Amici della Facoltà Milano, 21.05.2014 Vorrei iniziare questa mia
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Amici della Facoltà Milano, 21.05.2014 Vorrei iniziare questa mia
Amici della Facoltà Milano, 21.05.2014 IL PADRE MISERICORDIOSO (LUCA 15, 11-31) Vorrei iniziare questa mia riflessione sulla parabola del Padre misericordioso citando un commento interessante di Françoise Dolto, una psicoanalista francese allieva e poi collaboratrice di Jacque Lacan. Prendo questo commento dal volume I vangeli alla luce della psicoanalisi: Questa parabola è il contrario della favola La cicala e la formica. Sembra di sentirlo, il fratello maggiore che dice: “Hai voluto divertirti? Ebbene, eccoti punito”. Ma il padre non punisce, restituisce valore umano e dignità umana a coloro che si sentono peccatori, colpevoli, che non si amano più o non si credono più amati dagli altri o da Dio; ed è questa la vera sofferenza. […] Ad essere riabilitato da Gesù in questa parabola, nonostante il suo fallimento, e nonostante il senso di colpa provato, è quello che ha assunto i suoi rischi, sia che abbia sopravvalutato le proprie forze o incontrato avversità, sia che i suoi rivali lo abbiano coperto d’infamia, è comunque quello che si è battuto per il proprio desiderio, il figliol prodigo. Il suo desiderio l’ha fatto procedere, ma egli non ha peccato contro la legge del desiderio. Il padre, se è veramente degno di essere un padre, lo sa e ama ancora di più quel figlio, quel fratello umano provato dalla vita.1 Tali considerazioni della Dolto ci fanno intuire che la parabola di Luca che commenteremo è in effetti una di quelle pagine evangeliche che contengono «il tutto nel frammento», per riprendere l’espressione di von Balthasar. Infatti è una pagina, che ci provoca a meditare su una serie di aspetti davvero fondamentali, che si intrecciano strettamente gli uni con gli altri: il desiderio e la libertà, la salvezza e la conversione, il peccato e il perdono, la giustizia e la misericordia, in definitiva il volto di Dio e il nostro rapporto con Lui. Dunque tenteremo di scavare un poco in questo frammento evangelico, con la consapevolezza che si tratta di una miniera pressoché inesauribile, come dimostrano le innumerevoli interpretazioni che ha suscitato e continua a suscitare. Ho scelto di articolare il mio intervento attorno a due momenti: in un primo momento mi concentrerò sul testo della parabola, cercando di mostrare che il suo tema centrale è quello che chiamo la conversione teologale, ossia la possibilità e la disponibilità di ricevere da Dio l’identità di figli; poi, in un secondo momento, a partire dall’orizzonte aperto dal testo di Luca, tenterò di raccogliere qualche osservazione più generale sulla questione del peccato, inteso appunto come il rifiuto dell’affidamento filiale nell’attuazione della libertà. 1. La conversione teologale: ricevere dal Padre l’identità di figli Iniziamo allora dalla rilettura interpretativa del testo. È importante notare che la nostra pagina si colloca all’interno del capitolo 15 del vangelo di Luca; capitolo che contiene, come 1 F. DOLTO, I vangeli alla luce della psicoanalisi. La liberazione del desiderio, et al. Edizioni, Milano 2012, 164-165. 1 sappiamo, le cosiddette «parabole della misericordia»: la pecora smarrita, la dracma perduta e appunto il padre misericordioso. I primi due versetti del cap. 15 hanno una funzione importante, in quanto ci avvertono che il modo con cui ascoltiamo le parabole che seguono non è neutrale. Infatti inconsapevolmente ciascuno di noi appunto le ascolta condividendo uno dei due atteggiamenti, che sono rappresentati dai due gruppi, cui Lc non a caso fa riferimento subito all’inizio del capitolo: da una parte il gruppo dei pubblicani e dei peccatori, dall’altra il gruppo degli scribi e dei farisei. Ora, quali sono gli atteggiamenti che vediamo rappresentati in questi due schieramenti contrapposti? Lc scrive che i pubblicani e i peccatori «si avvicinavano» a Gesù «per ascoltarlo» (v.1). Potremmo dire che questo è l’atteggiamento della mendicanza, cioè di chi sa di non aver niente da dare, ma ha solo la speranza di ricevere la parola della misericordia, la parola del perdono. Gesù non volta le spalle a quelli che gli vanno incontro portando dentro questa fame di misericordia, anzi «li accoglie» (potremmo tradurre ancor meglio: «si protende ad accoglierli»); addirittura «mangia con loro», cioè sta dalla loro parte, si dispone nei loro confronti in un atteggiamento di condivisione, anche a costo di compromettersi, di mettere in gioco la sua buona reputazione di rabbi. Di fatti, come ci fa sapere Lc, gli scribi e i farisei «mormoravano». Perché? Perché loro, a differenza di Gesù, si sentono dall’altra parte, cioè dalla parte dei «giusti», dalla parte di quelli che hanno tutte le carte in regola nel rapporto con Dio. Perciò, potremmo dire, il loro atteggiamento è quello della supponenza, è quello di chi si ritiene a posto, in quanto è sicuro di aver pareggiato il conto con il Signore. Dunque Lc vuole avvertire che anche nei lettori ci può essere o l’atteggiamento della mendicanza o quello della supponenza, e l’ascolto delle parabole obbliga a schierarsi, costringe a mostrare da che parte si vuole stare: se si vuole stare dalla parte della mendicanza oppure dalla parte della supponenza. È sottinteso che per Lc solo nel primo caso ci si mette nella condizioni di accogliere il senso di quelle parabole davvero come discepoli di Gesù. Fatta questa premessa, puntiamo la nostra attenzione sul racconto del padre misericordioso (vv. 11-32). Come accennavo all’inizio, la mia ipotesi interpretativa è che da questo racconto emerga un’idea ben precisa di conversione: ossia, emerge l’idea di conversione come disponibilità ad accogliere gratuitamente la propria identità di figli dall’amore del Padre che perdona. Quindi nella prospettiva di Gesù è tale disponibilità a rappresentare la conversione decisiva, quella più profonda, appunto la conversione teologale. Ora, che questa non sia una conversione a buon mercato, ma sia al contrario una conversione che costa, che taglia sul vivo, ce lo fanno capire chiaramente le due storie, diverse ma in fondo molto vicine, del fratello minore e del fratello maggiore, di cui ci racconta la parabola. Che cos’è che rende davvero vicine, simili, queste due storie? A guardar bene, è l’immagine condivisa che i due fratelli hanno del loro padre. In sintesi, è l’immagine del padre come padrone, letteralmente come datore di lavoro. 2 Basta prestare attenzione a qualche passaggio significativo del racconto per accorgercene senza difficoltà. Ad esempio, il più giovane chiede al padre: «Dammi la parte di patrimonio che mi spetta» (v. 12). Potremmo dire, in un certo senso, che chiede la liquidazione, esattamente come accade quando si interrompe un rapporto di lavoro. D’altra parte, quando decide di tornare sui suoi passi, non a caso il ragionamento che fa è questo: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame» (v. 17). Il primo paragone che gli viene in mente è appunto quello con i salariati, e ciò che si aspetta è di essere trattato come uno di loro. La cosa è ancora più evidente per quanto riguarda il fratello maggiore. Infatti è quello che dice al padre, molto esplicitamente: «Ecco, io ti servo da tanti anni…” (v. 29 a); anzi, se traducessimo alla lettera suonerebbe ancora più forte: «Da tanti anni io ti sono schiavo (douleùo soi)». Inoltre, sempre al v. 29 egli protesta poiché non ha avuto in dono neppure un capretto per fare festa «con gli amici»: con il padre invece non si fa festa, appunto perché per lui si tratta di un rapporto di tipo lavorativo. Ecco allora il punto di partenza, che accomuna, che avvicina le due storie: l’immagine del padre come padrone. Un padrone dal quale si sente il bisogno di prendere le distanze per non soffocare, come fa il figlio minore; oppure un padrone dal quale ci si tiene a debita distanza per paura di trasgredire ad un suo comando, come fa il figlio maggiore. È inevitabile domandarsi come siano arrivati ad immaginarsi in questo modo il loro padre. Stando a ciò che ci racconta la parabola, certamente non ci possono essere arrivati a partire dall’esperienza concreta, in quanto questa esperienza va proprio in tutt’altra direzione. Anche qui, bastano un paio di sottolineature per rendercene conto. Quando il più giovane domanda la sua parte di patrimonio, il racconto dice in maniera molto laconica: «E [il padre] divise tra loro le sue sostanze». Dunque non si oppone, non pretende spiegazioni, non va in escandescenze, insomma dimostra di comportarsi in maniera esattamente contraria rispetto a quella che ci si aspetterebbe da un padrone soffocante. Ma la stessa cosa vale anche per il figlio maggiore. Quando questi se la prende per il fatto che in casa si festeggia il ribelle che è ritornato, e perciò si rifiuta di unirsi alle danze, la parabola dice: «Suo padre allora uscì a supplicarlo» (v. 28b). Ancora una volta, questo non è certamente il comportamento di un padrone pronto a sanzionare con durezza anche il minimo cenno di disobbedienza nei suoi confronti. Eppure, a dispetto di ogni evidenza, i due hanno fissa in mente l’immagine del padre come padrone, e quindi si comportano di conseguenza. Si comportano seguendo due strategie diverse. Il figlio minore segue quella che potremmo chiamare la strategia del godimento. Siccome secondo lui rimanere con il padre-padrone sarebbe limitante, allora per godersi la vita l’unica alternativa che sembra promettente è quella di andarsene, è quella di partire «per un paese lontano», nella convinzione che solo in questo modo sia possibile davvero realizzarsi, obbedire liberamente al proprio desiderio. Invece il fratello maggiore segue 3 un’altra strategia; potremmo definirla la strategia del dovere. Per lui il padre è un datore di lavoro intransigente, che bisogna compiacere in tutti i modi dimostrando di essere capaci a non trasgredire mai. Tanto è vero che precisa subito: «Non ho mai disobbedito a un tuo comando» (v. 29). Allora, in effetti i due fratelli seguono strategie differenti - la strategia del godimento e la strategia del dovere – che però hanno il medesimo punto di partenza, cioè un’immagine sfigurata, distorta del padre. Non solo, entrambe le strategie condividono anche il medesimo punto d’arrivo. Infatti la parabola racconta che il più giovane finisce «nei campi a pascolare i porci» (v. 15); ma anche il fratello maggiore come leggiamo nel testo di Lc al v. 25 «si trovava nei campi». Nei campi: cioè appunto lontano dal padre, ad una distanza che non è tanto fisica, geografica, quanto piuttosto è interiore, profonda; in ultima analisi, è la distanza del peccato. Questo particolare del trovarsi nei campi, che a prima vista sembrerebbe del tutto marginale, trascurabile, in realtà è quello che solleva il velo dallo scopo autentico della parabola, su cui stiamo riflettendo. Infatti Gesù intende provocare i suoi interlocutori a rispondere con sincerità ad una domanda ben precisa: «Chi è Dio per te? Qual è l’immagine di Dio che tu hai in mente?» Ora, gli ascoltatori di Gesù, così come i lettori di Lc, onestamente devono ammettere che nel rapporto con Dio vestono in parte i panni del figlio minore e in parte quelli del figlio maggiore. In effetti qualche volta sembra che la presenza di Dio sia soffocante; lo si avverte come un antagonista, come qualcuno che vuole intromettersi nella vita per reprimere il desiderio e opprimere la libertà. Oppure altre volte sembra che Dio si atteggi a controllore, sia pronto a scatenare la sua ira contro chiunque si azzardi a trasgredire o non esegua alla perfezione il proprio dovere. Ora, Gesù tramite la parabola sollecita a estroiettare tali immagini distorte del volto di Dio, che generano il sospetto nei confronti della sua intenzione e quindi spingono a difendersi da Lui attraverso la strategia del godimento oppure attraverso la strategia del dovere. Insomma, questa parabola invita a compiere la conversione più radicale: cioè quella di riconoscere che Dio è sempre e soltanto come Cristo ce ne fa fare esperienza, come Cristo ce lo testimonia in tutti i momenti della sua vicenda, ma in modo particolare nella Pasqua, con la sua morte e risurrezione. Si tratta di riconoscere che Dio è sempre e solo il Padre che ama gratuitamente gli uomini e le donne che ha creato, e desidera soltanto che siano disposti a ricevere da Lui la loro identità e la loro libertà di figli. In questa prospettiva, la dinamica del peccato non può essere ridotta alla mancata applicazione di una norma o alla violazione di un divieto. Insomma, la dinamica del peccato, prima di essere un problema morale, è un problema teologale. Ossia, la sua serietà non sta tanto nell’essere la trasgressione di una regola, quanto piuttosto nell’essere il tradimento di una relazione. Appunto, è il tradimento della relazione con il Padre di Gesù. L’esperienza del peccato, da questo punto di vista, è effettivamente l’esperienza di una rottura, di 4 una spaccatura: una spaccatura che genera una lontananza dal Padre, e di conseguenza porta a perdersi negando la propria identità di figli e nello stesso tempo porta a perdere il legame con gli altri. Questo risvolto - diciamo così - collettivo del peccato personale è messo bene in luce dalle parabole, che Lc ha inserito all’inizio del cap. 15, ai vv. 4-10. In effetti la pecora che si smarrisce è una delle cento: fuggendo dal pastore, fugge anche dalle altre novantanove. E la moneta perduta è una delle dieci: cadendo di mano alla padrona di casa, si stacca anche dal resto del gruzzolo. Ecco perché, nella prospettiva biblica, la conversione come cammino di ritorno al Padre è anche sempre simultaneamente cammino di ritorno alla fraternità: i due movimenti sono destinati necessariamente a incrociarsi. Infatti è l’esperienza della filialità, che sta alla base di ogni possibile fraternità: nella misura in cui prendiamo coscienza di essere figli, giungiamo anche a riconoscere di essere fratelli e sorelle. Di conseguenza, ci si può accogliere fraternamente al di là di ogni confine di nazionalità, di cultura, di religione solo se ci si riconosce accomunati dalla condizione di essere figli, e quindi dall’appartenere ad una medesima famiglia umana, una famiglia convocata in definitiva dalla «parola del Dio-Agape». 2. L’origine del peccato: la filialità provata dall’aggressione del male La rilettura di Lc 15 ci ha permesso di ricavare due punti fermi davvero fondamentali. Primo: nella prospettiva di Gesù, la conversione autentica, che tocca più in profondità, è quella teologale, ossia la disponibilità a ricevere e ad accogliere gratuitamente la propria identità di figli dall’amore incondizionato di Dio riconosciuto come Padre. Secondo: la serietà del peccato non sta nell’essere esclusivamente la trasgressione di una regola, ma il tradimento della relazione con il Padre di Gesù; di conseguenza, il perdono si presenta sempre come una possibilità nuova di superare quella separazione, che genera una lontananza da Dio e proprio per questo anche da se stessi e dagli altri. Avevamo notato che nella parabola di Lc entrambi i fratelli si ritrovano «nei campi», cioè lontani dal padre, in quanto a dispetto dell’esperienza sono potremmo dire «posseduti» da un’immagine paterna distorta; un’immagine che li spinge a sospettare dell’intenzione del loro padre e perciò a elaborare delle strategie di allontanamento da lui. Quindi i due fratelli sono mossi da un «sentire» pieno di sospetto, che si presenta più forte, più invincibile di qualunque evidenza concreta. È interessante notare che in fondo riscontriamo qui la medesima dinamica, che sta alla base del racconto sapienziale di Genesi 3. Non a caso, in questo racconto si fa ampiamente uso di un linguaggio di tipo estetico: il frutto dell’«albero che sta in mezzo al giardino» è descritto come attraente da vedere, piacevole da toccare, gustoso da mangiare. 5 Dunque nel gesto di Adamo ed Eva è in gioco appunto la percezione, il sentire. Tuttavia occorre notare che non è il sentire come tale ad essere indicato come origine del male morale, bensì è la modalità che nel contesto narrato quel sentire viene ad assumere. Infatti è un sentire che si pone come esperimento immediato, in quanto non si fida della «istruzione» di Dio. Secondo il racconto di Genesi, il sentire che ha la forma dell’esperimento immediato produce una falsa sapienza a proposito della realtà – metaforicamente rappresentata dall’astuzia del serpente – che conduce la libertà a perdersi nel sospetto, nel conflitto, nell’annientamento. Riprendendo la terminologia ebraica, l’alternativa è posta tra la da’at e la hokmah, tra il sapere per esperimento (il «mettere in bocca» tutto) e il sapere per affidamento (il dare credito all’indicazione di un altro, che si mostra affidabile): solo quest’ultimo è identificato con la vera sapienza, che conduce la libertà a scegliere «la vita e il bene» anziché «la morte e il male». Ora, quando Paolo nelle sue lettere (in particolare Romani, Galati, 1 Corinti) presenta Gesù Cristo come «ó èschatos Àdàm» (1 Cor 15, 45), l’Adamo compiuto, intende dire che in Lui appare definitivamente l’autentica sapienza, quella che si poggia sull’affidamento. Per questo Paolo nello scritto ai Filippesi (2, 5-11) propone la condivisione dello stesso sentire di Cristo come l’antidoto, l’alternativa salvifica, rispetto al sentire del primo Adamo: ricompare qui la contrapposizione già presente in Genesi 3 tra il sentire che porta alla prevaricazione e alla distruzione, e il sentire che invece porta alla gratuità e alla dedizione. Dunque, per la prospettiva biblica non si tratta di rifiutare come malvagia o peccaminosa qualunque estetica della libertà; si tratta piuttosto di contrapporre un’estetica basata sull’esperimento che nasce dal sospetto, ad un’altra estetica – l’estetica della «grazia-che-è-agape» – basata sull’affidamento alla dimensione promettente della realtà e in radice a Dio. Occorre precisare che, secondo il racconto complessivo della Bibbia, la figura decisiva è quella escatologica di Gesù Cristo, non quella iniziale di Adamo; Adamo trova spazio solo all’interno di un disegno che ha in Gesù il suo centro e la sua ragione. Il che significa che quando si intende cercare l’intenzione originaria di Dio a proposito dell’uomo è necessario riferirsi a Gesù, che ne è la manifestazione e la determinazione storica. Adamo rappresenta la figura metaforica del «progenitore», non del «mediatore» tra Dio e gli uomini; di conseguenza, Gesù non è il salvatore che entra nel discorso in seconda battuta. Inoltre, il discorso si svolge non partendo dal peccato per arrivare poi alla grazia, quindi dal peccato dell’uomo alla redenzione dal peccato; si parte piuttosto dalla grazia di Dio, la quale non si riduce a redimere l’uomo dal peccato, bensì ha la figura più ampia della comunicazione personale di Dio all’uomo, che lo abilita ad attuare la vita buona. In particolare, per quanto riguarda il peccato, non si prende avvio dal «peccato originale» per raggiungere, o addirittura spiegare, il peccato personale; si prende avvio piuttosto dal peccato 6 personale per risalire a quella situazione che lo precede, e che solo per analogia può essere qualificata come peccato. Dunque, la questione del peccato riguarda anzitutto l'attuazione malvagia della libertà. Ma per capire fino in fondo perché c'è il peccato personale, è appunto necessario riflettere su ciò che sta alla radice di questa cattiva attuazione della libertà. D’altro canto, è la positività dell'evento di Cristo che permette di intuire la portata della scelta negativa dell'uomo a livello del peccato personale e quindi consente una riflessione profonda, che si spinge fino alla radice di questa disposizione negativa, presente nelle condizioni originarie della libertà. Per un lato, radice del peccato è la concupiscenza, ossia la deviazione del desiderio nella direzione di quella che sopra abbiamo chiamato l’estetica dell'esperimento, la quale fa propendere la libertà all'autoaffermazione. Per altro lato, alla radice del peccato c’è il sospetto primordiale nei confronti dell'iniziativa e dell'intenzione di Dio verso la libertà umana. Per richiamarci ancora alla metafora biblica contenuta in Genesi 3, si tratta qui appunto del «veleno» del sospetto inoculato dal serpente nella coscienza di Adamo ed Eva: l’essere umano allora dubita che Dio voglia negargli la possibilità di attuarsi pienamente, pur avendolo già creato a propria immagine e somiglianza. Come notiamo, è esattamente la stessa dinamica che sta alla base di tutto l’intrigo della parabola di Luca. Di conseguenza, la realtà che la tradizione cristiana ha denominato «peccato originale» – e che sarebbe meglio indicare con l’espressione «origine del peccato» - è da pensare come questa correlazione tra concupiscenza e sospetto primordiale, che non corrisponde all'intenzione originaria/creatrice di Dio. È per altro rilevante sottolineare che l’intreccio tra concupiscenza e sospetto concerne la libertà, non tanto a livello della sua attuazione pratica, quanto piuttosto a livello della sua costituzione radicale, appunto del suo essere posta nell’esistenza. È chiaro che l’origine del peccato non cancella la libertà fondamentale dell’uomo, ma la connota dal punto di vista della concretezza storica del suo esistere. Allora il peccato personale si configura come la ripresa attiva, da parte della libertà, di quella radice negativa, che di fatto costituisce una delle condizioni implicate nell’essere messo al mondo di ogni uomo. Dal punto di vista neotestamentario, la possibilità di superare l’origine del peccato è legata al rapporto credente tra la libertà umana e l’evento di Cristo. La deformazione nella relazione fondante con Dio, che si configura come il sospetto primordiale, è superata da Dio stesso che, attraverso l'incarnazione del Figlio, si pone «al di sopra di ogni sospetto» e disvela come menzognera l’insinuazione di una sua disposizione antagonistica nei confronti della creatura umana. Tramite Gesù Cristo, la relazione fondante con Dio riacquista la sua forma autentica, quella dell’affidamento filiale, e così il sospetto primordiale non è soltanto cancellato ma sradicato: in altri termini, Dio inviando il Figlio ha davvero inaugurato il tempo favorevole perché la libertà possa disporsi adeguatamente nei suoi confronti, nel modo della fede teologale. 7 Per quanto riguarda invece la concupiscenza, essa può essere vinta dalla libertà che, accogliendo lo Spirito di Cristo, è messa nelle condizioni di non confondere l’appagamento del desiderio con il soddisfacimento illimitato del bisogno. Qui è richiesta all'uomo un'azione di vigilanza e di conversione continua, che gli permetta di vincere volta per volta la tendenza concupiscente, che appartiene al «lato opaco» della vita in cui concretamente si è posti con la nascita2. Infatti l’azione salvifica, liberante di Dio si attua in questo mondo soltanto se è ripresa e determinata dall’azione dell’uomo. Come si legge in 1 Giovanni 2, 29: «Se sapete che egli [cioè Dio] è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia è stato generato da lui». Nel suo significato più generale, la giustizia indica l’assegnare a ciascuno ciò che gli è proprio, ciò che è suo. Nella prospettiva biblica, la giustizia analogicamente designa l’intenzione di Dio di dare agli uomini e alle donne che ha creato ciò che è loro proprio per grazia, ossia la loro identità di figli. Di conseguenza, la giustizia coincide con quel «grande amore», in forza del quale il Padre ci chiama suoi figli, e ci fa esserlo realmente (3,1). Appunto in questo senso operare la giustizia è la stessa cosa che nascere da Dio, ossia accogliere il dono di un rapporto «da figli» con Lui. Ora, se teniamo presente tale quadro di fondo, incentrato sulla giustizia di Dio, sulla sua intenzione di donare agli uomini e alle donne che ha creato la loro identità filiale, è possibile chiarire che cosa occorre intendere con il termine «peccato». In 1 Giovanni 3, 4 è suggerita quasi una definizione: «Chiunque commette il peccato, commette anche l’iniquità, perché il peccato è l’iniquità». Il peccato è l’iniquità, ossia è la violazione della legge. Ma di quale legge si tratta? È precisamente la legge della figliolanza divina, di cui parlavamo poco sopra; quella figliolanza che corrisponde alla giustizia, ossia all’intenzione di Dio nei confronti di ogni creatura umana. Ecco perché Giovanni può affermare che «in [Gesù Cristo] non vi è peccato» e che «chiunque rimane in lui non pecca» (3, 5b-6a). In Gesù non c’è peccato, non c’è iniquità, non c’è in-giustizia, appunto perché lui è «il Figlio» originario e compiuto, che ha affidato fino in fondo se stesso al Padre spinto dalla potenza dello Spirito. D’altra parte, nella misura in cui si rimane in comunione con Lui, nella misura in cui si condivide grazie al comportamento della fede il suo rapporto di figliolanza con l’abbà dei Cieli, anche a ciascuno è dato di «non peccare», ossia di non chiudersi all’iniziativa divina, che permette di conoscersi e di volersi secondo la propria verità filiale. Duilio Albarello 2 Sulla vicenda e l’esigenza di ripensamento della problematica legata alla dottrina del peccato originale si vedano: J.-M. MALDAMÉ, Le péché originel. Foi chrétienne, mythe et métaphysique, Cerf, Paris 2008; P. H. WELTE, Ins Böse verstrickt. Versuch einer neuinterpretation der Erbsündenlehre, LIT, Berlin 2009. Una ricostruzione critica del dibattito recente è rinvenibile in F. G. BRAMBILLA, Il peccato e la sua origine alla luce di Cristo, «Teologia» 36 (2011) 415-451. 8