Abstracts for Leicester Conference

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Abstracts for Leicester Conference
RIASSUNTI DEGLI INTERVENTI E
BIO-BIBLIOGRAFIE DEI RELATORI
Epifanio Ajello (Università degli Studi di Salerno)
L’esperienza di alcuni oggetti nelle fotografie di Luigi Ghirri (con un’appendice nell’Atelier Morandi)
Qui il termine ‘esperienza’ collocato accanto al lemma oggetto, va inteso non come banale acquisizione di
conoscenza, ma nell’accezione benjaminiana che al pari di una narrazione la cosa, a volte, si ‘cala nella vita’ del
narratore che ritorna ‘ad attingerla da essa’ (Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov). La
relazione vorrebbe, infatti, andare ad ‘attingere’, in breve catalogo, alcune delle cose ‘deposte’ all’interno di
alcune fotografie di Ghirri (e anche di quelle, splendide, dell’atelier di Morandi) cercando attinenze nel loro
aspetto capace di racconto, e contemplandole sul serio per come sono messe lì e stanno; per come sono guardate
e con quale luce e quale prospettiva. Attingendo quale senso su di esse viene posato e quale da esse riceve chi
narra e chi vede. E poi come vengono scelte e situate lì ferme nei fotogrammi o nello scorrere delle parole.
Danno il senso di un insistere. Sono esatte. Eppure se dà l’impressione di poggiare fortemente, ogni oggetto è
scritto per figurare altrove, per andarsene dalla figura, per stare in una differente prospettiva, in un’apparenza.
Insomma si cercherà di vedere le cose nei fotogrammi di Ghirri nella loro condizione, rubando – per intenderci –
un po’ lo sguardo a Emanuele Menini, il protagonista delle Condizioni di luce sulla via Emilia, racconto di
Gianni Celati. E naturalmente qui l’esercizio andrà condotto soltanto sulla scelta e sulla rappresentazione della
superficie degli oggetti e sulla funzione narrativa ad essa affidata, e poi nel nesso (o gioco) temibile e
incommensurabile tra forma e luce, tra descrizione e analogico, tra metafora e racconto visivo.
Epifanio Ajello insegna Letteratura italiana contemporanea e Letterature comparate presso l’Università di Salerno. Ha
raccolto in un volume saggi su autori tra Sette e Novecento (Ad una certa distanza, 1999); è autore di due volumi su Goldoni
(Storia del mio teatro, 1993; L’esattezza e lo sguardo, 2001) e di uno su Gozzano (Nell’Oriente favoloso, 2004). Inoltre ha
pubblicato vari articoli su autori contemporanei (Calvino, Campanile, Celati, D’Annunzio, Montale, Moravia, Gatto,
Sanguineti e altri) e ha curato una serie di edizioni e tre raccolte di saggi di comparatisti italiani dell’Ottocento (Graf, 1993;
Zumbini, 1996; Linguiti, 2006). Collabora alle riviste Allegoria, Lettere italiane, Poetiche, Sinestesie, Studi novecenteschi, e
ha insegnato in diverse università straniere (in Finlandia, Germania, Francia). Ultimi suoi lavori, un volume sul rapporto tra
narrazione e fotografia (Il racconto delle immagini. La fotografia nella modernità letteraria italiana, 2009), un’edizione
critica (Carlo Goldoni, Memorie italiane, 2012) e una monografia (Arcipelaghi. Calvino e altri. Personaggi, oggetti, libri,
immagini, 2013).
Marco Andreani (Macula, Centro Internazionale di Cultura Fotografica, Pesaro)
Morti-viventi e paesaggi fantasma: poesia e fotografia nell’opera di Mario Giacomelli degli anni Ottanta
L’intervento ha per oggetto le sequenze fotografiche realizzate da Mario Giacomelli sulla base di un testo
poetico, in particolare quelle risalenti agli anni Ottanta. L’analisi intende mettere a fuoco sia i rapporti tra testo
scritto e immagini, sia la peculiare rappresentazione del paesaggio in relazione alla poetica di fondo dell’autore.
La produzione di serie fotografiche ispirate a una poesia si fa più intensa a partire dai primi anni Ottanta, quando
Giacomelli realizza, tra le altre, Il teatro della neve, Ninna nanna, L’Infinito, Passato, Felicità raggiunta si
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cammina, Io sono nessuno, La notte lava la mente, in un confronto serrato con le omonime liriche di Permunian,
Adams, Leopardi, Cardarelli, Montale, Dickinson e Luzi. Alla granitica compattezza tematica delle serie degli
anni Cinquanta e Sessanta, ricavate da circoscritte situazioni di vita (quelle degli anziani di Vita d’ospizio, dei
contadini de La buona terra, dei malati di Lourdes, della comunità di Scanno ecc.), subentrano qui i montaggi di
realtà disparate. Per comporre le sue ‘foto-poesie’, infatti, Giacomelli attinge spesso a una riserva di migliaia di
fotografie realizzate durante erratici vagabondaggi per la sua terra natale, depositate nel limbo di scatole
segnalate con la scritta “per poesie”. Fino a quando, sotto la forza ispiratrice di un testo poetico, frammenti
sparsi di quel magmatico materiale cominciano a coagulare, attraverso un meticoloso processo di montaggio in
sequenza. Ad emergere è un paesaggio di relitti, fabbriche abbandonate, discariche e vecchi edifici, dove si
muovono le parvenze fantasmatiche di un’umanità smarrita e alla deriva, che eternamente resiste a un soffio
dalla propria scomparsa, nel pathos sospeso tra la vita e la morte di un’istantanea. Un paesaggio che diventa
metafora di una periferia esistenziale, riflesso di una condizione umana post-moderna che ha perso ogni punto di
riferimento, messa in scena da Giacomelli attraverso una serie di stratagemmi (doppie esposizioni, montaggio di
più negativi, intenso ricorso al mosso e allo sfuocato, interventi in fase di stampa), lungo un percorso di
sistematica esplorazione delle zone liminari dell’attualità storica.
Marco Andreani lavora come curatore, responsabile d’archivio e docente di Storia ed estetica della fotografia presso
Macula – Centro Internazionale di Cultura Fotografica di Pesaro. Nel 2005 si laurea in Lettere Moderne all’Università di
Bologna, con una tesi sui rapporti tra avanguardie, letteratura e fotografia. Nel 2006 cura e traduce, insieme a Roberto
Signorini, L’immagine precaria. Sul dispositivo fotografico, di Jean-Marie Schaeffer (CLUEB, Bologna). Si occupa
dell’opera di Mario Giacomelli, lavorando al riordino dei documenti del suo archivio di Senigallia. Nel 2009 consegue il
Dottorato di Ricerca in Storia della Fotografia presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Parma, con una
tesi sui rapporti tra Giacomelli, Luigi Crocenzi e la fotografia italiana del dopoguerra. Da alcuni anni si occupa dei rapporti
tra testo scritto e immagini fotografiche nelle riviste illustrate italiane dell’epoca fascista e del dopoguerra.
Paolo Barbaro (CSAC, Università degli Studi di Parma)
Luigi Ghirri prima e dopo: come un falso movimento
In diverse occasioni Luigi Ghirri diede alla mostra Vera Fotografia, 1979, presso il CSAC dell’Università di
Parma, il valore di uno spartiacque nella sua opera: dieci anni di ricerche e serie fotografiche a cui la critica
attribuisce parentele con la Pop Art, con l’Arte concettuale, con un pensiero critico dei mass media e del Kitsch
a cui segue un decennio – brutalmente interrotto dalla sua improvvisa scomparsa – in cui apre a un’idea nuova
di paesaggio, architettura, imprese di descrizioni dell’esterno. È un decennio in cui interviene scrivendo sulla
sua fotografia e su quella di altri, e sulla funzione dell’immagine nel contemporaneo. Per molti aspetti è un
mutamento di prospettiva che trova corrispondenze internazionali, corrisponde al contesto teorico, agli incontri e
collaborazioni con storici dell’arte attenti ai mass media come Arturo Carlo Quintavalle, Massimo Mussini, con
artisti concettuali come Guerzoni, Parmiggiani, Vaccari, Della Casa, Cremaschi, e poi tra gli anni Settanta e gli
Ottanta con figure in qualche modo critiche rispetto al ‘moderno’ come l’operatore di media Giulio Bizzarri, il
teorico dell’architettura Vittorio Savi, Aldo Rossi, scrittori come Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni. L’incontro
e la progettazione comune con gli altri fotografi coinvolti in Viaggio in Italia (1984) conferma l’esistenza di
un’area di ricerca capace di intrecciare scritture anche differenti – si pensi alla distanza tra l’opera di Gabriele
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Basilico e quella di Guido Guidi, di Giovanni Chiaramonte e Olivo Barbieri... – in un progetto comune di cui
Ghirri fu interprete ma soprattutto propulsore, come mostrano, credo, gli elementi di sostanziale continuità e
coerenza di tutta la sua opera, da Paesaggi di cartone a Il profilo delle nuvole, forse fino all’ultimo fotogramma,
una ‘prospettiva naturale’ fatta solo di luce verso l’Infinito.
Paolo Barbaro (Fidenza, 1957) si laurea nel 1978 all’Università degli Studi di Parma con una tesi su Florence Henri e la
fotografia del Bauhaus; dal 1978 collabora, sotto la direzione di Arturo Carlo Quintavalle, con il Centro Studi e Archivio
della Comunicazione curandone la Sezione Fotografia, del cui Comitato Scientifico entra a far parte dal 1979. Per il CSAC
ha curato rassegne monografiche (tra cui: Studio Villani, Florence Henri, Aniello Barone) e ha scritto saggi e articoli inerenti
la fotografia, l’immagine dell’architettura, del paesaggio e documentaria; ha curato con Giulio Bizzarri e Claudia Cavatorta
la pubblicazione delle Lezioni di Fotografia di Luigi Ghirri. È stato docente a contratto di Storia della Fotografia (Università
di Parma) e di Storia Fotografica dell’Architettura Contemporanea (Università di Ferrara, corso dei Proff. Vittorio Savi e
Sebastiano Brandolini); ha concepito e realizzato progetti internazionali inerenti la fotografia.
Jacopo Benci (British School at Rome)
‘Niente di antico sotto il sole’? Continuity and change in Luigi Ghirri, before and after 1981
[‘Niente di antico sotto il sole’? Continuità e cambiamento in Luigi Ghirri, prima e dopo il 1981]
La prima fase del lavoro di Luigi Ghirri (1970-c. 1981) riflette l’ampiezza della sua curiosità intellettuale, e le
numerose strade che egli battè prima di concentrarsi sull’esplorazione del paesaggio. Le collaborazioni con i
concettuali modenesi, il rapporto con il CSAC di Parma e il suo innovativo programma espositivo, i suoi viaggi,
le sue ampie e variegate letture (testimoniate da un’opera essenziale come Identikit), furono la materia prima da
cui Ghirri plasmò un sistema di immagini in costante crescita, che egli stesso definì nel 1982 ‘ars combinatoria’.
Lo scopo di questo lavoro è di dare uno sguardo più ravvicinato al rapporto tra l’opera di Ghirri e alcune fra le
sue meno indagate fonti iconografiche e testuali.
Jacopo Benci è un artista visivo con una formazione storico-artistica. Lavora soprattutto con fotografia e video/film, e ha
esposto in Italia e all’estero. Dal 2003 compie ricerche sull’opera di Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, e più
recentemente Luigi Ghirri. Ha tenuto su questi soggetti numerose conferenze, e ha pubblicato “Michelangelo’s Rome:
towards an iconology of L’Eclisse”, in R. Wrigley (ed.), Cinematic Rome (Leicester: Troubador, 2008); “‘An extraordinary
proliferation of layers’: Pasolini’s Rome(s)”, in D. & L. Caldwell (eds.), Rome: Continuing Encounters between Past and
Present (Farnham: Ashgate, 2011); “Identification of a city: Antonioni and Rome, 1940-1962”, in J.D. Rhodes, L. Rascaroli
(eds.), Antonioni: Centenary Essays (Londra: Palgrave/BFI, 2011). Benci è Senior Research Fellow in Modern Studies and
Contemporary Visual Culture della British School at Rome.
Anna Botta (Smith College, Northampton, MA)
The survival of fireflies in Luigi Ghirri’s photography
[La sopravvivenza delle lucciole nella fotografia di Luigi Ghirri]
Nella mostra collettiva Come le lucciole, tenutasi nel 2011 alla Galleria Nicoletta Rusconi di Milano, dodici
artisti resero omaggio al saggio Survivance des lucioles (Come le lucciole: una politica delle sopravvivenze) del
filosofo e storico d’arte francese Georges Didi-Huberman. Il saggio, pubblicato nel 2009, propone
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un’interpretazione originale del celeberrimo articolo di Pasolini apparso nel 1975 sul Corriere della Sera (“Il
vuoto del potere”). In quell’articolo Pasolini aveva sostenuto che la sparizione delle lucciole dalle campagne era
un segno della mutazione antropologica causata in Italia dall’industrializzazione del dopoguerra e
dall’urbanizzazione. Aveva predetto una fine apocalittica per la società italiana schiacciata da una nuova forma
di fascismo dipendente dal capitalismo e dal consumerismo. Didi-Huberman confuta Pasolini sostenendo che le
‘lucciole’, nel senso pasoliniano della parola, non sono estinte, ma sopravvivono come individui o artisti o
popoli-lucciole che, vivendo lontano dai riflettori e nascondendosi nell’oscurità dell’esistenza convenzionale,
offrono un luccicare tenue. Sono come dei tizzoni di ribellione critica in cui è ancora possibile trovare delle
“parcelles d’humanité” (“parcelle di umanità”). Il saggio di Didi-Huberman sottolinea l’importanza di nutrire
l’intelligenza del presente attraverso queste fioche aperture e mette in guardia contro predizioni del futuro
desolanti, mirate a sovvertire ogni possibilità di resistenza. Le opere-lucciole sono portatrici di una volontà
rischiarante in grado di risvegliare la coscienza dello spettatore e proporre un’alternativa ai dogmi visivi
imperanti. Nel mio saggio intendo esaminare la fotografia di Luigi Ghirri – in particolare, le sue foto del
paesaggio emiliano – alla luce del dibattito su società e arte generato dalla metafora delle lucciole. Come ci
ricorda lo scrittore Gianni Celati, “(Ghirri) diceva che il mondo alla rovescia – cioè quel riflesso ribaltato che
noi vediamo dentro l’obiettivo fotografico – era parte del comune modo di vedere nella vita di campagna. Era
come la luna riflessa in un pozzo, come una figura che vediamo nelle nuvole… Cioè era l’altro mondo che è
sempre con noi e attorno a noi, nelle ombre e nelle visioni della mente […] Non c’era bisogno di tutto
quell’illusionismo, a cui si corre dietro nella vita cittadina” [Gianni Celati, “Ricordo di Luigi, fotografia e
amicizia”, in Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, a cura di G. Bizzarri e P. Barbaro, Macerata: Quodlibet, 2010,
p. 253]. Intendo dimostrare che, come “les images-lucioles” (“le immagini-lucciole”) di Didi-Huberman, le foto
di Ghirri offrono tenui apparizioni poetiche di qualcosa al limite della scomparsa, pur esprimendo anche la
necessità di un desiderio, l’ostinata volontà di resistenza nonchè la grazia delicata che nasce da una bellezza
gratuita e inaspettata. Scrive Didi-Huberman: “Même les simples lumières des maisons, les lampadaires ou les
phares d’automobiles qui passent sur la route nous serrent la gorge dans le contraste déchirant – visuellement
déchirant – avec toute cette humanité jetée dans la nuit, rejetée dans la fuite” [Survivance des lucioles, Paris:
Minuit, 2009, p. 136. “Persino le singole luci delle case, i lampioni o i fari delle automobili che passano ci
serrano la gola nel contrasto straziante – visualmente straziante – con tutta questa umanità gettata nella notte,
rigettata nella fuga”]. Come possono le Esplorazioni sulla Via Emilia di Ghirri offrire allo spettatore immagini
di una simile paura e fuga e, allo stesso tempo, proporre possibilità di redenzione? In che modo tali foto aprono
uno spazio di resistenza che va ben oltre a un pessimistico e nostalgico desiderio per un passato irrecuperabile?
Anna Botta è docente di Italiano e Letteratura Comparata presso lo Smith College di Northampton (Massachusetts, USA).
La sua specializzazione è nel periodo moderno e postmoderno e in teoria letteraria. Ha curato due raccolte di saggi, Italo
Calvino Newyorkese (Avagliano, 2002) e Scrittrici eccentriche (Tre lune, 2003), e il numero speciale ‘Mediterraneans’ della
rivista Massachusetts Review di prossima uscita (inverno 2014). Ha scritto saggi su Italo Calvino, Cristina Campo, Gianni
Celati, Antonio Tabucchi, Renato Poggioli, Julia Kristeva, Georges Perec, Patrick Modiano, Predrag Matvejević, apparsi in
riviste quali Modern Language Notes, Italian Culture, California Italian Studies Journal, Contemporary Literature, Spunti e
parole, nonché in raccolte collettanee di saggi, tra cui Detecting Texts; Geografia, storia e poetiche del fantastico; The Value
of Literature In and After the Seventies; Approaches to Teaching Calvino.
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Matteo Cassani Simonetti (Università degli Studi di Bologna)
Storiografia e critica architettonica nei progetti di Vittorio Savi condivisi con Luigi Ghirri
L’importanza del contributo dell’“architetto, critico dell’architettura e narratore in versi e prosa” Vittorio Savi
(1948-2011) all’interno dell’opera del fotografo Luigi Ghirri (1943-1992) non può essere ricordata unicamente
come momento episodico dell’avvio delle riflessioni sulla rappresentazione dell’architettura e del paesaggio da
parte del fotografo di Scandiano. Queste vicende sono invece necessarie per comprendere un tratto significativo
del lavoro congiunto e singolo dei due autori elaborati a partire dal 1980 e fino ai primi anni Novanta. I progetti
realizzati da Ghirri e Savi mostrano il tentativo di rappresentare il paesaggio e l’architettura attraverso
l’accostamento di due linguaggi paralleli: la narrazione di Savi ottenuta attraverso l’espediente letterario e
storiografico del ‘racconto critico’ e la fotografia di Ghirri. L’intreccio tra immagine e parola è manifesto nei
loro lavori comuni che, raccogliendo l’eredità dell’esperienza di Un paese (1955) di Paul Strand e Cesare
Zavattini, ne impiegarono il dispositivo critico, fin dalle prime esperienze del 1980 di Paesaggio: Immagine e
realtà alle più tarde come Strand. Luzzara (1989), giungendo a risultati che influenzeranno fortemente la cultura
fotografica e architettonica non solo italiana degli anni Ottanta. L’esperienza di Un viaggio in Italia studiato per
la Triennale di Milano del 1987, prototipo dello studio corale e pluridisciplinare (fotografico, architettonico,
letterario) del paesaggio dopo quello eminentemente fotografico di Viaggio in Italia (1984) curato da Ghirri con
altri, sarà l’occasione per i due autori (coadiuvati da altri storici, fotografi e architetti) di tracciare una
descrizione di un viaggio all’interno della penisola italiana raccontandone i diversi aspetti del paesaggio. Al di là
della significativa importanza di queste esperienze all’interno del dibattito culturale degli anni Ottanta, il lavoro
comune di Ghirri e Savi risulta centrale nelle opere dei due autori all’interno delle quali le riflessioni maturate in
modo congiunto influenzeranno significativamente anche i lavori sviluppati in modo autonomo.
Matteo Cassani Simonetti (1984), laureato nel 2010 presso la Facoltà di Architettura di Ferrara consegue nel 2014 il
Dottorato di ricerca in architettura presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Bologna con una tesi
in storia dell’architettura sull’opera di Piero Bottoni a Ferrara (relatore prof. Giovanni Leoni). Ha tenuto interventi durante
convegni nazionali e internazionali, e pubblicato contributi sulla storia dell’architettura dell’Ottocento e del Novecento
interessandosi, in particolare, ai temi della storia della rappresentazione fotografica dell’architettura e della critica
architettonica. Nel 2013 ha curato la sezione intitolata ‘Il paesaggio padano nella fotografia di Luigi Ghirri e nei racconti
critici di Vittorio Savi’ all’interno della mostra Architetture padane (Cesena, 6-21 marzo) organizzata del Dipartimento di
Architettura dell’Università degli Studi di Bologna. È attualmente professore a contratto di Storia dell’Architettura presso il
Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Bologna.
Claudia Cavatorta (CSAC, Università degli Studi di Parma)
L’insegnamento della fotografia di Ghirri: la voce, il testo, la storia
Nella seconda metà degli anni Ottanta, Ghirri tenne lezioni in contesti accademici: all’Istituto di Storia dell’Arte
di Parma (1985-87) e all’Università del Progetto di Reggio Emilia (1989-90). A Parma aveva nel 1979
presentato, invitato da Arturo Carlo Quintavalle, la prima antologica, nella quale esponeva i primi dieci anni
della sua opera. L’insegnamento affidatogli, nell’ambito dei corsi di Perfezionamento, era “Storia della
fotografia”, disciplina allora attivata a Bologna, Venezia e saltuariamente in pochissimi altri atenei.
Normalmente, gli artisti chiamati alla didattica (era accaduto a Parma con Nino Migliori e Luigi Veronesi)
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proponevano soprattutto il loro sapere operativo, la loro poetica e la loro vicenda creativa. Ghirri iniziò invece
presentando una vera e propria Storia, con scelte molto personali sugli autori già a partire dalle origini, con un
approccio inatteso al rapporto fotografia-pittura. L’Università del Progetto era un contesto differente: invitato
dal fondatore Giulio Bizzarri, compagno e animatore di varie imprese a cui era legato da profonda amicizia,
Ghirri incontra tra i docenti Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni, anch’essi protagonisti di importanti interventi
di descrizione del paesaggio. Bizzarri intuì l’importanza dell’occasione e dispose la registrazione integrale delle
lezioni, da cui nel 2010 venne tratto il volume Lezioni di fotografia. La trascrizione dal sonoro venne eseguita a
cura della Provincia di Reggio Emilia, ma la trasposizione della forma parlata, dialogica e fitta di esempi su
immagini, ripetizioni, ellissi, richiedeva un complesso lavoro di aggiustamento di cui mi occupai. Ghirri già da
anni scriveva di fotografia, sua e di altri (scritti antologizzati da Giovanni Chiaramonte e Paolo Costantini in
Niente di antico sotto il sole). La narrazione agli studenti – l’intervento metterà a confronto brani di testi,
registrazioni, redazioni di trascrizione – è racconto del fotografare, del guardare il paesaggio, del pensare la
funzione dell’immagine nella storia e nella contemporaneità.
Claudia Cavatorta si laurea nel 1990 in Materie Letterarie (indirizzo Storico-Artistico Contemporaneo) presso l’Università
di Parma, e ottiene nel 2003 il diploma di Perfezionamento in Didattica Generale e Museale presso l’Università Roma Tre.
Nel 2005-06 frequenta presso l’Università di Ferrara un Corso di Alta Formazione Professionale sulle Nuove Tecnologie
Multimediali e Informatiche applicate ai Beni Culturali e Ambientali. Dal 1993 lavora presso il Centro Studi e Archivio della
Comunicazione dell’Università di Parma (CSAC) dove si occupa nello specifico dei Laboratori Fotografici e di
catalogazione e conservazione di materiali della Sezione Fotografia. Recentemente si è concentrata in particolare sullo studio
della fotografia ottocentesca in Medio Oriente. Ha organizzato rassegne, laboratori e mostre, tra cui: laboratori di fotografia
sperimentale con Nino Migliori (seguiti da progetto europeo con Svezia e Spagna), Cavezzo, 1997-99; Fotografie di
Osvaldo Civirani per Ossessione di Visconti, Gonzaga, 1998; Mario Schifano. America Anemica, Parma, 2008; An Italian
Sense of Place, Montclair State University, NJ, 2008; Nove100 (sezione fotografica), Parma, 2009-10; I Mille Scatti per una
storia d’Italia, Parma, 2012.
Camilla Croce (studiosa indipendente, Berlino)
Lo sguardo delle immagini nella fotografia di Luigi Ghirri
In un articolo scritto per il Corriere della Sera nel 1987 Luigi Ghirri parla della fotografia come dell’enigma di
uno “scarto percettivo del doppio sguardo che continua ad afferrarci”. Rendendo così esplicito come il quid
della fotografia, secondo lui, abbia ben poco a che fare con l’approccio bressoniano all’immagine, Ghirri
contribuisce al discorso teorico sulla fotografia degli anni Settanta, che si andava strutturando in Italia grazie ai
contributi, oltre che dello stesso Ghirri, anche di Franco Vaccari, Massimo Mussini, Arturo Carlo Quintavalle,
Piero Berengo Gardin. Lo “scarto” che ci afferra nel “doppio sguardo” dimostra come la ricerca di Ghirri sia
mossa dal sapere che lo sguardo, lungi dall’appartenere al soggetto, è ciò che ne rivela l’espropriazione
originaria. Il soggetto è in primis assoggettato allo sguardo. Uno sguardo che proviene dal mondo fuori di noi è
sempre già lì quando il soggetto guarda, egli è guardato prima che guardare. Per questo motivo la ricerca di
Ghirri è fenomenologica; il coinvolgimento del soggetto nella visione è orientato dal desiderio di restituire lo
sguardo della realtà. Come già è stato notato, il desiderio è un elemento fondamentale del lavoro ghirriano. Egli
stesso non esita a segnalarne l’importanza, lasciando risuonare il “desiderio di sentirsi a casa nel mondo” che
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radica ogni movimento di pensiero nella sua ricerca di un “sottile filo che leghi autobiografia ed esterno”. Gli
scatti di Ghirri non afferrano le cose, ma si lasciano afferrare da esse per lasciarle essere, maturando uno
sguardo non oggettivante che affida alla fotografia l’apparizione di un’immagine allo stesso tempo conscia e
inconscia della realtà cancellata. Fondamentale resta il presupposto teorico posto nel discorso italiano da Franco
Vaccari, che in Fotografia e inconscio tecnologico affermava che “La struttura della macchina è analoga alla
struttura dell’inconscio, è priva di profondità ed è estranea ai flussi che l’attraversano”. Le riflessioni di Vaccari
si spingono oltre e, rivolgendo l’attenzione al ruolo che il desiderio, ma soprattutto l’autonomia del suo oggetto,
riveste nella fotografia, egli ricorre esplicitamente a Lacan sostenendo che “la parziale natura di segno della
fotografia, che deriva sostanzialmente dall’impossibilità di farla aderire ad un codice convenzionale di
riferimento, fa sì che essa abbia molti elementi caratteristici del significante lacaniano”. Pensando a Barthes per
il quale “la foto è letteralmente un’emanazione del referente”, come se nella fotografia dunque ne andasse di un
movimento dall’oggetto al soggetto e non il contrario; e considerando la foto-grafia, qual essa è, ossia scrittura
di luce, la caratteristica delle immagini/parole ghirriane sembra essere proprio quella di portare al linguaggio,
alla luce, lo sguardo che le precede e da cui provengono. Le sue immagini testimoniano dello sguardo nella
misura in cui, in esse, qualcosa si trasmette che lo sguardo del soggetto immancabilmente elude, ed è proprio in
quanto eluso che questo qualcosa lascia traccia di sé come sguardo, traccia dell’inconscio. Jacques Lacan ha
dedicato pagine importanti allo sguardo, ispirato dalle ricerche di Maurice Merleau-Ponty. Aggiungendo, agli
inizi degli anni sessanta, alle pulsioni già individuate da Freud (orale, anale, fallica, genitale) la pulsione scopica
e quella invocante, Lacan proponeva di comprendere lo sguardo come ‘oggetto piccolo a’ [objet petit a], ossia
come l’oggetto (irraggiungibile) causa del desiderio che, inscritto nell’inconscio, “sfugge sempre alla presa di
quella forma di visione che si soddisfa da sé immaginandosi come coscienza”. Lo sguardo è quindi il modo del
soggetto di corrispondere alla visione, questa intesa con Merleau-Ponty non come una “certa modalità del
pensiero, o presenza a sé” ma come “il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere
dall’interno alla fissione dell’Essere, al termine della quale soltanto mi richiudo su di me”. Restando all’interno
della dialettica tra sguardo e occhio che tesse le immagini di Ghirri, e sulla scorta del pensiero di Lacan e
Merleau-Ponty, questo contributo si propone di legittimare l’idea, suggerita dal titolo, che le immagini di Ghirri
ci (ri)guardino. L’impegno consisterà nell’elaborare i presupposti teorici che rendono possibile, forse,
individuare nelle cose la provenienza e la destinazione ultima delle immagini di Ghirri, questa intesa come
desiderio di restituire alle cose la loro durata.
Camilla Croce vive e lavora a Berlino. Dopo la laurea in filosofia presso la Sapienza Università di Roma, conseguita nel
2005, ha conseguito nel 2011 il titolo di Dottore di Ricerca in Filosofia presso la scuola di dottorato di ‘Ricerca in Forme e
Storia dei Saperi Filosofici nell’Europa moderna e contemporanea’ dell’Università del Salento, in cotutela con la scuola
dottorale ‘Concept et Langages’ della Université Paris IV La Sorbonne, con la tesi ‘Stimmung’ ed ‘Ereignis’. Il carattere di
evento delle disposizioni emotive fondamentali nel pensiero di Heidegger (supervisori Jean-François Courtine, Paris IV;
Massimo Luigi Bianchi, Università del Salento). Recentemente ha incominciato a occuparsi di teoria psicoanalitica
collaborando con la Freud-Lacan-Gesellschaft di Berlino. Ha pubblicato “Sul Nietzsche di Heidegger. Una esperienza di
lettura”, in Studi Filosofici, XXIX, Napoli: Bibliopolis, 2006; “Esistenza”, in Edoardo Ferrario (a cura di), Voci della
fenomenologia, Roma: Lithos, 2007; “Voix de l’écho. Porge e lo stadio dell’eco”, in Consecutio Temporum, vol. 3, n. 6,
Roma: Ass. Cult. Thesis, 2014.
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Cesare Fabbri e Silvia Loddo (Osservatorio Fotografico, Ravenna)
Osservatorio Fotografico, un’esperienza nel luogo
Osservatorio Fotografico è un laboratorio permanente di ricerca sulla fotografia, nato a Ravenna nel dicembre
2009, su iniziativa di Silvia Loddo, storica dell’arte, e di Cesare Fabbri, fotografo e docente di fotografia.
Collabora attivamente con università e istituzioni culturali, organizzando e curando incontri, seminari e
campagne fotografiche con lo scopo di costruire un archivio visivo sulla città e il territorio, e realizza
pubblicazioni sulle ricerche fotografiche e sugli studi e le esperienze compiute. Osservatorio Fotografico non è
un collettivo di artisti chiuso e definitivo, i gruppi di lavoro vengono costruiti di volta in volta in funzione dei
progetti e coinvolgono fotografi, grafici, studiosi e professionisti della fotografia e di altre discipline, nel
tentativo di attivare uno scambio e un confronto attivo con le altre realtà che in Italia e all’estero lavorano sulla
fotografia. Le linee di ricerca principali di Osservatorio Fotografico sono due: una pratica, che confluisce nei
progetti Dove Viviamo e Saluti da Ravenna, e una teorica, che confluisce nel progetto Sulla fotografia, ciclo di
incontri con fotografi, professionisti e studiosi organizzato in collaborazione con il corso di laurea in Beni
Culturali dell’Università di Bologna-Ravenna. A questi due filoni principali Osservatorio Fotografico affianca
numerosi altri progetti realizzati in collaborazione con artisti e realtà culturali del territorio come Ravenna
Teatro – Teatro delle Albe, Ravenna Festival, Orthographe. Come scrive Paolo Costantini nella premessa a
Niente di antico sotto il sole, Luigi Ghirri considerava la fotografia come un’avventura del pensiero e dello
sguardo; “un grande giocattolo magico – prosegue citando Ghirri – che riesce a coniugare il grande e il piccolo,
le illusioni e la realtà, il tempo e lo spazio, la nostra adulta consapevolezza e il fiabesco mondo dell’infanzia”
[Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di P. Costantini e G.
Chiaramonte, Torino: SEI, 1997, p. 11]. Insieme alle intenzioni ciò che ci interessa di più del lavoro di Ghirri è
il metodo, che valorizza il lavoro collettivo e risponde al bisogno di arricchire l’inevitabilmente e
necessariamente solitario lavoro del fotografo con un continuo confronto con altri autori, e trovare sempre nuovi
stimoli nella collaborazione con artisti, scrittori, architetti e musicisti. Un elemento comune è anche la scelta di
collaborare intensamente con la città dove viviamo e lavorare in un contesto locale; “La provincia – dice Ghirri
– è luogo per antonomasia: mescolanza di affetto e ripulsa, luogo dove si incontrano odio e amore, il tutto e il
nulla, la noia e l’eccitazione”; è nella provincia che “si fonde così in maniera inscindibile microcosmo e
macrocosmo, paese ed universo” (“Ritratto. Intervista di Sergio Alebardi”, in L. Ghirri, Niente di antico sotto il
sole, cit., p. 281). Infine, è importante per noi ricordare che abbiamo avuto la fortuna di incontrare nel nostro
percorso uno speciale e straordinario punto di riferimento come Guido Guidi, che con lo stesso Ghirri ha
condiviso progetti importanti come Viaggio in Italia e Esplorazioni sulla via Emilia e che, insieme a Paolo
Costantini, William Guerrieri e Roberto Margini, ha creato Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea,
ancora oggi una delle realtà più importanti per la fotografia in Italia. http://osservatoriofotografico.it
Silvia Loddo (Oristano, 1977) Ha studiato alla Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna e
presso il dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università Sorbonne-Paris IV; dopo la laurea ha frequentato la Scuola di
Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Siena, diplomandosi in Storia della Fotografia. Con Cesare Fabbri
cura dal 2009 il progetto Osservatorio Fotografico, laboratorio permanente di ricerca sulla fotografia finalizzato a costruire
un archivio visivo sulla città. Da diversi anni segue attivamente le ricerche e l’attività didattica di Guido Guidi presso
l’Accademia di Belle Arti di Ravenna e l’ISIA di Urbino. Attualmente collabora con la Fondazione La Biennale di Venezia,
coordinando il progetto di riordino della fototeca dell’ASAC, Archivio Storico delle Arti Contemporanee.
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Cesare Fabbri (Ravenna, 1971) Dopo gli studi in urbanistica presso l’Istituto Universitario d’Architettura di Venezia, ha
collaborato alla didattica di Guido Guidi prima presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna e poi alla facoltà di Design e
Arti dello stesso IUAV e all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino (ISIA). Nel 2007 ha partecipato alla
Biennale Internazionale di Fotografia di Stoccarda ed è stato finalista al Premio Atlante Italiano 007 Rischio Paesaggio
promosso dal museo MAXXI di Roma. Nel 2013 ha partecipato alla collettiva Welfare Space Emilia organizzata da Linea di
Confine per la fotografia contemporanea presso la Corte Ospitale di Rubiera (RE) e al progetto LNM10, Le Nostre Mura. 10
fotografi in residenza, a cura di Stefania Rössl e Massimo Sordi. Con Silvia Loddo cura dal 2009 il progetto Osservatorio
Fotografico, laboratorio permanente di ricerca sulla fotografia finalizzato a costruire un archivio visivo sulla città. Nel 2010
ha aderito al progetto Documentary Platform con la pubblicazione di Un mondo di carta in Vision and Documents, dp
edition, 2010. Collabora attivamente con le compagnie Orthographe e Teatro delle Albe di Ravenna.
Sisto Giriodi (fotografo, Torino)
Con gli occhi di Ghirri. Fotografia come festa mobile
Il contributo non si concentra su di uno solo dei temi proposti, ma si colloca all’incrocio tra gli scopi del
convegno e alcuni di questi temi, confrontati con la pratica fotografica personale: infatti, come fotografo di
territorio, ho scelto di partire dal lavoro di Luigi Ghirri, a cui devo tutto, per fare una breve presentazione di tre
miei ‘testi’ fotografici, quelli che più possono essere visti come qualcosa che mi viene da lui, come una
‘eredità’. Il primo ‘testo’ è quello più importante, quello che ha un legame più evidente con il lavoro di Ghirri,
in particolare con il libro Il profilo delle nuvole, come riconosce Massimo Mussini nella sua introduzione al mio
Atlante Piemontese: infatti è anche questo un ‘atlante personale’ (Ghirri), che nel mio caso raccoglie i miti
enigmi proposti dalle trasformazioni degli spazi rurali marginali del Piemonte, che è per me quello che l’Emilia
è stata per Ghirri. L’attenzione agli aspetti minimi della vita quotidiana, in questo caso urbana, è stata la spinta a
due altre raccolte ‘ghirriane’: quella sulle sorprese offerte dalle ‘bandiere della pace’ mescolate alla quotidianità
domestica, e quella sulle sorprese offerte dalle strade di una Parigi minore; se i testi dell’Atlante Piemontese
rimandavano a quelli di Celati, quest’ultimo ‘testo’ ha un legame ancora più esplicito e diretto con un testo
letterario – di cui riprende addirittura il titolo, Parigi festa mobile – nelle lunghe didascalie, scritte sulle stampe,
nello ‘stile’ di Hemingway e con gli stessi caratteri della sua macchina da scrivere.
Sisto Giriodi, laureato in architettura, professore associato di Progettazione architettonica alla Facoltà di Architettura di
Torino, seguendo le tracce di Ghirri da 15 anni è fotografo del territorio piemontese, impegnato in un progetto ‘aperto’ di
lunga durata – un ‘atlante personale’ che infatti ha chiamato Atlante Piemontese – modello seguito anche in due più piccoli
atlanti ‘eclettici’, dedicati ad altri miti enigmi: quelli rurali della Puglia e quelli urbani di Parigi. Pagine degli atlanti sono
state esposte in mostre personali in Italia e all’estero – Francia, Australia – e sono conservate in collezioni pubbliche
(Biblioteca Nazionale a Parigi) e private. Ha pubblicato tre libri: Atlante Piemontese (2001); Cancelli di Puglia (2008); Le
altre Sindoni (2010).
Nancy Goldring (Montclair State University, NJ)
The uncanny seascape: Ghirri in Polignano [Il paesaggio marino perturbante: Ghirri a Polignano]
La piccola cittadina di Polignano a Mare è arroccata su una rupe di taglio che si affaccia su una vasta distesa di
acqua turchese brillante. Quando visitò questo villaggio unico in Puglia, Luigi Ghirri non fu colpito dalla sua
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meravigliosa drammaticità, né dai brillanti colori del mare. Ciò che percepì fu invece un profondo senso del
perturbante – un’inquietudine, una pervasiva stranezza. Gli edifici nelle sue foto trasmettono una sensazione di
disagio, come toccati da una strana atmosfera di malinconia. Ghirri lascia che gli edifici irradino uno stato
d'animo che stimola domande senza risposta, lasciandoci a contemplare una intransigente enigmaticità. Laddove
la natura potrebbe fornire uno spettacolo emozionante, Ghirri sceglie di concentrarsi sul senso di vulnerabilità
umana, isolando alcuni edifici nel buio o nella penombra a suggerire una profonda solitudine. In un altro secolo,
un fotografo arrivato a Polignano avrebbe potuto registrare il sentimento romantico di timore reverenziale che si
prova davanti all’enormità del mare e al pericoloso precipizio. Quando sono arrivata a Polignano nel 2013, non
mi ero resa conto che Ghirri avesse lavorato lì, fino a quando ho visto una foto nel Museo Pino Pascali. Il nostro
approccio è simile in quanto ci sforziamo di comprendere il luogo – storicamente, socialmente, culturalmente.
Proprio come Ghirri aveva impiegato diversi media nel sincretico lavoro iniziale di carattere concettuale che
aveva fatto con Franco Guerzoni, io creo immagini utilizzando disegno e fotografia, fondendoli per suggerire
una complessa stratificazione di senso. Quest’anno ho prodotto una serie di foto-proiezioni dai numerosi disegni
che ho creato a Polignano. Un esame della mia serie Sea Saw riafferma l’inquietante visione di Polignano di
Ghirri. Insieme, il nostro lavoro a Polignano offre indizi sul motivo per cui ci sentiamo spinti a visualizzare le
indeterminate eppure suggestive tracce della presenza umana nel mondo naturale.
Nancy Goldring ha iniziato la sua carriera di artista e scrittrice negli anni Settanta come uno dei membri fondatori di
S.I.T.E. Inc. Ha poi iniziato a produrre ‘foto-proiezioni’, una personale tecnica che combina disegno, proiezione e fotografia,
e ha continuativamente esposto queste opere a livello nazionale ed internazionale. La sua più recente mostra personale ha
avuto luogo presso la Martini e Ronchetti Gallery di Genova. Le sue opere sono presenti in molte collezioni private e
pubbliche, tra cui l’International Center of Photography a New York e Mumbai, lo Houston Museum of Art, il Padiglione
d'Arte Contemporanea, lo Smith College Museum, la Polaroid Collection, la Dow Jones Collection, il Southeast Museum of
Photography e il St. Louis Art Museum, lo Henry Crowe Ranson Center for the Humanities. Nancy Goldring è Professor of
Fine Art alla Montclair State University, New Jersey; scrive regolarmente per lo Architect’s Newspaper di New York, e il
suo lavoro è stato recentemente presentato in pubblicazioni quali Raritan e Hedgehog Review.
William Guerrieri (Linea di Confine, Rubiera, Reggio Emilia)
La fotografia dei ‘luoghi’ negli autori degli anni Novanta e Duemila
La fotografia degli anni Ottanta è stata definita come la fotografia dei ‘luoghi’. Si è detto più volte del senso di
appartenenza al paesaggio dei fotografi di quel decennio, che si è espresso attraverso una rappresentazione
unitaria dell’esterno, insieme alla ricerca della bellezza. Tuttavia già alla fine degli anni Ottanta la costruzione di
nuove infrastrutture, la diffusione urbana, le prime ondate di immigrati, hanno fatto sì che negli anni Novanta
una nuova generazione di autori avesse un rapporto diverso con il proprio ambiente di vita. I tratti nostalgici che
a volte avevano caratterizzato la fotografia del decennio precedente sono del tutto abbandonati a favore di un più
disincantato rapporto con l’esterno. Termini come ‘paesaggio ibrido’ e ‘non-luogo’ introducono il tema della
perdita dell’identità degli spazi e della difficoltà ad organizzare una rappresentazione unitaria. Non si può
tuttavia parlare, a proposito del lavoro di questi autori, di un’adesione alle strategie del postmodernismo, in
quanto l’approccio conoscitivo ed etico continua a caratterizzare la ‘modernità’ della loro opera. Tutto questo si
ritrova nel lavoro di alcuni autori del decennio precedente, come Olivo Barbieri e Vincenzo Castella, e negli
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autori il cui lavoro emerge dai primi anni Novanta come Paola De Pietri, Paola Di Bello, Marina Ballo Charmet,
Francesco Jodice, Walter Niedermayr, Marco Zanta e io stesso. Se questo passaggio generazionale non è ancora
stato storicizzato, la rottura linguistica, così come alcuni elementi di continuità possono essere colti in alcune
pubblicazioni di quegli anni, come Forma. Visione e visioni del 1994, Passaggi del 1996, e in alcuni progetti
pubblici d’indagine realizzati alla fine degli anni Novanta. Spesso si sono indicati questi autori come ‘eredi’
degli autori precedenti. Se è vero sul piano della formazione, non è vero per quanto riguarda il linguaggio
utilizzato, che risente profondamente dell’influenza della ricerca internazionale. Nel dibattito filosofico e
culturale di questo ultimo decennio, che si è sviluppato attorno alla necessità di ricostruire una visione etica e
civile in un rinnovato rapporto con il reale, con un superamento della stagione del postmodernismo, si è tornato
a fare riferimento e ad auspicare un ripensamento della fotografia dei ‘luoghi’. La riproposizione di un rapporto
sentimentale con l’ambiente di vita, spesso attraverso il ritratto, oggi lo si ritrova ad esempio nel lavoro di
autori, come Francesco Neri, Sabrina Ragucci, Federico Covre, Cesare Fabbri e altri. Altre esperienze di ricerca,
che si richiamano ai principi dell’arte pubblica, hanno rimesso al centro della loro azione lo spazio identitario
del luogo. Infine, con riferimento all’esperienza di indagine di Linea di Confine, ho proposto di utilizzare
l’espressione di ‘coscienza di luogo’, dove il luogo è la sede dei fenomeni e dei flussi riconducibili alla
globalizzazione.
William Guerrieri (Reggio Emilia, 1952) vive a Modena. E’ stato con Guido Guidi ideatore del progetto di Linea di
Confine per la Fotografia Contemporanea (Rubiera, Reggio Emilia), di cui è direttore. Ha curato per Linea di Confine
numerose mostre fra le quali Luoghi come paesaggi, Uffizi, Firenze (2000); Via Emilia. Fotografia, luoghi e non luoghi 1 e
2 (1999-2000) e, con Tiziana Serena, l’indagine e la collana Linea veloce Bologna-Milano (2003-10). Come autore ha
partecipato a varie esposizioni fra le quali: Venezia-Marghera, Biennale Arte, Venezia, (1997); Fotografia italiana per una
collezione, Sandretto Re Rebaudengo, Torino (1997); Sguardi contemporanei. 50 anni di architettura italiana,
DARC/Biennale Architettura, Venezia (2004); Trans-Emilia, Fotomuseum Winterthur, Winterthur (2006); Il Villaggio/The
Village, Photographische Sammlung/Stiftung Kultur, Colonia (2010-12); TAV Bologna-Milano, MAXXI, Roma;
Occidentale; Non basta ricordare. Collezioni MAXXI, Roma, (2013-14). Fra i saggi pubblicati, “Attualità del documentario”,
in Roberta Valtorta, a cura di, Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, Einaudi, Torino, 2013.
Franco Guerzoni (artista, Modena)
‘Danza doppia’ (Viaggi randagi con Luigi Ghirri)
Franco Guerzoni è nato nel 1948 a Modena, dove vive e lavora. Fin dai primi anni Settanta si dedica alla ricerca dei sistemi
di rappresentazione dell’immagine attraverso l’uso del mezzo fotografico, in un contesto di forte influenza concettuale e di
un intenso scambio di idee con giovani artisti modenesi quali Vaccari, Parmiggiani, Della Casa, Cremaschi, e Luigi Ghirri.
Appartengono a questo periodo Archeologia, la prima personale di Guerzoni a Bologna, curata da Renato Barilli nel ‘73, la
collettiva milanese Blow-Up del ‘76 e la collettiva Foto-grafia del ‘77 a cura di Arturo Carlo Quintavalle. Un’ampia
retrospettiva dell’artista è stata coordinata da Paola Jori nel ‘96 in occasione della mostra personale presso la Galleria Civica
d’Arte Contemporanea di Trento, mentre è del ‘99 la personale Orienti, curata da Pier Giovanni Castagnoli a Palazzo
Massari di Ferrara. Nel 2004 presenta le mostre Sipari a Palazzo Forti di Verona, curata da Fabrizio D’Amico e Giorgio
Cortenova, e Bianca e Volta alla Casa dell’Ariosto a Reggio Emilia, curata da Fabrizio D’Amico, e sempre a Reggio Emilia
l’installazione Pitture Volanti curata da Pier Giovanni Castagnoli al Broletto. Sono del 2005 l’installazione Pagine Furiose
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realizzata all’Istituto Italo-Francese di Bologna e la mostra Nero Fumo – con testo di Alberto Fiz – alla galleria Spirale Arte
di Milano. All’inizio del 2009, in occasione di ArteFiera, realizza una installazione site-specific intitolata Pitture Volanti nel
cortile del Palazzo Sanuti Bevilacqua di Bologna. Inoltre la galleria Fotografia Italiana gli dedica una personale in cui
vengono raccolti ed esposti suoi lavori fotografici degli anni Settanta. Nel 2011 è invitato a partecipare al Padiglione Italia
della LIV Biennale di Venezia. Nel febbraio 2013 espone nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti a Firenze, la mostra La
parete dimenticata, a cura di Pier Giovanni Castagnoli e Fabrizio D’Amico.
Giulio Iacoli (Università degli Studi di Parma)
Registrazione disturbata. Di alcune tendenze della narrativa italiana contemporanea dinanzi al paesaggio
Ispirato dall’episodio, irripetibile e influente, della collaborazione fra Luigi Ghirri e Gianni Celati, il mio
intervento si propone una registrazione preliminare e per forza di cose generale e sintetica delle tensioni e delle
sintomatologie che emergono nel racconto del paesaggio italiano contemporaneo, nel momento in cui
l’impraticabilità apparente di un genere preciso, il viaggio in Italia, apre a strategie di scrittura intensive e
variabili. Persistenti linee regionali si intersecano con linee editoriali improntate alla demistificazione del luogo
comune (la collana Contromano edita da Laterza); indagini dell’urbano e del periurbano, maggiormente o meno
legate a logiche di genere, vengono a essere affiancate da narrazioni renitenti ad agevoli categorizzazioni, intese
a perlustrare criticamente tipicità e tenuta di forme e funzioni territoriali, fra la tradizione e le smagliature
contemporanee (il caso Arminio, la cui ‘paesologia’ è reminiscente, in maniera dichiarata, di un testo chiave
come Verso la foce; il Nord-Est di Trevisan, Bettin, Bozzola). L’impostazione teorica che sorreggerà il mio
discorso contempererà gli approcci della geografia e dell’estetica del paesaggio – quest’ultima particolarmente
sviluppatasi, negli ultimi tempi, anche nelle pratiche di studio dell’accademia italiana – e quelli più strettamente
connessi alla teorizzazione delle forme e tendenze della narrativa degli ultimi anni.
Giulio Iacoli è ricercatore al Dipartimento Lettere, Arti, Storia e Società dell’Università di Parma, dove insegna Letterature
moderne comparate, Teoria della letteratura e Letteratura italiana contemporanea. Si è occupato a lungo di temi e questioni
di geografia letteraria e culturale (Atlante delle derive. Geografie da un’Emilia postmoderna: Gianni Celati e Pier Vittorio
Tondelli, Diabasis 2002; La percezione narrativa dello spazio. Teorie e rappresentazioni contemporanee, Carocci 2008; la
curatela di Discipline del paesaggio. Un laboratorio per le scienze umane, Mimesis 2012, e, con Marina Guglielmi, di Piani
sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria, Quodlibet 2012), con una particolare affezione per Celati – cui è
tornato di recente con il volume La dignità di un mondo buffo, Quodlibet 2011 – e altri italiani come D’Arzo e Buzzati, e
stranieri, come DeLillo e Susan Sontag. A questo versante ne ha affiancato uno più esposto all’impegno con le teorie della
letteratura e gli studi culturali. Al momento sta scrivendo un libro su generi urbani e sentimento della periferia fra letteratura
e cinema.
Francesco Migliaccio (Università degli Studi di Torino)
Il mondo visto da distante. Paesaggi di Calvino
Nel 1958 Cesare Cases scriveva che Calvino “ha caro quello che Nietzsche chiamava il ‘pathos della distanza’”.
I suoi personaggi, incapaci di vivere a stretto contatto con la società, tentano di porre la ‘giusta distanza’ fra sé e
il mondo circostante: il barone Cosimo decide di vivere sugli alberi per poter dare il suo contributo alla
comunità senza subirne la vicinanza. Più di vent’anni dopo Calvino recensisce un saggio di fisiologia della
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visione e afferma: “Claude Lorrain dipingeva dando le spalle al paesaggio, che vedeva riflesso in uno
specchietto convesso. Nasce il pathos della distanza, fondamentale componente della nostra cultura”. In Calvino
il paesaggio definisce una sezione di mondo osservato da distante. L’occhio può vedere dall’alto un’area
pianeggiante o un tratto costiero, come ne La nuvola di smog o ne La strada di San Giovanni. Il soggetto può
frapporre fra sé e la realtà una finestra, come nelle vedute del Barone rampante. Osservato da fuori, il mondo
pare cristallizzarsi in un un’immagine di superficie dai contorni netti: è il paesaggio ligure descritto in
Dall’opaco. Il paesaggio a distanza, dunque, è effetto dell’astrazione. Esiste una linea nella tradizione italiana
che da Leopardi arriva fino a Celati e Ghirri: è la linea della lontananza. Un soggetto immerso nel paesaggio,
implicato nel mondo, lascia che lo sguardo si perda nell’indeciso sfumare dell’orizzonte. “Mi piace utilizzare
l’atmosfera che impedisce di vedere lo sfondo. Così vedi il fondo, però lo vedi lontano, c’è un effetto di
lontananza”, affermava Ghirri. La distanza dal paesaggio e la lontananza nel paesaggio potrebbero istituire un
movimento critico adatto a comprendere la percezione dell’ambiente nel secondo Novecento italiano e a rivelare
le profonde tensioni epistemologiche racchiuse nelle due diverse tipologie dello sguardo. Il mio intervento
intende soffermarsi sugli scritti di Calvino, mantenendo tuttavia un dialogo aperto, un confronto, con le forme
del paesaggio di Ghirri e Celati.
Francesco Migliaccio (1987) ha studiato a Torino e a Parigi, presso la Sorbonne Paris IV. Nell’estate del 2012 ha
conseguito la laurea specialistica in Culture e moderne comparate presso l’Università di Torino, ottenendo la dignità di
stampa. La tesi in Letteratura italiana è stata dedicata allo studio del rapporto fra il linguaggio e le strategie referenziali in
Gomorra di Roberto Saviano. Dal gennaio 2013 è dottorando in Letteratura italiana presso l’Università di Torino. Il progetto
di ricerca, sotto la supervisione di Giorgio Ficara, intende studiare i rapporti fra la forma del paesaggio e le prove narrative di
Calvino, Celati e Biamonti. La ricerca, alla luce della complessità storica e teorica del paesaggio, intende avvalersi di un
approccio interdisciplinare, dialogando con gli studi artistici, la filosofia estetica, la teoria della geografia e la
fenomenologia. Nell’ottobre 2013 ha partecipato alla III Giornata di studi sul paesaggio tenutasi presso l’Università di
Cagliari.
Donata Panizza (Rutgers, State University of New Jersey)
Bar is a bar is a rab is a rar: words in Luigi Ghirri’s photographs
[Bar is a bar is a rab is a rar: le parole nelle fotografie di Luigi Ghirri]
L’opera di Luigi Ghirri può essere definita un’attenta e profonda riflessione sulla natura del paesaggio italiano,
esplorato nei luoghi più comuni e familiari e visto come il prodotto sia della secolare interazione tra uomo e
ambiente che dei repentini cambiamenti che hanno interessato l’Italia dal boom economico in poi. Non stupisce
dunque che nelle fotografie di Ghirri compaiano spesso parole di cartelloni pubblicitari, insegne, cartelli stradali,
manifesti, pagine di giornali e graffiti. Il mio presente lavoro analizza il ruolo di tali parole nelle fotografie di
Ghirri e il modo in cui esse interagiscono con l’immagine. Secondo la definizione che David Green propone in
Where is the Photograph? (2003), una fotografia è “una sorta di gesto performativo che indica un evento nel
mondo, […] una forma di designazione che porta la realtà nel campo dell’immagine”. Il concetto di
performativo che Green usa è basato sulla teoria degli atti linguistici di J.L. Austin (1962), la quale prende in
esame quegli enunciati che agiscono sul mondo piuttosto che limitarsi a descriverlo. Seguendo tale definizione,
il mio lavoro interpreta le parole nelle fotografie di Ghirri come una designazione alla seconda potenza, che
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complica la produzione dello spazio messa in atto dalle fotografie stesse. Nelle fotografie di Ghirri le parole non
sono mai casuali, ma si caricano di suggestioni culturali e risuonano nell’immagine-contesto a un livello sia
visivo che concettuale. In Nogara, per esempio, la banale familiarità del paesaggio è intensificata ma allo stesso
tempo messa in discussione dall’insegna al neon BAR. L’insegna, per quanto rovesciata, accesa solo in parte e
scritta scorrettamente, diventa il significante di uno degli spazi più comuni in Italia, spazio che pure rimane fuori
dal campo visivo della foto: è proprio attraverso l’interazione di immagine e parola che la fotografia produce
una complessa definizione del paesaggio italiano.
Donata Panizza è PhD Candidate (ABD) presso il Dipartimento di Italiano della Rutgers University. La tesi cui sta
attualmente lavorando, Overexposing Florence: Journeys through Photography, Cinema, Tourism, and Urban Space,
analizza le fotografie ottocentesche di Firenze dei Fratelli Alinari e la loro influenza tanto sulle rappresentazioni
contemporanee della città (in fotografia, cinema, turismo) quanto sulla sua struttura odierna. Le sue pubblicazioni peerreviewed comprendono, “The Lady Vanishes: Michelangelo Antonioni’s L’Eclisse and Photography”, di prossima
publicazione in Photographies, 8, Routledge, 2015; “What the Writer Saw (and the Camera didn’t): Antonio Tabucchi’s
Notturno Indiano and Daniele Del Giudice’s Lo Stadio di Wimbledon”, di prossima publicazione nel volume Enlightening
Encounters Between Photography and Italian Literature, University of Toronto Press, 2014; “La tirannia dello sguardo
fantasmagorico in La Doppia Ora” (con Francesco Chillemi), Annali d’Italianistica 30, 2012: 309-24.
Maria Antonella Pelizzari (Hunter College, CUNY, New York)
To show but not tell: Luigi Ghirri’s topographies [Mostrare ma non dire: le topografie di Luigi Ghirri]
Nelle parole di Ghirri, la questione fondamentale della fotografia riguarda l’inquadratura e la cancellazione – ciò
che sta dentro e ciò che viene lasciato fuori dell’immagine. Questa presentazione tratta del modo che Ghirri
aveva di intendere la fotografia come un particolare linguaggio visivo che lo orienta in un modo completamente
diverso rispetto a qualsiasi altro medium. Intendo discutere questo processo di orientamento come ‘topografia’,
o una forma di cartografia che prende in considerazione la memoria dei luoghi – soprattutto nel caso del
paesaggio italiano – ma che rimane anche aperta alla scoperta. La macchina fotografica per Ghirri è una cornice
che gli permette di scomparire e lasciare che sia il mondo ad aprire la sua visione. Rifletterò su ciò paragonando
il suo lavoro con quello di altri importanti fotografi e artisti concettuali come Walker Evans e Robert Smithson,
suggerendo che la fotografia di Ghirri è una scoperta aperta, che sfida le categorizzazioni.
Maria Antonella Pelizzari è Professore di Storia dell’Arte e Storia della Fotografia ad Hunter College e The Graduate
Center, City University of New York. È autore del libro Photography and Italy (London: Reaktion Books, 2011), tradotto da
Contrasto (Percorsi della fotografia in Italia (2012), e ha curato la mostra Peripheral Visions: Italian Photography in
Context, 1950s-Present (Hunter Art Gallery, 2012), con libro pubblicato da Charta. E’ stata curatore di fotografia al
Canadian Centre for Architecture a Montreal, dove ha organizzato la mostra e catalogo Traces of India: Photography,
Architecture and the Politics of Representation (Montreal and New Haven: CCA and Yale Center for British Art, 2003). Ha
scritto ad ampio raggio sulle politiche della rappresentazione in fotografia, occupandosi del modernismo Americano, di
fotografia e architettura, fotografia e Futurismo, il colonialismo nell’Ottocento, oltre che di vari autori contemporanei. Sta
attualmente lavorando ad un libro sulla fotografia nelle riviste illustrate in Italia negli anni Trenta, con particolare attenzione
al lavoro di Bruno Munari.
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Raffaella Perna (Università degli Studi di Roma, La Sapienza)
Paesaggi in musica. Luigi Ghirri e le copertine di dischi
Dalle ricerche compiute per redigere questo intervento risulta che Luigi Ghirri sia autore di circa cinquanta
immagini per copertine di dischi (ne erano note solo una trentina), alcune appositamente concepite per questo
scopo, altre nate per motivi diversi e poi destinate a questo fine. Circa quaranta di esse sono state state adoperate
nella metà degli anni Ottanta dalla casa discografica RCA per una serie di dischi di musica classica. Le
fotografie scelte sono prevalentemente immagini di architetture, di interni e, soprattutto, di paesaggio.
Quest’ultimo è tema prediletto per illustrare le cover di dischi di musica classica, e Ghirri da tale punto di vista
non fa eccezione; ma nella sospensione metafisica delle immagini e nel senso di una temporalità accumulatasi e
depositatasi in forma, emergono i caratteri salienti del suo linguaggio espressivo: benché non compaia quasi mai
la figura umana, protagoniste del paesaggio sono, tuttavia, le tracce dell’intervento dell’uomo sull’ambiente.
Raffaella Perna si occupa di storia e critica dell’arte contemporanea e di storia della fotografia. È autrice di saggi in rivista e
libri collettivi e dei volumi Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (2013), Wilhelm von Gloeden.
Travestimenti, ritratti, tableaux vivants (2013), Mimmo Rotella e la Galerie J (2012), Mimmo Rotella. Reportages (2010), In
forma di fotografia. Ricerche artistiche in Italia tra il 1960 e il 1970 (2009). È curatrice dei volumi Il gesto femminista. La
rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte (con I. Bussoni, 2014), Le polaroid di Moro (con S. Bianchi, 2012), degli
atti del convegno Per un museo della fotografia a Roma (con I. Schiaffini, 2012). Si è occupata della storia delle copertine
dei dischi, curando per l’Auditorium Parco della Musica di Roma le mostre Grandi fotografi a 33 giri (2012, catalogo
Postcart) e Synchronicity. Record Covers by Artists (2010). Ha scritto su doppiozero, Il Manifesto. Collabora ad alfabeta2.
Tania Rossetto (Università degli Studi, Padova)
Oltre la rappresentazione, verso la pratica cartografica: mappe come oggetti nelle fotografie di Luigi Ghirri
L’intervento prende in considerazione il corpus fotografico ghirriano contraddistinto dall’implicazione della
cartografia. A prescindere dall’opera più esplicitamente dialogante con l’universo cartografico, Atlante,
l’intervento vuole mettere in luce le modalità attraverso cui Luigi Ghirri ha veicolato immagini di carte e di
pratiche cartografiche che prefigurano la svolta epistemologica attualmente nota nell’ambito specialistico dei
map studies come ‘post-representational turn’. In contrapposizione ad un consolidato e radicato atteggiamento
critico (mapphobia) intento a denunciare e decostruire il contenuto ideologico di ogni rappresentazione
cartografica, sta infatti emergendo in anni recenti un ripensamento teorico che tende ad evidenziare gli aspetti
materiali, contingenti, corporei, performativi, creativi della fruizione degli oggetti cartografici (riassumibile
nella formula ‘from representation to practice’). Se la fotografia ha spesso contribuito a rappresentare la carta in
contesti di potere (l’aula scolastica, l’ufficio tecnico o di polizia, gli allestimenti della propaganda) che ne
sancivano fermamente il ruolo di strumento di controllo, di impartizione, di sanzione, la fotografia ghirriana
destabilizza questo canone e apre precocemente, quasi anticipando l’attuale svolta interpretativa in ambito
cartografico, ad un nuovo ‘senso per la mappa’: una map-philia che si manifesta in una rappresentazione
‘gentile’ degli oggetti cartografici, della loro materialità e della loro spazialità. Intesa e ripresa (così come
accade per il paesaggio, soprattutto italiano) nella sua dimensione ordinaria, quotidiana, dimessa, la carta nei
ritratti ghirriani cessa di essere una distaccata, potente rappresentazione per porsi al centro di vitali pratiche
quotidiane.
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Tania Rossetto (1973) è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università
di Padova dal 2006. Presso questo ateneo e presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (dal 2006 al 2010) ha tenuto corsi di
Geografia Culturale. Laureata in Lettere Moderne e diplomata al conservatorio C. Pollini di Padova in pianoforte, ha
conseguito un dottorato di ricerca in ‘Uomo e ambiente’ presso l’ateneo patavino. Qui svolge attualmente il ruolo di
Professore aggregato con afferenza al corso di Laurea magistrale in Lingue e letterature europee e americane. Ha pubblicato
trentacinque titoli tra articoli in rivista e capitoli di libro, nonché la monografia La Laguna di Venezia: idea e immagine.
Materiali per una geografia culturale (Cafoscarina, 2009). I suoi principali interessi di ricerca ruotano attorno al rapporto tra
geografia e studi visuali e comprendendo: il ruolo della fotografia nella disciplina geografica; connessioni tra studi visuali e
studi cartografici; iconografia del paesaggio (in particolare dei paesaggi veneti); uso di metodi visuali nella ricerca
etnografica sul campo; aspetti geografici della cultura visuale; la dimensione visuale nell’esperienza migratoria; il visuale e
il cartografico nella geografia letteraria. Tra le sue recenti pubblicazioni in riviste internazionali peer-reviewed: Mapscapes
on the urban surface: Notes in the Form of a Photo Essay (Istanbul, 2010), in “Cartographica”, 2013, vol. 48, n. 4, pp. 309324; Theorizing Maps with Literature, forthcoming in “Progress in Human Geography”.
http://www.dissgea.unipd.it/category/ruoli/personaledocente?key=4B5B63B50D522FDA1105ED1E9638B62B
Marina Spunta (University of Leicester)
Luigi Ghirri, Giorgio Messori e l’esperienza del luogo
In questo intervento intendo riflettere sulla consonanza di pensiero e sulla mutua influenza tra Luigi Ghirri e
Giorgio Messori (1955-2006), amici e collaboratori per circa un decennio negli anni ’80, dal progetto
Esplorazioni sulla via Emilia al lavoro per Atelier Morandi, ed in particolare sulla visione ed esperienza del
luogo nella loro opera fotografica, narrativa e critica. La loro affinità di pensiero si sviluppa in dialogo con una
molteplicità di influenze (da Walter Benjamin a Peter Handke) ed emerge in una continua tensione e coesistenza
di opposti, a partire dal binomio vicino-lontano – inteso con Benjamin sia in termini spaziali che temporali,
come copresenza di un luogo o oggetto vicino e di memorie lontane nel tempo. Oltre alle frequenti dicotomie
spazio-temporali, questa dialettica si evince nell’insistenza nell’opera di entrambi sulla soglia (ad esempio
finestra o riquadro), sugli interstizi tra le cose, e nell’idea ghirriana di fotografia come ‘un magico rapporto di
equilibrio’. Prendendo ispirazione dall’attenta lettura critica dell’opera di Ghirri offerta da Messori, dal pensiero
di Benjamin e dalla recente teoria estetica del paesaggio, in questa sede metterò a confronto l’opera di Ghirri e
di Messori concentrandomi sull’esperienza (estetica) del luogo come soglia ed interstizio, quindi come spiraglio
o apertura verso uno sguardo che pur tenendo presente il divario tra le cose riesce a combinare spazi e tempi
diversi, quello di chi guarda e della cosa guardata (Messori), quello dell’analogo e dell’unico (Ghirri) e quello
‘dell’immaginario soggettivo e quello collettivo’ (Ghirri). Il mio intervento intende dimostrare come entrambi
considerino la propria arte come un’‘esperienza estetica, o estatica, che ci permette di riattivare la sensibilità al
mondo’ (Messori) e, sulla scia di Benjamin, come un mezzo per recuperare un’immagine del mondo che sta
svanendo, quindi ‘un’immagine irrevocabile del passato che rischia di svanire a ogni presente che non si
riconosca significato, indicato in esso’ (Messori).
Marina Spunta è Senior Lecturer in italiano presso la School of Modern Languages, University of Leicester. Si occupa di
narrativa contemporanea, fotografia e cinema, in particolare dei dibattiti sull’oralità e su spazio, luogo e paesaggio. Ha
pubblicato saggi su vari autori contemporanei ed è autrice dei volumi Voicing the word: writing orality in contemporary
Italian fiction (Peter Lang, 2004) e Claudio Piersanti (Cadmo, 2009). Ha co-curato i seguenti volumi: Proteus – The
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language of metamorphosis (Ashgate, 2005), Orality and literacy in modern Italian culture (Legenda, 2006) e Letteratura
come fantasticazione. In conversazione con Gianni Celati (Edwin Mellen, 2009). Da alcuni anni studia le intersezioni tra
narrativa, fotografia e investigazione del luogo e paesaggio, in particolare la collaborazione tra alcuni scrittori e artisti nei
luoghi della pianura padana.
Graziano Tassi (Université Paris Ouest-Nanterre)
Elogio funebre della fabbrica: i Ritratti di fabbriche di Gabriele Basilico e La dismissione di Ermanno Rea
Tra il 1978 e il 1980, Gabriele Basilico gira per la periferia di Milano e fotografa tutti i siti industriali che dalla
fine dell’Ottocento fino alla metà degli anni Settanta hanno costituito una parte dell’identità milanese: la Milano
delle fabbriche, della prima industrializzazione e del miracolo economico degli anni Sessanta. In effetti, dalla
metà degli anni settanta in poi, Milano cambia, subisce un processo di deindustrializzazione, diventa la città del
terziario e poi quella del terziario avanzato. Fotografando il passato industriale di Milano, Basilico non vuole
fare un semplice reportage, ma una ricerca sull’identità di Milano, individuata nel simbolo stesso del lavoro: le
fabbriche. Basilico ci offre quindi un lavoro profondamente sociale e quasi antropologico, poiché in questi
luoghi solitari, deserti e pieni di luce c’è ancora la traccia degli uomini che hanno abitato le fabbriche e
camminato sull’asfalto. Ma allo stesso tempo, queste fabbriche dismesse sono un presagio: il vuoto, l’assenza di
figure umane, preannunciano in effetti il crollo dell’era della grande industria, l’uscita di scena della classe
operaia. Queste fabbriche diventano quindi dei monumenti: si sostituiscono all’uomo, determinano l’anima dei
luoghi, insegnano e ricordano, chiedono memoria, fanno parte pienamente dell’identità milanese. Nel 2002,
Ermanno Rea pubblica La dismissione, romanzo-testimonianza che racconta lo smantellamento, dopo un secolo
di attività, dell’Ilva di Bagnoli, la più grande acciaieria di Napoli. Rea, nell’introduzione al romanzo, dichiara
che il suo libro non è un’inchiesta e nemmeno una ricostruzione storico politica della travagliata vicenda
dell’acciaieria. È uno sfogo, una questione di sentimenti e di rimpianti individuali ma anche identitari.
Rimpianto per una città che non è mai riuscita a diventare una città industriale come Milano. Due città, due
modi di vivere e subire l’industrializzazione e la deindustrilizzazione, due modi di esperimentare e di
rappresentare il paesaggio industriale, due approcci artistici completamente diversi, ma legati dal fatto di voler
mantenere viva, nel presente, la memoria del passato.
Graziano Tassi è professeur agrége d’italien e dottorando all’Università Paris Ouest-Nanterre La Défense. Prepara una tesi,
sotto la direzione del professor Christophe Mileschi sulle forme reali e le rappresentazioni della città tra letteratura e cinema
durante il miracolo e economico italiano. I suoi interessi di ricerca sono principalmente: il miracolo economico italiano, il
cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, la letteratura industriale, Michelangelo Antonioni e il rapporto tra cinema,
fotografia e architettura.
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