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il settimanale 11-17 gennaio 2014 selezione dei più importanti avvenimenti internazionali Seguici su www.lookoutnews.it Il mondo che nessuno racconta È un prodotto il settimanale 11-17 gennaio 2014 panama - 11 gennaio 2014 Canale di Panama: il contenzioso con Salini bloccherà i lavori? L’ad di Impregilo, Pietro Salini, ha comunicato che per concludere l’opera saranno necessari 1,6 miliardi di dollari. Se il governo panamense non accetterà i cantieri verranno fermati La partita comincia nel 2009, quando il consorzio GUPC (Grupo Unidos por el Canal, in cui Salini Impregilo partecipa al 38%) si aggiudica l’appalto per l’ampliamento del Canale di Panama, con un’offerta di 3,2 miliardi di dollari. Inutile dirlo, quell’offerta era la più bassa: i consorzi concorrenti avevano chiesto oltre 4 miliardi. Ora, a lavori iniziati, l’ad di Impregilo, Pietro Salini, ha comunicato all’ACP (Autoridad del Canal de Panamá, l’ente governativo preposto alla gestione del canale) che, per concludere l’opera, sarà necessario rivedere il prezzo finale: + 1,6 miliardi di dollari. Ma basterà, per il momento, solo 1 miliardo. Immediata, l’8 gennaio, la reazione del numero uno dell’ACP Jorge Quijano: “Impossibile. La richiesta è al di fuori dello schema contrattuale e non può essere accettata. Se il GUPC non è in grado di proseguire l’opera, l’ACP può riprendere il controllo del progetto”. Piero Salini, d’altra parte, minaccia di sospendere i lavori il prossimo 20 gennaio. Se la richiesta di pagamento dei costi aggiuntivi non fosse accettata, per l’ad di Impregilo non resterebbe che ricorrere all’arbitrato internazionale. La data stimata per il completamento dei lavori, prevista per giugno 2015, sembra così allontanarsi proprio quando manca poco più di un anno al raggiungimento del traguardo. Al momento, il clima di tensione e di attesa sembra essere confermato dall’atteggiamento della Sacyr Vallehermoso, alla guida del consorzio GUPC. La società spagnola, infatti, pur avendo perso, all’indomani del match tra Salini e Quijano, quasi il 9% alla Borsa di Madrid, è rimasta silente. www.lookoutnews.it 2 il settimanale 11-17 gennaio 2014 liBia - 12 gennaio 2014 Ucciso il viceministro Al Droui: sempre più in bilico il governo Zeidan L’assassinio a Sirte del viceministro dell’Industria pone nuovi dubbi sulla tenuta dell’esecutivo del premier. Omicidi e sequestri anche in altre aree della Tripolitania e nella Cirenaica L’annuncio di un nuovo rimpasto di governo da parte del premier Ali Zeidan passa totalmente in secondo piano dopo l’uccisione del viceministro dell’Industria Hassan Al Droui, freddato a colpi d’arma da fuoco ieri a Sirte, 500 chilometri a est di Tripoli. Il funzionario libico è stato ucciso nella notte tra sabato e domenica durante una visita nella sua città natale mentre stava guidando in una zona commerciale. Al Droui è il primo membro del Consiglio nazionale di transizione a essere stato ucciso dalla caduta di Gheddafi nell’ottobre del 2011. L’incarico di viceministro dell’Industria gli era stato assegnato da Abdelrahim Al Kib, primo capo di governo dopo la guerra civile, e successivamente confermato da Zeidan. Caos in Tripolitania e Cirenaica Il suo omicidio getta nuove ombre sul futuro del governo del premier, la cui leadership è ormai da mesi minacciata dalle pressioni delle centinaia di milizie armate che controllano vaste aree del Paese. Che la Libia sia di fatto uno Stato dominato dal caos lo dimostrano altri recenti fatti di cronaca. L’8 gennaio un’esplosione ha danneggiato numerosi edifici a Derna e violenti scontri hanno avuto luogo a Sebha, dove uomini armati hanno aperto il fuoco sui soldati che presidiavano l’ospedale centrale. In entrambi i casi non si sono però segnalati né vittime né feriti. Il 7 gennaio è stato trovato il cadavere di una donna avvocato, rapita a Tripoli ad agosto. Sempre nella capitale, il 6 gennaio è stato rapito per alcune ore il capo della Direzione di Sicurezza di Zawiya, il tenente Ali Al Lafi. Lo stesso giorno, a Bengasi, un attentato dinamitardo ha danneggiato la sede di un tribunale e ferito due guardie, una delle quali sarebbe deceduta. Nel capoluogo della Cirenaica, inoltre, sono stati rapiti un anziano commerciante e il figlio di un redattore del quotidiano Kalima, mentre l’esplosione di un ordigno ha gravemente ferito un bambino. In questo scenario, continua il braccio di ferro tra le comunità Tabu e Zwai, con nuovi sequestri da entrambe le parti tra il 3 e il 4 gennaio. Petrolio: tensioni tra Libia e Malta Segnali altalenanti arrivano dall’economia. Dopo la ripresa delle attività nell’impianto di El Sharara, anche la multinazionale francese Total ha riavviato l’esplorazione petrolifera offshore dopo tre anni di sospensione. Negli ultimi giorni si sono invece registrate tensioni tra i governi di Libia e Malta. La marina libica ha infatti intercettato una petroliera battente bandiera maltese che aveva cercato di penetrare nelle acque territoriali in prossimità del porto petrolifero di Al Sidra, nella Tripolitania. Un fatto simile si è verificato pochi giorni dopo al largo di Tobruq. Dopo gli episodi, Zeidan ha minacciato di escludere dal mercato libico e perseguire legalmente tutte le compagnie che cercheranno di acquistare petrolio dai porti occupati. C’è attesa, infine, per il 6 febbraio, giorno dell’inaugurazione a Istanbul della Libya Trade & Infrastructure Finance Conference, organizzata dalla britannica Exporta. L’evento sarà presieduto da John C. Grech, presidente del gruppo FIMBank proprio a Malta. www.lookoutnews.it 3 il settimanale 11-17 gennaio 2014 tHailandia - 13 gennaio 2014 Proteste in Thailandia: i manifestanti minacciano lo shutdown di Bangkok Nella capitale bloccati i principali esercizi commerciali, i trasporti e gli edifici pubblici. Il governo invia nelle strade 15mila agenti delle forze di sicurezza. Ma l’opposizione non è intenzionata a fermarsi Non si placano le rivolte in Thailandia, dove decine di migliaia di oppositori del governo continuano a chiedere le dimissioni immediate della premier, Yingluck Shinawatra, e la riforma dell’intero sistema istituzionale prima di tornare al voto. Ormai il Paese è spaccato in due: da un lato ci sono i difensori dello status quo, che rivendicano la legittimità del governo in carica; dall’altra un variegato fronte dell’opposizione, che raccoglie attorno a sé i sostenitori del leader Suthep Thaugsuban e, più in generale, gran parte della popolazione residente nella capitale Bangkok e negli altri principali centri urbani del Paese. I manifestanti, al grido di “Bangkok shutdown”, hanno bloccato tutte le arterie principali di collegamento verso la capitale. L’obiettivo è bloccare gli esercizi commerciali, fermare i trasporti, paralizzare le attività all’interno degli edifici pubblici provando a interrompere la fornitura di corrente elettrica. Accampamenti e barricate sono stati formati anche negli snodi più importanti della città, compreso il più grande centro commerciale. In queste ore molti lavoratori hanno preso parte alla protesta aderendo volontariamente allo sciopero. Il governo ha inviato 15mila tra militari e agenti di polizia per mantenere l’ordine pubblico. Nella giornata di oggi non si sono registrati scontri rilevanti, mentre durante il fine settimana c’è stato un morto. Le autorità hanno detto di essere pronte a dichiarare lo stato di emergenza. La sensazione, però, è che il premier Shinawatra stia cercando di evitare uno scontro aperto con i manifestanti che provocherebbe un bagno di sangue nelle strade. Dunque in Thailandia le agitazioni non si fermano e a nulla sembra essere servita la decisione del governo di fare un passo indietro annunciando nuove elezioni. L’obiettivo dei manifestanti è di non abbandonare le piazze fin quando non sarà nominato un Consiglio del Popolo, a cui verrà assegnato il compito di approvare una riforma elettorale in grado di impedire la compravendita dei voti che, secondo gli oppositori, avrebbe falsato le ultime elezioni vinte dal Partito Democratico guidato dalla famiglia Shinawatra. In questo scenario così convulso non è da escludere la possibilità di un colpo di stato: una situazione a cui la Thailandia non è nuova, avendone registrati ben 18 dal 1932 ad oggi. www.lookoutnews.it 4 il settimanale 11-17 gennaio 2014 messiCo - 14 gennaio 2014 Tierra Caliente, il regno conteso tra narcos e vigilantes Nella guerra tra cartelli della droga nel Michoacan irrompono i vigilantes, gruppi paramilitari ben armati intenzionati a sostituirsi allo Stato messicano Cresce la tensione nello stato messicano di Michoacan, dove il governo ha ordinato l’invio dell’esercito e degli agenti della polizia federale per riprendere il controllo della situazione e costringere i gruppi di vigilantes a deporre le armi. Nelle ultime settimane in questo stato occidentale del Messico le milizie di autodifesa hanno assunto il comando in diverse città, ufficialmente per fermare le scorrerie dei cartelli della droga, sostanzialmente perché starebbero prendendo parte alla guerra tra cartelli del narcotraffico. In questi giorni momenti di agitazione si sono registrati in particolare nella città di Nueva Italia, dove centinaia di uomini armati hanno costretto alla resa gli agenti della polizia locale e ingaggiato un conflitto a fuoco con i narcotrafficanti della potente gang dei Cavalieri Templari, che in quest’area gestisce la fetta più importante del traffico di anfetamina, cocaina e marijuana. L’enorme concentrazione di uomini armati in questa porzione di territorio ha spinto l’esecutivo del presidente Enrique Peña Nieto, alle prese tra ieri e oggi con la delegazione italiana in visita a Città del Messico guidata dal premier Enrico Letta, ad assumere provvedimenti immediati. Militari dell’esercito e della marina e mezzi (11 elicotteri) sono stati inviati a pattugliare sia Nueva Italia, sia le città di Paracuaro e Antunez, teatri di scontri da diverse settimane. Nella città di Apatzingan, invece, tutti i negozi sono chiusi da giorni per timore di assalti da parte delle gang. Il fronte dei vigilantes L’obiettivo del governo è intervenire in maniera efficace in quest’area ribattezzata Tierra Caliente, dove la presenza dei vigilantes è particolarmente elevata. Il ministro degli Interni, Miguel Angel Osorio Chong, ha chiesto loro di deporre le armi o, in alternativa, di allearsi alle forze di sicurezza governative. Al momento, non è però ancora chiaro quale sarà la reazione dei gruppi di autodifesa. Il leader dei vigilantes del Michoacan, Jose Manuel Mireles, da Città del Messico – dove si sta curando per le ferite riportate a seguito di un incidente in elicottero – ha prima affermato che ascolterà la richiesta del ministro, salvo poi smentire l’immediato disarmo dei suoi uomini. Altri leader locali sono stati molto meno concilianti con il governo. Estanislao Beltran, a capo di un gruppo di vigilantes nella città di Tepalcatepec, ha accusato i federali dell’uccisione di due suoi uomini. Da La Ruana gli ha fatto eco il capo locale Hipolito Mora, il quale ha confermato che il suo gruppo non si consegnerà alla polizia. www.lookoutnews.it 5 il settimanale 11-17 gennaio 2014 La guerra tra Cavalieri Templari e Nuova Generazione Dunque, nonostante un primo intervento da parte del governo la situazione nella Terra Caliente rimane molto instabile. In quest’area i vigilantes sono ormai attivi da circa un anno e il rischio di nuovi scontri con i cartelli della droga - come anche con le forze di sicurezza resta altissimo. La situazione potrebbe degenerare soprattutto ad Apatzingan, considerata una delle principali roccaforti dei Cavalieri Templari. Come detto, l’interesse dei vigilantes non sarebbe esclusivamente quello di salvare le città della regione dalle razzie delle gang criminali. Recentemente essi si sarebbero alleati con il cartello Nuova Generazione, motivo che spiegherebbe il recente scontro con i Cavalieri Templari. Sia nel Michoacan che nel vicino stato di Jalisco, i due cartelli si contendono infatti il controllo del narcotraffico. A prescindere da come si evolverà la situazione, il presidente Nieto è comunque chiamato a lanciare un segnale forte in questa regione. Altrimenti l’aggravarsi della crisi nel Michoacan potrebbe mettere in dubbio la sua capacità di portare avanti la lotta al narcotraffico e di mantenere l’ordine nelle aree più calde del Paese. www.lookoutnews.it 6 il settimanale 11-17 gennaio 2014 siria - 15 gennaio 2014 In Siria si saldano le brigate islamiste: nasce Jabhat Al-Islam Mentre a Ginevra si discutono i termini di un cessate-il-fuoco, cresce il ruolo delle milizie islamiste “federate”, grazie anche al sostegno dell’Arabia Saudita La Conferenza di Ginevra è alle porte, ma uno dei capitoli paralleli più importanti, cioè quello sugli accordi per il nucleare iraniano tra Teheran e l’AIEA (l’Agenzia ONU per il nucleare), è già stato rimandato: i negoziatori non s’incontreranno prima dell’8 febbraio prossimo. Ufficialmente il rinvio è funzionale a “verificare l’accordo e risolvere le controversie” ancora in essere, stando a quanto riferito in prima persona dal capo dei negoziatori iraniani, Abbas Araqchi. Il quale, nonostante ciò, parla comunque dell’esistenza di un corpus di una trentina di pagine circa, in cui sono già tracciate e stabilite le linee guida generali. Dall’Iran trapela anche la notizia che un’ulteriore parte pregnante dell’accordo – che però sarebbe un “non paper”, dunque un’intesa raggiunta ma non scritta – avrebbe trovato pieno assenso tra i partecipanti alle consultazioni (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ONU più la Germania) e ora resterebbe solo da trascriverla. Allora perché rimandare? Forse, prima si vuol esser certi che saranno finalmente sciolti i nodi principali che emergeranno durante la Conferenza di Ginevra. Pardon, di Montreux. Sì, perché, come per quest’attesissimo simposio sulla pace cambiano le carte in tavola ogni settimana, così anche la sede originaria è mutata, dovendosi adattare alla cartellonistica ginevrina che prevede negli stessi giorni il più concreto “Salone dell’alta orologeria”, che ha già assicurato alla città alberghi pieni e un consistente giro d’affari. Almeno per il primo giro di colloqui, dunque, il tavolo è stato approntato a Montreux. Ubi maior, minor cessat. Jabhat Al Islam, la Federazione di Brigate Islamiste In mezzo a tutto ciò, dobbiamo ancora da parlare di Siria, dove la battaglia infuria senza curarsi della diplomazia in Europa. Nelle ultime settimane, gli americani in prima battuta, cui si sono accodati poi anche gli inglesi, hanno minacciato la Coalizione Nazionale Siriana che non sosterranno più le opposizioni né invieranno aiuti al Free Syrian Army, se a Montreux-Ginevra non vi sarà una rappresentanza dei ribelli in armi. Ma il CNS ha prima glissato e poi contestato duramente le richieste occidentali: al momento in cui scriviamo, non sembra che parteciperanno ai lavori. Poco male, in ogni caso le opposizioni “moderate” hanno sempre meno potere contrattuale e ancor meno voce in capitolo sul terreno di scontro, dove sono invece le forze islamiste ad aver preso il controllo delle operazioni sul campo, combattendo e sconfiggendo quasi ovunque le forze che fanno riferimento al Free Syrian Army, attestate al confine nord della Siria sopra Aleppo e dintorni. www.lookoutnews.it 7 il settimanale 11-17 gennaio 2014 Secondo le ultime informazioni, il passaggio verso la Turchia sarebbe ora in mano a Jabhat al Islam, una nuova federazione di brigate di jihadisti (nata alla fine di novembre) che ha cacciato il Free Syrian Army e ha preso contatti diretti con l’intelligence turca e, soprattutto, quella saudita. Jabhat al-Islam (o Islamiyya o The Islamic Front) sarebbe ora il pericolo principale ed emerge come il vero nemico da battere per l’esercito di Bashar Assad. La federazione includerebbe al suo interno numerose brigate combattenti (alcune note e altre appena costituite), tra cui: Harakat Ahrar as-Sham, Suqur as-Sham, Liwa at-Tawhid, Jaysh al-Islam, Jabhat al-Kurdiyya, Liwa al-Haqq e Ansar as-Sham. Secondo fonti d’intelligence attendibili, questo raggruppamento conterebbe non meno di 45mila uomini sul campo. Arabia Saudita e Turchia sono ora i loro referenti principali: entrambe le nazioni, sia pur con toni e modi diversi, ormai sembrano puntare tutto sulle milizie di Jabhat al-Islam, per condurre il conflitto siriano verso una vittoria contro i governativi. In particolare, Bandar bin Sultan, a capo dell’intelligence saudita, starebbe tessendo per conto di Riyadh una rete di aiuti tesa ad accrescere ancora il potere militare della federazione di milizie islamiste, che si dovranno poi occupare di defenestrare una volta per tutte il presidente Assad, quasi che questa fosse ormai una questione personale per l’Arabia Saudita. Nondimeno, la Turchia è tuttora pienamente coinvolta nei piani sauditi e, anche con la mediazione dell’intelligence francese, sostiene il nuovo equilibrio che si va disegnando lungo i confini turchi. Gli scenari possibili Con buona pace dei diplomatici in Svizzera, dunque, tutto ciò lascia presagire la prosecuzione dei combattimenti e un nuovo spargimento di sangue tra le forze ostili - Jabhat alIslam, Free Syrian Army ed esercito siriano - in un “tutti contro tutti” che non si potrà risolvere soltanto con un cessate-il-fuoco stabilito a Ginevra. Nonostante anche la Russia abbia espresso pressoché la stessa opinione degli Stati Uniti e del Regno Unito in merito alla rappresentanza a Ginevra-Montreux delle opposizioni riconosciute, l’Arabia Saudita (che sarà presente alla Conferenza) tira dritto e sembra non voler aspettare la soluzione che - si vocifera - le grandi potenze avrebbero già trovato: ovvero, sostituire Bashar Assad tra alcuni mesi, pur mantenendo il clan alawita nei posti-chiave del potere siriano. Resta l’incognita Iran: solo se la Repubblica Islamica collaborerà e accetterà la sostituzione del presidente Assad con un governo di transizione, si potrà isolare davvero la posizione saudita e giungere più vicini a un accordo, se non di pace, almeno di una più duratura cessazione delle ostilità. Ma, lo ripetiamo, la battaglia infuria. www.lookoutnews.it 8 il settimanale 11-17 gennaio 2014 egitto - 16 gennaio 2014 L’Egitto nelle mani dei militari: il “sì” trionfa al referendum I dati provvisori confermano la vittoria del “sì” con oltre il 95% delle preferenze. Affluenza alle urne più alta rispetto al referendum costituzionale promosso nel 2012 dal governo dell'ex presidente Morsi Le statistiche non ufficiali presentate dai media egiziani sulla partecipazione alle due giornate di voto per il referendum costituzionale parlano di un’affluenza alle urne attorno al 42%, dunque superiore rispetto alle consultazioni del 2012. Solo nella giornata di martedì e senza tenere conto dei seggi del Cairo, presumibilmente molto rilevanti - si era registrata una partecipazione media del 28% (al referendum del 2012 era stata del 33%). E dopo il conteggio definitivo delle schede di ieri, si stima di arrivare a quota 55%. L’alleanza contro il colpo di Stato dei militari guidata dai sostenitori del presidente deposto Mohamed Morsi – che ha boicottato le elezioni – ha emesso un comunicato in cui ha dichiarato che i risultati trasmessi dal ministero dello Sviluppo Amministrativo, seppur indicativi e parziali, sono stati falsati e che il tasso di partecipazione sarebbe stato solo dell’8%. Ad ogni modo, stando ai dati pubblicati sinora, la preferenza per il “sì” si attesterebbe già al 98%. I risultati definitivi dovrebbero essere disponibili entro domani. Il secondo e ultimo giorno di voto si è concluso in un clima molto meno teso rispetto a martedì. Ridotte le code fuori dai seggi elettorali e minimi gli scontri tra forze di sicurezza e dimostranti contrari al referendum, mentre il bilancio definitivo delle vittime è di sette morti. Seri problemi sono stati comunque causati alla circolazione in alcune zone del Cairo (Roxy Square, Heliopolis e Helwan), dove decine di manifestanti pro-Morsi hanno bloccato il traffico urbano e fermato le metro, e in altre città tra cui Alessandria, Giza e Sharqiya. Un ingente dispiegamento di forze è stato predisposto dalle autorità per i due giorni di referendum. Oltre 160mila militari e 200mila poliziotti sono stati schierati per far fronte ai disordini, molto più contenuti rispetto al previsto. Il ministero dell’Interno ha reso pubblico che solo nella giornata di martedì gli arresti sono stati di 249. Nel complesso è stata osservata un’elevata affluenza da parte di donne e anziani. Assenti invece i giovani, forse perché più legati allo spirito rivoluzionario “tradito” dalla nuova Costituzione. L’evento è stato salutato da tutti i media egiziani - di fatto ormai controllati dall’esercito come un “sodalizio democratico”. Tra gli intervistati, in molti hanno affermato che la loro partecipazione non è stato legata tanto all’approvazione del contenuto della Costituzione in sé, quanto alla necessità di mandare un segnale forte per ottenere il ripristino della stabilità e della sicurezza nel Paese: anche a scapito di abbandonare l’impeto rivoluzionario e gli auspicati cambiamenti attesi nell’immediato post-Mubarak. www.lookoutnews.it 9 il settimanale 11-17 gennaio 2014 italia - 17 gennaio 2014 L’Italia fa la sua parte: Gioia Tauro aspetta le armi chimiche Cosa succede nella Piana di Gioia Tauro e dove finiranno le armi chimiche Il giorno dopo l’annuncio della designazione del porto di Gioia Tauro (Reggio Calabria) per il trasbordo delle armi chimiche siriane, la comunità internazionale si prepara alle fasi “3” e “4” che prevedono il trasferimento degli agenti chimici dal cargo danese Ark Futura alla nave americana Cape Ray e la successiva distruzione in acque internazionali (doveva concludersi il 30 marzo ma è slittata a fine giugno 2014, per motivi di sicurezza). Dunque la costa della Piana di Gioia Tauro, seppur per un arco di quarantott’ore, sarà protagonista di un’operazione internazionale concordata, come noto, solo dopo un’intricata trattativa internazionale condotta sul filo della crisi diplomatica tra Russia e Stati Uniti. La scelta si è consumata ieri, in un mezzogiorno di fuoco in stile spaghetti western, che ha confermato in buona parte le previsioni di una settimana fa delWall Street Journal, che aveva intuito come l’operazione da parte del governo italiano non sarebbe stata ben accolta. Le proteste, a dire il vero più mediatiche che di piazza, non sono infatti mancate. In ogni caso, l’appello alla mobilitazione del territorio e la minaccia del blocco del porto da parte dei sindaci della Piana è destinato a retrocedere dalle prime alle ultime pagine dei giornali nel giro di pochi giorni. Il piano Prima che le sostanze chimiche sequestrate al regime di Assad arrivino sulle coste calabresi ci vorranno almeno quindici giorni, se non un mese. Gli incessanti combattimenti sul fronte siriano hanno infatti rallentato la road map iniziale. Al porto di Latakia ad oggi sono arrivate solo 16 delle 560 tonnellate del carico, contenente iprite, sarin e gas nervino VX. I tempi perciò si allungano, motivo per cui lo sbarco dell’Ark Futura a Gioia Tauro è previsto tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Qui l’operazione si concretizzerà in un massimo di due giorni. Il 16 gennaio, nel corso dell’audizione alle Commissioni riunite degli Affari Esteri e della Difesa di Camera e Senato, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi ha specificato che il trasbordo avverrà da nave a nave con la movimentazione di 60 container con appositi semirimorchi rotabili, pertanto senza lo stoccaggio dei container a terra. Poi la missione passerà agli ordini dell’americana Cape Ray, che trasporterà il carico in acque internazionali, dove procederà alla sua distruzione attraverso il processo di idrolisi. A bordo della nave è stata installata un’autoclave della capacità di 8mila litri e lunga 20 metri. Tratterà 25 tonnellate di materiale tossico al giorno e lo trasformerà in sostanze a più bassa tossicità. Il riciclo a fini industriali sarà gestito in seguito da Germania e Gran Bretagna. www.lookoutnews.it 10 il settimanale 11-17 gennaio 2014 I rischi per la sicurezza Le rassicurazioni sulla sicurezza dell’operazione nel porto di Gioia Tauro sono arrivate ieri direttamente da Ahmet Uzumcu, capo dell’OPAC (Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche), il quale ha riferito che “è stata presa ogni misura possibile per un trasferimento sicuro. I rischi, semmai, continuano ad arrivare dalla Siria dove sono in corso trattative per un cessate-il-fuoco temporaneo. Altre rassicurazioni sono arrivate questa mattina da Ferruccio Trifirò, unico componente italiano del Comitato scientifico dell’OPAC, in onda sulle frequenze diRadio Rai: “Siamo garantiti dalla presenza di esperti e tecnici dell’OPAC, che vigileranno e controlleranno ogni movimento attraverso procedure corrette per evitare qualsiasi rischio Certo, parliamo di trasbordi eccezionali che non avvengono con regolarità. Ma il trasbordo di recipienti, di per sé, non è un’operazione complessa”. Perché la scelta di Gioia Tauro Dunque tra Brindisi, Cagliari, Augusta, Taranto e Santo Stefano, nell’arcipelago della Maddalena - i siti in lizza per ospitare l’operazione - alla fine il governo italiano ha puntato sulla scelta meno insidiosa, puntando formalmente sull’eccellenza del porto di Gioia Tauro ma sostanzialmente sulla certezza che dalla Piana le possibili voci di dissenso sarebbero state minori che in altre parti d’Italia. D’altronde, i numeri presentati dal ministro Lupi parlano chiaro: nel 2012-2013 a Gioia Tauro sono stati smistati oltre 3mila container di sostanze chimiche (60mila tonnellate) secondo gli standard internazionali di sicurezza. Quella di quest’aria costiera è una storia amara. Destinata agli inizi degli anni Settanta a ospitare un polo siderurgico all’avanguardia (sarebbe dovuto essere il quinto in Italia con la Liquichimica di Saline Joniche e la SIR di Lamezia Terme) per compensare a Reggio Calabria lo scippo del capoluogo da parte di Catanzaro, l’intera area ha invece conosciuto oltre un ventennio di lamiere. Nel 1994 la trasformazione in scalo portuale di transhipment: dal 1998 oltre 2 milioni di container movimentati ogni anno (diventati 3 milioni dal 2007), sino a diventare, oggi, il primo porto italiano in questo tipo di operazioni. Un successo cresciuto di pari passo con il fiorire degli affari sommersi della ’ndrangheta calabrese, che in questi anni ha fatto del porto lo snodo fondamentale per i suoi traffici internazionali da e verso l’Europa, il Sud America e l’Estremo Oriente: droga e rifiuti in particolare, business d’oro che fanno la spola quasi quotidianamente tra l’Italia e il resto del mondo. Alla fine l’OPAC porterà a termine la sua missione e l’Italia avrà fatto la sua parte. Con buona pace di proteste dei cittadini e di parte delle istituzioni che, sino a ieri, non erano a conoscenza diretta dei piani decisi dall’alto. www.lookoutnews.it 11 We protect your business G-Risk, società italiana di security e intelligence, nasce a Roma nel 2007 da una fertile partnership tra analisti ed esperti di istituzioni nazionali ed estere dedicate alla prevenzione e alla gestione del rischio. Sostenuta da capitali privati - che ne assicurano la piena autonomia gestionale - G-Risk dispone di numerose sedi operative in Italia e nel resto del mondo: Roma, Genova, LondRa, madRid, BeiRut, tunisi, Riyadh, La Paz, BoGotá, CaRaCas, montReaL. realmente le attività aziendali e gli asset strategici, umani e tecnologici. La strategia di G-Risk si basa sulla stretta integrazione tra team di analisi strategica e gruppi operativi in grado di intervenire in qualsiasi momento in aree domestiche e internazionali. Le nostre unità sono presenti nelle maggiori aree critiche del pianeta per investigare sulle realtà locali con cui la società cliente desidera intraprendere attività e relazioni commerciali, ottenendo La nostra mission è garantire la sicurezza prima tutte le informazioni necessarie nel minor che qualsiasi minaccia possa compromettere tempo possibile. www.grisk.it