
nell’accoglienza. Questa azione ha un obiettivo ambizioso: la «trasformazione radicale del
sistema di accoglienza — sostengono i lavoratori dell’A.l.a. – Bisogna superare i megacentri e le politiche emergenziali, fonti del business e dello sfruttamento dei migranti e dei
lavoratori». Lo strumento per ottenere una simile trasformazione potrebbe essere un
tavolo interistituzionale con Prefettura, comune e il sistema di protezione per i richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar), un’altra delle richieste del movimento.
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INFORMAZIONE
Del 2/07/2015, pag, 24
Berlusconi alza il prezzo per cedere Premium
a Sky e rilancia su Ei Towers
La prima offerta di 600 milioni non è stata accettata, si punta al miliardo
Ma il gruppo di Murdoch prende tempo. Sassoli: “Quotiamo Auditel”
GIULIANO BALESTRERI
MILANO . Il matrimonio tra Sky e Premium, la pay tv di Mediaset, si farà. Serve solo
tempo per raggiungere un accordo che soddisfi sia Rupert Murdoch, sia la famiglia
Berlusconi. A margine della presentazione dei palinsesti autunnali, tra un sorriso e un «no
comment», Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente e amministratore delegato del Biscione,
ha lasciato poco margine ai dubbi. La prima offerta di Sky da circa 600 milioni è stata
respinta, la seconda, non lontana dal miliardo, è per il momento in fase di decantazione.
Sull’opportunità dell’operazione sono ormai d’accordo in molti. L’antitrust europeo non
dovrebbe avere obiezioni, d’altra parte sul campo della pay tv ha appena lasciato mano
libera a Telefonica in Spagna, e l’authority italiana potrebbe adeguarsi fissando qualche
paletto. Il nodo è nella valutazione di Premium.
Per Mediaset la base di partenza della trattativa resta il prezzo pagato da Telefonica per
rilevare l’11,1% capitale: 100 milioni, pari a 900 milioni per il 100%. A questa cifra
andrebbeo aggiunti altri 100 milioni circa di cassa e un “premio” che il Biscione vorrebbe
per lasciare, di fatto, campo libero a Sky sulla televisione a pagamento italiana. In
alternativa a Mediaset potrebbero prendere in considerazione anche una fusione in
cambio di una quota di minoranza - non inferiore al 30-35% - sufficiente a condizionare la
governance. Un anno fa Sky Italia fu valutata 3 miliardi di euro, ma la strada sembra
difficilmente percorribile dopo la nascita di Sky Europe.
Un’intesa, però, verrà trovata, ma probabilmente bisognerà aspettare un altro anno. Anche
perché da settembre, fino al 2018, Premium avrà in esclusiva la Champions League per la
quale ha speso 717 milioni: non tutti sono convinti del ritorno dell’investimeno. Cologno
oggi ha 1,7 milioni di abbonati, ma spera di strapparne almeno 500mila dai 4,7 milioni di
Sky. I vertici della pay tv satellitare, però, non credono che il travaso sia così facile:
nell’ultima stagione, la Champions League era in esclusiva alla piattaforma di Murdoch,
ma gli ascolti generali non sono cresciuti in maniera sensibile, rispetto all’anno prima. Sky,
quindi, non vorrebbe “strapagare” Premium, prima di capire se l’aggressiva campagna
abbonati di Mediaset avrà effettivamente successo. Berlusconi ha anche parlato di Ei
Towers e di Telecom Italia. Se riguardo all’ex monopolista ha escluso un intervento diretto
del gruppo nel capitale, «perché il tempo è passato», ma ha lasciato aperta la porta
augurandosi collaborazioni sul fronte dei contenuti e delle distribuzione; per quanto
riguarda la torri il ragionamento è stato più ampio. Dopo la fallita scalata a Raiway,
Mediaset insiste per la realizzare di un progetto industriale di aggregazione nel settore
delle torri, anche a costo di perdere la quota di controllo: «Siamo interessati a un progetto
industriale e siamo aperti a situazioni non di controllo - ha detto Berlusconi - l’importante è
che ci sia un progetto industriale vero che porti alla creazione di valore». Soprattutto per
evitare che un settore strategico, attraverso il quale passano tutte le comunicazioni del
Paese rischi di finire sotto il controllo di azionisti esteri. Sempre in tema di tv, ieri, il
presidente dell’Upa (Utenti pubblicità associati) Lorenzo Sassoli de Bianchi, ha proposto
entro il 2016 la quotazione in Borsa dell’Auditel, la società che rileva gli ascolti. «E’ il
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risultato di un lungo processo di innovazione ha detto Sassoli - promosso da Upa, e che
ha portato all’ingresso di Sky e Discovery nel Consiglio di amministrazione della società, e
alla posizione di maggioranza della componente del mercato nello stesso consiglio». Dopo
una lunga fase di tensione, Auditel farebbe un ulteriore passo verso «la trasparenza e
l’indipendenza »
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 2/07/2015, pag, 35
La formula perfetta del bestseller globale
Da Dan Brown alle “Sfumature”, uno studio svela come nascono i
successi editoriali planetari. Tra scrittori trasformati in brand e lettori
fan che determinano il mercato
SIMONETTA FIORI
Scrittori che non scrivono, o almeno non fanno più solo questo. Lettori che non vogliono
più leggere, ma aspirano a diventare coautori. E case editrici trasformate in califfati
multimediali. Benvenuti nella nuova dimensione del bestseller globale. Per chi si è formato
sul canone occidentale, per chi considera romanzieri Flaubert e Tolstoj, e anche García
Márquez e Roth, forse occorre allacciare le cinture di sicurezza perché è come entrare nel
vortice della narrativa tridimensionale dove saltano tutte le categorie a cui siamo abituati.
Dove l’autore non è più l’artefice di un testo ma l’inventore di una
storia “solubile”, ossia spalmabile nei vari media. E il suo fruitore non si accontenta più di
leggerla ma ambisce a esserne coproduttore, allargandola o restringendola come un
elastico. E quello che un tempo chiamavamo lettura, ossia il meraviglioso corpo a corpo
con un testo scritto che era avventura della conoscenza, è ormai diventato divertente
bricolage del produttore-consumatore secondo modello Ikea. Benvenuti nel romanzo ad
Alta Leggibilità, come oggi si usa dire, che è poi la gran parte di quello che si pubblica nel
pianeta. Il romanzo QB, quanto basta, dispensato secondo dosi ben studiate dal
marketing. E che ci viene rivelato con sapienza, ironia e forse pacata rassegnazione da
Stefano Calabrese in Anatomia del bestseller. Come sono fatti i romanzi di successo
(Laterza): un’incursione nel terreno della letterarietà con strumenti che attengono alla
sociologia, al mercato, perfino alle neuroscienze. Con giusta tempestività il saggio di
Calabrese esce nell’estate calda del lettore planetario, come la definisce El Pais , nella
stagione del lancio in duecento paesi e in cinquanta lingue della nuova puntata della saga
erotica di EL James, Grey , e dell’attesissimo sequel del Millenium di Stieg Larsson
affidato allo scrittore svedese David Lagercrantz. Due titoli che esemplificano la
fenomenologia del bestseller globale, fondata sull’imprescindibile regola della ripetizione.
Ha successo solo ciò che si ripete. E cosa c’è di più ripetitivo della serialità, della
riproposta di personaggi e ambienti in trilogie e tetralogie, a sua volta moltiplicata dagli
specchi dei piccoli e grandi schermi? Eccoci all’interno del bestsellerificio di cui già
possediamo una delle chiavi più importanti: guai inventare, ossia spiazzare o confondere il
lettore. Il quale vuole essere confortato in ciò che già sa. Una ragione del successo di Dan
Brown, sovrano assoluto con duecento milioni di copie, è la formula “sette capitali in sette
giorni” con cui le agenzie statunitensi arpionano i pensionati del Michigan: anche i suoi
romanzi mostrano una carrellata di cartoline ben selezionate in cui il lettore riconosce il
suo abc artistico e ne viene soddisfatto. La ripetibilità non è solo traguardo, ma anche
partenza. Una delle serial fiction più fortunate degli ultimi cinque anni, il pornosoft della
James, nasce come spin off di Twilight . Vuol dire che la James ha ripreso i personaggi
principali della serie inventata da Stephanie Meyer e vi ha costruito intorno una nuova
storia, con più sesso e senza vampiri. In altre parole, Cinquanta sfumature di grigio è
quasi identico alla “fan fiction” con cui la James esordì facendo il verso alla Meyer. È
«l’effetto domino della creatività» (anche se forse dovremmo cercare un’altra parola). Nel
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romanzo new global niente è eguale a prima. L’autore non è più tale, divenuto ormai un
brand in prospettiva intermediale. L’opera perde la sua centralità trasformandosi in un
flusso continuo di diramazioni. E il lettore è il nuovo padrone della scena, specie in rete,
munito delle sue faccette, dei suoi pollici alzati, dei suoi “mi piace”. Giudizi che il più delle
volte dipendono dal grado di coinvolgimento raggiunto, dalle «mareggiate di ossitocina» e
dagli «tsunami di adrenalina». E qui si apre un’altra porta del nuovo romanzificio globale.
Se finora la lettura ha significato conoscenza, immedesimazione e anche immaginazione,
per il nuovo lettore planetario è una esperienza quasi esclusivamente emotiva. Una
immersione totale che produce felicità e rabbia, ma soprattutto fuga dalla realtà.
Siamo alla letteratura-farmaco, antidepressivo o ansiolitico a seconda dei casi. Il suo
consumo bulimico viene favorito dal successo della serialità televisiva, il binge eating sul
divano di casa che ci porta all’orgoglioso collezionismo delle puntate de
Il trono di spade o di altre serie tv. Tutto questo, ci avverte Calabrese, è il frutto di una
sapiente strategia di marketing ma è soprattutto la risposta a una richiesta del pubblico.
Siamo noi bisognosi di evasione da un mondo che ci piace sempre meno. Anche i dati ce
lo confermano: il trionfo del romanzo (più 44 % mondiale registrato da Nielsen nella
seconda metà del 2011) coincide con il rallentamento dell’economia e con la crisi globale.
L’ultima porta da aprire, nell’industria del transromanzo, si spalanca verso l’abisso, e forse
è quasi inutile procedere. Chi ci ha seguito fin qui avrà capito che la scrittura è ormai
ridotta a optional. Tanto più è anonima e sprovvista di espressività quanto più facilita la
sua trasposizione televisiva. Nel romanzo plurimediale la scrittura è diventata solo uno dei
codici, e certo non il più importante. Ma tra i nuovi padroni dell’immaginario c’è chi riesce a
mescolare strumenti diversi rispettando il territorio della letterarietà. Come moltissimi suoi
colleghi – da Zafón a Coelho, da Collins al nostro Camilleri - anche Murakami è stato uno
screen writer, però non tradisce il patto con i lettori più classici. I suoi «romanzi smart»,
che corrono tra piani diversi del discorso, sono disseminati di germi narrativi che solo in
parte si trasformano in storie raccontate. Ed è un suo personaggio a ricordare che
Euripide nelle tragedie ha praticato questa tecnica retorica. Murakami come Euripide del
nostro tempo? Il problema è che lo scrittore giapponese non può disporre del deus ex
machina. Anche nella vita reale, fa notare Murakami, non disponiamo di un deus ex
machina, altrimenti sarebbe tutto più facile. Ed è uno dei rari momenti, in questo viaggio
nella narrativa a tre dimensioni, in cui ci si sente finalmente a casa.
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