Il progetto di comunicazione

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Il progetto di comunicazione
“Il progetto di
comunicazione”
Scrittura, immagine e linearità:
il caso azteco
• Antonio Perri
In queste pagine riportiamo alcuni
interventi svolti a Roma il 15 e il 16 maggio
del 2000 nel corso del seminario
“Il progetto di comunicazione” organizzato
dal Dudi, Diploma Universitario Disegno
industriale dell’Università degli Studi di
Roma “La Sapienza” diretto dal professor
Antonio Paris, in collaborazione con Aiap.
I temi sono stati suddivisi in due gruppi.
Il primo :“Linguaggi grafici e metodologie
progettuali”, coordinatore Giovanni Lussu,
era svolto dalle relazioni di:
– Antonio Perri, Università di Bologna,
I sistemi notazionali;
– Giulio Ceppi, Philips Design,
Comunicazione e sensorialità;
– Letizia Bollini, Icon Medialab,
Sistemi multinodali e new media;
– Paolo Campanelli, Uhuru Digital Design,
Gli standard del web;
– Graziano Valenti, Dudi,
Prospettive dei database multimediali;
Il secondo gruppo:“I luoghi
dell’interdisciplinarietà. Le nuove
configurazioni della professione
attraverso una serie di casi esemplari”,
coordinato da Mario Piazza, era svolto
dalle relazioni di:
– Massimo Pitis, Studio Vitamina,
Grafica, musica, televisione;
– Pier Paolo Vetta, Tassinari & Vetta,
La costruzione dell’immagine della città:
il caso di Trieste;
– Giovanna Vitale, The Sign Factory,
Un progetto per il Castello Sforzesco;
– Daniele Turchi, Jumblies,
L’information design.
Il seminario è stato concluso dalla tavola
rotonda “Il progetto di comunicazione,
formazione e professione” coordinata e
moderata da Alberto Abruzzese e alla
quale hanno partecipato: Alberto
Lecaldano (Aiap), Giovanni Lussu (Dudi),
Antonio Paris (Dudi), Mario Piazza (Aiap).
Pubblichiamo qui solo alcune delle
relazioni (le altre in uno dei prossimi
numeri) e due contributi sui temi della
didattica richiesti a Michele Spera e
Giorgio Bucciarelli, docenti del Dudi.
Nell’ambito di questa sezione pubblichiamo
inoltre lo scritto di Giovanni Anceschi
“Storia e teoria del progetto di
comunicazione” e un articolo sul passaggio
da Scuola superiore a Corso universitario
dell’Isia di Urbino scritto dal suo direttore
Franco Mariani.
Oggi il Dudi, da “Diploma” è diventato un
Corso di laurea e proprio in questi giorni si
stà rinnovando la collaborazione con Aiap
con l’organizzazione di workshop e un
seminario sul tema “No brand more profit.
Etica e comunicazione”. Ne daremo
notizia.
10
Una prassi ormai consolidata nelle scienze
umane – linguistica e antropologia in particolare – suggerisce che per riconoscere e talvolta superare i piccoli e grandi “crampi mentali” della nostra cultura si debba guardare alle culture “altre”.
Quanto alla scrittura – fenomeno eminentemente umano e anzi quasi intrinseco
all’homo sapiens come specie biologica – anch’essa non fa eccezione, nonostante le molte “storie dell’alfabeto” nelle quali il confronto con le “altre” soluzioni date al problema della fissazione grafica del linguaggio
viene non tanto eluso, quanto risolto con la
presuntuosa sicumera di chi è certo di aver
raggiunto la vetta dello sviluppo – il migliore
dei sistemi possibili, verrebbe da dire con
Leibniz.
Non è difficile perciò identificare i tre
punti di forza dell’ideologia alfabetica:
– l’idea di una corrispondenza speculare
e biunivoca fra scrittura e discorso orale;
– quella dell’esistenza di una distinzione
assoluta fra scrittura e immagine;
– l’accettazione dell’ambigua nozione
saussuriana di linearità (il discorso orale è una
linea, dunque deve esserlo anche il discorso
scritto, che del primo è specchio fedele).
Tutti dogmi, legati ad altrettanti e più generali elementi del paradigma filosofico-semiotico dell’Occidente:
– l’utopia dell’iconismo ingenuo
(l’immagine possiederebbe una nativa somiglianza con l’oggetto che rappresenta);
– la fede nella staticità e inambiguità del
messaggio scritto (scripta manent, semper
una et eadem);
– l’idea di un’intrinseca diversità tra riconoscimento di segni scritti e raffigurazioni
(distinguere una E da una F in un carattere
parzialmente nascosto da una macchia
d’inchiostro sarebbe intrinsecamente diverso
dal distinguere, nell’ambiguo disegno della
lepre-papera, ciascuno dei due animali);
– e infine la tesi meccanicistica che vede
nell’automatizzazione di un numero necessariamente finito di pattern gestuali le caratteristiche preminenti di ogni attività umana, compreso lo scrivere (una posizione, quest’ultima,
che dall’alto del suo scientismo materialista
“volgare” rifiuterebbe come pura immagine
poetica le parole-precetto del calligrafo cinese: “segni dritti come aghi pendenti; punti rotondi come gocce di rugiada; caratteri pesanti come nubi spesse, leggeri come ali di cicala”). Le pagine di un testo azteco di epoca
coloniale che prenderò brevemente in esame
– tratte dalla seconda parte del Codex Mendoza, manoscritto redatto in Messico verso il
1541 e oggi conservato alla Bodleian Library
di Oxford – rappresentano un documento significativo in questo contesto.
Non tanto per ciò che non sono – non so-
no una scrittura nel senso comune, alfabetico
del termine; non sono un sistema di segni del
tutto arbitrari e astratti – quanto perché la loro analisi consente di mettere in crisi e ribaltare i tre pregiudizi ideologici che vincolano
la nostra lettura del testo scritto, giungendo
sino a minare le fondamenta dell’ideologia
semiotica di cui si è detto.
Il testo pittografico è una lista dei tributi
che alcune città soggette al dominio di Tenochtitlan (l’antica Città del Messico, capitale
dell’impero azteco) dovevano fornire alla capitale in segno di sottomissione. Poiché si
tratta della copia di un originale azteco, realizzata dopo la conquista spagnola su carta
europea (secondo il formato del codex occidentale, assai diverso dalla struttura “a fisarmonica” dei testi tradizionali di questo genere), l’artista-scrittore (il tlacuilo) ha dovuto
adattare la disposizione delle pittografie e la
messa in pagina del testo “spezzandolo” sul
recto e verso di uno stesso foglio. Egli ha dovuto quindi rielaborare la sequenza delle
unità pittografiche in funzione degli spazi disponibili, cercando però di offuscare il meno
possibile la logica alla base della “leggibilità”
del testo originario.
Sulla base di riscontri interni e di confronti con altri documenti affini, è possibile
ricostruire ipoteticamente la disposizione originale dei glifi, come appare nella figura riprodotta nelle pagine successive.
Nella figura, la disposizione e distribuzione delle pittografie in file e sequenze risponde a una sintassi grafica ben definita, la
cui finalità è codificare una serie di informazioni che sono parte integrante del testo trascritto. Vediamo così, prima di tutto, come la
“cornice” di glifi che indicano i nomi di luogo, che corre sui bordi laterali e su quello inferiore della pagina, sia al tempo stesso una
lista dei pueblos tributari (da leggersi in sequenza secondo un orientamento dall’alto albasso, poi da sinistra a destra, e infine dal basso verso l’alto) ma anche un limite grafico,
che isola questa “sezione” del registro dalla
precedente e dalla seguente.
All’interno della sezione, poi, la disposizione delle merci tributate segue un ordine di
presentazione, dall’alto verso il basso, altrettanto rigido, e comune a tutto il documento:
carichi di tessuti e mantelli, costumi di guerra con scudi e infine misure di alimenti.
Colpisce subito, sia in questa ricostruzione
che nella pagina originale del Codex Mendoza, la curiosa ripetizione di merci identiche,
con un identico numerale che ne indica il
quantitativo: i manti bianchi, il cui glifo compare ben sei volte accompagnato dal “ciuffo
di capelli” in funzione di numerale (cen-tzontli, “un ciuffo”, in nahuatl, la lingua degli aztechi, equivale a “400”), e il contenitore di alimenti, che è ripetuto due volte seppure sormontato da diversi elementi glifici. Questi
trascrivono simutaneamente il contenuto e il
numero totale di “contenitori”: rispettivamente, tre silos di fagioli più tre di chia (un
particolare grano di bietola) e tre silos di mais
più tre di huautli (una pianta usata per proNOTIZIE AIAP N. 11 OTTOBRE 2001
durre olio).
Difficile pensare che in una cultura in
possesso di notevoli conoscenze matematiche, e addirittura dello zero, non si potesse essere in grado di sintetizzare in un unico quantitativo numerico una serie di “addendi” corrispondenti a un unico oggetto tributato.
Perché insomma, come si fa in altre parti dello stesso codice e per altri tipi di tributo, non
disegnare un solo carico di manti apponendovi sei elementi numerali “400”? E, analogamente, cosa impediva al pittore-scrittore di
disegnare un unico contenitore, invece di due,
segnalando la presenza di un quantitativo totale corrispondente a dodici silos? Avrebbe
potuto farlo facilmente, utilizzando i numerali-emblema etl (fagiolo) e tlaolli (chicco di
mais), che convenzionalmente indicavano
anche le quantità di huautli e di chia (questi
ultimi rappresentati nello stesso modo, con
una serie di granelli, ma riconoscibili nella
lettura in base alla loro associazione rispettivamente con fagioli e mais).
La risposta, anche in questo caso ipotetica ma suffragata da evidenze interne ed esterne, è che la sintassi grafica bidimensionale
del registro codificasse anche il ritmo de pago, cioè la periodicità del pagamento di ciascun tributo nell’arco dell’anno (ricordando
che l’anno “civile” azteco era composto da
diciotto mesi di venti giorni più cinque giorni “nefasti”).
Ne risulta lo schema complesso ricostruito nella figura, dove si può vedere come a una
prima suddivisione dell’anno in due parti
eguali di nove mesi (che dovevano presumibilmente corrispondere alle due pagine consecutive del documento originale) subentri
una successiva periodizzazione, più frazionata nel caso dei tessuti (suddivisa questa in
tre scadenze trimestrali ciascuna) e via via più
ridotta col passaggio ai costumi da guerriero
(due sole scadenze ogni nove mesi, corrispondenti alle prime due consegne di tessuti)
e infine agli alimenti (consegnati evidentemente solo due volte l’anno, ogni nove mesi).
Questa sintetica illustrazione del testo pittografico non pretende di entrare nei dettagli
della lettura in lingua nahuatl delle pittografie,
che pure è stata realizzata e che ricostituisce un
testo perfettamente comprensibile e in sé completo. Piuttosto, mi preme sottolineare in che
modo questi piccoli e apparentemente “primitivi” disegni ridimensionino i principi cardine
dell’ideologia alfabetocentrica corrente.
È facile infatti, dopo quanto detto, constatare che:
– non si dà nel caso azteco alcuna corrispondenza biunivoca e a priori fra elemento
grafico e discorso orale, perché il sistema si
fonda al contrario sulla possibilità di ciascun
glifo di assumere valori linguistici contestuali molteplici: così ad esempio il carico di manti bianchi sormontato dalla cifra 400 andrà
letto, in base alla sua posizione nella “fila” di
tessuti e alle considerazioni relative alla sintassi dei registri commerciali che abbiamo
sviluppato, “quattrocento manti bianchi in un
unico carico sono da tributare ogni tre mesi”,
NOTIZIE AIAP N. 11 OTTOBRE 2001
e non soltanto “quattrocento manti bianchi”;
– è impossibile identificare una cesura
netta fra scrittura e immagine, perché la plasticità della composizione glifica risponde a
criteri che sono al tempo stesso artistici e linguistici, funzionali non solo a una fruizione
estetica, ma anche (e soprattutto) a una decodifica semiotica istituzionalizzata – il testo
pittografico rimanda a un testo verbale che ne
costituisce la lettura;
– infine la codificazione planare, bidimensionale e tabellare (e dunque non-lineare) delle informazioni mette in luce come,
proprio abbandonando l’idea di una linearità
intrinseca alla forma del testo scritto, la scrittura sia in grado di sfruttare appieno le proprie caratteristiche funzionali, sviluppandosi
come sistema strutturalmente autonomo rispetto all’oralità.
Da qui a ripensare radicalmente i postulati semiotici dell’iconicità “naturale”, della
Una delle due pagine originali
dal Codex Mendoza (folio 20r),
con la traduzione in spagnolo
dei tributi dovuti.
staticità interpretativa, della cesura tra immagini raffigurative e rappresentazioni linguistiche e di una totale programmabilità tecnica il passo è breve.
Molti pensatori del secolo appena scorso
– filosofi come Wittgenstein, antropologi come Leroi-Gourhan o, in Italia, il compianto
linguista Giorgio Cardona – e altri, che hanno attraversato il millennio e proseguono nella loro riflessione – Roy Harris primo fra tutti –, hanno già dato il via a questo mutamento di paradigma. Non è un caso però che sia
antropologi che linguisti, semiologi e filosofi, abbiano sentito il bisogno di “uscire da sé”
e guardare ad “altri mondi”: agli universi
dell’espressione grafica mesoamericana, certo, ma anche cinese o polinesiana, eschimese
o africana. Traendone la convinzione che
all’origine dell’attività grafica dell’homo sapiens non vi siano i “falsi principi” della mente alfabetizzata, ma più generali condizioni
Nelle pagine successive, la
ricostruzione ipotetica della
disposizione dei glifi nell’originale
azteco.
11
pueblos
soggetti al tributo
Petlacalcatl
[casa di stuoia]
mesi IV-VI
consegna mesi I-III
400 fasce di stoffa
mesi I-III
400 tuniche da donna
400 mantelli
[il numerale “400” è indicato
dal ciuffo sopra il glifo,
il quale a sua volta rappresenta
un carico di tessuti]
mesi X-XII
mesi VII-IX
400 mantelli
400 mantelli
400 scialli
400 scialli decorati
mesi XII-XV
400 mantelli
400 mantelli
mesi X-XII
mesi IV-VI
mesi XVI-XVIII
400 mantelli
[il numerale “20”
è indicato dalla
bandierina
applicata ai glifi]
Tlatzoxiuhco
[casa dell’ago d’osso]
Yopico
[cappello a due punte]
Tecalco
[casa del giudice]
1 scudo
in piume pregiate
1 costume da guerra
“Testa di Cane”,
in piume pregiate
1 scudo
in piume pregiate
1 costume da guerra
“del prezioso primogenito”,
in piume pregiate
20 scudi
1 scudo
in piume pregiate
20 costumi da guerra
“Piume rosse distese”
1 costume da guerra “Dito del piede”,
con piume verdi come come quelle
dell’uccello quetzal
Tepetlacalco
[ casa di stuoia
sulla pietra]
Toyac
[casa dell’acqua
che si spande]
Tecoloapan
[gufo sull’acqua]
1 scudo
in piume pregiate
1 costume da guerra
“Diavolo”, in piume pregiate
Colhuatzinco
[montagna piegata]
Cotzotlan
[casa delle
piume gialle]
20 scudi
Tepepulan
[montagna premuta]
NOTIZIE AIAP N. 11 OTTOBRE 2001
20 costumi azzurri
“Farfalla”
[il chia (pianta per produrre olio)
e lo huautli (grano di bietola)
sono rappresentati nello stesso modo,
come un mucchietto di granelli,
e si riconscono perché
convenzionalmente associati,
rispettivamente, ai fagioli e al mais]
Olac
[acqua nel campo
di fiori turchesi]
Acapan
[freccia sulla
canna]
Xico
[lombrico dal cuore
della montagna]
20 scudi
20 costumi da guerra
3 misure di fagioli,
più 3 misure di chia
[il numerale “3” è indicato
da tre fagioli, che danno
anche la quantità di chia
(i granelli sopra il silos)]
Tepechpan
[casa su pietra
e stuoia]
Huitzilopuchco
[colibrì verde]
1 scudo
in piume pregiate
1 costume da guerriero
“Giaguaro”, in piume pregiate
mesi I-IX
12
Nextitlan
[cenere del focolare]
mesi XII-XV
Xaxalpan
[casa sulla sabbia]
Tequemecan
[drappo bianco sulla
grande roccia]
pueblos
soggetti al tributo
3 misure di mais,
più 3 misure di huautli
[il numerale “3” è indicato
da tre chicchi di mais,
che danno anche
la quantità di huautli
(i granelli sopra il silos)]
Cuitlahuac
[canale concimato]
NOTIZIE AIAP N. 11 OTTOBRE 2001
Tezcacoac
[casa del serpente]
mesi X-XVIII
Tzapotitlan
[albero di sapodilla]
Mizquic
[casa del mesquite]
Aochpanco
[strada che passa
il fiume]
13
Teatri di poesia semantica
Fotogrammi da due film di Franciszka e Stefan Themerson:
Europa (1931-32) e, a colori, Calling Mr. Smith (1943), “tragico
film-sogno che è allo stesso tempo un documento, un
rendiconto, una profezia, un grido e un flusso continuo di
poesia”.
STEFAN THEMERSON E LA GIUSTIFICAZIONE INTERNA VERTICALE
GIOVANNI LUSSU
Vite di dadaisti
Quando arriva a Londra nel 1942, Stefan Themerson
ha già al suo attivo una rilevante carriera di operatore
dell’avanguardia polacca dei primi anni 30. Nato nel
1910 in Polonia, a Plock (sulla Vistola), ha scritto libri
per bambini e realizzato con la moglie, Franciszka
Weinles, alcuni film sperimentali. Celebre, per quanto se ne siano conservati solo pochi fotogrammi, è la
loro interpretazione cinematografica (1931-32) del poema tipografico di Anatol Stern, Europa. I precoci collage e photogrammes di Themerson (i primi
sono del 1928), inoltre, diffondono nel milieu artistico di Varsavia le tecniche e le poetiche di
Man Ray e Max Ernst [nota 1 a
pagina 34]. Il suo bel ‘manifesto’,
L’impulso a creare visioni,
pubblicato nel 1937 in polacco
e in francese, delinea e prefigura il quadro all’interno del quale si svolgerà gran parte della
sua ricerca successiva [2].
Stefan Themerson in un
disegno di Franciszka
(1940) e in una foto del
1987.
Nel 1937 i Themerson si installano a Parigi. Allo scoppiare della guerra, nel 1939, Stefan si arruola in un reggimento
polacco dell’esercito francese.
Dopo la débâcle si sposta nel
sud della Francia, dove inizia a
comporre una delle opere più
ambiziose, Croquis dans les Ténèbres (Schizzi nelle
tenebre), lungo poema visionario di questi anni tragici. Franciszka si era intanto trasferita a Londra. Lì,
dopo varie traversie, si stabiliranno definitivamente
nel 1942 (nel 1954 diventeranno entrambi cittadini
britannici).
Nel 1948 fondano una propria casa editrice, la Gaberbocchus Press, e le prime pubblicazioni sono composte e stampate direttamente da Franciszka e Stefan. La
Gaberbocchus pubblicherà un gran numero di opere
variamente sperimentali (Alfred Jarry, Guillaume Apollinaire, Raoul Hausmann, Anatol Stern, Kurt
Schwitters, Raymond Queneau [3], Bertrand Russell),
talvolta illustrate da Franciszka, tra cui molti lavori di
Stefan. Nel 1979 la casa editrice si trasferirà ad Amsterdam, gestita da allora dalla consorella olandese De
Harmonie, che ancora oggi ne distribuisce e ripubblica il catalogo (www.gaberbocchus.nl). I Themerson,
tenaci sperimentatori di irrevocabile attitudine dadaista, corrente filosofico-razionalista, si spegneranno en22
trambi nel 1988, a soli due mesi di distanza (prima
Franciszka, poi Stefan), a suggello di una vita di intesa presumibilmente appassionata.
L’Archivio Themerson, curato a Londra da Jasia Reichardt e Nick Wadley (www.themersonarchive.com)
è stato parzialmente trasferito in Polonia, presso l’Università di Katowice (http://themersons.us.edu.pl).
Ipse Gaberbocchus horrendum burbuliabat
La denominazione della Gaberbocchus è già quanto
mai programmatica: si tratta infatti della versione latina di Jabberwocky. La famosa filastrocca nonsense del
primo capitolo di Through the Looking Glass (Attraverso lo specchio), seguito di Alice nel paese delle meraviglie, era stata tradotta da Hassard Dodgson, zio di
Charles Dodgson, alias Lewis Carroll. Jabberwocky,
come spiega lo stesso Carroll, significherebbe “risultato di una discussione senza capo né coda”, componendo jabber, “chiacchericcio”, con la parola sassone
wocor, “frutto” o “discendenza” [4]. Riporto qui, per
chi non la ricordi, la prima strofa di quest’opera tanto
cara ai surrealisti [5] (e tante volte variamente tradotta
anche in italiano) [6]:
’Twas brillig, and the slithy toves
Did gyre and gimble in the wabe:
All mimsy where the borogoves
And the mome raths outgrabe.
Alice, per la verità (siamo infatti nel mondo dello specchio), la prima volta la legge come segue:
sevot yhtils eht dna ,gillirb sawT’
:ebaw eht ni elbmig dna eryg diD
sevogorob eht erehw ysmim llA
.ebargtuo shtar emom eht dnA
Vale inoltre la pena di segnalare l’assonanza tra il suffisso -bocchus e book, “libro”. È l’innesto dadaista su
di una tradizione tipicamente inglese, che si basa proprio sul labile rapporto che in quella lingua c’è tra pronuncia e ortografia: si tratta del pun, del gioco di parole basato sui differenti significati cui rimandano parole diverse dalla pronuncia simile, che nel Settecento
assurse quasi a forma d’arte, nell’ambito della più vasta arte del wit, del motto di spirito che allietava le conversazioni brillanti nelle pesanti cene dell’aristocrazia
e della borghesia colta [7].
Fotogrammi di Stefan Themerson
(1928-30).
Sequenza da L’occhio & l’orecchio
(1944-45), film sperimentale di
Franciszka e Stefan Themerson.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
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Alfred Jarry, Ubu Roi (Ubu re),
Gaberbocchus, 1966 (11 x 16,5 cm).
In copertina, il classico disegno di Jarry.
Nelle pagine interne, scrittura a mano e
illustrazioni di Franciszka Themerson,
realizzate direttamente su lastra litografica.
Questa edizione contiene anche foto della
rappresentazione data al Marionetteatern di
Stoccolma nel 1964, con scenografie di
Franciszka e musica di Krzysztof
Penderecki.
Il coinvolgimento dei Themerson in questa
celebre pièce di Jarry (1896), madre del
teatro d’avanguardia del ’900, si deve anche
al suo essere ambientata in una Polonia
immaginaria, che per essi alludeva a quella
reale di quegli anni.
Due disegni di Franciszka Themerson
utilizzati talvolta come marchi della
Gaberbocchus.
Copertina, frontespizio e pagine interne di Fingers
di Oswell Blakestone, Gaberbocchus, 1964
(12 x 18,5 cm).
Stefan Themerson, The Mistery of the Sardine (Il
mistero della sardina), Gaberbocchus / De harmonie,
Amsterdam 1986.
La copertina è firmata Pentagram; il collage sulla base
del famoso ritratto di Gabrielle d’Estrées è di Irene
Von Treskov.
Pagine a fronte da The good
citizen’s alphabet (L’alfabeto
del buon cittadino) di
Bertrand Russell, disegni di
Franciszka Themerson,
Gaberbocchus, 1953
(11 x 14 cm).
Conoscenza, ciò su cui gli
arcivescovi non hanno
dubbi;
Libertà, il diritto di
obbedire alla polizia;
Pedante, uno a cui piace
che le proprie affermazioni
siano vere.
Il pedante è Russel stesso.
Stefan Themerson, Special Branch (Servizi segreti),
Gaberbocchus / De harmonie, Amsterdam 1988.
Copertina di Joost Swarte.
Iniziali di Franciszka
per Exercises in Style
(Esercizi di stile) di
Raymond Queneau,
Gaberbocchus, 1958.
24
Elenco di autori e designer
Gaberbocchus da General
Piesc or the Case of the
Forgotten Mission (Il
generale Piesc o il caso
della missione dimenticata)
di Stefan Themerson,
Gabebocchus, 1976.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
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Copertina e pagine interne da Bayamus and the
Theatre of Semantic Poetry di Stefan Themerson,
Gaberbocchus, 1965 (12 x 19 cm).
Nella pagina a fronte, Bayamus in un disegno di
Franciszka Themerson.
Sovraccoperta e pagine interne da
Cardinal Pölätüo (Il cardinale Pölätüo)
di Stefan Themerson, Gaberbocchus,
1961 (12 x 19 cm).
Una nota precisa che il Mondrian in
copertina era realizzato a mosaico sul
pavimento della cappella privata del
protagonista.
Il cardinale Pölätüo
Traduzione semantica
La produzione di Themerson è vasta [8]. Accanto alle
poesie e a quelli che più propriamente possono essere
chiamati saggi, spiccano i suoi romanzi, in realtà sempre trattati di filosofia dadaista, nei quali fabula, intreccio, narrazione, personaggi e colpi di scena sono inestricabilmente avvinghiati a fili quanto mai obliqui
e trasversali (più volte lo stile di Stefan viene giudicato “piuttosto idiosincratico”).
Ai fini del presente scritto l’opera germinale di Themerson è però un altro romanzo, Bayamus and the
Theatre of Semantic Poetry (Bayamus e il Teatro della poesia semantica), pubblicato per la prima volta nel
1945 e ristampato dalla Gaberbocchus nel 1965. È qui
che vengono introdotte le determinanti nozioni di
“poesia semantica” (Semantic Poetry, sp) e di “giustificazione interna verticale” (Internal Vertical Justification, ivj).
Qualche cenno su Cardinal Pölätüo [9], forse il romanzo più divertente (Themerson, sicuramente, si deve essere comunque immensamente divertito a scriverlo). Il cardinale in questione, tanto per dirne una,
deve la sovrabbondanza di dieresi (e, più in generale,
la sua stessa apparizione) al fatto che l’autore aveva in
quel momento sottomano una macchina da scrivere
con tastiera per una varietà alfabetica che sembra con
tutta evidenza essere l’estone [10].
Pölätüo figura come padre di Guillaume Apollinaire,
concepito nel 1862; la madre, contessa Kostrowicki, lo
porta però in gestazione per diciotto anni (perché possa essere “poeta in carne”), quindi Apollinaire nasce
regolarmente nel 1880. Il cardinale si dedica all’elaborazione del pölätüomismo, sistema teologico che incorpora il pensiero scientifico moderno, con tanto di
diagrammi, formule logico-matematiche e uno stimolante confronto tra la Summa contra gentiles di Tommaso d’Aquino e l’esperimento Michelson-Morley.
Nel frattempo si intrattiene, oltre che con la Kostrowicki, con i fratelli Goncourt, con il collega cardinale Manning, con il nostro Umberto i, con Charles
Maurras, il fondatore dell’Action française, con l’architetto del Bauhaus (Dessau) Jan Rybka, con Karl
Marx, con Mme Curie ecc. Nel 2022, nel teletrasportarsi a New Vatican (Florida) per l’elezione del nuovo
papa, per un errore di trasmissione si moltiplica in dodici. Quante anime hanno? Quanti voti hanno?
Fine del romanzo, se non fosse che segue un esilarante glossario (sedici pagine) in cui viene data la chiave
di innumerevoli allusioni, in buona parte sessuali, talvolta diversificate a seconda se il lettore sia maschio o
femmina, oppure orfano. Segue ancora una lettera al
cardinale da parte del suo biografo, che lo ringrazia per
il suo non obstat, e che ringrazia anche Anthony Froshaug (sul quale torneremo più avanti) per averlo convinto a scrivere in inglese, a edificazione di protestanti e altri infedeli, e che svela che la macchina da scrivere estone gli è stata regalata dalla moglie. Conclude
definitivamente una nota sulle età relative e assolute di
Apollinaire e della madre di questi.
26
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Secondo quanto racconta Jasia Reichardt [11], pare che
Themerson, non appena arrivato a Londra nel 1942,
cominciasse a tradurre in inglese le proprie poesie
(scritte sino ad allora in polacco e, dal 1938, anche in
francese) e fosse esasperato per le pastoie della traduzione interlinguistica: “Se solo queste poche parole usate nella poesia potessero mantenere la rima in tutte
le lingue...”. Scrisse allora una poesia trilingue [12], ma
presto iniziò a elaborare l’idea della poesia semantica,
che appunto in Bayamus ha le sue prime espressioni.
La trama del romanzo è presto detta. Si apre sulla conversazione tra il narratore e un certo Bayamus (alla nascita Bayama, ma che poi ha cambiato sesso, come si
saprà più in là), personaggio a tre gambe di cui la mediana simmetrica (e quindi anche la relativa scarpa);
questa, se ripiegata, permette però l’usuale andatura bipede. L’andatura veloce è data invece dal puntellare la
gamba mediana e dare la spinta con le altre due; più veloce ancora è quando Bayamus fissa alla mediana un
pattino a rotelle, e fila come un razzo. Bayamus conduce il narratore a una breve visita al Teatro di Anatomia; si dirigono quindi verso il Teatro della Poesia semantica, che raggiungeranno dopo diverse altre conversazioni, tra loro e con altri, e dove il narratore si
produrrà con successo in varie esibizioni di traduzione poetica semantica (spt). Finale con colpo di scena:
Bayamus rivela di avere una figlia, ma che questa in
realtà è figlia del narratore. La piccola Barbara, provvista naturalmente di tre gambe, viene affidata al padre. Bayamus piange, e fila via sul suo skate.
La traduzione semantica viene introdotta gradualmente: “Seppi allora – disse Bayamus tra sé – che la
via migliore di scoprirne la reale nuda verità [di una
canzone francese precedentemente udita] era quella
di gettar via le aureole mistificatrici dei riferimenti
convenzionali, tradizionali, patriottici, artistici, morali, abitudinari, di colore locale, sostituendo le parole della canzone con le definizioni emotivamente neutre fornite dal dizionario, rigorosamente accurate e
strettamente conformi agli standard di precisione richiesti”.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
27
A fronte, le pagine di Bayamus con la traduzione poetica
semantica, secondo la giustificazione interna verticale, di Bevendo
sotto la luna di Li Bo.
Vino: succo d’uva fermentato;
fiori: parti riproduttive di piante fornite di semi;
luna: corpo che accompagna la Terra ruotandole attorno;
ecc.
Lei, mio caro signore
o signora, ha un albero
di mele nel suo
giardino.
Lei mangia i suoi frutti.
Ma si guardi bene
dal dirgli: ti ordino
di nutrirmi!
Se l’albero obbedisce,
comincerà a produrre
salsicce.
E questo sarebbe
un peccato, perché
le salsicce non hanno
semi.
Il narratore fornisce poi alcuni casi. “La parola ‘guerra’, ad esempio, porta con sé diverse associazioni a seconda di diverse persone. Questo può andar bene in un
discorso politico, ma in una poesia vorrei trovare una
definizione più esatta, quella che posso trovare nel mio
dizionario: ‘conflitto aperto tra nazioni, o ostilità internazionale attiva condotta con la forza delle armi’. E
invece della parola ‘neve’, che stimola armoniche diverse nella mente di persone diverse, preferisco ‘cristallo di differenti forme, appartenente al sistema esagonale, prodotto dal lento raffreddamento del vapore
acqueo’”.
stefan themerson,
1946
Non sfuggirà che in questa traduzione semantica, con
il sostituire alle parole della poesia le definizioni del
dizionario viene applicato un tipico procedimento automatico dell’avanguardia [13].
Ecco cosa si propone il narratore di Bayamus di fronte al pubblico del Teatro della Poesia semantica: “Invece di titillare le loro colonne vertebrali e di tentare di
eccitare i centri del piacere dei loro cervelli con il liberare le parole del proprio peso semantico e di lasciarle sciolte sui loro timpani, io aumentavo questo
peso, spargendolo su un più ampio spettro cognitivo e
affettivo”.
Giustificazione interna verticale
Segue, in un inciso del romanzo, l’argomentazione
centrale. “Questo, ovviamente, crea un problema tipografico. Il metodo in sé è semplice: sostituire alcune delle parole chiave della poesia con le relative definizioni. Ma come farlo tipograficamente? Come
rimpiazzare un elemento atomico con il lungo nastro
del suo spettro? In breve: come stampare cinque, dieci, quindici parole al posto di una in modo che si tengano insieme in una sola entità? Sì, ma la topografia
tipografica [14] di una pagina stampata non è forse bidimensionale? Essa viene scandita non solo da sinistra a destra, ma anche dall’alto in basso. Quindi, se
ho un certo numero di parole che formano una sola
entità, un bouquet di nomi che definiscono una rosa,
perché non posso scriverle come scriverei le note di
un accordo musicale, una sotto l’altra invece che una
accanto all’altra? La Giustificazione Interna Verticale è la risposta al nostro problema di come comporre
traduzioni poetiche semantiche. ivj per spt. Sì, lo so
bene, agli stampatori non piacerà. Ma ‘la conoscenza
ha guadagnato maggiormente da quei libri per i quali
gli stampatori hanno perso di più’ [15]”.
Vengono quindi presentati i trattamenti, ottenuti applicando ivj a spt, di diversi componimenti poetici: una canzone goliardica di studenti del Quartiere Latino,
28
piuttosto scabrosa, una ballata russa, il Cantico delle
creature di Francesco d’Assisi, un canto popolare polacco, una poesia inglese per bambini.
Vediamo più in dettaglio una di queste interpretazioni
semantiche, quella di una celebre poesia del poeta cinese Li Bo, della dinastia Tang [16]. Themerson parte
dalla traduzione di un sinologo inglese [17]:
Drinking under the moon
The wine among the flowers,
O lonely me!
Ah, moon aloof and shining,
I drink to thee.
Beside me, see my shadow,
Rejoice we three!
Moon, why remote and distant?
Dance with my shade and me.
The joy shall last for ever,
Moon hear my lay,
My shade and I can caper
Like clouds away.
And drunk we are united
(but lone by day)
Let’s fix eternal trysting
In the Milky Way.
Una rudimentale traduzione letterale dall’inglese, che
non tenga conto delle rime che danno grazia all’originale, potrebbe presentarsi così [18]:
Bevendo sotto la luna
Il vino tra i fiori,
Oh me solitario!
Ah, luna, lontana e splendente,
Io brindo a te.
Accanto a me, guarda la mia ombra,
Rallegriamoci tutti e tre!
Luna, perché così remota e distante?
Danza con la mia ombra e con me.
Questa gioia durerà per sempre,
Luna, ascolta la mia canzone,
La mia ombra e io possiamo fare capriole
Come nuvole lontane.
E ubriachi noi siamo uniti
(ma soli durante il giorno)
Diamoci un appuntamento eterno
Nella Via Lattea.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
29
A fronte, il prospectus di quattro pagine composto e stampato da
Anthony Froshaug nel 1950, che annuncia la pubblicazione della
Semantic Sonata di Themerson (14,2 x 21,7 cm).
Il quartino è stato riprodotto da una fotocopia dell’originale, che
è a due colori (nero e rosso).
L’algoritmo di traduzione semantica consiste prima di
tutto, come abbiamo visto, nel sostituire ad alcune parole le loro definizioni, e quindi nell’organizzare queste definizioni in blocchetti a bandiera. Si tratta chiaramente di una procedura basata sull’utilizzazione di
una normale macchina da scrivere (si veda la copertina di Bayamus a pag. 27), con la quale, avendo a che
fare con caratteri a spaziatura costante, gli allineamenti
verticali risultano quanto mai facili da eseguire (è sufficiente battere riga dopo riga lo stesso numero di spazi bianchi). Il riposizionamento del carrello è altrettanto semplice: si ruota il rullo verso il basso o verso
l’alto, del numero di scatti opportuno, e la macchina è
pronta a ripartire dall’esatto punto desiderato del foglio. La macchina da scrivere, poiché agisce su una
matrice regolare secondo una meccanica discreta, è in
effetti un perfetto dispositivo digitale rasterizzato, e come tale è stata spesso usata per sperimentazioni varie
[19]. La resa tipografica con caratteri a spaziatura differenziata potrà certo essere più elegante, ma in realtà
sottrae alla composizione l’ineluttabilità degli allineamenti verticali tra le lettere, mantenendo solo quelli tra
parole.
Introdotta quindi la struttura non lineare della composizione [20], le parole “esplose” vengono poi disposte
in modo opportuno, tenendo conto dell’assetto complessivo della pagina.
Tipografia semantica
Confido che i due splendidi volumi dedicati da Robin Kinross ad Anthony Froshaug [21] abbiano reso
familiare al pubblico, se non al grande almeno a quello di settore, questa figura centrale della tipografia e
della grafica del ’900. Froshaug conobbe Themerson
nel 1944, a casa di conoscenti comuni; chiaccherarono a lungo e alcuni giorni dopo Froshaug, più giovane, andò a fare visita all’altro. Ce ne rimane il suo
racconto [22]: una stanza era piena di dizionari, in
un’altra un’intera parete era occupata da un diagramma che riportava lo sviluppo delle conoscenze
e delle arti umane su un asse temporale in scala logaritmica (fino a Faraday, osserva Froshaug, c’era
spazio quanto da Faraday ad allora), con miriadi di
annotazioni, ritagli, fotografie, cartoline appiccicati
sopra . C’era poi, tra l’altro, una copia in polacco della prima versione di Cardinal Pölätüo. Froshaug, pur
non sapendo nulla di quella lingua, fu incuriosito dalle peculiarità tipografiche. Attingendo ai dizionari
dell’altra stanza cominciarono a tradurre qualcosa, utilizzando il francese come lingua di scambio. Andarono avanti così per un paio di settimane, e ne nacque
una forte amicizia.
30
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Nel 1946, con il determinante incoraggiamento di Stefan [23], che con Franciszka aveva appena iniziato ad
assaporare le gioie della stampa (premessa per la successiva Gaberbocchus), Froshaug si stabilì nei pressi
di Penzance, all’estremità occidentale della Cornovaglia, per impiantare il proprio laboratorio di tipografia.
Uno dei primi stampati fu proprio uno scritto di Stefan,
The Lay Scripture.
Themerson, nella sua ricerca sulla poesia semantica, aveva scritto, tra il 1949 e il 50, una Semantic Sonata, nella quale la giustificazione interna verticale non viene usata solo a scopi di traduzione ma come procedimento
compositivo poetico propriamente autonomo. Froshaug
avrebbe dovuto comporla e stamparla (in 387 copie, come chiedeva Themerson), con il titolo Semantic Sonata
No.2, ma poi la cosa non andò avanti, presumibilmente
per la mancanza di sottoscrittori che coprissero le spese. Rimane il quartino di presentazione, con l’indice della sonata e parte del secondo sviluppo semantico [24].
Froshaug, nei suoi corsi alla Watford School of Art,
(1964-66) riprese esplicitamente l’idea di una “tipografia semantica”, e questa è senz’altro presente nelle
cose fatte ad Ulm, dove insegnò tra il 1957 e il 61; ad
esempio, nel suo progetto per la rivista della scuola. Il
movimento “semantico” nella disposizione delle righe
(vale a dire che segue l’organizzazione logica del testo
piuttosto che adeguarsi passivamente al formalismo visivo della struttura) rompe decisamente con l’ortodossia tardorazionalista e con il dogmatismo mistico della gabbia. Secondo Kinross, inoltre, la collaborazione
con Themerson fu determinante per l’abbandono da
parte di Froshaug della nozione di “tipografia invisibile”, come avanzata da Stanley Morison e argomentata da Beatrice Ward [25]. Questi, come è ben noto, da
inconsapevoli sudditi della “tirannia dell’alfabeto”,
chiedevano che la composizione tipografica, puro tramite tecnico, si annullasse per quanto possibile, per
non frapporre ostacoli visivi tra la formulazione linguistica e il lettore [26].
Topografia tipografica
Non c’è alcun dubbio che “Typographica” sia stata la
migliore e la più bella rivista di grafica del ’900. Pubblicata in due serie di sedici numeri ciascuna tra il 1949
e il 1967 dalla casa editrice Lund Humphries, “Typographica” svolse un ruolo impareggiabile nell’agglutinare le esperienze delle avanguardie con la tradizione tipicamente inglese del lettering e con le nuove proposte che man mano venivano avanzate in quegli anni
dai settori più avanzati della professione [27]. Editor a
tutto campo (direttore, designer, redattore, fotografo)
31
Verrà una nuova
avanguardia.
E io so cosa mi
piacerebbe che facesse.
Mi piacerebbe che
facesse quello che mi
piacerebbe vedere.
E mi piacerebbe vedere
qualche asserzione
visiva chiara, razionale
e di buon senso.
Ma quello che essa farà
non è quello che io
voglio vedere.
Quello che farà sarà
quello che il suo
proprio impulso a
creare visioni la
spingerà a fare.
stefan themerson,
1937
Un bel giorno Edgar
Degas, il pittore, chiese
a Stéphane Mallarmé, il
poeta: “Ma ditemi,
come si fa a fare una
poesia? Io ho un sacco
di idee, sapete, ma non
riesco a metterne
insieme nemmeno una”.
Al che Mallarmé
rispose: “Ma mio caro
Degas, la poesia non si
fa con le idee, si fa con
le parole!”.
stefan themerson,
1975
ne era Herbert Spencer, figura più che notevole di appassionato promotore della ricerca, che all’inizio di
questa avventura aveva solo 25 anni [28].
L’incontro tra Themerson e Spencer non sembra essere avvenuto prima del 1960 [29]. Nel “Penrose Annual” [30] del 1965 appare, con il titolo A well-justified postscript: typographical topography (Un poscritto ben giustificato: topografia tipografica), il
trattamento di Themerson, secondo le sue procedure
di giustificazione interna verticale, del discorso fatto
da Spencer a una cena del Double Crown Club [31].
Nello stravagante dialogo introduttivo con un certo
Brutus, del quale poi si rivelerà la natura, Themerson
riporta l’appropriato brano da Bayamus, e aggiunge:
“Si potrebbe applicare ai discorsi di Churchill, e farebbe sì che molti libri scientifici possano essere letti
con più chiarezza. Potrebbe... bene, vedi quest’opuscolo con la copertina bianca? Non contiene versi.
Contiene prosa. È un testo letto da da Herbert Spencer ai membri del Double Crown Club. Propongo di
applicargli la mia ivj”. Brutus chiede di poter andare
a fare una passeggiata. “Da solo? [...] Va bene, ma ricordati di non scendere dal marciapiede, di non fermarti troppo sotto il lampione, e per l’amor di dio non
parlare alla gente. Gli prenderebbe un colpo se vedessero un cane parlante” [32].
Si tratta quindi della fase 3 dello sviluppo dell’idea di
Themerson: dalla traduzione si passa alla composizione poetica, e da questa al puro trattamento semantico.
Un testo generico, scelto a caso, viene strutturato visivamente per mezzo delle tabulazioni, dispiegandosi
nella pagina in raggruppamenti di significato che vengono scanditi verticalmente.
Nel numero 14, seconda serie, di “Typographica”
(1966) Spencer pubblica un bellissimo scritto di Themerson su Apollinaire, dal titolo Idéogrammes lyriques. È un’analisi, lucida e viscerale al tempo stesso,
dei calligrammes del poeta francese. Quanto mai affascinante è il racconto della conversazione che Themerson ha avuto con Pierre Albert-Birot, poeta egli
stesso e, cinquant’anni prima, amico di Apollinaire.
Nella rivista “Sic” di Albert-Birot apparve per la prima volta il più bello dei calligrammi di Apollinaire, Il
pleut (Piove), e da quella rivista è stato poi riprodotto
fotograficamente innumerevoli volte. Albert-Birot racconta come ne fu fatta la composizione tipografica,
nella bottega di monsieur Levé. Questi era ormai quasi in pensione, e non si metteva più al compositoio.
“Ma una sera, quando gli fu mostrato l’originale di Il
pleut, gli piacque così tanto che volle comporlo lui stesso, e così fece. Cominciò subito e lavorò tutta la notte,
fino al mattino” [33]. Quindi Themerson, per contrasto,
32
mostra vari esempi di cattiva composizione tipografica dei calligrammi di Apollinaire.
Tuttavia il centro dello scritto di Themerson, a prima
vista sconcertante per un vecchio dadaista (ma in realtà
sostanziale), è qualche pagina prima: “Apollinaire fu
forse il primo poeta che riuscì con successo a sostituire alcune delle qualità sonore di un segno con le sue
qualità visive. E questo con l’aggiungere una specie di
spatola iconopeica (se mi si permette di coniare una parola siffatta [34]) all’usuale plettro onomatopeico”. E
gli aztechi, i maya, gli ittiti? Gli egiziani, cinesi? Gli
ellenisti dei carmi figurati, i virtuosi della calligrafia,
gli sperimentatori della tipografia? E il Mallarmé di Un
coup de dés jamais n’abolira le hasard, Marinetti, i futuristi? Il giudizio di Themerson è deciso: “Apollinaire era un poeta che cantava. E non cessò di esserlo
quando, più tardi, cercò di usare le qualità visive e spaziali dei segni per esprimere gli stessi pensieri e sentimenti, i suoi propri, e per creare la stessa lirica, la sua
propria. La sua lirica. Questa è una delle cose che lo
rendono diverso sia da Mallarmé che l’ha preceduto
che da Marinetti e dai futuristi che gli sono sopravvissuti. [...] Mallarmé faceva esperimenti con la sintassi.
Marinetti e i futuristi tentavano di abolirla. Apollinaire rimase un poeta lirico. Le loro – ci si può chiedere:
erano poesie o manifesti, collage o immagini, oppure
solo atti di dèi ribelli? Le sue – erano indubbiamente
poesie, liriche quanto ciascuna delle sue precedenti”.
E Themerson così conclude: “Ora, c’è ancora una cosa che mi tiene in dubbio, personalmente. Quando ho
sentito per la prima volta il Pierrot Lunaire di Schoenberg, ricordo quanto mi mettesse a disagio che una forma nuova fosse usata per esprimere sentimenti ‘antiquati’. Ciò che mi tiene in dubbio è che non so perché
non provo affatto questa sensazione quando decifro i
calligrammi di Apollinaire. Forse la sua forma non è
così nuova, dopotutto. O forse sono i suoi sentimenti,
a non essere così ‘antiquati’?”.
L’ultimo numero di “Typographica” (16, dicembre
1967), nelle sue ultime pagine, porta il lavoro forse più
visionario di Stefan Themerson, Kurt Schwitters on a
time-chart (Kurt Schwitters su una mappa del tempo),
dove la passione d’avanguardia, la giustificazione interna verticale, la topografia tipografica, le riflessioni
su Apollinaire e l’intera multiforme complessità dell’autore appaiono convergere in una sintesi unitaria; e
allo stesso tempo “il contributo più radicale, in termini tipografici e strutturali, mai pubblicato sulle pagine
della rivista” [35]. Perché il lettore possa trarne le proprie conclusioni, è sembrato opportuno riprodurlo per
intero in queste pagine, in dimensione ridotta ma nella forma più sinottica possibile.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Le due pagine a fronte di The visible word di
Herbert Spencer dove sono riprodotti, sulla pari il
testo originale dello stesso Spencer, e sulla dispari
il trattamento fattone da Themerson secondo la
sua giustificazione interna verticale.
La freccia indica fino a dove, nell’originale, arriva il
trattamento.
Due pagine a fronte da Ideogrammes
lyriques di Stefan Themerson
(“Typographica”, n. 14, nuova serie).
Sotto, la tipografia semantica in un
dettaglio della pagina 5.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
33
NOTE
Troppo facile
Una dolente citazione conclusiva di Themerson, dalla
brillante introduzione a una raccolta di scritti sulla poesia semantica pubblicata dalla Gaberbocchus nel 1975
[36]: “È stato il rifiuto di essere rimosso dalla realtà, il
rifiuto di essere ingannato, che mi ha portato a concepire la Poesia Semantica (per non dire a irrompere nella –), qualcosa come 30 anni fa, prima del tempo della
televisione, in un’epoca nella quale i demagoghi politici di ogni specie utilizzavano i congegni retorici rubati ai poeti, proprio come oggi, in quest’epoca di Illuminazione per mezzo della Pubblicità, i demagoghi
commerciali utilizzano i trucchi di animazione rubati
agli artisti visivi”.
1.
E infine, giunto alla fine di questo scritto, mi appare
doveroso confessare che temo purtroppo gli si attagli
quanto Themerson scriveva a proposito di una nota
biografica che Froshaug, nei primi tempi della loro frequentazione, aveva redatto su di lui [37]: “Non amo
questo tipo di ricerca letteraria, che consiste nel trovare pezzi della vita dell’autore & nel montarli ad hoc con
pezzi del suo lavoro. Mi sembra qualcosa di essenzialmente non scientifico, pregiudizievole, irrilevante,
fuorviante & tutto considerato troppo facile”.
1. Anatol Stern, Avant-garde graphics in Poland between the two
world wars, “Typographica”, n. 9, seconda serie, giugno 1964.
Sono qui riprodotte due coppie di pagine a fronte dall’edizione
inglese di Europa di Stern (Gaberbocchus, 1962) [1]; pare infatti
che della pubblicazione originale non se ne sia conservata alcuna
copia. Al film in bianco e nero Przygody czlowieka poczciwego
(L’avventura di un buon cittadino) di Franciszka e Stefan
Themerson (1937) si ispira Due uomini e un armadio, uno dei
primi film di Roman Polanski (1958).
2. The urge to create visions, Gaberbocchus / De Harmonie,
Amsterdam 1983 (nella prefazione, scritta nel 1980, Themerson
scrive: “Questo libro appartiene al passato, e lì è dove lo lascio,
senza cercare di mostrarlo attraverso i filtri del presente.
Gli storici dell’arte cercano di classificare e etichettare i suoi ismi.
È legittimo. Così ha fatto Linneo con le piante e gli animali.
Ma gli animali della giungla non sono quelli di uno zoo ben
ordinato. E questo libro non è una tesi accademica. È la memoria
di sogni passati”). Contiene, tra l’altro, la proposta di un curioso
dispositivo concettuale sinestesico, l’Avoton (Audio-Visual OneTo-One Normalizer, normalizzatore audiovisivo uno-a-uno),
che mette in corrispondenza musica e arte visiva.
3. Themerson a quanto pare è stato l’unico membro inglese
dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle), il leggendario
circolo di letteratura sperimentale fondato nel 1960, tra gli altri, da
Queneau e da François Le Lionnais, del quale hanno fatto parte,
tra gli altri, Marcel Duchamp, Gerges Perec e Italo Calvino
(Oulipo, La littérature potentielle e Atlas de lttérature potentielle,
Gallimard, Parigi 1973 e 1981).
4. Martin Gardner (a cura di), The Annotated Alice, Penguin
Books, Harmondsworth 1965.
5. Alice è presente nell’Anthologie de l’humour noir pubblicata
da André Breton nel 1939.
6. Così si legge invece alla quarta strofa di Jabberwocky:
The Jabberwock with eyes of flame
Came whiffling through the fulgey wood
And burbled as it came!
e così nella versione latina di Hassard Dodgson:
Praesens ecce! Oculis eui fera flamma micat
Ipse Gaberbocchus dumeta per horrida sifflans
Ibat, et horrendum burbuliabat iens!
7. Nel 1719 apparve in Inghilterra addirittura un trattato teorico,
Ars Punica, sive Flos linguarum (Arte del punning, ovvero Fiore
delle lingue), forse ispirato e in parte redatto da Jonathan Swift,
che ne codificava le procedure in 34 regole (Caterina Marrone, Le
lingue utopiche, Stampa Alternativa & Graffiti, Viterbo 2004, pp.
170-71).
8. Nel sito www.xs4all.nl/~nmars/Themerson.html. si trova una
bibliografia delle opere di Themerson in volume, a cura di
N. J. I. Mars. Sono forse più facilmente reperibili, e pubblicati con
molta cura, con graziose copertine su disegni di Franciszka, due
racconti filosofici di Themerson pubblicati in francese nel 2000
dall’editore parigino Allia: Les aventures de Peddy Bottom e
Ouah! Ouah! Ou qui a tué Richard Wagner? (traduzione di JeanMarc Mandosio).
9. Cardinal Pölätüo, Gaberbocchus, London 1961. Il romanzo è
stato pubblicato in italiano: Vita del cardinale Pölätüo: con note
sui suoi scritti, i suoi tempi, i suoi contemporanei, traduzione di
Francesco Saba Sardi, Rizzoli, Milano 1969. Se ne è persa per
altro qualsiasi traccia. L’unica altra opera che appare essere stata
tradotta è Wooff Woof or Who killed Richard Wagner?
(Gaberbocchus, 1951): Arf arf o Chi ha ucciso Riccardo Wagner?,
traduzione di Francesco Delmastro, introduzione di Guido
Almansi, Franco Maria Ricci, Milano 1974.
34
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
10. L’estone è l’unica lingua europea che utilizza nella propria
trascrizione alfabetica corrente la dieresi su tutte le tre vocali del
nome del cardinale (Peter T. Daniels, William Bright, a cura di,
The world’s writing systems, Oxford University Press, New York
- Oxford 1996).
11. Jasia Reichardt, prefazione a Stefan Themerson, Collected
Poems, Gaberbocchus / De Harmonie, Amsterdam 1998.
12. La révolte des oreilles / The revolt of the ears / Bunt uszu,
in Collected Poems, cit., p. 48.
13. Ignoro se André Breton conoscesse né tantomeno se
apprezzasse l’idea di Themerson, ma riporto qui la definizione che
egli dava di “surrealismo” nel Manifesto del 1924: “Automatismo
psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia
verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il
funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza
di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni
preoccupazione estetica o morale”. Si pensi poi alle procedure
generative sperimentate dai surrealisti, come il ritagliare righe di
giornale e comporle a caso.
14. Spero proprio sia inutile ricordare che Topografia della
tipografia era il titolo del folgorante “manifesto” di El Lisitskij
pubblicato su “Merz”, la rivista di Schwitters, nel n. 4 del luglio
1923, che difficilmente Themerson avrebbe potuto non conoscere
(“Le parole del foglio stampato vengono guardate, non udite...
La configurazione dello spazio del libro per mezzo del materiale
compositivo secondo le leggi della meccanica tipografica deve
corrispondere alle tensioni di trazione e di pressione del
contenuto...”).
15. Si tratta di un aforisma di Thomas Fuller, teologo del xvii
secolo (di quelli chiamati divine), dal suo The holy and profane
state, pubblicato nel 1642.
16. L’epoca Tang (618-916 d.C.) è quella della grande fioritura
della cultura cinese, incomparabile laboratorio della modernità
(vedi in particolare un recentissimo saggio di “storia globale”:
S. A. M. Adshead, T’ang China. The Rise of East in World History,
Palgrave Macmillan, Houndmills - New York 2004). Questa civiltà
raffinata e cosmopolita si era affacciata nell’Asia Centrale
arrivando sino al Mar Caspio, per poi ritirarsi dopo lo scontro sul
fiume Talas (751), nell’attuale Kirghizistan, con le avanguardie
della grande espansione araba. Dall’Asia Centrale, dalla Sogdiana
di Alessandro Magno (odierni Uzbekistan e Tagikistan), veniva il
generale An Lushan, la cui tragica rivolta, iniziata nel 755, finì poi
per portare alla disgregazione della dinastia. “Lushan” è la
trascrizione cinese del sogdiano “Roxane”, “che porta la luce”, lo
stesso nome della moglie di Alessandro, appunto sogdiana anche
lei. La dubbia interpretazione dionisiaca di questa Bevendo sotto la
luna ha fatto sì che Li Bo, in realtà uno dei molti grandssimi poeti
Tang, sia forse quello più conosciuto in Occidente.
17. Winifred Galbraith, The Chinese, Penguin Books,
Hammondsworth 1942. Una più recente traduzione in inglese,
quanto mai gradevole per metrica e rime baciate, e quindi forse
non proprio fedelissima, la si può trovare in Golden Treasury of
Tang and Song Poetry (Aureo tesoro di poesia Tang e Song),
Peking University Press, Pechino 1995, a cura di Xu Yuan Zhong,
qui di seguito riportata per un più ampio spettro delle
problematiche della traduzione. È riprodotto in questa pagina [2]
anche il testo originale con la trascrizione in pinyin, il sistema
ufficiale di trascrizione alfabetica del cinese. Senza voler entrare
nelle delizie di lingua e scrittura cinesi, ecco il significato dei
quattro caratteri che compongono il titolo (yue xia du zhuo): luna,
sotto, solitario, bere. I segni diacritici indicano con quale dei
quattro toni della lingua cinese standard ogni sillaba viene
pronunciata.
Drinking Alone under the Moon
Among the flowers from a pot of wine
I drink alone beneath the bright moonshine.
I raise my cup to invite the Moon who blends
Her light with my Shallow and we’re three friends.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
The Moon does not know how to drink her share;
In vain my Shadow follows me here and there.
Together with them for the time I stay
And make merry before spring’s spent away.
I sing the Moon to linger with my song;
My Shadow disperses as I dance along.
Sober, we three remain cheerful and gay;
Drunken, we part and then each goes his way.
Our friendship will outshine all earthly love;
Next time we’ll meet beyond the stars above.
Perdendo le pregevoli sonorità del prof. Xu, in italiano si potrebbe
scrivere come segue.
Bevendo solo sotto la luna
Tra i fiori, da una brocca di vino,
bevo solo sotto la brillante luce della Luna.
Alzo la mia coppa per invitare la Luna che mescola
la sua luce con la mia Ombra, e siamo tre amici.
La Luna non sa come bere la sua parte;
Invano la mia Ombra mi segue qua e là.
Insieme a loro passo il mio tempo
e sono felice finché la primavera sia passata via.
Canto alla luna che si attardi con il mio canto;
la mia Ombra si perde mentre vado danzando.
Sobri, noi tre siamo contenti e felici;
ebbri, ci separiamo e poi ognuno va per la sua
strada.
La nostra amicizia supererà tutto l’amore terreno;
la prossima volta ci incontreremo oltre le stelle.
18. La traduzione di Giorgia Valensin pubblicata da
Einaudi nel 1952 in Liriche cinesi, con tanto di
prefazione di Eugenio Montale, nella bella collana
“Universale Einaudi” (le cui copertine sono
presumibilmente attribuibili a Max Huber), è la
seguente (p. 111):
Bevendo in solitudine al lume della luna
Una coppa di vino in mezzo ai fiori.
Bevo da solo, senza un amico di fronte.
Alzo la coppa e invito la luna lucente:
Con lei e colla mia ombra saremo tre.
La luna, ahimé, non è bevitrice di vino,
E la mia ombra, pigra, mi striscia al fianco.
Pure, colla luna amica e coll’ombra schiava
Dovrò far festa, mentre è ancor primavera.
Nei canti che intono raggi di luna guizzano;
Nella danza che intesso, l’ombra s’impiglia e si
spezza.
Prima, da svegli, ci divertivamo in tre,
Or che siamo ebbri, ciascuno va da per sé.
Oh, godiamoci per lungo tempo ancora
La nostra strana inanimata festa
Per ritrovarci alla fine sul fiume di Nuvole!
2.
Una nota precisa che il “fiume di Nuvole” è la Via Lattea.
La stessa Einaudi, nel 1962, ha pubblicato Le trecento poesie Tang
tradotte da Martin Benedikter. Ecco la poesia di Li Bo (p. 108):
Bevendo da solo sotto la luna
Tra i fiori, a una brocca di vino
sono io solo, non un amico con me.
Ma levo il bicchiere, e invito la luna,
poi l’ombra di fronte: noi siamo tre,
luna che bere non sai,
ombra che per natura segui il mio corpo.
Ora questa è la compagnia, la luna e l’ombra che dà,
e sono lieto fin ch’è primavera.
Se canto vibra la luna su e giù,
se danzo balza l’ombra confusa.
Finché il senno è desto, tutti lega la scambievole gioia,
poi gravato d’ebbrezza ciascuno vuole andare diviso...
Ma eternamente voi mi accompagnate nel mio vagare senza
sentimento.
Insieme nell’ora ci ritroveremo lontano nel Fiume delle Stelle.
35
Solita nota che dice che il “Fiume delle Stelle” altro non è che la
Via Lattea.
Leonardo Arena, in Poesia cinese dell’epoca T’ang (Rizzoli,
Milano 1998, p. 52), la traduce invece così:
Sotto la luna, un festino solitario
Seduto lì tra i fiori, con la brocca di vino –,
festino solitario, privo di amici intimi –,
elevo il mio boccale e invito il chiar di luna.
Insieme all’ombra, poi, saremo in tre,
giacché la luna non si negherà al bere.
E mentre l’ombra seguirà il mio corpo,
intanto, al fianco suo, io scorterò la luna.
La via della gaiezza termina a primavera;
mentre la luna ondeggia, al mio canto, qua e là.
Ed ha un sussulto l’ombra, fremendo, alla mia danza.
Da sobri, noi viviamo di una gioia comune;
quando poi, nell’ebbrezza, ciascuno si disperde.
Noi tre, per sempre uniti, vagando senza affetti,
infine, in lontananza, saremo alla Via Lattea.
Come si vede, si somigliano poco. Per chi fosse interessato, c’è il
sito http://people.zeelandnet.nl/henklensen/openingen.html, di un
certo Henk Lensen, che è dedicato alla raccolta di traduzioni della
poesia di Li Bo. Ce n’è per tutti i gusti.
19. Vedi ad esempio una composizione di Raoul Hausmann del
1919 [3] (da The Dada Painters and Poets: an anthology, a cura di
Robert Motherwell, pregevolissimo design di Paul Rand,
Wittenborn, New York 1951). Themerson stesso, in Idéogrammes
lyriques (“Typographica”, n. 14, seconda serie, giugno 1966; vedi
più avanti), discute della macchina da scrivere come strumento
privilegiato di écriture automatique surrealista, e si chiede cosa
avrebbe fatto Apollinaire se l’avesse usata per i suoi calligrammes
(conclude che avrebbe fatto più o meno le stesse cose). Si veda
anche l’uso spiccatamente information design nel diagramma,
riportato da Edward R. Tufte (The Visual Display of Quantitative
Informations), sulla presenza di reggimenti americani in Francia
durante la prima guerra mondiale [4].
20. È d’obbligo menzionare qui la brillante tesi di laurea discussa
da Serena Brovelli al Corso di laurea in Disegno industriale del
Politecnico di Milano (aprile 2003), Evoluzione delle strutture di
impaginazione: verso la scrittura non lineare, e il suo altrettanto
brillante complemento, Lago Maggiore e d’Orta. Guida tascabile
per il viaggiatore.
21. Anthony Froshaug. Documents of a life e Anthony Froshaug.
Typography & texts, due volumi a cura di Robin Kinross, Hyphen
Press, London 2000. Oppure si veda almeno, dello stesso Kinross,
La tipografia di Anthony Froshaug, “Lineagrafica”, n. 4, luglio
1993.
22. Anthony Froshaug. Documents of a life, cit., pp. 38-39.
23. Anthony Froshaug. Documents of a life, cit., pp. 66-68. Sono
riprodotte come immagini (perché il documento “sfida la
trascrizione”) le due facciate di una bella lettera di Themerson,
con incluso disegnino di Franciszka che ritrae Froshaug sulla riva
dell’Atlantico.
24. La Semantic Sonata è riprodotta per intero in Stefan
Themerson, On Semantic Poetry, Gaberbocchus, 1975, pp. 47-57,
e in Stefan Themerson, Collected Poems, cit, pp. 93-108.
Differiscono leggermente tra loro per disposizione tipografica,
come ambedue differiscono altrettanto leggermente dalla pagina
composta da Froshaug per il quartino di presentazione.
27. Rick Poynor, in una bella monografia riccamente illustrata
(e che ha però il difetto di non essere corredata da un’indice
analitico), ha recentemente tratteggiato una storia complessiva
della rivista: Typographica, Princeton Architectural Press, New
York 2002. Lund Humphries è una vecchia casa editrice, tuttora
operante, specializzata nel campo della stampa; tra i suoi pregi,
quello di aver organizzato nel 1935 a Londra una mostra dei lavori
di Jan Tschichold, premessa alla conoscenza da parte dell’ambito
tipografico inglese delle sperimentazioni delle avanguardie e alla
successiva chiamata di Tschichold da parte della Penguin Books
(1946).
28. Spencer ha poi ripubblicato in volume una scelta di articoli,
apparsi in “Typographica” (seconda serie), tra cui i due contributi
di Themerson citati più avanti: The liberated page, Lund
Humphries, London 1987 e Bedford Press, San Francisco 1987.
Di Spencer vanno poi citati The visible word (Royal College of
Art, Londra 1967), bello studio sulla leggibilità, e l’agile e assai
meritevole Pioneers of modern typography (Lund Humphries,
1982), che ha avuto un ruolo impareggiabile nella diffusione
dell’avanguardia tipografica. Ancora di Spencer si deve ricordare
il pur non sempre felice Worte, Worte, Worte / words, words,
words (Parole, parole, parole, come dice Amleto; Galerie Der
Spiegel, Colonia 1972) raccolta di tipogrammi semantici in
inglese e tedeco, tra cui quello su un aforisma di Themerson qui
riprodotto [5] (Le parole riferite alle parole / sono riferite alle
parole / ma le parole / sono riferite al resto del mondo / E persino
le parole riferite alle parole riferite alle parole / non ti
raggiungeranno / senza quella parte del mondo / che non è parole).
3.
29. Nel numero 2 di “Typographica”, seconda serie, 1960, furono
infatti pubblicate le iniziali di Franciszka per Esecizi di stile di
Queneau, qui riprodotte a pag. 24, ma vennero erroneamente
attribuite a Stefan.
6.
30. Annuario di arti della stampa pubblicato da Lund Humphries
sin dal 1895, del quale in quegli anni Spencer era l’editor.
31. Associazione di cultori delle arti della stampa fondata
all’inizio del ’900, raccoglie un numero fisso di 75 membri, più i
membri onorari. Organizza un paio di cene sociali all’anno, alle
quali viene invitato un ospite che tiene una relazione. I menu delle
cene, la cui progettazione viene di volta in volta affidata a un
diverso designer, costituiscono una curiosa documentazione sullo
sviluppo della grafica.
32. Il trattamento di Themerson, oltre a essere parzialmente
riprodotto in The visible word di Herbert Spencer (vedi pag. 33),
è stato recentemente ripubblicato per intero, compreso il dialogo
con Brutus, in Texts on Type. Critical Writings on Typography, a
cura di Steven Heller e Philip B. Meggs, Allworth Press, New
York 2001.
33. L’originale di Apollinaire [6] e la trascrizione tipografica di
monsieur Levé [7] sono riprodotti nella pagina a fronte.
34. In realtà, secondo quanto riporta il Deli (Dizionario
etimologico della lingua italiana, Zanichelli, 1999), la parola era
già stata usata da Platone.
4.
35. Rick Poynor, Typographica, cit., p. 127.
36. On Semantic Poetry, cit., p. 16.
37. Anthony Froshaug. Documents of a life, cit., p. 40.
7.
25. Anthony Froshaug. Documents of a life, cit., pp. 44-48.
26. Da First Principles of Typography di Stanley Morison: “Any
disposition of printing material which, whatever the intention, has
the effect of coming between the author and reader is wrong”
(Qualunque disposizione del materiale tipografico la quale,
qualunque sia l’intenzione, abbia l’effetto di intromettersi tra
l’autore e il lettore è sbagliata).
36
5.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
37
Kurt Schwitters su una mappa del tempo
In queste pagine e nelle successive:
Stefan Themerson, Kurt Schwitters on a time-chart,
realizzato nel 1960 e pubblicato in“Typographica”,
n. 16, seconda serie, dicembre 1967.
Le 19 pagine della rivista (21 x 27,3 cm) sono tutte
qui riprodotte secondo il loro senso di lettura,
con una breve sintesi in didascalia di quanto
vi è contenuto.
Un’edizione di non facile reperimento di Kurt
Schwitters on a time-chart sembra essere stata
ripubblicata in Olanda (Huis Clos, Oude Tonge
1998, Isbn 9076117071).
Le due pagine a fronte delle quali la dispari è
quella iniziale di Kurt Schwitters on a time-chart
(la pari conclude un bello scritto di Berjouhi
Barsamian Bowler sulla micrografia figurata
ebraica).
In basso: studio di Themerson per
quella che sarà la pagina 6, nel quale
si può apprezzare l’uso della
macchina da scrivere con nastro
bicolore (da Rick Poynor,
Typographica, Princeton Architectural
Press, New York 2002).
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Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
1. Il primo incontro tra Themerson, in uniforme dell’esercito polacco, e Schwitters, nel logoro abito grigio del
rifugiato tedesco, avviene a Londra nel 1943, come segnalato dalla scala temporale in alto, a una conferenza di
E. M. Forster al Pen Club, per il terzo centenario dell’Areopagitica di John Milton.
La parola “dada” scivola dalla lingua di Schwitters come uno squillo di tromba di salute mentale, come la
colonna di un ordine perfetto: dorico, ionco, corinzio, e ora dada.
La sovraccoperta del
n. 16 di “Typographica”,
dove è riprodotta una
lettera di Schwitters
ai Themerson del 12
marzo 1946.
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5. Continua: Bismarck (“Sangue e ferro!”), Jarry (“Merdre!”), Zola (“J’accuse!”), Cézanne, Picasso, Apollinaire
(“Non si può portare dappertutto il cadavere del proprio padre”).
Nel 1913 Duchamp lancia tre aghi su una tela per fare un quadro.
Gertrude Stein (“una rosa è una rosa è una rosa”), Remarque (“niente di nuovo sul fronte occidentale”), il
Bauhaus (“accettare coraggiosamente la macchina come strumento degno dell’artista”), Göring (“i cannoni ci
faranno potenti, il burro ci farà solo grassi!”).
Nel 1933 il giuduce Woolsey bandisce l’Ulisse di Joyce.
Diagramma dell’arte come investimento, con la crescita delle quotazioni di Van Gogh, Cézanne e Gauguin.
Gli spazi bianchi, lettore, sono per te, per riempirli con qualunque cosa tu consideri importante.
4. Inizio del quadro sinottico concepito da Themerson, durante una conferenza su Schwitters tenuta a studenti
di Cambridge, per mostrare al suo pubblico di circa venti anni che gli oggetti prodotti dalle avanguardie erano
stati prodotti in un più vasto mondo.
Un mondo nel quale gli orologi girano più in fretta degli orologi annidati nelle vecchie mura del college.
Un mondo che cambia a ogni giro delle lancette.
Quand’è che si avevano vent’anni, in questo mondo?
Diegnai tre righe orizzontali sulla mappa del tempo, e le righe li terrorizzarono. Sicuri e distaccati, come si
sentivano nelle loro toghe nere (che, incidentalmente, portavano ripiegate sotto il braccio), realizzazono
all’improvviso di non essere altrove, di non essere esentati, si videro all’improvviso coinvolti.
Non “impegnati”, ma coinvolti negli ineluttabili meccanismi del tempo, inghiottito dall’avvicendamento delle
vite umane.
La regina Vittoria ha vent’anni tre pollici a sinistra fuori dalla pagina.
Schwitters ha vent’anni nel 1907.
Nel 1907, Bertrand Russell ha 35 anni, Marinetti 31, Stalin e Einstein 28, Hitler 18, De Gaulle 17.
Egli stesso, Themerson, ha vent’anni nel 1930.
La linea tratteggiata è per te, gentile lettore: dove eri tu a vent’anni?
3. Considerazioni sulla natura delle avanguardie artistiche.
Se si prendono due innocenti parole e le si mettono insieme (“Blu è il colore dei tuoi capelli gialli”), questa
oggi ci sembra un’innocente questione estetica.
Mettere insieme in un quadro tre innocenti oggetti (un biglietto del treno, un fiore, un pezzo di legno) ci
sembra un’innocente questione estetica.
Non è per niente così: il biglietto appartiene alla società ferroviaria, il fiore al vivaista, il pezzo di legno al
mercante di legname.
Mettere queste cose insieme significa fare piazza pulita del sistema di classificazione sul quale si basa il regime,
allontanare le menti della gente dai modi abitudinari di pensiero.
Ficcare il naso nei modi abitudinari di pensiero (si tratti di Giordano Bruno con le sue buffe idee sul
movimento, o di Newton con le sue buffe idee sulla forza, o di Einstein con le sue buffe idee sullo spazio e il
tempo, o di Russell con le sue buffe idee sul pensiero, o di Schönberg con le sue buffe idee su una specie di
eguaglianza democratica tra i tasti bianchi e neri, o dei cubisti con le loro buffe idee sulle forme, o dei dadaisti
e dei merzisti con le loro buffe idee sull’introdurre “simmetrie e ritmi invece di princìpi”), significa essere nelle
viscere dei cambiamenti politici.
“A nulla, a nulla si reagisce più selvaggiamente che a una nuova forma d’arte” (Kandinsky).
2. C’erano scrittori da tutto il mondo, e rumore di aeroplani sopra il tetto.
Due ore prima una bomba era caduta su una casa vicina.
Il cielo, ora reso visibile dalla “rimozione” della parte superiore dell’edificio, appariva luminoso, come in un
dipinto surrealista.
Schwitters aveva raccolto, tra le rovine di una casa distrutta dai bombardamenti, un pezzo di fil di ferro
(“prendo sempre tutto quello che mi sembra interessante”) e, mentre Forster parlava, andava attorcigliandolo
in una scultura spaziale; così che alcuni degli eminenti scrittori presenti ritennero si trattasse di un idraulico
passato lì per sbaglio.
Si citava Milton: “Datemi, su tutte le libertà, la libertà di conoscere, di esprimermi, di argomentare
liberamente, secondo coscienza”.
Brani dalla Ur-Sonata di Schwitters: Fümms bö wö tääa zää Uu...
Datemi la libertà di gridare questi suoni.
La libertà di piegare un fil di ferro in una scultura spaziale.
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9. E così, dal tumulto dei primi anni venti, era nata una nuova arte.
In queste immagini apparentemente non rafffigurative, i pezzi di realtà conficcati, letteralmente, incollati
dentro, rappresentavano il mondo esterno quanto una forma rosa rappresentava il bue inglese in un quadro di
Hogarth, o una linea nera la forca in uno di Goya.
Ma non si trattava di un rovesciamento del mondo di pavoni e gigli di John Ruskin, quanto piuttosto di una
specie di trasformazione delle sue equazioni in uno spazio storico differente.
Le belle arti erano quelle nelle quali mano, testa e cuore venivano a unirsi: etica ed estetica erano fuse.
La battaglia contro le idee, i valori e la mentalità associati con la guerra e con le sue conseguenze.
Fotogrammi vari (il primo è di Themerson).
Come non era più un’indiscutibile verità che un kaiser fosse un kaiser e che un derelitto fosse un derelitto,
così non era neanche vero che un biglietto fosse un biglietto.
Nel coro che gridava “Aristotele go home!” la voce dada era forte quanto quella della logica simbolica.
Nuovi modi di vedere il mondo aprirono il dominio di nuove sensibilità.
Esplorare la giungla delle nuove forme divenne in sé un’arte.
Il cerchio (o la spirale?) si chiudeva.
Schwitters era nato come ribelle.
Morì come poeta lirico.
8. Alcuni collage di Schwitters, con il leggendario “merz” (frammento di “Kommerz”), che darà poi il nome a
gran parte della sua produzione.
7. Gli anni venti!
Ricordate i disegni di George Grosz? Funzionari, uomini d’affari, lavoratori, prostitute, una vedova di guerra,
un eroe di guerra, un orfano di guerra.
L’inconscio freudiano può nascostamente compiacersi dell’immagine di un mondo dove il prezzo di una
prostituta era un pacchetto di sigarette quando si andava a letto con lei e una scatola di fiammiferi quando la si
lasciava.
Per quanto innocenti possano apparire oggi (1960) i collage, i fotomontaggi e la tipografia del tempo, la nuova
ondata non partì come un’innocente questione estetica.
Biglietti dell’autobus, banconote e pezzi di giornale finivano nei collage non per i loro valori estetici, non
perché fossero rosa o morbidi o quadrati, ma perché i biglietti erano usati, le banconote svalutate, e gli
annunci senza speranza dei giornali gridavano: si cerca lavoro! si vende! si predice il futuro!
6. Continua: Schwitters a vent’anni (1907), Blériot attravera la Manica in aeroplano, la prima guerra mondiale.
Nel 1916, proclamazione del manifesto dada al Cabaret Voltaire di Zurigo.
Schwitters inventa la parola “merz” per denominare le sue opere.
Nel 1922, prima mostra russa di cubismo, suprematismo, costruttivismo.
Nel 1923, ad Hannover viene pubblicato il primo numero della rivista “Merz”, a Monaco viene pubblicato Mein
Kampf di Hitler.
Incendio del Reichstag, seconda guerra mondiale.
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13. La seconda storia è quella delle Tre pattumiere sulla mappa del tempo: la pattumiera del mercante di pellame,
quella del Paese delle Meraviglie e quella capitalista.
La pattumiera del mercante di pellame, con citazioni da Hans Arp e Richard Huelsenbeck: c’era una volta una piccola
pattumiera, piena fino all’orlo di vecchie prostitute con capelli del colore dell’erba, in agguato in attesa di labbra
putrefatte e nitriti lascivi, e sanguisughe con l’elmetto in parata davanti a spaventapasseri pieni di medaglie (Arp); era
recintata di ossa, e stava all’ingresso del Cabaret Voltaire, a Zurigo; e un bel giorno un gruppo di giovani uscì dal
Cabaret Voltaire, sollevò la pattumiera e ne rovesciò il contenuto su quelli che l’avevano riempita, sui grassi e
stolidi maiali filistei di Zurigo, e sul Kaiser, l’iniziatore della guerra, e su quella nazione che al suo meglio era un
cartello di mercanti di pellame e di profittatori in cuoio, al suo peggio un’associazione culturale di psicopatici, i quali
marciavano con un libro di Goethe nel tascapane per infilzare francesi e russi sulle loro baionette (Huelsenbeck).
E poi c’era un’altra pattumiera, La pattumiera del Paese delle Meraviglie, piena di frammenti di realtà rigettati dalla
città moderna, mentre i boschi erano pieni di tutti quegli uccelini e api e fiori e topolini; e un uomo di nome
Schwitters venne lì, e voleva fare come i suoi colleghi di Zurigo; ma appena guardò dentro, vide i piccoli diseredati
frammenti della realtà, ed era come San Francesco, con le sue piccole sorelle, le pagine spiegazzate di giornale, e i
suoi piccoli fratelli, i poveri fiammiferi bruciati; ma a differenza di Francesco, non smise di essere arrabbiato e
sardonico.
“Nulla è troppo infimo per essere usato come elemento di composizione”.
E ancora La pattumiera capitalista di Majakovskij: “corse / 7000 verste / in avanti / e si ritrovò / sette anni dopo”;
accanto alle sfarzose Brodway e Fifth Avenue, poveri miserabili frugano nelle pattumiere in cerca di un osso con
un po’ di carne attaccata.
“Abbiamo le nostre ambizioni – le ambizioni sovietiche. / I borghesi li guardiamo dall’alto in basso”.
12. Intermezzo: due piccole storie enigmatico-allusive sulla mappa del tempo, ciascuna divisa in tre, dedicate a
Raoul Hasmann.
La prima storia è quella dei Tre piccoli cani su una mappa del tempo: il cane nobilitato, quello che ulula e quello
morto.
Il cane nobilitato, qualche pollice a sinistra del 1890, è una riflessione sull’utilizzazione della parola chien (cane) nella
lingua letteraria francese: Moliére poteva usare la parola senza problemi, mentre Racine sentiva il bisogno di
nobilitarla in qualche modo, perché essa potesse essere inserita in un verso poetico.
Il cane che ulula racconta che Schwitters si presentò una volta a una lettura di poesie con un foglio che conteneva
solo la lettera W.
Cominciò a leggere la lettera in un sussurro, per poi andare avanti in un crescendo e concludere ululando.
Commento di Moholy-Nagy: “Era la risposta non solo alla situazione sociale, ma anche alla poesia del tipo ‘bocca
di ciliegia’, ‘capelli corvini’ e ‘ruscello balbettante’”.
Il cane morto è da una lettera di D. H. Lawrence (Navojoa, Sonora, 5 ottobre 1923).
Racconta Lawrence: “Al centro del piccolo mercato coperto di Alamos, tra le carni e le verdure, c’era un cane
morto, disteso come se dormisse. Il venditore di carni disse al verduraio che avrebbe fatto bene a gettarlo via. Il
verduraio guardò il cane morto e non vide alcuna ragione per gettarlo via. Così non c'è dubbio che il cane stia
ancora lì”.
11. Sembra che quelle opere d’arte in cui il compimento estetico supera l’evento sopravvivano meglio alla
corrosione del tempo.
La gran parte del lavoro di Schwitters, in particolare quello prodotto tra il 1923 e il 1928, è di questo tipo.
Posso allora dire che un collage di Schwitters è apprezzato non perché fosse hip, ma perché è diventato square,
proprio come square è Monna Lisa, con baffi e senza?
O sbaglio?
Al rappresentante degli studenti di vent’anni di Cambridge, Themerson domanda: “Questo nuovo interesse per
dada e Schwitters significa che c’è qualcosa di simile tra gli anni venti e gli anni sessanta? Loro sfidavano i problemi
del loro tempo; i loro metodi servono ancora per sfidare i problemi del vostro? E quali sono questi problemi? E
voi volete sfidarli?”.
Risposta: “Il collage moderno non si interessa molto di ciò che i suoi materiali erano prima, né da dove vengono...
L’anti-arte è finita: la protesta personale è finita. Nessuno prende più sul serio la Royal Academy. Se non ci
piacciono le bombe atomiche, ci sono le marce organizzate. La ribellione è di rigore, l’anti-arte è materia per il
terzo programma. E così la protesta personale di Schwitters è morta... perché le proteste personali non
scandalizzano più... Ma la qualità dei suoi collage, rispetto a quelli di altri dadaisti, sta nella scelta estremamente
personale dei materiali... che ancora affermano la loro individualità, l’individualità che avevano prima di passare per
le mani di Schwitters... Egli mostra amore e rispetto per i materiali, mentre gli altri mostrano soltanto protesta...
Sì, crediamo di riconoscere che Schwitters sta diventando merce per i mercanti d’arte, e certamente un piacere
per gli occhi. La sua relazione con gli anni venti rimane di uguale importanza, ma quella con gli anni sessanta, per
quel che riguarda il pensiero, la collocazione sociale e politica ecc., è meno solida.
10. Un tardo collage di Schwitters, del 1940 (Examiners 2861).
Contiene ancora un pezzo di biglietto dell’autobus, ma questo pezzo di biglietto non è più una protesta contro il
mondo, né si tratta della scoperta di nuovi materiali e nuove tecniche.
Questo pezzo di biglietto è una questione del tutto personale.
E cosi per “1/4 di libbra”, per l’etichetta “opened by examiner 2861” e per le parole “come stampare qualcuna
delle mie poesie”.
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17. Questo non significa che Marinetti fosse l’origine del movimento.
Era un sismografo tra altri sismografi.
Le stesse forze che lo portarono a lodare “il potere della macchina” portarono il Bauhaus ad “accettare
coraggiosamente la macchina come strumento degno dell’artista”.
Le stesse forze che lo portarono a lodare una macchina da corsa, che sembra correre sugli shrapnel ed è più
bella della Vittoria di Samotracia (Apollinaire: “No, voi, Marinetti, fondate una nuova religione basata sullo
sviluppo dei mezzi di locomozione. Invece di divinità dite velocità; i tedeschi, senza saperlo, hanno fondato una
religione della ferocia), le stesse forze hanno portato Meyerhold a inventare il suo teatro biomeccanico e
Tairov a frantumare la scena che divide il palco dal pubblico.
Hanno portato Klee a innamorarsi di una foglia verde, di una piccola stella, di un’ala di farfalla.
Hanno portato i dadaisti a contraddire l’ordine esistente del mondo.
Hanno portato Kurt Schwitters a inventare la merz-art.
16. Sembra che Marinetti tratti il linguaggio non come mezzo di comunicazione, non come strumento per
pensare, e neanche come espressione delle emozioni, ma come comportamento.
Questo è forse vero anche per altri esperimenti di scrittura di quel tempo.
Ed è affascinante osservare come lo studio del linguaggio come comportamento sia l’oggetto di quelle che oggi
sono la neurolinguistica e la psicolinguistica: “Le idee, le percezioni e la metafisica di un’intera cultura sono
determinate dalla struttura del linguaggio che gli è peculiare”.
In altre parole: il nostro linguaggio pensa per noi.
E quindi, se ci si vuole migliorare, modificando le nostre percezioni, e le nostre attitudini e il nostro
comportamento, si deve cercare di modificare le nostre abitudini linguistiche, la nostra sintassi, il nostro
vocabolario e il nostro stile.
Questo è ciò che futuristi e dadaisti cercavano di fare negli anni venti, che i dittatori e altri politici cercavano di
fare negli anni trenta, che gli scrittori decisero non fosse letteratura negli anni quaranta, e questo è ciò che
l’onnipresente gente della pubblicità (politica, industriale, commerciale) cerca di fare oggi.
15. “Poiché nessuna arte, nessuna politica o fede religiosa sembra in grado di arginare questo diluvio,
rimangono solo le facezie e le pose sanguinanti! Quello che stiamo celebrando è allo stesso tempo una
buffonata e un requiem di massa”.
Le simpatie di Schwitters andavano a loro, e non a Marinetti.
Certamente non alle conclusioni di Marinetti; per quel che riguarda le premesse di Marinetti, emotive e
teoriche, non sarebbe ragionevole ripudiarle sbrigativamente.
Egli ispirò Mussolini (“È Marinetti che mi ha instillato il senso dell’oceano e il potere della macchina”), ma
anche Majakovskij e i poeti dell’avanguardia polacca, nessuno dei quali era “fascista”.
Qualcuno di quelli che hanno conosciuto Marinetti dicono che fosse un jolly good fellow, e che il fatto che fosse
ammirato dal Duce, che a sua volta era ammirato da Ezra Pound, non fosse da prendere sul serio.
Beh..., non lo so. A ogni modo ha detto qualcosa sul funzionamento delle parole, sul maneggiare grammatica,
sintassi e stile.
Un confronto tra quanto scritto da John Milton sulla rima, in Paradiso perduto, diversi pollici a sinistra della
mappa (“La rima non è un attributo necessario della poesia, ma l’invenzione di un’età barbarica, per mettere
insieme versi miseri e metrica zoppa”) e quanto scritto da Marinetti, 250 anni dopo, sugli aggettivi e sulle
forme verbali diverse dall’infinito.
Spogliare il sostantivo di tutti gli aggettivi e isolarlo lo riporta ai suoi valori assoluti.
Un aggettivo isolato, tra parentesi, darà l’atmosfera dell’intera storia.
Le diverse forme verbali dovrebbero essere eliminate.
L’infinito è quanto basta alla nuova lirica.
Tavole sinottiche dei valori lirici ci permetteranno di seguire simultaneamente diversi flussi.
14. Torniamo alle nostre pecore!
La prima guerra mondiale.
Cinque anni prima di Sarajevo, quando Mussolini aveva 26 anni, un bio-sismografo di nome Marinetti sentì la
vibrazione sulla parete della pentola in ebollizione ed esplose con il suo manifesto futurista di giovane
arrabbiato: “Siamo qui a glorificare la guerra: l’unica panacea del mondo! Militarismo! Patriottismo! L’arma
distruttiva dell’anarchico! Le idee che uccidono! Disprezzo per le donne!” (1909).
Sette anni dopo, analoga sensibilità del sistema nervoso fece andare altri artisti nella direzione opposta: la loro
arte “doveva essere giovane, doveva essere nuova, doveva integrare tutte le esperienze sperimentali dei
futuristi e dei cubisti”, ma soprattutto doveva essere internazionale, perché essi credevano in
“un’internazionale dello spirito, e non in diverse concezioni nazionali”.
Nessun “orgoglio italiano”, per loro!
Essi “odiavano l’insensato e sistematico massacro della guerra moderna”.
“Poiché la bancarotta delle idee ha distrutto l’idea di umanità fin nelle sue più nascoste profondità, gli istinti e i
retroterra ereditari emergono ora patologicamente”.
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20. Aggiornamento al 1967.
19. Continua...
18. “Sapete cosa significa merz?”, mi chiese una volta Schwitters a Londra.
“Non è una parola tedesca per qualcosa che si butta via, come la spazzatura?”.
“Beh..., non proprio”, disse; e mi accorsi che stava guardando un pacchetto di sigarette 555 che stava sul
tavolo nello studio di mia moglie.
“Incidentalmente”, disse interrompendosi, “posso prendere giusto questo lato del pacchetto? Che bel giallo!
Posso metterlo in uno dei miei collage. Prendo sempre quello che mi sembra interessante” (non disse che
l’intero mondo era la sua palette, ma questo era quello che intendeva).
“Vi dirò”, riprese, “c’era un annuncio su un giornale, di una banca che si chiamava Kommerz und Privat Bank.
Ho preso la prima parola, Kommerz, ho tagliato Komm ed è rimasto merz. L’ho messo nel mio collage. E
questo è stato il primo merz”.
“Dada?”, disse ancora, “Dada era la stessa cosa. Era un gruppo di amici. Merz invece era indipendente. Merz
era mio. Dada era di tutti”.
Schwitters ogni tanto veniva a cena da noi, e così A e sua moglie, e una sera li invitammo tutti insieme (A era
un grande poeta e uno scrittore di teatro, che apparteneva all’apice del Parnasso polacco).
Tutto andò nel migliore dei modi fin quando chiesi a Schwitters di recitarci la sua Ur Sonata, cosa che lui fece.
A resistette dieci minuti e poi cominciò a fargli il verso, mentre la moglie gli gridava di smettere, minacciando il
divorzio.
Ricomposta la situazione, Schwitters disse: “Va tutto bene, ci sono abituato”.
Ma perché non si capivano? Erano tutti e due amici miei, che mi piacevano e che rispettavo; avevano la stessa
età, ed entrambi grande talento e grande sense of humour; se loro non potevano capirsi, come avrebbero
potuto i potenti del mondo?
Guardai nel fondo della mia anima e trovai che ancora mi piacevano entrambi.
E fu allora che scrissi: “Il mondo è più complicato delle nostre verità su di esso”, sapendo ovviamente di non
essere il primo ad aver fatto questa scoperta.
2. Legibility e readability
La definizione teorica
La differenza tra readability e legibility?
Readability: sei seduto su una poltrona,
una novella di Raymond Chandler in mano,
al tuo fianco c’è un bicchiere di birra e un
panino al formaggio.
Legibility: sei in un laboratorio di psicologia,
qualche frase senza senso composta in un
carattere sans serif con tre millimetri di
x-height, sparata su uno schermo, un uomo
in camice bianco viene verso di te con delle
pinze e uno strano aggeggio che misura il
battito delle tue palpebre.
Per poter migliorare la leggibilità occorre
anzitutto comprendere cosa essa sia e quali
criteri la facilitino.
1931
m.a. tinker e d.g. paterson, Influence of type form on
speed of reading, Journal of Applied Psychology, 1928
vol.12, pp. 359-368.
m.a. tinker e d.g. paterson, Studies of typographical
factors influencing speed of reading 3: Length of line,
Journal of Applied Psychology, 1929, vol. 13(3),
pp. 205-219.
m.a. tinker e d.g. paterson, Studies of typographical
factors influencing speed of reading 8: Space between lines
or leading, in Journal of Applied Psychology, 1931, vol. 15,
pp. 388-398.
m.a. tinker e d.g. paterson, Studies of typographical
factors influencing speed of reading 5: Simultaneous
variation of type size and line length, in Journal of Applied
Psychology, 1931, vol. 15, pp.72-78.
m.a. tinker e d.g. paterson, Studies of typographical
factors influencing speed of reading 10: Style of typeface, in
Journal of Applied Psychology, 1932, vol 16, pp. 605-613.
m.a. tinker e d.g. paterson, Reader preferences and
typography, in Journal of Applied Psychology, 1942, vol.
26, pp. 38-40.
14
1160
Dagli anni Trenta, a tale concetto si affianca,
in maniera pressochè interscambiabile,
quello di readability. Miles Tinker, uno dei
più proficui ricercatori in questo settore,
preferisce usare il termine readability rispetto
al termine legibility, considerato troppo
ambiguo e generico. Con readability Tinker
denota la facilità o velocità di lettura di testi
continui in condizioni di lettura normali.
L’impresa risulta più ardua del previsto,
perché intorno al termine c’è molta confusione. Perciò riteniamo sia opportuno considerare l’origine e l’evolversi di tale concetto.
Un buon punto di partenza potrebbe essere
analizzare la distinzione che è stata fatta, in
tempi e modi diversi, tra i termini legibility
e readability. Nel panorama delle ricerche
sulla leggibilità dei caratteri tipografici, il
termine legibility, di volta in volta, prende
in considerazione diverse variabili, come
velocità e facilità di lettura oppure visibilità
e percezione di lettere individuali nello stesso
carattere tipografico.
1965
m.a. tinker, Legibility of Print, Iowa State University
Press, Ames, 1963.
e. poulton, Letter differentiation and rate of
comprehension in reading, in Journal of Applied
Psychology, 1965, vol. 49, pp. 358-362.
Circa vent’anni dopo, però, lo stesso Tinker
riutilizza il termine legibility a causa della
diffusione di formule basate su variabili
lessicali, sintattiche e semantiche, la cui
influenza diventa molto forte negli anni
Quaranta e Cinquanta.
Nel 1965, il ricercatore Christopher Poulton
sottolinea due diverse accezioni dei termini
in questione: preferisce utilizzare readability
per riferirsi alla lettura dei testi e legibility
per riferirsi alla riconoscibilità dei caratteri
singoli; anche se, appena tre anni dopo,
decide di utilizzare il termine legibility
riferendosi alla lettura di testi continui.
Foster nel 1968 sottolinea la necessità
di standardizzare i termini legibility e
readability. Il primo va inteso come “la
facilità con cui il testo corrente può essere
compreso in condizioni normali di lettura”,
mentre il secondo deve essere riservato
“all’identificabilità di un carattere o di una
forma stampata”.
potenzialmente leggibile
Tale definizione, nel 1980, sarà allargata a
qualsiasi tipo di display grafico attraverso
diversi media (simboli, segnaletica, illustrazione, grafici, cartografia e algoritmi).
Nel 1987 l’Organizzazione Internazionale
degli Standard (ISO) usa il termine legibility
riferendosi alle caratteristiche intrinseche dei
caratteri e readability riferendosi alla qualità
della composizione tipografica della pagina.
Tale definizione riflette la distinzione che,
già nel 1957, il tipografo inglese Dowding
faceva tra i due termini sostenendo che
“un carattere illegible non può essere reso
readable, ma che anche il carattere più legible
può essere reso unreadable”.
1980
j.j. foster, Legibility Research 1972-1978: A summary,
Graphic Information Research Unit at the Royal College
of Art, London, 1980.
Nel 1999 Giovanni Lussu riscrive il
problema in termini italiani e propone
l’interessante differenza tra visibilità e
leggibilità, due nozioni ben distinte. La
prima “È il prerequisito: è l’insieme delle
circostanze fisiche, fisiologiche e percettive
(illuminazione, contrasto con il supporto,
rapporti cromatici, distanza, definizione,
discriminabilità tra i segni, presenza o meno
di movimento, di fenomeni di disturbo…)
che garantiscono che un testo possa essere
letto”. La leggibilità, invece, sostiene Lussu,
è più difficile da definire: si potrebbe
affermare che sia l’attitudine di un testo a
essere letto e che dipenda da “circostanze
squisitamente culturali, quali il tipo e grado
di addestramento del lettore, la consuetudine
alla lettura, la varietà di forme conosciute, la
circolazione di documenti scritti nell’ambito
di pertinenza del lettore ecc.”.
1999
g. lussu, La lettera uccide, Stampa Alternativa &
Graffiti, Viterbo, 1999.
robin kinross, The bouma, 2005, in Typo n.13,p. 14.
Sebbene molte delle considerazioni qui
sopra riportate siano degne di nota e offrano
interessanti spunti di riflessione, occorre
ammettere che, ancora oggi, siamo di fronte
a una messe di definizioni diverse, spesso
sfumature di uno stesso concetto, i cui
significati si intrecciano, si sovrappongono
e, a volte, si contraddicono. Non vogliamo
offrire l’ennesima definizione di leggibilità,
tuttavia è necessario, a nostro avviso,
riconsiderare i criteri utilizzati per la sua
definizione e la terminologia adottata, al
fine di ottenere una comunicazione chiara e
univoca; gli antecedenti, occorre ammetterlo,
non sono molto incoraggianti se si pensa che
nel 1928 due ricercatori americani, Crosland
e Johnson, per creare un linguaggio specifico
comune, coniano i termini seraphed (lettere
minuscole con ascendenti o discendenti) e
unseraphed (minuscole senza ascendenti o
discendenti) che, ironia della sorte, vengono
fraintesi da molti autorevoli ricercatori, tra
cui Stanley Morison e Dirk Wendt, i quali
associano erroneamente i termini al concetto
di maggior o minor leggibilità.
15
1161
10. I processi cognitivi
durante la lettura
di un lavoro grafico
Riteniamo utile distinguere tra la percezione
di forme e oggetti e la percezione del
rapporto in cui gli stessi oggetti e forme
stanno fra loro nello spazio percettivo.
Vorremmo suggerire una diversa ripartizione
delle risorse cognitive a seconda del tipo di
scena visiva che si analizza: lettura lineare
oppure di elementi di tipo grafico distribuiti
non linearmente sul supporto.
Negli anni ‘30 Heinrich Kluver e Paul Bucy
(1937) operano una lobotomia temporale su
scimmie rhesus con l’intento di studiare le
ripercussioni dell’operazione chirurgica sul
comportamento emotivo dell’animale stesso.
Tra i vari sintomi riscontrati (che rientrano
tutt’ora sotto il nome di sindrome di Kluver
e Bucy), fu riscontrata cecità psichica,
cioè l’incapacità di riconoscere oggetti che
tuttavia potevano essere visti; inoltre le
scimmie, dopo l’intervento svilupparono una
particolare modalità orale di riconoscimento
degli stimoli: riuscivano a distinguere tra cose
commestibili – e non – portandole direttamente alla bocca. La lobotomia temporale
operata sugli animali aveva provocato un
danneggiamento di un particolare circuito
neurale chiamato via ventrale, che connette
le aree visive occipitali (corteccia primaria
v1, corteccia v2) con quelle temporali. Comunemente tale via informazionale è anche
chiamata ‘via del cosa’, poichè si ritiene che
proprio nel lobo temporale
(area it) vi sia un riconoscimento dell’oggetto
non legato all’orientamento dell’oggetto
stesso né alla sua dimensione; si tratterebbe
di rappresentazioni mentali (un’attivazione
neuronale che organizza la nostra percezione
in uno specifico modo) dell’oggetto ‘assolute’,
non strettamente dipendenti da un particolare punto di vista (un ombrello rimane
identico a se stesso anche se è capovolto).
58
1204
Un’altra ‘autostrada informazionale’ si
diparte dalla corteccia visiva primaria:
la via dorsale connette v1 con il complesso
parietale posteriore e, in particolare l’area
mt, la quale è innervata da particolari
complessi cellulari specializzati nell’analisi del
movimento (cellule magnocellulari; l’area
it riceve invece proiezioni sia dalle cellule
magnocellulari che da quelle parvocellulari,
specializzate nella detezione del colore e dei
dettagli dello stimolo visivo): a ragione tale
via nervosa è chiamata ‘via del dove’. La via
dorsale si occupa in particolare di conservare
una rappresentazione di tipo spaziale
dell’oggetto, vale a dire la sua posizione
nell’ambiente e i rapporti dell’oggetto stesso
rispetto ad altri oggetti presenti nella scena.
Nel 1989 Newsome e colleghi stimolarono
elettricamente l’area mt di alcune scimmie,
alterandone la percezione del movimento di
alcuni oggetti: l’animale sceglieva tra tante
la direzione dell’oggetto codificata dai
neuroni che erano stimolati. Altre evidenze
che confermano la via dorsale essere implicata nella percezione del movimento sono di
tipo clinico e riguardano le persone affette
da sindrome di Williams: tra i sintomi, un
tardivo sviluppo della via dorsale che causa
problemi nel compiere azioni che siano
guidate dalla vista (come disegnare).
Tuttavia da studi recenti (Barsalou,
Borghi…) che ripropongono la teoria
ecologica della percezione (Gibson, 1979)
e inquadrano all’interno di essa i risultati
sperimentali, sembra che la distinzione netta
fatta negli anni passati tra via ventrale e via
dorsale sia in realtà da ridimensionare. In
sintesi sembra che anche la via dorsale si
occupi di riconoscimento visivo, ma di un
particolare riconoscimento visivo.
La teoria ecologica della percezione prevede
che un pieno riconoscimento dell’oggetto
non possa prescindere dal rapporto, o meglio
dall’incontro, tra percepito e percipiente;
incontro che si concretizza nell’interazione
potenzialmente leggibile
tra il soggetto che vede l’oggetto e l’oggetto
stesso che mette a disposizione determinate
caratteristiche e non altre. Una sedia è tale
non solo per il fatto che presenta le caratteristiche visive che solitamente associo a una
sedia, ma poichè posso interagire con essa in
un particolare modo che è tipico della sedia.
Gli oggetti percepiti, infatti, sono
solitamente stati precedentemente toccati,
manipolati, rapportati ad altri oggetti e a
diverse parti del nostro corpo: è ciò che viene
chiamata visione embodied, non esiste cioè
una chiara separazione tra visione e azione.
La via dorsale, pertanto, si occuperebbe
di mettere in relazione la posizione dell’oggetto con il nostro corpo e le nostre azioni;
metterebbe in contatto rappresentazioni
visive con rappresentazioni somatosensoriali
e propriocettive.
Più che ‘via del dove’ potrebbe essere perciò
ribattezzata ‘via del come’: un substrato
neurale che mette in relazione il mondo con
la nostra possibilità di agire al suo interno.
Fino a qui abbiamo visto che esistono dei
substrati neurali che supportano l’identificazione degli oggetti e la loro collocazione nello
spazio in funzione di altri oggetti presenti
nella scena visiva e anche in funzione di
quello che può essere un nostro intervento
nella scena visiva medesima.
Tali considerazioni ci portano ad affermare
che una sintattica di tipo spaziale abbia
senso.
Ciò che vorremmo proporre è una maggiore
attenzione al problema della gestione dell’informazione nello spazio. Se vi sono specifici
canali informazionali deputati all’analisi
dell’informazione spaziale, allora servirebbe,
secondo noi, una formalizzazione (magari
supportata da dati di tipo sperimentale) delle
regole e dei metodi che possano portare
ad incrementare le potenzialità della grafica.
Questo per due motivi:
1. il primo è di natura prettamente
neuroscientifica. Un maggior numero di
rappresentazioni legate a un evento, un
oggetto, un concetto, permettono una sua
migliore comprensione e una migliore memorizzazione.
2. il secondo è di natura grafico-psicologica: utilizzare un’informazione di tipo
analogico-non lineare permette (nei contesti
appropriati) una più immediata comprensione delle informazioni rispetto ad una
strutturazione dell’informazione sequenziale
(per esempio una matrice di dati è meno
comprensibile del relativo grafico, a parità di
informazione soggiacente).
È importante sottolineare che le due vie
agiscono contemporaneamente sulla
comprensione/costruzione della scena visiva:
ci si deve immaginare una commistione
di riconoscimento-collocazione spazialeinterazione corporea piuttosto che una rigida
dicotomia tra oggetto e spazio. Ovviamente,
a seconda del tipo di percetto che si andrà ad
utilizzare, ci saranno diverse richieste che, di
volta in volta, dovranno essere soddisfatte:
leggere un libro e comprendere un cartellone
pubblicitario sono due compiti nettamente
diversi.
Lobo Parietale
MT
via
Lobo Frontale
do
le
rsa
Lobo Occipitale
e
ntral
via ve
IT
Lobo Temporale
corteccia visiva primaria
V1
59
1205