Cari bugiardi - Le Lezioni americane

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Cari bugiardi - Le Lezioni americane
Renzo Baldo
Editoriali e asterischi
Articoli su “BresciaOggi”
1992
QUEST'OPERA DI RENZO BALDO È CONCESSA SOTTO LA LICENZA CREATIVE COMMONS ATTRIBUZIONE:
NON COMMERCIALE - NON OPERE DERIVATE
RENZO BALDO
INDICE
UN BAEDECKER PER I BARBONI..................................................................... 4
LE MONETE DI GELLI................................................................................... 7
CHI ABITA IN VIA DEL BUON SENSO?.............................................................. 8
I MEDICI DI FIDEL: UN ILLUMINANTE VIAGGIO A CUBA DEL NOSTRO MINISTRO
DELLA SANITÀ............................................................................................ 10
COSSIGA E IL PICCONE: TORNO A VEDER LE PLEBI.......................................... 12
CARI BUGIARDI.......................................................................................... 14
IL VOLO DELLE LIBELLULE........................................................................... 16
LA BALLATA DEI CINICI. IL CASO TOGLIATTI.................................................. 18
ALGERI, WEIMAR...................................................................................... 20
LA FABBRICA DEI LADRI.............................................................................. 22
NAZISMO E VITA QUOTIDIANA:.................................................................... 24
DELITTI EFFERATI, CASTIGHI CONTROVERSI.................................................. 26
QUANTI RE DI DENARI................................................................................ 28
È GIUSTO PAGARE DI PIÙ I DOCENTI MIGLIORI?............................................. 29
LA SCALA IMMOBILE................................................................................... 31
CRONISTI NELLA NEBBIA............................................................................. 33
PERICOLO GHEDDAFI................................................................................. 35
L’INFERNO PUÒ ATTENDERE........................................................................ 37
OBLOMOV E DINTORNI............................................................................... 39
PAURE AMERICANE..................................................................................... 41
GUARDIE E LADRI...................................................................................... 43
IL COLORE DEI SOLDI.................................................................................. 45
QUELLA MAFIA DELLE MAFIE....................................................................... 47
DIFFIDARE DI CHI MANDA FIAMME.............................................................. 48
LA RAGIONE DELLE ARMI............................................................................ 50
MEDICINA O PLACEBO?............................................................................... 52
NON OCCORRE UN NEMICO......................................................................... 54
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Un tetto una patria
Un Baedecker per i barboni
Quale Risorgimento nell’ex Urss?
Negli ultimi giorni di dicembre, come è consuetudine, i giornali hanno fatto il punto sugli eventi
dell’anno trascorso, dalla guerra del Golfo alla tragedia jugoslava ce n’era in abbondanza per
configurare il 1991 come un “anno crudele”. E le persone intervistate, gente illustre e gente
comune, richieste di dire da quali vicende fossero rimaste colpite, di indicare l’episodio che
maggiormente avesse stimolato la loro attenzione, hanno, come è comprensibile, indicato, sempre,
eventi da macrostoria. La storia, non c’è dubbio, passa attraverso il petrolio del Kuwait, attraverso
la soddisfazione o lo sgomento – a seconda dei gusti e degli umori – per il crollo definitivo del
cosiddetto socialismo reale, e via dicendo. Ma se provassimo ad individuare qualche piccolo evento
da microstoria, da lettura minimale della storia, che si rivelino però non privi di una loro
sintomaticità, cosa potremmo scegliere? Possiamo indicarne uno: la pubblicazione, rapidamente
giunta alla seconda edizione, di una Guida per i barboni, a cura della comunità di S. Egidio.
Lodevole iniziativa. Ma perché sintomatica? Perché con questa iniziativa lo strato più infimo del
cosiddetto Lumpenproletariat viene codificato come presenza sociale certa, definitiva, in
crescendo, tale da meritare non qualche progetto per eliminarla, ma la precisa conferma che si
tratta di una realtà strutturale: non più una malinconica e magari pittoresca condizione di
emarginazione casuale e sporadica, ma una realtà stabile, destinata anzi a dilatarsi, ad essere
avvertita come ineliminabile e corposamente consistente.
Si tratta dunque di un’iniziativa da raccomandarsi all’occhio avveduto di qualche editore
intraprendente. Se ne può fare una collana, intitolata, poniamo, Il popolo dei senza tetto, tenendo
presente che l’area dei barboni tradizionali non ha confini molto precisi che la distinguono
dall’area del barboni e semibarboni “di fatto”, oggettivamente ridotti a questa condizione di vita
dalla brutalità dei meccanismi sociali in atto o dalla criminale negligenza degli apparati politici.
Dai dati che trapelano pare che nel mondo i senzatetto diano circa cento milioni. Un vero affare
per l’ipotetico editore. Un volumetto può essere dedicato ai duemila censiti a Londra. Un volume
più consistente al mezzo milione che bazzica nelle periferie di New York. Un’altra serie al Brasile
(pare che siano venti milioni), al Perù, all’America Latina in genere e alle sue varie articolazioni
regionali e nazionali. Né va tralasciato l’Irak, dove tra macerie e fame i senzatetto non mancano.
Fra poco sarà assai utile una pubblicazione per la ex-Jugoslavia, e un’altra, quasi sicuramente, per
le popolazioni degli stati sorti dalla ex-Urss, stati che hanno raggiunto la libertà e l’indipendenza,
ma che avranno qualche problema da gestire.
Chissà, i competenti potranno spiegarci le cause di questa proliferazione. Nel frattempo gli
editori potrebbero però non lasciarsi sfuggire l’occasione, e opportunamente provvedere. Per
quanto riguarda l’Italia, dove la tragica vicenda di una roulotte in fiamme ha riproposto il problema
dell’attenzione pubblica (pare che per accorgersi dei problemi occorra appiccare qualche incendio:
sai quante fiamme occorrerebbero!), le spese di stampa, data la difficile recuperabilità dei costi
(quanti senza tetto potrebbero permettersi il lusso di comprare un libro, per quanto editorialmente
modesto, a loro dedicato?) potrebbero essere ricoperte ritagliando una piccola quota dalla somma
stanziata dagli enti più vari per ridare le case ai terremotati e a tutti coloro che vivono, come
incredibilmente fino ad oggi accade, in attesa di un tetto. Socialmente riconducibili e classificabili
nella variegata area dei barboni.
***
A proposito di libertà e di indipendenza. Non c’è dubbio che fa una certa impressione constatare
che mentre l’Europa occidentale si dà da fare per superare la contrapposizione fra le nazioni e
approdare, per quanto possibile, a un minimo di unità, nell’Est si assiste, drammaticamente, alla
disgregazione e al pullulare di una miriade di stati che orgogliosamente e puntigliosamente
innalzano la bandiera della nazionalità. Fra coloro che, in Italia, si occupano di questi problemi a
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livello di carta stampata, molti hanno salutato l’evento con soddisfazione. Lasciamo pure da parte
la sollecitazione che a questo entusiasmo è venuta dal venir meno del mortale pericolo comunista.
Stiamo alla spiegazione più culturalmente agguerrita che ne viene data: quei popoli stanno vivendo
il loro Risorgimento.
Questo termine, Risorgimento, è stato coniato nel secolo scorso per definire il processo che ha
condotto all’unità italiana e per analogia, per quanto approssimativa, esteso o sottinteso anche per
il formarsi dell’unità tedesca, bismarkiana; nel secondo dopoguerra lo si è applicato ai processi che
hanno condotto all’indipendenza dei Paesi ex-coloniali. Si resta un po’ perplessi a vederlo usato per
indicare processi che appaiono di segno così diverso e opposto: grandi unità statali che si
disgregano.
A questo punto lo strato più colto dei pubblicisti di cui sopra ricorre a Herder, il massimo
teorico e capostipite del concetto di nazionalità, intesa come espressione del bisogno “di ritrovare
ciascuno una sua piccola casa-patria, da possedere e governare in proprio”. La democrazia – così
abbiamo avuto l’occasione di leggere - “per questi popoli comincia con un atto di sovranità
territoriale: rintracciare le frontiere è un loro bisogno primario, è ritrovarsi a casa”.
Sarà. Ma a parte il fatto che, con tutti i suoi meriti storico-culturali, Herder della nazione aveva
un’idea mistico-naturalistica che fa a pugni con la realtà della storia e con i bisogni autenticamente
umani che da essa si esprimono (sarebbe il caso di andare a rileggere lo splendido saggio che
Chabod ebbe a scrivere molti anni orsono sulla differenza fra l’idea di nazione di Herder e in
Rousseau), resta un punto, da spiegare, che molti trascurano: quali debbano e possano essere i
criteri discriminanti intorno ai quali sia accettabile il coagularsi del diritto e della opportunità del
pronunciamento di indipendenza nazionale, con tutto quel che ne consegue. Recentemente un
conferenziere che su questi argomenti, a Brescia, aveva pur detto cose interessanti, interrogato su
quest’ultimo punto, così specifico e determinante, si è dimostrato anch’egli, onestamente,
imbarazzato e alla fine ha concluso che un criterio potrebbe essere la lingua, l’unità linguistica.
Già. Ma allora perché il Canton Ticino non dichiara la sua indipendenza o magari il suo ardente
desiderio di unirsi all’Italia (pardon alla Lombardia)? E perché, putacaso, non riconoscere il diritto
all’indipendenza alla Sardegna (potremmo così anche rispedirle Cossiga, che potrebbe regnarvi
come un Napoleone all’isola d’Elba), al cui dialetto dai linguisti è riconosciuto statuto di lingua? E
magari il Friuli, visto che i cultori del furlàn quasi si offendono se gli dici che il loro è un dialetto?
Per non parlare di quei valdostani che ogni tanto rivendicano la loro diversità sul fondamento della
lingua. O dei baschi, degli alsaziani, dei catalani e via dicendo.
Vero è che sotto c’è ben altro. L’assolutizzazione del concetto di nazione sul fondamento di
criteri puramente sovrastrutturali porta ad una irresponsabile atomizzazione: ci sono le nazioni,
d’accordo, ma anche la subnazioni, e nelle nazioni e nelle subnazioni i gruppi, i sottogruppi, i clan,
le tribù. Brutalmente vien da dar ragione a Bertolt Brecht (oggi più nessuno lo legge, giustamente,
perché era un misto di anarchismo e di comunismo) che in suo scritto ebbe a dire che quando
sentiva qualcuno proclamarsi nazionalista pensava subito: è un cretino. È un po’ pesante, ce ne
rendiamo conto. Ma gli effetti che si vedono ne lasciano sospettare la sostanziale verità. Della
pregnante ricchezza dei patrimoni storico-culturali delle nazioni si deve certo far tesoro, ma altra
diversa cosa, non certo in antitesi, è il problema delle scelte politico-statuali, per dirla con
Machiavelli: il problema della fondazione e del mantenimento dello Stato.
11 gennaio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Il nome di Dio invano
Perché si bestemmi, è faccenda complessa, assai più di quel che può apparire dai commenti,
opinioni, postille – necessariamente rapide e schematiche – che, in occasione della recente levata
di scudi da parte di un principe della Chiesa, sono apparsi sulla stampa. C’è una vera e propria
fenomenologia della bestemmia, che meriterebbe una non superficiale attenzione, con adeguati
strumenti di ricerca e di analisi (può darsi che un siffatto lavoro qualcuno l’abbia già fatto, e
l’autore di queste noterelle sarebbe grato a chi glielo segnalasse).
Ma nella complessità di questa faccenda c’è, forse, un punto che merita qualche sottolineatura e
cioè la chiamata in causa di Dio, perché mandi la sua maledizione sui peccatori e su chi non i voglia
punire.
Negli oscuri anni della fine della cosiddetta ultima guerra, tra il ’42 e il ’43, un giornalista –
fegatoso anzichenò e fanatico, ma allora, immeritatamente, celebre – in un suo messaggio
trasmesso via radio ebbe a invocare la maledizione di Dio sugli inglesi (alcuni dei quali, magari, nel
frattempo, l’avranno invocato perché maledicesse gli italiani). Non so se anche altrove, ma alla
stazione di Milano zelanti galoppini distribuirono distintivi, da applicarsi al risvolto della giacca,
con la scritta: “Dio stramaledica gli inglesi”. Chi li rifiutava veniva schiaffeggiato.
A chi li rifiutava, evidentemente, ripugnava non tanto l’idea che eventualmente Dio si schierasse
contro gli inglesi, quanto che di Dio si avesse così basso concetto da farne un distributore di
maledizioni. Certo i bestemmiatori, con la loro pretesa di scalare il cielo, chiamandolo
sfacciatamente in causa, magari anche per affari di poco conto, appaiono, nella loro virulenza
verbale, moralmente peggiori di chi si limitava a guerreggiare contro chi gli aveva dichiarato
guerra. Ma se dovessimo fare una graduatoria basata sulla gravità delle offese, presunte probabili o
certe, a Dio, prima dei bestemmiatori dovremmo elencare molte altre categorie, gruppi, persone,
che qui tralasciamo per ragion di spazio, ma che presumiamo, quel principe della Chiesa avrà già
preso in considerazione, per pubblicamente farne oggetto di giusto e diffuso sdegno.
Ma torniamo ai bestemmiatori. Forse non è difficile convenire che se essi – si tratti di rozzo
intercalare o dell’espressione di un oscuro combattimento che gli fermenta dentro, nel subconscio e
nel preconscio, con la suprema categoria teologica – pubblicamente manifestano le loro interiori
inquietudini travasandole in più o meno pittoresche ipotiposi, sono riprovevolmente maleducati.
Ma - proviamo a dirlo a bassa voce – cosa c’è d’altro, oltre alla rozzezza? È oggi virtualmente
pensabile una autentica contrapposizione tra l’uomo e Dio? La bestemmia, nel nostro tempo, quasi
sicuramente rientra nel tipo o categoria che, nel lontano ‘600, fu così definita da Paolo Segneri
(fonte, riteniamo, non sospetta): “V’è un genere di bestemmia che si chiama semplice, perché non
contiene alcuna falsità contraria alla fede”.
Il che, tutto sommato, significa che credenti o non credenti, quando bestemmiano non si
pongono problemi teologici. Ma l’idea di un Dio che lancia maledizioni su peccatori o presunti tali e
su chi non li punisce, questo sì è un problema teologico. Di che Dio si tratta? Zeus? Gèova?
giovedì 16 gennaio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Le monete di Gelli
La Befana del Venerabile
In occasione della recente ricorrenza della Befana, ad un istituto che accoglie giovani minorati si
è presentato, per distribuire pacchi dono, un signore distinto, con moglie, collaboratori, fotografi e
giornalista incaricato di stendere un comunicato stampa sul lieto evento. Pensiero gentile,
premurosa attenzione agli infelici. Ma l’atmosfera di familiare cordialità si è interrotta bruscamente
non appena il distinto signore, che si era fatto annunciare come un diplomatico, si è rivelato con il
suo nome, Licio Gelli. Il rettore dell’Istituto ha fatto restituire i doni ed ha chiamato un avvocato
per immediatamente chiedere al pretore il divieto di pubblicare le fotografie che ritraessero il
distinto signore all’interno dell’istituto.
C’è dunque ancora qualcuno che desidera non avere alcun rapporto col Venerabile. La cosa è
confortante, visto che altri, invece, non ha scrupoli a mantenerli, questi rapporti, anzi a sentirsi
congeniale con un personaggio di cui il meno che si possa dire è che risulta, da più punti di vista,
assai sospetto, non solo per il suo passato, ma anche per il suo presente.
Ma non vogliamo qui discutere della P2, dei suoi amici, occulti, semiocculti, palesi. Vogliamo
invece, più semplicemente, parlare della Befana, la simpatica vecchietta nella quale
l’immaginazione popolare ha rappresentato l’idea del donare, idea connessa al piacere “che si possa
consegnare a qualcuno qualcosa senza ricevere in cambio alcunché”.
Questa è la definizione del dono, quale si può trovare su qualsiasi trattato di etnologia. I quali
trattati di etnologia subito però ti avvertono che, di fatto, il dono è carico di ambiguità: raramente –
qualcuno pensa addirittura “mai” – chi dona non esige in cambio qualcosa. Anche i genitori dicono
al bambino: “Fai attenzione, che se non fai il bravo la Befana ti porta il carbone”. Vogliono, in
cambio, che il bambino sia bravo. “Scambio”, dunque, che si configura come un vero e proprio
patto sociale.
Nel contesto sociale tutti i doni tendono ad assumere questo volto. E quando poi sono gestiti dal
potere, da un qualunque potere, dal genitore al “principe”, rivelano pienamente questa ambiguità,
che li trasforma in uno “scambio”, addirittura in un baratto, esplicito o sottinteso. I re e i grandi
feudatari lanciavano manciate di monetine alle plebi: “donavano”, ricevendo in cambio il
riconoscimento della loro sovranità, della loro “altezza”. Tutto sommato, i Licio Gelli che portano
pacchi dono mantengono, molto pateticamente immiserita, questa aspirazione di marca feudale.
Ogni tempo ha i suoi feudatari o apsiranti tali. Non l’hanno dette, recentemente, anche i vescovi, in
uno di quei loro centratissimi documenti, immediatamente calati nell’oblio, che viviamo in tempo
di feudalesimo?
D’altra parte – a proposito di aura politica – forse Licio Gelli è solo memore, come ben gli si
addice, della istituzione della Befana fascista, quando il regime elargiva doni, nel giorno della
vecchietta, e il giorno dopo sui giornali c’era la notizia della generosità che dal Benito si distribuiva
giù per le membra della nazione, fino ai tavoli delle sezioni rionali, con i loro pacchi dono. Perché
negargli di coltivare le sue nostalgie? E, in concomitanza, il piacere di avere il suo bel comunicato
stampa, corredato da qualche fotografia che ne testimonia la disponibilità al “dono” come scambio?
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Targhe stradali
Chi abita in Via del buon senso?
Saldamente arroccato nella certezza che “le democrazie sono tali se si guarda anche ai dettagli”,
un Segretario di Partito – evidentemente in un ritaglio di tempo rimastogli dall’aver affrontato i
grossi problemi, quelli non di dettaglio, che ci travagliano (come si sa, già quasi tutti risolti) – ha
esclamato: “Adesso basta!”. Questi politici non cambiano nemmeno le fraseologie, probabilmente
anche perché non avvertono l’effetto tra grigio-plumbeo e ridevole che emana da questi slanci,
largamente adusati e abusati, nel recente e nel lontano passato, da altri politici, anch’essi perentori
in queste epiche sintesi linguistiche. Comunque sia, “basta” che cosa? Basta targhe di strade e
piazze intitolate a realtà definite, per esempio l’Urss. “Scomparsa come Stato, scompaia anche dalle
targhe!”. Poiché la logica, nelle sue forme più elementari, con la forza cogente dei processi
deduttivi, alberga, riteniamo, anche nei cervelli dei segretari nazionali dei partiti, il suddetto
promuoverà, ora, un censimento perché si possa rapidamente provvedere alla eliminazione delle
targhe, di tutte le realtà defunte. Ci sarà da lavorare, perché, a quanto ci risulta, sulle targhe ci sono
quasi esclusivamente nomi di uomini o di cose defunte.
In realtà il tarlo che produce questa angoscia di traghettofobia è la memoria – qui sì la memoria
storica si è stratificata, fino a diventare magma psichico – del pericolo che l’Urss ha rappresentato
per tutte le buone coscienze. Come ci spiegano gli psichiatri, a coloro che sono affetti da turbe
bisogna evitare perfino anche l’immaginazione, l’ombra, il fantasma della cosa che ha determinato
lo squilibrio che li attanaglia e li ha fatti soffrire.
Ma in verità, questo intervento, così determinante per le sorti del Paese e per il futuro della
nostra Democrazia, ci riporta a riflettere, terra terra, su un aspetto curioso della vita delle nostre
città, grandi o piccole: il rifrangersi degli umori sulla toponamastica. Poiché di storici attenti alla
microstoria non siamo sprovvisti, ci auguriamo che qualcuno ci ricostruisca le vicende di questi
mutamenti, cercando anche di dare evidenza alle componenti psicologiche, alle coordinate
culturali, alle sollecitazioni politiche che li hanno determinati. Non stiamo scherzando: può essere
una ricerca di grande interesse. Anzi, la nascita di un ramo della storiografia: la targhettologia.
Accademie, atenei ed enti culturali vari potrebbero indire dei concorsi a premi su temi come
“Passioni di parte e ideali civili nei mutamenti delle toponomastiche varie”. In carenza di premi da
assegnarsi in moneta si potrebbe garantire al vincitore, appena passi tra le cose defunte, il suo
nome su una targa di via, piazza o vicolo, senza tener conto dei segretari nazionali ostili a
rammemoramento del transeunte.
Queste ricerche, tra l’altro, potrebbero mettere in evidenza che tre, almeno così ci sembra, sono i
principali schieramenti mentali che si confrontano e si scontrano per decidere le scelte dei nomi di
cui corredare le vie, viali, piazze, vicoli e angiporti:
1) la passione antiquaria. Per esempio, è stato fatto con Giordano Bruno, recuperando, in tutta
la sua pregnanza, l’antico nome di Via del Cavalletto.
2) La predilezione per i nomi solenni dell’arte, della scienza, della storia, che ci aiutano a uscire
dalle chiuse angustie locali.
3) La preferenza, invece, per i nomi che rammemorino le domestiche glorie, gli uomini dabbene
che contribuiscono, poco o tanto non importa, alla nostra vita civile. Lo storico Denis Mack Smith
suggerisce questa soluzione. Forse non ha neanche tutti i torti. Ma siccome in questa materia da
contendere hanno tutti un po’ ragione, lasciamo che i tre schieramenti continuino la loro battaglia.
Si vorrebbe solo che lo facessero senza tentazioni da bassi ideologismo. In caso contrario si
potrebbe ricorrere, già che viviamo in tempi di alta tecnologia, alla scelta neutra del computo
aritmetico, co le cifre arabiche alternate con le cifre romane e con l’opportuno ricorso a lettere
dell’alfabeto, corrispondenti ai riquadri che risultano dall’intrecciarsi di meridiani e paralleli.
Strada AI1, strada AI2, strada BI1, strada BI2 e così continuando. Lasciando spazio, però, ammesso
che la proposta risulti accettabile, a indicazioni viarie che ci rammemorino quel tanto di umano che
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vorremmo non sparisse: “Via del riposo, Via del buon umore, Via del silenzio, Via del buon senso,
Via della tolleranza…. Ma se si trattasse di una proposta improponibile, a causa del sospetto che si
tratti di dimensioni umane ormai scomparse, si potrebbe suggerire: via dell’irragionevolezza, via
dell’arroganza, via della sopraffazione, via della confusione, via delle esternazioni… e così
continuando.
giovedì 23 gennaio 1992
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I medici di Fidel: Un illuminante viaggio a Cuba del nostro ministro della sanità
Il nostro ministro della sanità è tornato da Cuba, dove si è recato in visita ufficiale, entusiasta
del sistema sanitario che è stato realizzato in quel Paese: “Magari potessimo importarlo in Italia”,
ha dichiarato.
Naturalmente ha subito aggiunto che, come liberale, non può certo ammirare “la struttura del
governo di Castro”. Ma ha ribadito che, pur deplorando che in quel Paese non c’è “la libertà della
democrazia”, quel modello sanitario è “eccezionalmente valido”. Poiché al nostro ministro, che si
dà da fare per rimediare alle incredibili storture del nostro sistema sanitario, è, in misura
apprezzabile, riconosciuta serietà e competenza, c’è da credergli.
Ne nasce però un quesito. Come mai in quel deplorevole sistema si è realizzato un così
esemplare modello?
Il ministro, a un certo punto dell’intervista, tenta una spiegazione: “La Sanità è un terreno
sostanzialmente pratico, dove più delle ideologie contano i risultati”. Vale a dire, così ci pare di
poter interpretare, quando si ha a che fare con cose pratiche – (ma ci può essere qualcosa che
nell’atto del realizzarsi non sia pratico?) – i risultati si ottengono se volonterosamente si
reperiscono e bene si usano gli strumenti “tecnici”. Si tratta, dunque, dell’antica e sempre
largamente diffusa convinzione che bisogna affidarsi ai competenti, ai tecnici. Convinzione nei
confronti della quale è difficile rinunciare alla ovvia obiezione: ma ci è che è e che cos’è che
coordina le competenze e orienta l’impiego delle tecniche? L’obiezione, per quanto riguarda Cuba,
si può convertire nella seguente domanda: come mai prima del castrismo nell’intero arco della sua
vita civile, compreso il sistema sanitario, Cuba offriva un avvilente panorama di degrado? Come
mai i cubani, almeno a quanto pare, nel campo della sanità – sono proprio furbi questi cubani:
stanno mandando tutto in rovina, come risulta dalla stampa internazionale, ma alla salute non
rinunciano – hanno messa in atto competenza e quell’alto grado di buona volontà che fa funzionare
le tecniche? non c’entra proprio niente l’ideologia? Il ministro si sottrae a questo interrogativo
affermando che, comunque, quel modello “non è asportabile da noi”. Non si riesce a capire perché.
Se non è una questione di ideologie, ma è un atto pratico, tecnico, dato che in Italia di tecnici e di
tecniche non difettiamo, e abbiamo, comunque, i miliardi per procurarci e gli uni e le altre, come
mai il problema non accenna a risolversi? Pensa forse, il ministro, ricorrendo ad una spiegazione
“naturalistica” di stampo tardo-ottocentesco, ma ancora largamente diffusa, che gli italiani - per
natura o per ragioni storiche, in questo ordine di ragionamento non fa differenza, i
condizionamenti storici diventano storici diventano una seconda “natura” – sono infingardi,
pasticcioni e disonesti?
Forse no. Pensa, probabilmente, che in regime di libertà, quale quello in cui noi viviamo,
intervengono fattori che rendono difficile ottenere dei buoni risultati. Dipende, dunque, da fattori
non tecnici. E come dobbiamo chiamarli, se non col nome che gli compete – un nome che oggi più
nessuno vuole usare – e cioè “ideologici”?.
Se, d’altra parte, come si sbandiera, le ideologie sono morte, perché ricorrere, come
continuamente si fa, alla ideologia della libertà? Se le ideologie sono morte, anche questa è morta.
Sennonché, con tutti quei mortali trapassi, un’ideologia è rimasta viva e si è imposta, quella del
libero arraffamento, nobilitata con nome di pragmatismo. Con i liberi arraffamenti, denominati
anche affari, nulla può ben funzionare, che abbia peso e significato civile, nel campo sanitario e
altrove.
L’ideologia è morta
I funerali continuano
A proposito di ideologie. Quando si tocca questo tasto, si tocca un vespaio. Il vespaio è dovuto,
innanzi tutto, al fatto, elementarissimo, che tutte le parole “colte” sono stracariche di significati e di
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usi, che si sono stratificati nel corso del tempo, e che circolano fra noi come soffi o vortici in una
giornata tempestosa, che non si capisce bene da che parte vengono, se abbiamo a che fare con
Borea o con Austro, con Libeccio o con Scirocco. Anche il termine “ideologia” ha un gran numero di
volti, come i vènti della fantasia dei mitografi. È vero che chi ascolta, se dotato di spirito selettivo,
intuisce in che senso l’interlocutore lo sta usando. Ma non è detto che lo spirito selettivo possa
sempre operare con rapido intuito. Molto spesso resta la confusione.
Ahi noi! perché facciamo questa quasi cattedratica precisazione? Non certo per fare lezione al
lettore! Ci vuol altro!! Soltanto per esprimere una qualche dose di stupore e di disagio, che forse il
lettore può condividere, che ci è procurata dal ripetuto allestimento di funerali dedicati
all’ideologia. Non passa quasi giorno senza che dai mass-media, dai dibattiti televisivi o dalle
meditazioni a stampa, ci venga questa misura di ambiguità e di mistificazione. Sì, certo, non va
dimenticato che il linguaggio, nella sua complessità, può sempre incappare in questi inconvenienti.
Ma qui l’ambiguità e la confusa approssimazione sono diventate luogo comune, banale ripetitiva
genericità. Si potrebbe, invero, costruire una storia della fortuna delle parole che ci si appiccicano
sul video o che ingombrano i giornali. Quando, per esempio, si alzò l’inno all’importanza del
decisionismo, svolazzava per l’aere la parola “grinta”. Quel politico lì ha grinta. Ma ce l’ho anch’io,
la grinta, affermò un altro, di rimando. E per qualche tempo il futuro delle sorti del Paese venne
appeso alla speranza che l’Italia si popolasse di grintosi. Ora, per fare un altro esempio, ha invece
preso largo spazio il termine “cambiamento”, un termine che sollecita attese e speranze. Ma, come
è ovvio, attese e speranze sono largamente diversificate, anzi spesso in forte contrasto. Sicché tutti
si augurano il cambiamento, ma non è sempre ben chiaro di che cambiamento si tratti. Però
nessuno rinuncia ad alzare questo vessillo, soprattutto nei finali di discorso, quando si deve far
presa con una risonanza che, secondo l’insegnamento delle antiche “artes sermocinandi”, consegni
all’ascoltatore una certa verità.
Ma torniamo all’uso del termine “ideologia”. Qui non si tratta, come nelle due precedenti
esemplificazioni, dell’impiego di una clausola sonora, quanto dell’uso di un certificato di morte.
Può darsi che sia l’eco verbale di una battaglia contro l’uso fanatizzante dell’ideologia, contro il suo
impiego come copertura della realtà o come sopraffazione nei confronti di essa. Ma spesso si è
costretti ad avvertire che si tratta di una sottile perversa battaglia per diffondere la convinzione che
sia inutile avere idee con le quali affrontare il disordinato magma delle cose che ci avvolgono,
acquisire una lucida consapevolezza, magari rozza, ma schietta, del negativo col quale dobbiamo
fare i conti. Una simile pedagogia non può che produrre guai.
È la pedagogia che produce (vedi sopra) il libero arraffamento.
Domenica 26 gennaio
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Cossiga e il piccone: Torno a veder le plebi
Quando, nel ‘600, fu inventata l’immagine del mondo come grande teatro, nei protagonisti
dell’intreccio scenico, pur tra fosche luci, violenza e sangue, si intravedevano, oggettivamente,
segni di grandezza epica, esempi di virtù, slanci religiosi, serietà di intenti. Oggi, in Italia, siamo
alla farsa tragica, che incomincia con gli sberleffi e finisce con una ignobile scazzottatura; siamo
allo spettacolo a trivio, dove gli istrioni insultano gli spettatori e gli spettatori gli lanciano uova
fradicie; siamo allo psicodramma, dove si rischia che tutti siano coinvolti in comportamenti isterici
e in sussulti da psicopatia in stadio avanzato.
Questa istituzione, così drammaticamente paradossale, ha avuto come volano propulsivo,
tuttora in pieno vorticoso movimento, il vertice stesso dello Stato, la persona che avrebbe dovuto
garantire l’unità nazionale, la dignità della vita civile, l’ossequio ai valori espressi da una Carta
Costituzionale. Quali che siano le ragioni che hanno prodotto questo rovinoso comportamento, il
fatto ormai in tutta la sua evidenza. Cominciano ad accorgersene anche alcuni che l’avevano
sottovalutato. Se si eccettua chi, da quel comportamento, ritiene di ricavarne qualche vantaggio.
Preoccupazione rifiuto e sdegno sono ormai generalizzati, tanto che appare perfino inutilmente
ripetitivo indugiare sull’argomento.
Ci sono però un paio di punti che forse meritano una sottolineatura .
Consapevolezza diffusa. Ma a quale livello? Siamo tutti inclini, ingenuamente, a pensare che i
giornali, dove si svolge il dibattito politico, siano l’espressione dell’opinione publica. Spesso non è
così. Moltissimi ancora, probabilmente la maggioranza degli italiani, attribuiscono, a quel
personaggio, encomiabile volontà di rinnovamento, la decisa intenzione di abbattere quanto di
stantio, di corrotto, di sopraffattorio ci attrista e ci attossica.
Di fronte a un simile fenomeno è inutile trincerarsi dietro al concetto di incredibilità. È
perfettamente credibile e comprensibile. E nemmeno è sufficiente ricorrere alle più consuete
spiegazioni: la demagogia fa sempre presa; le masse sono atavicamente, quasi geneticamente,
attratte dalla immagine dell’individuo, per mediocre che sia, che finge di levarsi sopra le parti;
delusioni, inquietudini, irritazioni, offese si coagulano nel sogno del Vendicatore, di colui che
finalmente farà l’Aggiustatutto. No. Non è sufficiente.
In quasi cinquant’anni di democrazia è stata quasi del tutto trascurata la cosa che è essenziale
per fare democrazia, e cioè la formazione del cittadino. Di questo problema i partiti si sono quasi
sempre infischiati, anzi nemmeno l’hanno percepito.
La democrazia (formale) è stata, nella sostanza, costruita come una oligarchia, come un sistema
che risulta da un intreccio di piccole o grandi oligarchie. La stragrande maggioranza degli italiani è,
da questo punto di vista, “plebe”. Quando affiorano problemi che esigono un minimo di
consapevolezza, di conoscenze per poter darci un’idea delle cose in atto, non capisce letteralmente
niente. È stata letteralmente tenuta nello stato che Kant ebbe a chiamare di “minorità”. Con il
sovraccarico degli imbrogli, delle reticenze, delle confusioni, delle mistificazioni. Là, al vertice,
gruppi, piccole o grosse oligarchie, in contesa o in combutta fra loro; giù in basso, la speranza che
qualche galantuomo provveda al bene pubblico. Ma i galantuomini, quando ci sono – sì, ci sono –
in un siffatto sistema non possono riuscire a fare molto: corrono continuamente il rischio della
emarginazione e dell’avviluppamento, come insetti al miele. E di conseguenza il cittadino, le masse
sperano nel piccone. Non importa se alzato su un mare di contraddizioni, di ipocrisie, di
aggressività.
***
L’umana fantasia – lo sappiamo almeno dai tempi di G. B. Vico – si abbarbica sulle metafore per
dar corpo ai propri pensieri. L’idea, il pensiero che ciò che è insopportabile, o mal fatto debba
essere abbattuto, si traduce nell’immagine del piccone, strumento atto a dirompere duri terreni e
rocce compatte che si spera di rendere friabili. Ma si creano guai quando il piccone viene usato a
caso, con una gestualità caotica e irrazionale. E più drammatico ancora è se il piccone, da metafora,
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
si fisicizza. Gli adepti di un movimento politico che non brilla, nelle sue radici teoriche, per
razionalità e per amore alla democrazia, l’ha già fatto diventare un suo simbolo, da far sfilare in
parata per le strade. Potrebbe essere una scena pittoresca, se non sapessimo che i padri storici di
quel movimento hanno già sfilato con un’altra metafora fisicizzata, il manganello, ampiamente
usato e teorizzato come simbolo e come strumento di persuasione politica.
***
Bene, anzi molto male. Al cospetto di questo tumultuante degrado, e nel ricordo di quel che
accadde fra la fine del 1920 e il 1925, c’è da fare un’altra osservazione. Allora, un’intera classe
politica si lasciò travolgere, per insipienza, per paura, per vischiosa prudenza, per lentezza di
percezione della realtà, per connivenza mal riposta e per niente ripagata. L’impressione che si ha
oggi è che stia avvenendo qualcosa di molto simile. Si dica pure: crepi l’astrologo. Più
elegantemente: le Cassandre sono insopportabili, e ci si augura che sbaglino previsioni. “È quel che
anch’esse si augurano”.
giovedì 30 gennaio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Cari bugiardi
A Santon Bridge, una località del Cleveland, si celebra ogni anno una Festival della Bugia. Tra
allegre bevute e poderose abbuffate viene premiato, dopo una rigorosa selezione, che riesce a
raccontare la bugia più grossa. Nel regolamento è previsto che non possono concorrere i
professionisti della bugia, e si indicano, come tali, soprattutto i politici e gli avvocati.
Certo gli avvocati possono trovare a che ridire su questa designazione, che riecheggia l’opinione
popolare che li vede armati di cavilli con i quali il reo può essere sottratto alla pena: ti possono
dimostrare che la loro professionalità si affida non alla bugia, ma a una sottile scarnificazione dei
pro e dei contro, con, di fronte, la controparte, il giudice, che è il garante dell’accertamento della
verità. Più difficile, per i politici, togliersi di dosso quella querela. Purtroppo per loro, almeno da
quando quel mariolo (per dirla con Don Ferrante) di Machiavelli gli ha sottratto ogni sacralità e,
per di più, ha teorizzato la politica come luogo dove la bugia è una necessita e un dovere. Perché un
dovere? Per “mantenere lo Stato”, suprema garanzia per la vita civile, per tener fuori gli uomini
dalla legge della giungla, dalla feroce lotta di tutti contro tutti.
Non è dato sapere quanti, oggi, in Italia, abbiano consuetudine di lettura con Machiavelli. Certo
è che la lezione, chissà per quali riposti canali, gli è giunta ed è stata ben appresa. Ma quel che
risulta è che dai tempi di Piazza Fontana l’apprendimento si è esteso a macchia d’olio. Al Festival di
Santon Bridge non possono partecipare non solo i politici, ma tanti altri: generali, funzionari
addetti ai servizi segreti, etc. etc. Forse tutti convinti di essersi dati da fare per non “mantenere lo
Stato”. In realtà si ha netta l’impressione che abbiano largamente contribuito a screditare e a
disgregare lo Stato. forse non hanno ben letto Machiavelli, il quale insisteva nel far capire che non
si difende lo Stato quando si opera per fini privati, per interessi di gruppo,, di parte, di fazioni. Ad
alcuni nostri reggitori e alla corte di tanti altri coltivatori di bugie potrebbe riuscir utile leggere quel
capitolo dei “Discorsi”, nei quali perfino Giulio Cesare viene accusato di aver malamente
contribuito a disgregare la “Resistenza pubblica”, come anche oggi sta avvenendo. Il guaio è che
queste cose le leggono soltanto i letterati – che, come osserva il Manzoni in un celebre passo del
suo romanzo, sono in difficoltà se devono salire in groppa a un mulo – e nelle scuole, gli studenti
volonterosi, che poi se le dimenticano.
Il Sessantotto non ritorna
Il sussulto studentesco, cui stiamo assistendo in questi giorni, in alcune università italiane, ha
ridestato vecchi ricordi, misti di irritazione e di qualche preoccupazione. Che stia rinascendo il ’68?
Pere, in verità, poco probabile. La protesta e le richieste girano intorno ad alcuni problemi che
potremmo chiamare di “decenza amministrativa”: trasparenza nell’informazione sull’impiego del
pubblico denaro, mezzi adeguati per la ricerca e lo studio, aule carenti o disagiate, eccesso
nell’aumento delle tasse scolastiche, stigmatizzazione dell’assenteismo di alcuni insegnati,
arroganze baronali. Perfino Ettore Paratore che, da destra, ha commentato: “Hanno ragione”.
Aggiungendo: “Quelli dei miei tempi non avevano ragione: avevano soltanto ideologia e slogan”.
Ma alcuni hanno calato la mano: non hanno alcuna ragione, e finiranno col riproporre il caos e
la pericolosità del ’68. E in alcuni servizi giornalistici, di quotidiani abbastanza attenti nella
registrazione di questi fenomeni, è comparsa insistente questa sottolineatura: alle richieste di
“buon governo” si accompagna anche – sia pure, per ora, a livello di pronunciamenti verbali – la
affermazione che il mal governo “fa tutt’uno con Gladio, le stragi, Cossiga, e tutto l’Olimpo negativo
dei mali oscuri”.
Due osservazioni ci sembrano in proposito possibili.
La peima: appare perfino incredibile che, a distanza ormai di un quarto di secolo, si diano
valutazioni così inadeguate del ’68. In quel movimento ci sono stati, fuor di dubbio, confusione,
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
deplorevoli aggressività, bersagli sbagliati, petulanze piccolo-borghesi, arroganze medio e altoborghesi, perfino scioccherie. Ma c’era anche qualcos’altro: la speranza di uan trasformazione
radicale e positiva, la presa di coscienza della necessità di avviare l’intera società a strutturarsi
secondo una progettualità che superasse tutto ciò che di inadempiente, di grigiamente conformista,
di rozzamente classista, di scaltramente vischioso la aduggiava. Il fallimento di quel movimento
può aver persuaso molti che è inutile e dannoso confidare nella rivoluzione o che i tempi non erano
e non sono maturi o che, come si usa dire, l’unica strada buona è quella delle pazienti e ragionevoli
riforme. Ma ciò non toglie che il giudizio storico esiga, nella valutazione di un evento, tutt’altra
capacità di quella che compare nella frettolosa superficialità di chi demonizza il passato per la
paura che ricompaia nel presente. Il giudizio “storico” dovrebbe essere possibile anche a chi è,
ideologicamente, schierato in modo diverso o addirittura contrapposto all’evento di cui intende
dare una valutazione. Anche se ci si può render conto che non a tutti è concesso, poniamo, la
“serietà” e la dignità intellettuale di un Tocqueville o di un Carr.
Seconda osservazione, più importante. Diamo per scontato che l’attuale movimento studentesco
non andrà al di là della richiesta di “decenza amministrativa”. Esso chiede, allo Stato, alla sua
classe politica, che si risolvano i problemi che sopra abbiamo accennato. Un po’ di onesta,
lungimirante, responsabile assunzione di responsabilità all’interno di uno stato liberaldemocratico. Un po’ di Quintino Sella, un po’ del miglior Giolitti, un po’ di Disraeli, un po’ di
Svezia. Siamo nel pieno del problema che ci attanaglia. Che cosa si può attendere da uno Stato, da
una classe politica che, se si eccettua qualche rara presa di coscienza individuale, ci ha dato “le
stragi, Gladio, Cossiga e tutto l’Olimpo oscuro” di cui sopra?
giovedì, 6 febbraio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Il volo delle libellule
Critiche, bugie, minacce, anatemi
È scoppiata la guerra delle parole
È inevitabile che in epoca preelettorale ognuno tiri l’acqua al suo mulino, cercando argomenti e
facendo riferimento a fatti che si ritiene possano screditare l’avversario. Certo sarebbe bello e
auspicabile che non si dicessero bugie e non si inventassero fandonie, anche se, come ben sintetizza
l’antica sentenza popolare, “in tempo di guerra più balle che terra”. La contesa elettorale è, a suo
modo, una guerra. tra parentesi, i teorici della democrazia, giustamente, le ascrivono anche questo
merito, di avere inventato metodi di battaglia che trasferiscono il belluino istinto dell’aggressività e
dell’eliminazione fisica dell’avversario, dalla violenza omicida alla violenza verbale che gli ottimisti
chiamano “confronto”. Il risultato di questa battaglia non è detto che premi i migliori, i più saggi, i
più capaci di realizzare il pubblico bene, ma, almeno, consente ai vinti di sopravvivere, magari
emarginati e non più in grado di contare alcunché, ma vivi. Chiusa la parentesi.
Siamo dunque, in questa guerra verbale e cartacea. Svolazzano nell’aria anche tante bugie, con
corteggio di cattiverie, ipocrisie, insolenze, e non è detto che sia sempre diffusa e in atto la capacità
di discernimento, che dovrebbe aiutare a smascherarle. Ma tant’è, siamo in guerra, e ogni arma è
buona per fiaccare l’avversario (stavamo per scrivere “il nemico”, ma i teorici della democrazia ci
insegnano che, in una società civile, non esistono “nemici”, ma avversari). Quel che preoccupa,
però, non è lo scatenarsi delle parole, delle opinioni, dei messaggi, degli appelli, ma il tentativo di
tappare la bocca (agli altri, naturalmente). Sommessamente, con divieti e limitazioni; in nome, è
ovvio, della prudenza e della cautela. A gran voce, con accuse di trasgressione, di trasbordamento
dalle proprie competenze, con la singolare richiesta che si facciano “critiche costruttive”. Che vuol
dire? Che, per esempio, chi critica la mancata costruzione delle case per i terremotati le costruisca
lui? E ancora: con l’affermazione che chi rivela verità scottanti è un “provocatore”, che chi mette in
evidenza il marcio è un “dietrista” (viene in mente il quadro, di non ricordo più di chi, che raffigura
Caterina di Russia che sulla carrozza imperiale percorre la via centrale di un villaggio tra belle
ragazze e bei giovanotti plaudenti, e i miserabili rinchiusi nelle cantine o accatastati sul retro delle
case. Morale: non andate a vedere quel che c’è dietro). Ancor più singolare: con la richiesta che non
si guardi soltanto al “negativo” – il non fatto à il malfatto – ma si tenga conto anche del positivo,
che è lì da vedere, è sotto i nostri occhi. Giusto. Proviamo ad esemplificare: la criminalità dilaga,
ma si son costruite delle belle autostrade; il sistema sanitario non funziona, ma possiamo andare a
svernare alle Maldive o alle Bahamas; la corruzione è diventata habitus capillare e dilagante, ma
tutti abbiamo il televisore e l’automobile, etc.
In realtà, se proprio di trasbordamenti vogliamo parlare, l’unico che veramente, in termini di
diritto costituzionale, si è abbondantemente verificato, ci è venuto dall’alto del colle del Quirinale.
L’inquilino del Quirinale ci ha già detto per chi non dobbiamo votare e ha dato sufficienti
indicazioni per chi dobbiamo votare. e i consiglieri di prudenza e cautela, i suggeritori di divieti e
limitazioni non hanno fiatato.
C’è comunque un rimedio da suggerire se si vuol evitare la “guerra” in alto. Quello che fu
applicato dai termidoriani (in anni lontani, ma non poi tanto) con un decreto che proibiva, e
duramente colpiva i trasgressori, qualunque forma di propaganda elettorale, come lesiva della
libertà personale e quindi dell’autenticità del voto. Gli odierni termidoriani, se studiassero la storia,
potrebbero ricordarsene e seguirne l’esempio. Con onestà, però, con la proibizione rigorosamente
estesa a tutti, senza privilegi.
***
Sì, lo sappiamo. La critica serrata, ben puntualizzata, su fallimenti, inadempienze e peggio, non
solo irrita che si sente bersagliato e messo a nudo, i numerosi detentori di coda di paglia, ma anche
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RENZO BALDO
avvilisce i galantuomini, che pur non mancano, che si son dati da fare per bloccare o limitare il
malfatto, il malvoluto, il maltolto e il malgoduto; e, soprattutto, nell’attuale clima di tempestosa
protesta, può contribuire a potenziare e coagulare non forze di rinnovamento, ma movimenti
ispirati a confuso ribellismo, stracarichi di contraddizioni e disponibili ai più pericolosi
sbandamenti e a scelte pesantemente incivili. Verissimo. Ma davvero non si avverte che le cose
hanno raggiunto un peso tale che le parole, in confronto, non sono che voli di libellule? Gli odierni
termidoriani forse hanno qualche difetto di vista: si affannano per le libellule, e non si accorgono
dell’incombere massiccio delle cose.
Opinioni e idolatrie
Quando si ha a che fare con vicende drammatiche, oscure e inquietanti, correttezza vuole che
prima di giudicare si attendano le prove. Ma se le prove mancano, non per questo la coscienza
cessa dall’interrogarsi, dall’arrovellarsi e non per questo rinuncia, in assenza di certezze, a
costruirsi opinioni. Ebbe a dire Pasolini, a proposito delle stragi che hanno insanguinato il Paese: io
so chi ne sono gli autori, ma non posso dirlo apertamente, perché non ne ho le prove. Non aveva
certezze, ma aveva, legittimamente delle opinioni. Perché è il caso di dirlo: le opinioni sono il frutto
della nostra coscienza, cioè dell’idea che noi abbiamo della realtà, delle idee che si sono formate in
noi nel contatto che quotidianamente abbiamo con le cose, con gli uomini, con gli eventi. Proprio
perché opinioni, sono discutibili, ma sacrosante.
Su Gladio e sulle recenti battute che questa vicenda ha registrato possiamo dunque avere delle
opinioni. Un giudice, Casson, ha formulato l’ipotesi, in base ai documenti che aveva a disposizione,
che sotto la sigla di Gladio si siano prese iniziative che non riguardavano la difesa della patria
eventualmente invasa, ma che a ben altro erano rivolte. Il presidente della Commissione stragi ha
ribadito questa convinzione. Un altro giudice ha invece archiviato il tutto. Poiché non abbiamo
nessuna prova che né Casson né il presidente della Commissione stragi siano dei facinorosi e degli
incompetenti, possiamo quanto meno dire che avevano formulato delle opinioni, e che un altro
giudice ha invece manifestato una diversa opinione. Parrebbe naturale concludere, dolorosamente,
che, quanto meno, non si è approdati ad alcuna certezza.
Ebbene, un bel numero di politici e, quel ch’è peggio, una certa parte della stampa italiana si
sono scatenati ad insultare Casson e il presidente della Commissione stragi, rei di avere avuto
un’opinione. Passi per i politici, che sono inclini a questi metodi per loro particolari ragioni, ma i
cosiddetti commentatori, opinionmakers, corsivisti di quei giornali non potrebbero, per
deontologia professionale, schierarsi per un’opinione senza demonizzare l’altra, visto, se non altro,
che archiviare non significa dimostrare? No, non possono, perché appartengono alla categoria delle
persone che idolatrano le proprie opinioni. E l’idolatria, oltre che cattiva consigliera, è anche la spia
di cosa fermenta nella coscienza degli idolatri.
giovedì 13 febbraio
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
La ballata dei cinici. Il caso Togliatti
Bisogno di verità storica o solo furbizia preelettorale?
Nel 1941 le armate hitleriane invadono l’Unione Sovietica, provocando, in termini di orrore, una
tragedia fra le più spaventose della storia. Milioni di morti, un Paese devastato e calpestato, con
una calcolata e teorizzata brutalità. Il progetto di Hitler, ben documentato, è di ridurre quelle
popolazioni in condizioni di schiavitù, sotto il controllo spietato del vincitore, che ha già
predisposto le forme e i modi della loro esistenza di esseri inferiori. Un progetto che propone, in
pieno secolo ventesimo, orizzonti di disumanità quali mai nessuna società o organizzazione
schiavista avrebbe mai potuto ipotizzare con tanta implacabile crudezza. Cinismo, di consistenti
proporzioni.
Nel 1942 l’alleato fascista manda un corpo di spedizione perché collabori a così bella e nobile
impresa. Cinismo. C’è perfino chi ne è entusiasta perché così si potrà cristianizzare la Russia.
Cinismo.
Quando gli aggressori vengono sconfitti, in un mare di rovine e di morte migliaia di prigionieri
italiani si trovano coinvolti in quella tragedia. (Qui è d’obbligo parlare del coraggio e delle
sofferenze di nostri connazionali, nostri conoscenti, nostri amici, ma il dolore, la pena, la pietà e
l’ammirazione per la loro forza d’animo vanno ben distinte dal giudizio sull’orrore di quella vicenda
e sul cinismo di coloro che la provocarono). Che di essi Stalin dovesse particolarmente
preoccuparsi ascoltando appelli umanitari, riesce difficile pensarlo. Cinismo. Togliatti, interrogato,
risponde che non c’è niente da fare, che è inevitabile che sia così. Cinismo…
Si può ragionevolmente ritenere che non debba suscitare alcuna meraviglia se, in quel contesto,
cinismo si sommasse a cinismo. Ma è proprio difficile convincersi che l’ultimo anello di quella
catena cinica trova la sua spiegazione negli anelli precedenti?
Pare di sì. Secondo un solerte commentatore, questa spiegazione pecca di “opportunismo
storicizzante”. Una bella formuletta che consente di sottrarsi a qualunque capacità e responsabilità
di valutazione, e che, in questo specifico caso, sembra voler presupporre un Togliatti che, anziché
“cinicamente” fermo nella sua partecipazione alla lotta contro il nazifascismo, si trasformasse in un
inviato della Croce Rossa, con Stalin lì pronto ad accoglierne le richieste.
***
In verità, oggi, in questa bagarre del 1992, risulta non troppo credibile che tutte le coscienze
offese dal cinismo (quello di Togliatti, naturalmente, degli altri non si fa quasi motto) abbiano
come scopo di arrivare a un giudizio storico che abbia un minimo di fondatezza. Quel che
realmente conta è il clima preelettorale, quando, come si usa dire, ogni arma è buona per colpire
l’avversario e lo scoop giornalistico, anche indipendentemente dai fini che si propone o dai fini che
realizza, fa clamore.
Ma siamo di fronte ad un dato di fondo che va anche oltre la contingenza del voto da depositare
nelle urne. Si tratta di un dato radicale, ormai largamente perseguito e diffuso: persuadere gli
italiani che è, tutto sommato, marginale, di scarsa importanza, domandarsi come risolvere i
problemi dell’economia, come affrontare la criminalità che dilaga e si è fatta “governo”, come
combattere la corruzione ormai quasi istituzionalizzata, come ottenere il disvelamento dei misteri
più odiosi che hanno segnato la nostra storia recente. L’importante è essere “patrioti”, non importa
se di una patria avvilita e degradata: il patriottismo ridotto da impegno per realizzare la dignità
dell’intera nazione a piatto conformismo. Ben presto potremo sentirci dire che non solatnto i
“gladiatori” sono patrioti, ma anche gli squadristi, le brigate nere, e le SS (non si son dati da fare
per le grandezza e la potenza della patria?).
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Quando la patria assume il volto dell’assoluto, e qualcuno pretende di rappresentarlo, non c’è
più posto per la dialettica politica e per la democrazia l’opposizione, qualunque forma di
opposizione “reale” – qualunque “diversità – viene demonizzata, considerata un corpo estraneo, da
espellere, da annullare. Bisogna farle intorno il vuoto e farla perire. Secondo il celebre motto di
Napoleone nei giorni del colpo di Stato del Brumaio: “Non deve esserci opposizione!”. Qualche
Napoleone di basso taglio può sempre emergere.
***
Un appello per la vita
La notizia che i vescovi delle diocesi lombarde hanno deciso di dedicare un intero anno, fino al
maggio 1993, ala riflessione sul valore della vita, ha già destato l’attenzione di chi, giustamente,
sente l’importanza dell’argomento. La gerarchia cattolica è, in questo torno di tempo,
particolarmente preoccupata sui problemi dell’aborto, dell’eutanasia, dell’uso degli embrioni, del
trapianto degli organi, della cosiddetta ingegneria genetica, ma, ovviamente, ben sa che l’orizzonte
entro il quale si collocano questi temi è assai vasto, e coinvolge, per esempio, la disumana violenza
della criminalità, le condizioni sui luoghi di lavoro, il razzismo, l’ecologia, il macriscopico
annientamento delle vite umane in molti Paesi del Terzo mondo. Sono problemi che – c’è bisogno
di dirlo – coinvolgono credenti e non credenti, sicché sarà, per tutti, inportante e opportuno
seguire lo sviluppo degli interventi su così bruciante materia di riflessione.
In una recente, attenta, proposta di riflessione sull’argomento, abbiamo letto che soltanto
“l’appello a Dio” può consentire di avvertire la sacralità della vita: “Se si toglie di mezzo Dio, in
nome di chi o di che cosa la vita dovrebbe essere rispettata?”.
Non è certo il caso, qui, di ricordare che, drammaticamente, il termine “dio” è stato usato e si
usa con tale semplicità di significati da esigere che si chiarisca di quale dio si tratti. È da ritenersi
che, nel contesto culturale nel quale viviamo, il termine, usato da un credente, indichi il Dio del
cristianesimo. È un dio che ha i suoi credenti, che nella immagine del loro dio fondano i loro valori,
è un dio nei confronti del quale molti dicono o credono di credere, e in realtà adorano, di fatto, altri
dei, sicché di quel dio non si ricordano o lo ricordano soltanto in qualche occasione; è, anche, un
dio che non pochi ignorano o escludono, in due modi, molto diversi fra loro: l’esclusione che si
esprime in termini intellettuali, concettuali, di discorso filosofico o teologico e l’esclusione di chi, di
fatto, dà della vita una interpretazione diversa, talvolta addirittura antitetica a quella che,
solitamente, si ritiene debba desumersi dall’immagine di quel dio, soprattutto così com’essa appare
nel testo, che l’ha rivelato, il vangelo.
L’appello del credente – il credente serio, impegnato nella sua fede – al suo Dio, come a punto di
riferimento per poter fondare i valori è dunque non solo legittimo, ma necessario. Pensiamo però
che non possa essere inteso come una dichiarazione di sfiducia in chi, di dio, ha o crede di avere
un’idea diversa. Il grande compito, nell’attuale contesto storico, il compito che attende credenti e
non credenti, è quello di accertare, insieme, dove e come si possa difendere la vita, di indicare e
creare le condizioni perché la vita sia garantita nella sua concreta pienezza. A ciò – come dobbiamo
dire? riteniamo? speriamo? – si può concorrere qualunque sia il fondamento su cui ciascuno si
abbarbica con le sue convinzioni, con il suo “credere”.
Si può anche non concorrervi. Ma questo può accadere sia a chi fa riferimento a Dio, sia a chi
non vi fa riferimento.
giovedì, 20 febbraio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Algeri, Weimar
La democrazia può essere garantista anche nei confronti dei suoi nemici?
La vicenda che sta travagliando l’Algeria, in un crescendo drammatico che appare ormai
inarrestabile, pone molti problemi. Quello che forse maggiormente colpisce è il riproporsi di un
antico quesito che angoscia il pensiero democratico: se deve accettare che con libere elezioni il
potere vada in mano a chi ha, per programma, di togliere la libertà? Se, per coerenza ideale, si
risponde “sì”, il sistema della libertà si condanna all’autodistruzione; se si risponde “no”, non solo
si contraddice, ma è costretto di fatto a rinnegarsi e ad assumere il volto dell’autoritarismo e della
repressione.
Le opinioni che si sono espresse sulla stampa italiana hanno fortemente inclinato ad optare per
il secondo corno del dilemma, rammemorando, soprattutto, la vicenda della repubblica di Weimar,
che tramite un risultato elettorale si trovò in preda al nazismo. Si può, in proposito, osservare che i
fattori politici che condussero la Germania a quel tragico risultato furono molto diversi da quelli
ora in atto in Algeria, e aggiungere, in più, che, a quanto almeno risulta dalle analisi di chi ha una
qualche conoscenza di prima mano di questa attuale realtà, il fondamentalismo algerino forse non
si identifica tout court con quello iraniano. Ma la di là di queste valutazioni e di questi interrogativi,
la vicenda offre l’occasione per un altro ordine di riflessioni, che sta un poco più a monte.
Come si può difendere e legittimare una democrazia? Soltanto garantendo l’uso dei meccanismi
che ne consentono, formalmente, l’esistenza? O chiedendole di dare risposta concreta ai bisogni
collettivi, diciamo pure ai bisogni della nazione, escludendo da questo termine qualunque
sfumatura “nazionalista” e rifiutando la tracotanza con la quale alcuni gruppi o ceti pretendono di
“essere” la nazione? Se non sono infondate le informazioni di cui disponiamo, la classe dirigente
che fa capo al Fnl e che da non molto ha deciso di dare al Paese le forme della democrazia, sembra
aver diretto le sue scelte verso una civiltà degli affari di netto stampo oligarchico, col risultato del
forte accentuarsi di pesanti sperequazioni sociale, con una diffusa disoccupazione, enormi
arricchimenti anche illeciti, privilegi sfacciatamente esorbitanti. Non c’è da meravigliarsi che larghe
masse si coagulino intorno all’appello fondamentalista. La sordità sociale di ceti dirigenti, più o
meno “laici”, ha come suo effetto fenomeni di aggregazione antagonistica che, in un paese islamico,
non può non essere segnato da ideologie di ispirazione religiosa. Non serve a molto schierarsi per il
colpo di stato “per salvare la democrazia”. Per salvare la democrazia bisognerebbe farla funzionare.
***
Con le debite e ovvie differenze, il problema del “funzionamento” ribolle in tutti i Paesi che si
reggono a democrazia. Italia compresa, anzi Italia probabilmente in testa alla graduatoria di
pericolosità.
In questi giorni si decide il risarcimento per le estorsioni, una piaga che offende non solo per la
sua nocività economica, ma per le conseguenze così spesso disastrose sul piano umano. Non si può
che approvare. Sempre in questi giorni è stato promesso il prossimo e rapido aggiustamento di
servizi fondamentali della Sanità. Un apprezzabile contributo, ammesso che davvero si realizzi, al
“funzionamento”. Al vertice del governo ci si impunta, non sappiamo ancora con quale esito, per
ottenere l’approvazione di una civilissima legge, quella sull’obiezione di coscienza. Buon segno,
comunque lo si voglia interpretare. La Cassazione cancella la sentenza di secondo grado per la
strage di Bologna e fa balenare la speranza che si riesca a venire a capo di quella mostruosa
violenza che ha colpito la democrazia. La Cassazione prende le sue decisioni esclusivamente in
termini tecnico-formali, ma non v’è chi non veda il significato civile e politico che se ne può
ricavare.
Non bisogna essere insolenti e attribuire questi casi al clima preelettorale… Diciamo che sono
episodi in grado di dimostrare che, quando si vuole, qualcosa si può fare, che la democrazia può
funzionare.
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
L’ondata contro la cosiddetta partitocrazia, che potrebbe, il 5 aprile, portare il Paese
nell’anticamera di un regime che sul piano di quel che di solito si intende per democrazia potrebbe
dare qualche sorpresa, è stata provocata da un “funzionamento” della democrazia alquanto
inquietante. Chi si stupisce che, in un Paese con tanto benessere, larghi strati, disconoscenti,
ascoltino voci demagogiche, che si alzano anche da alti livelli istituzionali, dimostra di non disporre
di sufficienti antenne radar, che gli permettano di vedere il fenomeno nella sua effettiva
consistenza e, soprattutto, nelle sue motivazioni. Motivazioni di cui qui ci risparmiamo l’elenco.
Fino a non molti anni fa, pur fra amarezze e titubanze, si poteva pensare a un mutamento. Se
non proprio “rivoluzionario”, almeno capace di una radicale cura di ormoni che conferisse, alla
democrazia, capillare sostanzialità. Ora dobbiamo sperare che qualche favorevole congiuntura
astrale ci salvi dal rischio di processi di “reazione” che, per colmo di ironia, se presentino anche col
nome di trasformazione e di rinnovamento.
Che cosa bolle nel brodo dei politici?
È frequente la richiesta che si smetta di parlare di politica e che si lascino bollire i politici nel
loro brodo. Che si guardi, piuttosto, al concreto operare quotidiano, là dove la società civile può
dare i suoi frutti migliori, cercando, ciascuno, di fare quel “poco” che personalmente gli è possibile,
evitando il rischio del ripiegamento sul nulla, nell’inerzia dell’indifferenza, nella corrosiva angustia
della macerazione nell’impotenza, nell’emotiva ma illusoria partecipazione alle contese che si
svolgono – parafrasiamo un poeta che nessuno legge – nel cupo aere dove il destin dei popoli si
cova. Chi si pone questo problema, alzando il tiro osserva che se nella scena attuale “né socialismi,
né comunismi, né religioni” sembrano in grado di “paragonarsi adeguatamente all’entità dei
problemi che sormontano e incalzano” non resta che “la fuga dalla bruttura della storia nella
poesia, nell’arte”, nella sublimità dei sentimenti, nell’operoso, onesto, umano affaticarsi che
consente, per fortuna, a molti, di essere quel che la Bibbia chiama “il sale della terra”.
Ci si può, ci si deve rallegrare che a molti, per fortuna, sia concesso di dar sapore e senso alla vita
col proprio, spesso ammirevole, impegno, comunque e dovunque esso si splichi. Ma davvero si può
immaginare che esso possa realizzarsi senza tener conto del brodo dove bollono i politici e che i
politici fanno bollire”
giovedì 20 febbraio 1992
Editoriali e asterischi
21
RENZO BALDO
La fabbrica dei ladri
La “disonestà”, intesa come lesione della legge, come comportamento che è oggetto del codice
penale, si pratica, diciamolo così all’ingrosso, in due modi: operando dall’interno del sistema
organizzativo nel quale siamo inquadrati, con le mille forme del peculato, della concussione, etc.
etc., di cui, di solito, vediamo affiorare soltanto le punte degli iceberg; oppure operando in aperta
contrapposizione con esso, mediante le mille forme della organizzazione criminale.
Molto difficile tradurre in cifre attendibili sia l’uno che l’altro. Del primo modo, addirittura,
possiamo dire che è perfino impossibile tentare la quantificazione. Del secondo si occupa l’Ispes,
che ci fornisce cifre sicuramente in difetto, ma pur sempre interessanti.
Recentemente ci ha informato del costo della “sicurezza”. Sono dati impressionanti. Centinaia di
migliaia di negozi e appartamenti svaligiati, di auto rubate, di furti con o senza scasso. Si tratta di
guai che prolificano ovunque, a livello internazionale, ma in Italia pare si raggiungano alcuni
primati, come quello del bottino nelle banche.
C’è da domandarsi quanti sono gli italiani che sistematicamente o occasionalmente praticano
questi modi di sostentamento?
Sappiamo bene che questi dati stimolano il formarsi di quel particolare tipo di opinione
“politica” che fa capo al complesso della paura e della indignazione e che si manifesta come
richiesta di ordine e di sicurezza. Lo sapeva benissimo Mussolini, che aveva il fiuto del piccoloborghese giunto al potere. Egli ebbe a dichiarare, nei primi anni dell’instaurarsi del regime fascista,
che la gente non chiede “libertà”, ma “sicurezza”. Si tratta, ovviamente, di una falsa e pretestuosa
contrapposizione. Ci si può però chiedere se il fenomeno, nella sua macroscopicità, non
richiederebbe qualche maggiore attenzione. Sono tutti dei “pervertiti”, degli esclusi a priori dal
contesto civile quei così numerosi nostri concittadini che praticano la lesione del codice penale, o
non piuttosto l’espressione di un disagio sociale di cui nessuno intende preoccuparsi, quasi che si
trattasse di un fenomeno assimilabile alla grandine, ai temporali che distruggono il raccolto, che
non si possono prevedere, cui è difficile rimediare, e che comunque non dipendono da noi?
La domanda può sembrare oziosa. Ma non si vorrebbe che, nel subconscio di chi di quel disagio
non intende occuparsi, albergassero altri convincimenti, inconsci naturalmente: furti, scassi e
rapine hanno due funzioni: la prima, di contribuire a riequilibrare, in qualche modo, la
distribuzione della ricchezza (e lasciamo pur perdere il fatto che spesso il fenomeno colpisce chi di
ricchezza da ridistribuire non ne ha); la seconda, di contribuire a produrre ricchezza, visto che, per
esempio, il fatturato delle aziende produttrici di strumenti elettronici per l’installazione degli
antifurti sta crescendo vertiginosamente, nell’ordine delle migliaia di miliardi e, in subordine, a
creare posti di lavoro, visto che le banche, per esempio, spendono centinaia di miliardi per i
“vigilantes”.
***
Un simpatico signore romano, di cognome Andreotti, è stato persuaso dagli inviati del pertito
dove questo cognome conta, ad accettare di entrare come candidato alle elezioni nella lista dove
l’Andreotti Giulio più non può entrare, perché il posto al Senato gli è stato assegnato a vita.
Hanno spiegato, al simpatico signore romano, che un trenta-quaranta mila voti gli andranno
sicuramente, perché a tanti ammontano, nelle calcolate previsioni degli esperti, coloro che, in quel
collegio, vedendo quel cognome, vi apporranno la loro preferenza, ignari o dimentichi della
altolocata decisione che all’Andreotti Giulio ha già garantito la poltrona.
Si è sempre costretti a ripetere che in clima elettorale ogni gioco è buono. resta però da fare una
constatazione. Ammesso che sia possibile che quel simpatico signore romano di cognome Andreotti
riveli apprezzabili qualità e capacità politiche – le vie della provvidenza sono tante – questa astuta
decisione si configura come un segno di come venga arruolato il personale politico, della oculata
attenzione con cui si filtrano le scelte e le indicazioni delle persone.
A Roma e altrove.
Editoriali e asterischi
22
RENZO BALDO
***
In un’intervista a un giornale italiano, Manuel Vasquez Montalban, un romanziere non molto
noto in Italia, ma che nella sua patria, la Spagna, gode di buona popolarità e, soprattutto, di stima,
ha dichiarato che la democrazia corre il rischio di tradursi in “mesocrazia”. Se non abbiamo
interpretato male, dal greco “mésos” che significa mediocre. Una democrazia retta da mediocri, che
privilegia la mediocrità, con tutto ciò che essa comporta. “È la strada- dice Montalban – che
conduce al successo dei personaggi che in modo esemplare rappresentano la mediocrità, e quel
sottile cinismo che molto spesso è suo appannaggio”. Ed esemplifica: i Franco, i Mussolini.
Vorremmo tanto che non fosse così. E in Italia, per la verità, talora sembra che ai vertici del
“politico” si muovano personaggi che sembrano escludere il grigiore della mediocrità. Personaggi
pimpanti, pronti ai colpi di testa, agli interventi brillanti, alla proclamazione dei rinnovamenti, alle
argute estemporaneità, alle battute di spirito. Col risultato, però, che la discussione politica sembra
organizzarsi intorno all’uso spettacolare delle parole. La mediocrità occultata dal brillio delle
parole.
Viene talvolta il sospetto di avere a che fare con personaggi simili a quel consigliere governativo,
Meseritschor, ne L’uomo senza qualità di Musil, che brillava per la vivacità della conversazione,
che dimostrava di conoscere le scene e i retroscena della politica, ma che, dice Musil, di politica
non capiva nulla.
Col contributo, in proposito, della tv, che così spesso punta i suoi riflettori sui contendenti,
anziché sull’oggetto del contendere. Provate a chiedere in giro, ad amici e conoscenti, che cosa
sanno, che cosa hanno capito degli oggetti dell’attuale contendere.
giovedì, 5 marzo 1992
Editoriali e asterischi
23
RENZO BALDO
Nei caffè di Berlino
Nazismo e vita quotidiana:
quando gli storici scoprono l’acqua calda
Lo storico tedesco Robert Frei ha pubblicato un libro, tradotto ora anche in Italia, frutto di una
ricerca sulla Germania negli anni hitleriani, nel quale si dimostra che il nazismo non era riuscito a
permeare di sé l’intera società civile.
Hitler condannava l’arte “degenerata”, e molti tedeschi comperavano e ben custodivano a casa
loro Kandinski, Klee, Dix, Kokoschka. Nella Germania hitleriana chi voleva pregare pregava, chi
voleva commerciare commerciava, i musicisti componevano musica, le famiglie tedesche andavano
a spasso con Volkswagen.
Uno storico italiano, intervenendo nella polemica che è nata intorno al libro, ha dichiarato che
“l’immagine criminologica che si vuol dare del nazismo impedisce di interpretarlo nella sua
dimensione reale”, sicché, di conseguenza, “ci si stupisce – che in pieno regime hitleriano – le
signore andavano a fare la spesa e a prendere il caffè senza dover assistere a massacri e uccisioni in
mezzo alla strada”.
Pere proprio che gli storici qualche volta amino specializzarsi nello sfondare porte aperte. E chi
l’ha mai negato che nella Germania hitleriana si bevesse liberamente la birra? Forse, nella loro
tenera età, questi storici hanno letto romanzi e fumetti fantascientifici nei quali al potere si
attribuiva la capacità di governare ogni minimo gesto dei sudditi, e trovano, con meraviglia, che
nella Germania nazista una così tentacolare presa di possesso del corpo e dell’anima non si era
realizzata. Ma che scarsa forza aveva quel regime!
Lo stesso stupore che si è diffuso in Italia quando Alberto Sordi ha bonariamente dichiarato che
lui, da ragazzino e vestito da balilla, era allegro e felice. E perché no?
Ma almeno Alberto Sordi non ha fatto alcuna ricerca storica per dirci una cosa così
presumibilmente ovvia. A questi storici, invece, è da chiedere se, anziché scoprire l’acqua calda,
non potrebbero darci qualche contributo per l’approfondimento di che cosa è stato, davvero, il
regime hitleriano, e quale responsabilità, sul piano umano e sul piano della storia, si siano assunti i
regimi fascisti, anche se le signore andavano tranquillamente al caffè, a Berlino come a Roma.
E, del resto, la stessa forma mentis che oggi fa dire che nelle democrazie occidentali – mutatis
mutandis – si sta proprio bene. Anzi: benissimo. Non solo si può andare a spasso, andare a far la
spesa, etc., ma fare anche tante altre bellissime cose. D’accordo.
Ma non è il caso di saper guardare un po’ più in là della punta del nostro naso o qualche passo
più in là del nostro pollaio (pardon, della nostra felicità domestica) per avvertire la pericolosità dei
fattori negativi che corrodono, dall’interno, questa organizzazione della società che chiamiamo
democrazia? Evitando anche, magari, di dare spazio a chi è sempre pronto a fare proposte di
“risanamento” imparentate, più o meno, con quella brutta malattia dei tempi moderni che è il
fascismo? Che ingenuamente molti credono che sia morto.
Ci siamo inariditi per mancanza di sfide?
A proposito di felicità. Pare sia molto diffusa, oggi, l’opinione che, caduto il cosiddetto
socialismo reale, la società occidentale, priva di antagonismi, sia destinata, in una sorta di entropia,
a inaridirsi “per mancanza di sfide”, ad annegare nel proprio pragmatismo, ad appiattirsi nella
volgarità di esistenze individuali svuotate di ogni significato e di ogni prospettiva che non sia quella
del proprio benessere.
Questa convinzione ha trovato, ultimamente, uno dei suoi diffusori in una singolare figura di
pensatore o profeta, Francis Fukuyama, di origine giapponese, ma attivo negli Stati Uniti, che ha
formulato una sua teoria della ormai inevitabile “fine della storia”, per la inesorabile “caduta libera
nell’atonia” nella quale ormai senza rimedio saremmo immersi.
Editoriali e asterischi
24
RENZO BALDO
Di volgarità, atonia, appiattimenti abbiamo, all’intorno, tanta sovrabbondanza, da far pensare
che abbia ragione. Risulta strano, però, che nella formulazione di questa teoria della storia, non si
dia rilievo alla “violenza” con la quale si persegue l’appiattimento, l’atonia etc. e dove c’è violenza,
dove ci sono dei “violentati”, significa che c’è ancora qualche antagonismo. Si tratta di vedere come
i violentati – violentati fisicamente e violentati nelle coscienze – riusciranno a non farsi eliminare o
omologare; di vedere, anche, se, fra i volonterosi predicatori della bontà e dell’amore, che non
mancano, germoglierà qualche capacità di “prassi” che aiuti le potenzialità antagonistiche a non
essere spazzate via.
Altrimenti davvero si rischierà di cadere nella caduta libera, nell’atonia. Che già qualcun altro, se
non andiamo errati, aveva teorizzato, affermando che la mancata soluzione del contrasto,
l’impossibilità per l’antagonista di imporre le proprie ragioni e la propria presenza, genera “la
comune rovina”.
“Non senza ragion mi sarei mosso”
Non ha avuto molto rilievo la notizia che, in riferimento alla lettera di Togliatti, la procura di
Roma, sollecitata da un sposto firmato da un avvocato, ha avviato una indagine preliminare. Le
eventuali ipotesi di reato sono: favoreggiamento bellico, disfattismo politico, istigazione di militari
a disobbedire alle leggi, attività antinazionale del cittadino all’estero, associazione sovversiva,
associazione antinazionale.
Questi estremi di reato, ovviamente, non riguarderebbero soltanto il cittadino Palmiro Togliatti,
ma tutti coloro che, come lui, hanno combattuto il fascismo, che, come è noto, si identificava (de
jure o de facto?) con la nazione.
L’episodio può far sorridere, ma mica poi tanto. È probabile che la procura archivi rapidamente
il tutto. Ma non è l’iter giuridico che particolarmente ci interessi. Interessante è il problema. Il
problema non è nuovo. lo conoscevano anche i Greci dei tempi di Sofocle.
Creonte, il tiranno di Tebe, ordina che Polinice, morto combattendo contro la sua città, venga
“punito” con la proibizione che il suo cadavere venga sepolto. Il che, come è noto, era per gli antichi
terribile punizione, che impediva l’accesso all’oltretomba. E lungo i secoli di gente che si è mossa
“contro la patria” se ne potrebbe citare in gran quantità, e molti, con le parole di Farinata,
avrebbero potuto ben dire: “Non senza ragion mi sarei mosso”.
Quel signore che ha sollecitato la procura sta dalla parte di Creonte: pensa che contro la città –
oggi si dice la nazione, la patria – non ci si debba muovere.
Il quesito è drammatico. E va ricordato che l’han sofferto sulla propria pelle, nel profondo della
propria coscienza, coloro che sono vissuti negli anni del fascismo e, in particolare, gli anni nei quali
il fascismo era precipitato nell’abisso di una guerra assurda e di un’alleanza mostruosa.
Al problema si possono dare due risposte. Una si abbarbica nella convinzione che la nazione sia
di per sé un valore assoluto, e che come tale esiga una assoluta e non mai discutibile obbedienza.
L’altra si appoggiava al primato al primato della coscienza, etica e civile, che non è disponibile
ad accettare l’obbedienza a chi regga la nazione in modi che, appunto, offendano la coscienza; e
decide, quindi, di combattere perché alla nazione, alla patria, si dia un volto diverso. Non combatte
quindi contro la nazione, contro la patria, ma contro chi della patria, diciamo così, fa una gestione
che la ammorba e la degrada.
Chi sceglie la prima soluzione, può anche essere rispettabile (può, ma talora non lo è); chi
sceglie la seconda soluzione è bersagliato da coloro che, di solito, dei problemi della coscienza, e
quindi del problema che la patria abbia un volto accettabile, non si preoccupano affatto.
giovedì 12 marzo
Editoriali e asterischi
25
RENZO BALDO
Maschere e pugnali
Delitti efferati, castighi controversi
Il disagio giovanile va in tribunale
La sentenza con la quale sono stati comminati trent’anni a quel giovane che ha ucciso i genitori
dopo aver tra l’altro premeditato il delitto, così almeno abbiamo letto sui giornali, per venire in
possesso del denaro col quale garantirsi al propria allegra esistenza di cinico gaudente, ha fatto
ricordare, a chi se l’era scordato o a chi non ne era informato, che ci vuole l’ergastolo per togliere
quei diritti civili tra i quali trova posto anche il diritto all’eredità. Perfino i parenti dell’assassino gli
hanno rivolto un appello perché, rendendosi conto del misfatto, si appresti, non si è capito bene, se
a sperare o ad accettare l’aggravamento della pena, l’ergastolo appunto.
Quale sia la pena giusta per simili efferatezze, lasciamo il quesito, sul piano giuridico, ai
magistrati, sul piano etico a chi se la senta di disquisirne. Vogliamo qui soltanto registrare che
quasi nessun giornale nei titoli o nei commenti si è ricordato che anche per un orribile delitto, anzi
a maggio ragione in forza del suo orrore, ci sarebbe da portare qualche attenzione all’humus dal
quale possono germogliare ed esplodere simili violenze omicide. Certo, sentiamo l’obiezione: basta
con la ricerca dei moventi delle azioni individuali nel tessuto sociale! Lasciamo agli avvocati questo
esercizio, ma ben sapendo che serve alla professione forense, che si tratta di un rito dal quale non
possiamo più liberarci da quando sono state inventate, un paio di secoli fa, le cosiddette attenuanti!
E che dunque, chi è colpevole paghi, e in misura alta, il più possibile alta, soprattutto quando
l’efferatezza è palese e mostruosa.
Ma sì, che paghino. E se pagassero tutti, invece di trovar per strada qualche sezione di
Cassazione armata di grandi sapienze formali, saremmo tutti più contenti. Ma come si fa a
dimenticare che intorno a un disgraziato che rincorre la ricchezza e la bella vita sul sentiero
dell’orrore c’è tutto un terreno di cultura, diffuso, capillare, profondo, che sollecita e propone, che
abbaglia e frastorna, proprio come si istupidiscono gli allocchi? Il problema non è quello delle
attenuanti, col loro eventuale peso giuridico. Il problema, che si ha la tendenza a mettere sul solaio,
è quello della presenza dei condizionamenti che vengono da un terreno culturale dove il possesso
della ricchezza e il suo uso sfrenato è, ormai, istituzionalizzato, si è fatto suggerimento,
incitamento, costume, legge non scritta, ma vigente. Sarà moralistico fare questi rilievi, ma colpisce
un fatto che sembra insignificante: in occasione del Carnevale, si sono viste in giro maschere
raffiguranti il volto del giovane assassino. Il Carnevale è allegro e può essere una scelta dettata da
un’allegria balorda e irresponsabile. Ma il Carnevale è anche, alle sue radici, “rovesciamento” ed
esaltazione del rovesciamento, cioè proposta di ciò che si vorrebbe che fosse, di ciò che liberamente
vorremmo essere. Il subconscio si rivela anche attraverso una maschera.
P.S.: Nel frattempo la mascherata ha preso piede, invadendo balere e stadi. Come è giusto: nei
luoghi mitici, l’immagine di un mito attuale.
***
“Maschere” sono anche gli skinheads. “Non vorrei che si criminalizzassero dei ragazzi soltanto
perché hanno scelto di manifestare la loro protesta radendosi i capelli e portando giubbotti di
pelle”, così ha commentato un segretario di zona di un partito che ha molte ragioni di guardare con
simpatia a questa allegra gioventù. Si è scordato di dire che ai capelli rasati e ai giubbotti di pelle si
accompagna anche quel simbolo di festosa allegria che è la croce uncinata, con l’aggiunta
ornamentale di catene, manganelli, coltelli.
Carnevalata? Esuberanza giovanile? Maschilismo? Si sa che appartiene alla psicologia del
giovane il piacere della sfida, la virulenta soddisfazione di urtarsi con la società costituita,
l’inconscia inclinazione a sentirsi “realizzato” con l’assunzione di atteggiamneti “virili” di orgogliosa
contrapposizione alla norma. Perfino Shakespeare se ne è occupato, descrivendo le scioperataggini
Editoriali e asterischi
26
RENZO BALDO
teppistiche del ragazzotto destinato a diventare Enrico V. Appunto: bisoga aver pazienza, che poi i
teppisti si correggono, maturano, diventano Enrico V.
Già, ma se, per caso, anziché obbedire a disdicevoli ma spontanee espressioni di intemperanza
giovanile, fossero strumenti, per niente liberi e spontanei, dall’astuzia cinica di qualcuno che se ne
compiace, addirittura li educa come massa di manovra per farne degli avamposti e dei servitori di
un progetto di aggressione che col Carnevale e con gli impulsi dell’anima giovanile ha ben poco a
che fare?
Sono gli hippies del nostro tempo, qualcuno ha detto. È lecito averne un forte dubbio. Gli
hippies erano i portatori di un’ideologia pacifista, sognavano un’esistenza edonistica e tollerante.
Qui si tratta proprio del contrario: ideologia dell’aggressività e dell’intolleranza.
Comunque sia, hanno commentato in molti, si tratta pur sempre di “ragazzate”, anche se
pericolosamente teppiste. Minimizzare è un vezzo che conforta e rassicura.
19 marzo 1992
Editoriali e asterischi
27
RENZO BALDO
Quanti re di denari
L’etica del nostro tempo ha ridotto l’essere umano a pura economicità
Ogni vicenda criminosa ha il suo volto e i suoi risvolti: porta con sé la sua aggressiva facciata
“esterna”, che sollecita le nostre reazioni, di riflessione, di condanna, e i suoi abissi, spesso
insondabili, di fronte ai quali ci si arresta nel silenzio dello sgomento e della pietà. D’altra parte
ogni giorno, ormai, siamo coinvolti e brutalizzati dalla prepotenza di una cronaca di orrori.
Qualcuno pensa che sia sempre stato così e che soltanto la capillare invadenza dei mass-media
porti in evidenza ciò che prima rimaneva spesso ignoto o vagamente lontano.
Se teniamo d’occhio le statistiche, è lecito formulare qualche dubbio. La spirale della violenza,
nelle sue forme omicide, rivela un crescendo raccapricciante. Ciò che un tempo punteggiava la
storia quotidiana come fatto eccezionale, ora si manifesta con scansioni così ravvicinate da porsi
senza scampo come segno “normale” della nostra convivenza sociale. Con tale massiccia presenza,
che l’un evento toglie spazio all’altro. Il cadavere eccellente butta ai margini gli altri cadaveri.
Commentare ogni orrore, ce ne rendiamo conto, rischia di ingenerare monotonia: il deja vu
rende facilmente vane, inutili, scontate, le parole. Eppure, così almeno ci pare, l’omicidio
dell’imprenditore di Rho, emarginato nelle pagine interne dei giornali, merita un attimo di
riflessione. L'assassinio è stato perpetrato “per risolvere i problemi economici” degli organizzatori
del delitto. Il capo della banda ha dichiarato che si è deciso al crimine quando si è convinto che
della ricchezza della vittima lui ne aveva proprio bisogno. Siamo dunque di fronte ad un fenomeno
di “trasferimento della ricchezza”.
Poco più di un secolo fa questo problema era stato reso celebre da Dostojewski con il
personaggio di Raskolnikov. Il quale uccide perché delle ricchezze di cui intende impossessarsi ha
bisogno, per compiere qualcosa di nobile e grande, di utile all’umanità. Oggi i Raskolnikov non
sono più possibili. La storia ha fatto il suo corso e più nessuno uccide per compiere nobili imprese.
Il “trasferimento della ricchezza” trova la sua giustificazione in se stesso: consente, appunto, a chi
lo mette in atto, di risolvere i propri problemi economici. Quel che accade, giorno dopo giorno –
che i cadaveri siano eccellenti oppure no non fa ormai alcuna differenza – sembra dunque
confermare che l’etica del nostro tempo abbia come segno distintivo quello della riduzione
dell’umano a economicità pura. Il denaro è il grande e unico fine: si tratti di tangenti, di pizzi, di
estorsioni, di sequestratori, di lotta per il potere (il potere è il luogo per eccellenza dove perseguire
la ricchezza, per sé o per gli amici).
Dostojewski pensava che le male azioni dipendano da libere scelte individuali, e aveva di
conseguenza orrore del cosiddetto giustificazionismo sociologico. Con lui, molti sono sempre
riluttanti a pensare che le male azioni ricevano impulso dalle situazioni sociali. Temono,
giustamente, che venga meno il problema della responsabilità soggettiva. Ma come si fa a sottrarsi
alla sensazione che sui meccanismi che producono la scelta delle male azioni non gravi la potenza
condizionante del culto della ricchezza, che è la vera, unica, attuale ideologia dominante, il grande
Moloch proposto alle genti?
giovedì 26 marzo
Editoriali e asterischi
28
RENZO BALDO
Insegnanti a peso
È giusto pagare di più i docenti migliori?
Ma chi stabilisce il criterio di selezione?
Quando gli insegnanti minacciano di scioperare, i mass media si occupano della scuola: il
soprannumero degli insegnanti, la bassa efficienza (non si capisce mai molto bene su quali dati e
con quali criteri venga misurata), il rapporto e il confronto con l’Europa, la diminuzione (reale o
presunta) del prestigio sociale della categoria, il ruolo della scuola nel consolidamento della
democrazia, il problema della mobilità etc. tutti problemi importanti. Se ne è occupato
recentemente su Repubblica Giancarlo Lombardi, “consigliere della Confindustria ed esperto dei
problemi scolastici”.
Nell’articolo del consigliere emerge un’indicazione, non nuova, su cui è però il caso di
soffermarsi: occorre “dire con chiarezza che gli insegnanti devono essere pagati in modo
differenziato rispetto al tipo di impegno e alla qualità del servizio”; occorre una scuola che “premi
la professionalità”; gli insegnanti dovranno “porre al centro della loro vita professionale i valori
della efficienza, della qualità”.
Come sarebbe bello se… Sì, sarebbe proprio bello se qualcuno riuscisse a spiegarci con quali
criteri si potrebbe attuare questo bel sogno di una “misurazione” delle qualità di un insegnante, per
cui i bravi, gli efficienti, possano essere gratificati con un aumento di stipendio.
Già c’è un equivoco sul concetto di efficienza. Chi sono gli efficienti? Quelli che non fanno
assenze? Quelli che svolgono per intero il programma? Che tengono in ordine il registro? Che
stendono ordinatamente e in bello eloquio relazioni e quant’altro mai viene richiesto dai doveri
burocratici? Quelli che danno i voti alti? Quelli che danno i voti bassi? Quelli i cui alunni ottengono
alte percentuali di promozione?
Ma lasciamo pur correre. E immaginiamo che “efficienza” sia un sinonimo di “qualità”. Ma se c’è
un lavoro dove davvero e del tutto la qualità non è assoggettabile a criteri di natura quantitativa,
pensiamo sia proprio l'insegnamento. Chi è abituato a ragionare in termini di produzione, in
termini di accertamenti quantitativi, fa fatica a capire che l’insegnamento, la sua qualità, non è
quantificabile. Gli insegnanti “qualitativamente” buoni lo sanno bene, e accettano tranquillamente
di essere pagati esattamente come i loro colleghi che, quali ne siano le ragioni, di qualità siano
carenti. Può anche essere una constatazione amara, ma non c’è via d’uscita. Questa consapevolezza
fa parte della loro scelta e della loro coscienza professionale, anzi le conferisce segno di nobiltà. E
non si dica che questo discorso è segnato da un basso e vieto spiritualismo, che vada magari
riesumando l’uso retorico e mistificatorio del concetto di vocazione e di missione. È, al contrario,
discorso di schietto realismo. Quella consapevolezza, d’altra parte, gli insegnati dovrebbero
tenersela ben cara, sapendo anche che, inesorabilmente, la riduzione della qualità a tabelle
quantitative significa aprire le porte a frustranti sopraffazioni, non ultima quella di essere valutati
da fonti giudicanti della cui competenza è spesso lecito dubitare. La giusta, onesta, salutare
eliminazione ottenuta, alcuni anni or sono, delle cosiddette qualifiche, rispondeva a questa
consapevolezza. E non si vede proprio sotto quali sotto quali forme potrebbe essere riproposta. Gli
antichi egiziani pensavano che un tribunale presieduto da Osiri, con l’assistenza di 42 giudici
divini, avesse il compito di giudicare l’anima mettendo il cuore, che è la sede dell’anima, su una
bilancia; psicostasia, si chiamava questo rito, che significa “pesatura dell’anima”. Forse c’è ancora
qualcuno che ci crede. Sentiamo l’obiezione: ma allora, come si possono incentivare, stimolare,
premiare, garantire, sollecitare gli insegnanti? Creando le condizioni “oggettive” per cui possano
esercitare il loro mestiere di insegnanti. Quali siano, non è discorso breve. Ma, per favore, niente
psicostasie.
Senza tetto né legge
Editoriali e asterischi
29
RENZO BALDO
Il primo di questi asterischi, in data 9 gennaio u.s., ha preso lo spunto dalla pubblicazione di una
Guida per i barboni. Il signor Mauro Pellegrino cortesemente ci informa che le edizioni Abele di
Torino hanno recentemente dato alle stampe un saggio dal titolo Né tetto né legge. Ringraziamo
della segnalazione, che giriamo ai lettori che siano interessati all’argomento. Si tratta di un testo
che accoglie una serie di indagini, a più voci, che confermano la rilevanza sociale del fenomeno.
Mauro Pellegrino ci informa che a Brescia nel 1985 si è tenuto il primo raduno dei gruppi e servizi
che si occupano delle persone senza dimora. Da questo raduno è nato un coordinamento, estesosi
successivamente anche a livello nazionale, degli organismi pubblici, privati e volontari che lavorano
nel settore. In mezzo al frastuono, che si ripercuote sul mass-media, provocato dalla corsa alla
ricchezza, con le violenze che l’accompagnano e con l’ansia di potere che ne trasuda, c’è anche chi
silenziosamente e fattivamente opera perché all’umana miseria, che drammaticamente ne
consegue, si porti qualche attenzione e qualche conforto. Anche questo, giustamente e volentieri,
segnaliamo.
giovedì 2 aprile 1992
Editoriali e asterischi
30
RENZO BALDO
La scala immobile
Difficile negare che, nei Paesi dove vige la “libertà” e dove è largamente diffusa l’opinione che è
opportuno garantire la “democrazia”, quel particolare e delicato momento nel quale si lanciano
messaggi per orientare le scelte del voto elettorale si carichi di un frastuono verbale e di una
kafkiana ondata cartacea che inducono a qualche perplessità.
Diamo pure per scontato che non si possa fare altrimenti. Resta però il fatto che, sebbene in
Italia non si sia ancora giunti a forme carnevalesche come negli Stati Uniti, tra l’indifferenza di
circa il cinquanta per cento degli aventi diritto al voto, le vuote parole, le chiacchiere, le immagini
che rasentano il ridicolo, le genericità demagogiche, insomma gli strumenti della propaganda,
elaborati spesso dal cattivo gusto e dalla goffaggine dei cosiddetti “esperti” della pubblicità messa al
servizio di quella cosa seria che dovrebbe essere la politica, raggiungono livelli che oscillano tra
forme inconscie del farsesco e astuta speranza di far leva sulla ingenuità o, direbbe Musil, sulla
latente stupidità di cui ciascuno di noi è spesso, inavvertitamente, portatore.
Ma, ripetiamolo, ammettiamo pure che non si possa fare altrimenti o, meglio, ammettiamo che
finora poco si è fatto perché il fenomeno non deflagri con tanta irritante impetuosità.
Immaginiamo magari anche che ciascuno passi indenne tra il frastuono e che, in ultima analisi,
ciascuno deponga la scheda nell’urna ascoltando autonomamente la propria coscienza, ragionando
sui fatti offerti dalla realtà e non su quelli sventagliati dalle fate morgane della propaganda. Nel
frattempo, però, un danno lo ottiene il frastuono, quello di distrarre l’opinione pubblica da
problemi che dovrebbero ben premere con forza e ai quali si dovrebbe dare ben altro spazio. Uno,
per esempio: quello della scala mobile.
Poiché, per fortuna, non ascoltiamo tutti i messaggi lanciati dalle televisioni e, per necessità,
non leggiamo tutti i giornali, non siamo in grado di formulare un’opinione statisticamente fondata,
ma, salvo smentita, su questa questione – la questione della scala mobile che riguarda le tasche di
una larghissima fascia di persone, praticamente tutti i lavoratori dipendenti – abbiamo sentito
emergere pochissime voci.
È in stadio avanzato la proposta di sostituire il meccanismo della scala mobile, un meccanismo
che consente di garantire un minimo di difesa contro l’avanzare del costo della vita, con un qualche
altro sistema. Staremo a vedere quale sarà, questo nuovo sistema.
Ma la minaccia è che si intende escludere l’applicazione del vecchio meccanismo, finora vigente,
prima che si discuta, si concordi e si sappia quale sia e quando diventi operante il nuovo.
Riesce difficile sottrarsi alla tentazione di chiedere, a chi proclama che la lotta di classe è
materiale d’archivio, con che nome intenda indicare una simile intenzione. A parte la discutibilità
giuridica del fatto, la discutibilità, cioè, di non applicare un criterio, già oggetto di contrattazione e
di accordo, prima che si addivenga ad un accordo sostitutivo, è evidente il risultato: pesantemente
schiacciare una fascia sociale per favorirne un’altra. Certo, sentiamo la risposta: si tratta di scelte
che contribuiscono a diminuire il costo del lavoro, e quindi a incrementare la produzione, a
contenere i prezzi, a consentire la concorrenza con l’estero, a entrare in Europa, etc., etc. tutte cose
importanti. Peccato che vengano sempre dette dimenticando due cose: la prima, che non èvero che
la variabile del costo del lavoro, quale si realizza con l’applicazione degli scatti previsti dalla scala
mobile, sia un elemento decisivo per ottenere tutti quegli importanti risultati, ila seconda, che quei
risultati, in un regime “democratico”, non dovrebbero essere pagati esclusivamente dalle fasce più
deboli, quelle che arrancano per resistere all’appesantirsi delle condizioni primarie vitali.
C’è da augurarsi che vengano rapidamente raggiunte le 50.000 firme necessarie dal Comitato
promotore, che si è costituito a Brescia, per chiedere al Parlamento una rapida delibera che
garantisca l'obbligo di applicazione della scala mobile fintanto che non siano in atto le nuove
proposte. Sarebbe proprio un bel caso che mentre siamo coinvolti nel frastuono della battaglia
elettorale, con la quale si vuole garantire la democrazia, si subisca una sconfitta proprio sul terreno
della democrazia “concreta”.
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Un manuale per il candidato
C’è sempre qualche insegnante che si diverte a raccogliere gli strafalcioni che gli accade di
leggere nei compiti dei suoi alunni. Li consegna ad editore, e ne esce una divertente antologia che
ottiene grande successo. Abbiamo tutti, infatti, fra tante tristezze, un gran bisogno di passare
qualche momento di allegria, anche se l’allegria è provocata da qualche amara realtà.
Alcuni giornali si sono divertiti, in questi giorni, a raccogliere, in apposite rubriche, le banalità,
le gaffes, le scempiaggini, i paradossi ammantati di pretesa intelligenza, i goffi narcisismi di cui si è
costellata la campagna elettorale. Potrebbe sembrare un invito a coltivare il dispregio per i metodi
della democrazia e un mezzo per gettare discredito sull’intera classe politica. A nostro parere,
invece, si tratta di un’utile iniziativa, e opportunamente qualche volonteroso potrebbe farne
un’antologia, da pubblicare come manuale da consegnare ai candidati alle future elezioni, col titolo:
Come guardarsi dal ridicolo. Potrebbe essere proficuo strumento di raffinamento e di
autoeducazione.
Peccato, però, che sia difficile corredarlo di un’aggiunta, o appendice che dir si voglia, dove si
enumerino quei casi raffinati nei quali il ridicolo viene ricoperto da un velo di perbenistica
bonomia, che ne rende più difficile, agli occhi dei più, l’accertamento, come quando, per esempio,
un’alta autorità dello Stato va a casa di qualcuno che è in corsa per ottenere voti e sotto gli occhi dei
riflettori della tv si sbraccia a pubblicamente dichiarare, quasi con emozione, che quello, sì, è
proprio un caro amico, lui e tutta la sua famiglia (in latino “familia” indica non solo i parenti e gli
affini, ma tutto l’entourage, i “clientes).
giovedì 9 aprile
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Cronisti nella nebbia
Fatti, opinioni, mistificazioni
Come si racconta la verità?
In un film di Fassbinder, un personaggio, richiesto di esprimere un’opinione su un avvenimento,
risponde: “Non ho opinioni. Sono un giornalista”. La brevissima sequenza, segnata da questa
battuta all’acido solforico, intendeva, penso, colpire quegli operatori della carta stampata che
ritengono loro compito registrare i fatti nella loro (curiosità?) con la più assoluta e fredda
indifferenza sulla loro portata, sui significati che da essi si sprigionano.
A questo punto, è ben noto, scatta l’ovvia considerazione che la scelta dei fatti da registrare,
nonché il modo stesso con cui vengono presentati, implica già il manifestarsi di un’opinione. Ma
lasciamo pur da parte questa questione. Così come intendiamo qui lasciar da parte, ben nota
anch’essa, l’altra questione, che dalla precedente consegue: l’abbondanza dei fatti di cui non si dà
informazione, fatti che hanno un oggettivo rilievo e che restano, invece, esclusi e emarginati. Di
queste questioni siamo tutti, probabilmente, abbastanza consapevoli.
Ma forse non abbastanza attenzione si dà al fenomeno diametralmente antitetico a quello
segnalato e sbeffeggiato da Fassbinder, e cioè alla sovrabbondanza delle opinioni che si esprimono
sul fondamento della pura opinabilità, in una storia di danza dai mille veli, nel cui viluppo il fatto
scompare, a mala pena intravisto o intravedibile. Il fatto c’è, ma i contorni della sua reale
consistenza si dissolvono nei vapori nebbiosi che si alzano dal flusso degli umori personali, pronti a
organizzarsi in spettacolo o a darsi battaglia.
In queste battaglie, si sa, gli umori nella loro soggettivissima irruenza possono anche sconfinare
in quella rozza sostituzione dell’argomentazione che è data dalla perentorietà della predica, non
senza il piacere della sperimentazione dell’insulto. Si potrebbe farne un’antologia, ma ci limitiamo
ad un esempio.
Distratti, comprensibilmente, dalla tumultuosa stagione elettorale, a molti forse è sfuggito che,
recentemente, un documento del Pentagono ha proposto – o riproposto – un problema chiave, dal
quale dipende la nostra vita, individuale e collettiva; nostra, intendiamo dire, di abitatori dell’area
cosiddetta occidentale, m, non dovrebbero esserci dubbi, compartecipi dell’intera area planetaria.
Si tratta di un documento che, senza mezzi termini, propone gli Stati Uniti come custodi
dell’ordine mondiale, propone cioè quello che gli esperti chiamano il “globalismo unilaterale”, in
parole povere il diritto di quello Stato di decidere, ovunque, in base ai suoi interessi, al di sopra di
ogni possibile mediazione, anche con gli alleati, al di sopra, inequivocabilmente, di quella che
dovrebbe essere la funzione dell’ONU, teorica fin che si vuole, ma, indubbiamente, nei suoi
presupposti, forse l’unica ancora a cui ci si potrebbe appigliare per evitare che quel che avviene sul
pianeta sia lasciato in balia della pura ragione del più forte, che resta pur sempre sopraffazione
anche quando la si battezzi con nome di Realpolitik o quando qualche filosofo scomodi la categoria
della necessità.
Ebbene, chi ha tentato di sottolineare – magari, come è umano, con argomentazioni discutibili –
la gravità dell’evento, è stato investito da un sussulto di opinioni di cui può essere esemplare dare
qui un breve, incompleto, elenco: “deplorevole”; “delirio enfatico”; “ingigantimento dell’idea del
Nemico”; “percezione antistorica”; “retrogradazione delle strutture culturali”; “cultura provinciale”
farcita di parole in libertà”; “paranoiche inquisizioni”.
Ce n’è abbastanza per capire che mentre si prepara il nostro futuro, là dove davvero se ne hanno
in mano le possibili chiavi, a molti accade di esercitarsi, in punta di penna, nell’arte della rissa
verbale.
Allegria, dolore e cattivo gusto
Siamo disposti a comprendere che in certe occasioni l’organizzazione di un telegiornale dia
luogo a qualche difficoltà. Come, per esempio, alle ore 13 di lunedì scorso, su una rete nazionale,
alla soglia delle fatidiche ore che dovevano dare i risultati delle elezioni, quando bisogna offrire ai
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
teleascoltatori le sensazione che la macchina elettorale, nel tripudiante snodarsi dei suoi congegni,
offra un’immagine, reale e simbolica, di un Paese che funziona e, nel frattempo, bisogna parlare di
morti ammazzati, dei loro funerali, di rapimenti, di strapotere delle cosche mafiose, tutte cose che
non propriamente testimoniano la fondatezza di quell’immagine
Un dualismo di difficile gestione, risolto con un allucinante impiego della tecnica
dell’alternanza: un’immagine di dolore e di orrore, e, subito, un volto ilare che ti garantisce un
pomeriggio gioioso; un annuncio luttuoso e, senza un attimo di sosta, da lacrymae rerum e,
immediatamente, una musica festaiola condita di gridolini di felicità. A chi sia accaduto di lasciarsi
sfuggire l’affermazione che in Italia non siamo giunti ancora a trasformare le elezioni in una
anticamera del Carnevale, certi mass-media sembrano decisi a fare di tutto per dargli torto.
Si dirà che questa è la realtà: riso e pianto, vita e morte, allegria e dolore, etc., etc. Sì, ma chi lo
rappresenta e lo gestisce in questo modo raggiunge, letteralmente, primati di cattivo gusto, non
senza una patina, non sappiamo quanto inconscia, di mistificazione. Non è certo un fatto nuovo,
ma in questo caso la dismisura è stata veramente pesante.
Si dirà, anche, che questi sono piccoli e insignificanti problemi. Ma forse è meglio dell’opinione
che quando degrada il buon gusto, qualcos’altro di importante sta degradando.
giovedì 16 aprile 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Pericolo Gheddafi
L’Occidente si appresta a eliminare Gheddafi. Anzi, ha già indicato il suo successore nella
persona di un discendente della monarchia che un tempo regnava sulla Libia. Scelta, anche questa,
che dimostra quanto sia ancora radicata dell’Occidente la convinzione che, per quanto riguarda il
resto del mondo, la strada utile è quella di imporre regimi fantoccio.
Con quale metodo si intenda procedere alla eliminazione, non è ben chiaro, ma certamente il
rischio che il costo della operazione sia pagato tragicamente dalla gente libica, è molto alto. E non è
detto che non lo paghi anche qualcun altro.
Può darsi che i due libici di cui gli Stati Uniti e la Gran Bretagna esigono la consegna siano
davvero i responsabili dei gravissimi atti di terrorismo di cui sono accusati. Sulla fondatezza
giuridica di questa richiesta e sulla correttezza delle procedure che in proposito si intendano
applicare, sono stati espressi dubbi da più parti, in particolare dal “Comitato per lo studio e la
ricerca sui problemi del Mediterraneo”, in un documento che ha come primo firmatario Nelson
Mandela e che ha raccolto un gran numero di firme di politici e di giuristi di tutto il mondo.
Documento che quasi nessun giornale italiano ha pubblicato. Ma, al di là della materia di cui si
contende, si affaccia una domanda: davvero quando si ha o si crede di avere una ragione giuridica,
per quanto relativa ad atti che suscitano sdegno e che ci sembra giusto siano penalmente
perseguibili, si può aggredire militarmente un Paese? con tutte le conseguenze che ciò comporta?
Si può con tutta verosimiglianza pensare che il vero problema non sia quello di punire gli
eventuali responsabili di un atto di terrorismo, ma di eliminare un regime politico scomodo,
considerato pericoloso. Pericoloso, ovviamente, per l’Occidente, che sembra deciso a percorrere la
strada che eufemisticamente è stata chiamata “operazione chirurgica”.
Il costo umano di queste “operazioni” appare del tutto indifferente. L’Irak insegna. Anzi, chi ne
accenna è accusato di pietismo e di non capire la legge della Necessità. Il costo politico sarà
sicuramente altrettanto pesante. Nell’intero mondo islamico crescerà implacabilmente la
sensazione che il “nemico” è l’Occidente.
I cultori della legge della Necessità non se ne preoccupano. Progetteranno, all’occasione. Altre
operazioni chirurgiche.
Come si possa costruire un “ordine mondiale” che abbia credibilità e che abbia un volto
sufficientemente umano, risulta abbastanza incomprensibile.
***
Il teorema di Bertoldo
Non occorre essere degli esperti di logica per rendersi conto di come funziona un dilemma;
un’alternativa fra due ipotesi nella cui duplicità si esaurisce ogni possibile scelta. Per esempio,
prendere una decisione oppure no. Per usare un’espressione, spesso sfruttata dagli umoristi di
avanspettacolo: “I casi sono due”. O la decisione viene presa oppure no.
Tradotta in termini aritmetici, la questione si configura come il 50% di probabilità per il sì e il
50% di probabilità per il no. Che poi è il fondamento su cui si basano, nelle loro forme elementari,
scommesse, pronostici, previsioni. Perfino i meteorologi, che pur vantano blasoni scientifici,
talvolta hanno l’aria di dirti: domani piove oppure no. Che era, poi, la sapienza di un personaggio a
suo modo saggio ed esemplare, Bertoldo, che, stando al racconto popolare, al suo re, Alboino,
segnalava la probabilità che il giorno dopo piovesse o splendesse il sole.
Questa sapienza, ormai universalmente diffusa, non più retaggio soltanto dei rozzi contadini
della Padania longobarda, salita dagli umili strati popolari a permeare di sé anche i ceti più alti
(Alboino aveva bisogno di Bertoldo, ma ora i sovrani si gestiscono in piena autonomia) è stata fatta
propria anche da un presidente della Repubblica, che in questi giorni ha dichiarato che, con
Editoriali e asterischi
35
RENZO BALDO
possibilità del 50%, potrebbe dimettersi. O sì o no. I casi sono due: o si dimette o non si dimette. E i
giornali del suo Paese, con tutta la serietà del caso, hanno registrato la dichiarazione, per farci
sapere, appunto, che o si dimette o non si dimette, con probabilità, per entrambi i casi, del 50%. E
anche noi lettori, come Alboino, siamo rimasti soddisfatti.
***
Lontani da Roma
Sul lunotto di un’auto che circolava per le vie cittadine abbiamo letto a caratteri capitali, Loss
von Rom, che, in tedesco, significa “sciolti, liberi da Roma”. Che si tratti di un movimento
scismatico che viene a disturbarci in questi tempi di sollecitazioni ecumeniche, della aspirazione a
fondare una chiesa nazionale, svincolata dal controllo teologico e giurisdizionale della curia
romana? Loss von Rom, infatti, era un’espressione corrente quando tumultuavano le rivolte
anticuriali, il “protestante” rifiuto dell’autorità romana.
Poiché, però, viviamo in tempi tutto sommato poco sensibili a queste tematiche, ci è stato facile
fare subito mente locale e congetturare che si trattasse di uno slogan leghista. Niente, dunque, di
più naturale: “liberi da Roma”; è il messaggio, il motto della lega nord.
Ma perché dirlo in tedesco?
Non vogliamo far processi alle intenzioni, ma tentar di capire, questo sì. è un vezzo, una
inclinazione delle frange neonaziste usare la lingua tedesca come veicolo ideologico. Abbiamo letto,
non più di qualche anno fa, sui muri della città, corredate da croci uncinate, scritte siglate
“Brixengau”, cioè “territorio”, “circoscrizione” di Brescia, in schietto linguaggio amministrativoburocratico nazista, palese reminiscenza del “Gau” nazista che abbracciava il territorio che va da
Trento a Belluno; ci è capitato di leggere, apposta sul retro di automobili con targa non BZ, che
sarebbe comprensibile, ma di altre città del nord, la scritta “ich bin Südtiroler” (un vezzo di
inconscia nostalgia mariateresiana?); sappiamo che circolano, tetre e minacciose, missive in lingua
tedesca con slogan del tipo “ein Volk, ein Reich, ein Führer”, direttamente desunti da quell’allegro
manuale che è Mein Kampf. La lingua tedesca che risuona negli orecchi dei neonazisti non è quella
di Goethe o dei Lieder di Schubert, e nemmeno quella dell’Austria di Maria Teresa, ma quella di
Hitler. La volontà di sottrarsi a Roma tradotta in formulette cariche di echi nazisti lascia un po’
perplessi. Sarebbe bene, pensiamo, che i leghisti del nord su questo argomento si interrogassero e
dessero qualche delucidazione.
giovedì 23 aprile 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
L’inferno può attendere
Un’editoriale di una autorevole rivista cattolica ci informa che l’inferno c’è davvero, “esiste, è
eterno, è una terribile sofferenza”. E perciò è deplorevole che alcuni vescovi e sacerdoti abbiano
perso l’abitudine di ricordarlo ai fedeli e che molti fedeli non abbiano più l’abitudine di pensarci.
Siccome è presumibile che siano disponibili a pensarci e a ben ricordarselo coloro che rientrano
nella categoria dei credenti, i quali, stando ad attendibili statistiche, sono, in Italia, il 30 %, si può
ipotizzare che, in Italia, una fascia del 30% sia così chiamata a operare rettamente, a evitare di
inciampare nei peccati che procurano le pene infernali.
E gli altri? Forse bisogna aspettare che si convertano a, entrati nella categoria dei credenti, s
decidano a non più peccare? O dovremo, nel frattempo, rassegnarci a che quel 70% di impenitenti
miscredenti scelgano impunemente le male azioni, con la tranquilla incoscienza di chi non sa o non
crede che lo attendono i tormenti che puniscono i malvagi?
Per fortuna le cose stanno, in realtà, un po’ diversamente. Possiamo aver sufficiente fiducia che
vuoi nella fascia del 30% che in quella del 70% ci sia una discreta percentuale di brava gente che,
naturalmente, hanno (ha?) acquistato quella “autonomia” della coscienza che permette di non
commettere male azioni senza bisogno di farsi terrorizzare da quell’immagine mediante il (la?)
quale, nel corso dei secoli, con alterne fortune, si è ammobiliato l’al di là. Un immaginario, del
resto, per il quale vale esattamente la constatazione e la considerazione che si fa, giustamente, sulla
pena di morte: non c’è minaccia, per quanto certa o imminente, che abbia la forza di distogliere
dalla scelta della mala azione; si pecca, si fornica, si depreda, si uccide anche se dietro l’angolo c’è
pronta la terribilità della sanzione.
Ma il vero problema non è questo. Il problema, vero, pesante e drammatico, è che oggi,
“storicamente”, si è persa o si è fatta molto vaga ed incerta la nozione di “peccato”, la nozione di
cosa sia la mala azione. Ammettiamo che il 100% degli italiani si schierino fra i credenti e che,
trascurando o ignorando le teologie che negano o sono un poco titubanti sulla esistenza reale e
soprattutto sulla eternità degli inferi (sarebbe meglio non far finta di dimenticare che ci sono anche
quelle, a cominciare da Origene, che non era poi né un cattivo cristiano né un pensatore di seconda
categoria) si persuadano e fermamente credano che i malvagi saranno puniti. Forse che
smetteranno di frodare il fisco? forse che avranno in orrore la pratica delle tangenti? cesseranno di
rincorrere la ricchezza con tutti i mezzi? non si iscriveranno alla P2 e ad altre simili confraternite?
più non parteciperanno a operazioni piratesche? all’occasione, non emuleranno Marcinkus? non
coltiveranno più cinici egoismi occidentalisti? smetteranno di contribuire a distruggere l’ambiente
dove dobbiamo respirare? non realizzeranno più il profitto vendendo armi? la smetteranno di
depredare i beni pibblici?
Sarà forse anche utile recuperare l’immaginario col quale si addobbano gli orizzonti dell’eterno.
Ma resta sempre più importante domandarsi come gestire il contingente nel quale vi travagliamo,
l’aiuola che ci fa tanto feroci. Per questo riteniamo molto più solidamente operosi quei bravi preti,
quei bravi parroci che – magari tra l’inquieta sorpresa di qualche settore dei loro fedeli, che di certe
cose han perso l’abitudine do sentir parlare – dal loro modesto pulpito parrocchiale non si lasciano
tentare da tematiche escatologiche e preferiscono richiamare l’attenzione su quelle male azioni da
cui siamo quotidianamente tentati e nelle quali siamo “storicamente” coinvolti. Che sono tante. Ed
è dubbio che il canto del “dies irae” possa, da solo, fondare la percezione della loro inaccettabilità.
Destra e sinistra sono flatus vocis?
Accesa discussione, almeno stando ai giornali che ne hanno data notizia, per l’assegnazione dei
seggi negli emicicli delle aule parlamentari, nella quali tradizione vuole che a sinistra stiano le
sinistre, a destra le destre, e al centro chi si sente vocato a collocazioni centriste. Una topografia che
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
è sempre stata rispettata a partire dal glorioso Parlamento Subalpino e che dà (dovrebbe dare)
visivamente l’idea dell’anima politica di uomini, gruppi e partiti.
La contesa è stata provocata, diciamo così, da autoproclamazioni e da autoetichettature che sono
entrate in collisione. Il centro sono io; no, il centro siamo noi; e io sono più a sinistra di te; e noi
vicini a costoro non ci vogliamo stare, perché non vogliamo confonderci con chi rivendica
collocazioni che in realtà non gli spettano, etc., etc.
Soffia nell’aria, da tempo, la convinzione che destra e sinistra siano ormai flatus vocis, se non
proprio, come vuole Ceronetti, “paraventi di pura menzogna”. Certo il tasso di omologazione,
nonché il tasso di ambiguità, appare piuttosto alto. Si può forse ancora sperare che la schermaglia
per rivendicare etichettature non sia soltanto il frutto di obbedienza a rituali verbali ormai privi di
senso e che rispecchi davvero un’oscura volontà che, nonostante tutto, continua ad albergare nel
profondo delle coscienze per deciderle a perseguire “distinzioni” reali? O dovremo convincerci che,
nella quasi generale omologazione, non resta ormai altra speranza che quella dell’affiorare di
qualche trasversalità? In questo caso i nostri parlamentari possono pur sedersi dove gli pare e
piace, e togliere agli incaricati delle assegnazioni dei seggi l’assilli della esatta mensura topografica.
Liberandoli così dal timore che per loro sia stato scritto “mensura ficti crescit”, che, tradotto,
significa: “accidenti! quanto crescono le attribuzioni false…”.
Sotto il vulcano della cronaca
L’Etna, con i suoi rivoli di lava - che fuoriescono minacciosi, scompaiono, riappaiono,
sgomentano gli abitanti di Zafferana, chiamano a raccolta tecnici ed esperti, che si danno da fare,
alzano terrapieni, scavano fossati, calano massi di cemento, sorvolano con gli elicotteri il grande
mostro, cercano di domarlo, sperano di farcela, alternano attimi di sollievo, nei quali pare che il
magma sia sotto controllo, a momenti di preoccupazione, in cui sembra che tutto ritorni in forse e
che occorra ricominciare da capo - può essere assunto a immagine simbolica dell’Italia degli ultimi
decenni.
Un’Italia vulcanica, dove i torrenti di lava si chiamano stragi, omicidi eccellenti, Gladio, P2,
Ustica. Torrenti melmosi e infocati, che appaiono, scompaiono, chiamano a raccolta tecnici ed
esperti, politici, inquirenti, commissioni varie, magistrati, tribunali, che si danno da fare,
accendono proiettori, ci danno la sensazione che la materia incandescente sia sotto controllo, ci
riportano nel buio più fitto.
Il fiume di materia memoria e bruciante dello scandalo del Banco Ambrosiano è emerso, in
questi giorni, dopo dieci anni, ad una parvenza di verità, sembra che gli esperti ne siano venuti a
capo. Diciamo “sembra” e “parvenza di verità” perché chi, come noi, appartiene alla schiera di
quelli che Omero chiama i “miseri mortali” – che non vivono, cioè, tra le beate schiere degli dei
immortali, che tutto sanno, e devono perciò accontentarsi delle informazioni ufficiali, quelle che
vengono dall’Olimpo e che si possono leggere sui giornali – non può certo azzardarsi, per quanto
volonterosamente attento a capirci qualcosa, a pronunciare opinioni personalmente rielaborate e
oggettivamente fondate. Può, al più, congratularsi che il torrente lavico non sia definitivamente
sprofondato negli abissi del silenzio. Con una giunta (aggiunta?) che può sembrare maliziosa:
staremo a vedere, se per caso, lungo l’iter che porta ai gradi giudiziari successivi, fino alla fatidica
Cassazione, non accada, come in altri casi, l’azzeramento, la generale assoluzione. Per non aver
commesso il fatto, o magari perché il fatto è inesistente o non costituisce reato. Come, pare, si
debba pensare per quei protagonisti del malfatto (tale appare ai miseri mortali di cui sopra) che
nemmeno si è riusciti a portare in tribunale. Con la vittoria della lava melmosa e bruciante che
scorre lungo i fianchi dell’Etna-Italia.
giovedì 30 aprile 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Oblomov e dintorni
L’attuale iperattivismo farà ritornare di moda l’eroico “malato” di Gonciarov?
Ci sono dei “personaggi” che l’invenzione letteraria ha reso immortali per la loro forza di verità,
personaggi “esemplari”, “tipici”, “simbolici”. La loro forza e la loro verità sta nella straordinaria
capacità che ad essi è stata conferita di rappresentare, con folgorante intuizione, una modo
d’essere, storicamente determinato e al tempo stesso con caratteristiche di “eternità”, voce ed
immagine di qualcosa che perennemente appartiene all’umano. Dando così soddisfazione sia a chi
ritiene che nello scorrere del tutto ogni cosa abbia il suo volto irripetibile sia a coloro che
appassionatamente sostengono l’immutabilità della natura umana.
Don Chisciotte, Amleto, Don Abbondio e infiniti altri, minori e minimi, di cui la nostra carne è
impastata e nella cui immagine possiamo interamente o parzialmente riconoscerci.
Sfortuna vuole che gli attenti lettori della letteratura non siano numerosi, sicché a molti accade
di non fare questa singolare ed istruttiva esperienza di vedersi rappresentati, di doversi riconoscere
in quei tratti così ben definiti e scanditi.
Sfortuna? Forse fortuna, perché, tutto sommato, è meglio non sapere quello che siamo, più
rassicurante non conoscerci e non essere costretti a vederci nello specchio. Pensiamo un po’ a
quanti Sancio, Arpagone, Calibano, quante Donne Prassede, quanti Don Ferrante, quanti Don
Basilio e via esemplificando non sanno di esserlo e hanno la fortuna di non vedersi nello specchio
che loro offre la letteratura. Che è una delle ragioni per cui bisognerebbe abolirne l’insegnamento
nelle scuole, per evitare che nei giovani si depositino consuetudini che potrebbero essere causa,
raggiunta la maggiore età e consolidatesi le strutture portanti del loro attuarsi si adulti, di quella
particolare forma di avvilimento che ci prende quando scopriamo che, sì, siamo proprio così,
addirittura siamo stati previsti.
Ma bando alle malinconie. Domandiamoci invece perché, in talune contingenze, alcuni
personaggi sembrano riemergere con particolare forza di attualità. È, per esempio, il caso di
Oblomov, rappresentato in teatro, oggetto di sottili e intelligenti recuperi, perfino sulla stampa
quotidiana.
Per chi non lo sapesse: protagonista di un romanzo-capolavoro do Gonciarov, pubblicato nel
1859, Oblomov, intelligente, sensibile, schiettamente desideroso di attivamente operare, sollecito a
intendere e a perseguire il bene pubblico, vive immerso in una apatica inerzia, che gli impedisce di
affrontare la realtà. le cose e gli intrecci su cui esse si reggono gli appaiono così affannosamente
aggressive, così stoltamente invadenti, da essere indotto a contrapporvi la scelta di un torpore
accidioso, nel quale sia pur dolorosamente qualcuno si salva: il rifiuto della frenesia attivistica,
nella quale prende corpo in modo atrocemente distorto o goffamente gretto il bisogno umano
dell’azione, la libertà di alzare questo rifiuto come una angosciosa ma umanissima protesta, anzi
una imprescindibile necessità.
Siamo, oggi, in tempi che possono produrre oblomovismo? questa dolente e quasi eroica
“malattia”? Temiamo di sì. Di contro, infatti, dilaga e fermenta, come suo antagonista e sua
diabolica matrice, un grande male storico, lo scatenamento distruttivo dell’intraprendere senza
alcun ragionevole fine, del fare tumultuoso e frenetico, degli assilli e degli stimoli vuoti e
inconsistenti, frutto di sfrenate e stolide ambizioni, e di cupidigie prive di senso.
Nel romanzo di Gonciarov, l’antagonista di Oblomov è un suo amico, Stolz, prototipo della
ottocentesca, positivistica gagliardia e fiducia nella possibilità dell’azione. Oggi gli antagonisti di
Oblomov hanno altre fattezze. Sono – se ci si consente di stare ancora sulle esemplificazioni
letterarie – i nipotini di Rubè, il protagonista di un romanzo di Borgese, piccolo-borghesi rampanti,
e un po’ cinici e un po’ confusionari, e, soprattutto, quegli onnipresenti Diederich, resi immortali da
Heinrich Mann nel romanzo Il suddito, personaggi nei quali la “libido serviendi” si sposa
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
perfettamente con la “cupiditas imperandi”. Sono, purtroppo, gli antieroi che popolano il nostro
tempo.
Opportunisti, no ribelli, forse
L’oblomovismo è una “malattia”, nel senso alto con cui questo termine viene usato per indicare
inquietudini e scompensi, romantici e postromantici, i cui germi circolano ancora oggi abbondanti
nel corpo sociale, in commistione e con l’aggiunta di altri, più recenti, ma, con essi, alle radici,
imparentati.
Le malattie vanno curate, ma non si devono negare. E, soprattutto, bisogna individuarne le
cause, per rimuoverle, se possibile; ed evitando di arrabbiarsi con il malato.
Che è quanto si rischia di fare, quando, per esempio, come nella polemica che è affiorata su
alcuni giornali in questi giorni, si accusano gli intellettuali (non tutti, confidiamo) di essere affetti
da un “impasto di ribellismo e di opportunismo”, che li porta, con tentazione di marca elitaria, a
sottolineare, mediante una vasta gamma di atteggiamenti critici, che vanno dalla punzecchiatura
all’irrisione e alla violenta aggressione verbale, i difetti che pesano sulla democrazia italiana e,
quindi, a chiamare duramente in causa coloro che poco o tanto sono implicati nel suo
funzionamento e nelle sue disfunzioni.
Lasciamo l’accusa di “opportunismo”, che si esigerebbe un discorso a parte, e stiamo al
“ribellismo”. “Malattia”, certamente, anche questa. Ma cos’è che la determina?
Può darsi che qualche intellettuale dia talvolta l’impressione di non apprezzare abbastanza i
politici, quelli che lavorano con serietà e senso di responsabilità, e finisca col fare di ogni eba un
fascio; può darsi che non avverta abbastanza quanto è duro e faticoso il travaglio per il
consolidamento della democrazia; può darsi che persino civetti con qualche aspirazione autoritaria
e guardi con non sufficiente distacco critico gli ultimi arrivati sulle ali del vento di non ben chiare
volontà di rinnovamento.
Ma la “malattia” che gli si può rimproverare, il “ribellismo” appunto, trova, pensiamo, la sua
spiegazione nella macroscopicità dei difetti e dei limiti, per non dire delle colpe, nelle quali la
democrazia italiana si è impaludata, difetti e limiti che qui non è il caso di elencare, tanto sono noti
e innegabili.
Pur non avendo alcuna simpatia per gli atteggiamenti e per le scelte elettorali puramente
protestatarie, e per di più cariche di ambiguità, resta il fatto che la protesta è, purtroppo,
largamente motivata.
Come rimuoverne la cause è compito della classe politica, in quelle sue componenti che credono
nella non sostituibilità del sistema democratico, quale si configura nella Costituzione, che, si voglia
o non si voglia, è ancora legge fondamentale dello Stato. Ma, per caso, non è proprio in una parte
della classe politica tradizionale che alberga, oscuramente, la tentazione di sovvertirla, insieme alla
tentazione di far poco o nulla perché ai difetti e ai limiti si ponga rimedio? Destinati, anzi, a
sostanzialmente rimanere, nonostante qualche “rinnovamento”?
giovedì 7 maggio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Paure americane
Si può mettere in discussione lo stato di salute della democrazia Usa
La “plebaglia”, secondo Bush, si è brutalmente scatenata. Ha approfittato, diciamo così, di un
incidente di percorso giudiziario, non ha avuto la pazienza di dignitosamente aspettare che la
giustizia facesse il suo corso, che ad un più alto livello della sua amministrazione si provvedesse,
probabilmente, a cancellare un verdetto, non si capisce se più ignobile o più idiota, e si è
abbandonata al teppismo e alla sanguinosa violenza.
È probabile che in molti abbiano ragionato come Bush. Ragionamento “obiettivo”: linciaggi e
incendi appaiono effettivamente un prezzo ben alto come protesta per un atto di mancanza di
giustizia. E c’è perfino che ha sostenuto che questi americani sono proprio affetti dalla “libido
puniendi”: favorevoli alla pena di morte, e pronti a scatenarsi come belve se un colpevole sfugge
alla giustizia.
È proprio inesorabilmente vero che ognuno fa scattare a modo suo i meccanismi della logica. Il
nostro cervello è come un computer, che funziona e dà risultati a seconda di quello che gli metti
dentro. Nel cervello di chi ragiona come Bush non si riesce a far entrare alcuni dati di non
trascurabile importanza, e che pur sono di pubblico dominio e che abbondantemente compaiono su
molta stampa americana. Da ti impressionanti, di disumane condizioni di vita, di emarginazione, di
mortalità infantile, di carenze scolastiche perfino ai livelli più elementari, insomma dati da terzo
mondo che alberga un po’ dappertutto nell’orgoglioso primo mondo, ma che negli Stati Uniti ha
raggiunto cifre percentuali drammatiche e inquietanti, sconvolgenti.
Ma già l’uso del termine “plebaglia” è sintomatico. Bush – e tutti quelli che ragionano come lui –
dà per scontato che in ogni Paese ai margini della società “civile” ci siano sacche di disgraziati, di
teppisti, di predisposti alla criminalità, nei confronti dei quali bisogna usare la mano forte,
ghettizzarli e renderli innocui. Pare proprio che in chi ragione come Bush non si affacci mai la
domanda: come mai c’è la “plebaglia”? e, nella fattispecie, come mai è così numerosa?
Probabilmente Bush e chi ragione come lui penserà che i cattivi, gli inetti, i tarati, i privi di volontà,
i fiacchi moralmente, i condizionati da qualche gene perverso, siano destinati a confluire nel
calderone della plebaglia, quella che dà tanto fastidio e ribrezzo ai bravi, a i buoni, ai laboriosi, ai
benpensanti, che in qualche modo avranno diritto, no?, di difendersene. Tanto più che i bravi e i
buoni hanno anche il merito di avere inventato i meccanismi che garantiscono la giustizia, che, se
qualche volta non funzionano, è umanamente comprensibile: possiamo tutti sbagliare. Il guaio
grosso è che chi ragiona in questo modo non vuole convincersi della necessità di far funzionare altri
meccanismi, chiamiamoli “sociali”, che impediscono il formarsi delle “plebaglie”. E talvolta
accompagna questa trascuratezza con qualche intervento molto preciso e deciso, come quello a far
fuori Luther King, e con lui tanti altri, cioè coloro che si sforzavano di dare coscienza politica alle
“plebaglie”, di sottrarle alla tragica condizione di rivoltosi rovinosamente perdenti e di portarle ad
operare come soggetti politicamente consapevoli e in grado di difendersi “civilmente”.
E così è rimasta la “jacquerie”, il teppismo, l’emarginazione, la disperazione, l’odio. Quella
massa di gente che abbiamo visto in tv saccheggiare i supermercati e quei proprietari di negozi con
la pistola in mano a difendere la sede del loro lavoro restano immagini simboliche di una assurda e
drammatica contrapposizione.
Si dirà: sono immagini “americane”, ognuno ha i suoi problemi e gli americani si sbroglino i
loro. Con un po’ di volonteroso ottimismo qualcuno pensa anche: chissà che dopo le sciagurate
scelte reaganiane, sulle quali Bush non ha mutato una virgola, scelte che hanno spinto gli Stati
Uniti ad accentuare la spaccatura fra ricchi e poveri, fra società opulenta e società emarginata, tra
“civili” e “incivili”, fra beneficiari del benessere e percentuali sempre più alte di diseredati, non
venga qualche positiva svolta. Dopo gli anni sprovvedutamente allegri dell’hooverismo e il crollo
del ’29, gli Stati Uniti hanno pur inventato il New Deal. Questa è l’opinione che esprimono gli
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
ottimisti. Gli estimatori della capacità del capitalismo americano – del capitalismo tout court – di
essere un sistema in grado di automedicarsi.
Chissà. Chi vivrà, vedrà. Resta, nel frattempo, una preoccupazione che non appare trascurabile.
Non sarà, per caso, che nei detentori delle leve che muovono il sistema, e, in particolare, nell’area
del capitalismo americano, che è, ancora, l’epicentro e il volano dell’intero sistema capitalistico, e
che quindi ci coinvolge e ci interessa molto da vicino, si sia radicata la convinzione che, in America
come altrove, occorre lasciare le “plebaglie” al loro destino?
Senza dimenticare che il concetto di “plebaglia” può tranquillamente subire ampliamenti di
varia natura e richiedere conseguenti interventi, che, stando alla logica della difesa dei buoni e dei
bravi, si ritiene che ad esse competa.
***
Molti anni or sono Hans Enzensberger dava alle stampe un articolo intitolato America, mi fai
paura. L’articolo destò qualche clamore. Erano tempi nei quali molti pensavano che la paura
venisse da altre parti. Perché mai avrebbe dovuto far pura l’America (gli Stati Uniti), il Paese che
custodisce la sua tradizione di libertà, con la non mai rinnegata fedeltà a quella Costituzione nella
quale per la prima volta, storicamente, presero organicamente corpo i fondamenti di quella che
propendiamo a considerare le forme più accettabili e “moderne” del vivere politico e civile? Quelle
forme alle quali ci appoggiamo per dar forza al rifiuto delle dittature, dei regimi autoritari, dei
regimi che conculcano (così si è espresso recentemente anche papa Wojtyla) la “libera scelta dei
poli e delle nazioni di essere sutori e padroni del proprio destino”? Quel Paese che nelle due guerre
mondiali è venuto a darci una mano contro i regimi autocratici e nefastamente illiberali?
Non posso non essere filoamericano, ha detto qualche anno fa un principe del giornalismo
italiano, perché nel 1917 gli americani sono venuti ad aiutare mio padre e nel ’45 a liberare me.
Ma non si vede proprio perché questo debito di gratitudine debba impedirci di guardare in
faccia la realtà. non si tratta di essere “filoamericani” o “antiamericani”. Nel rifiuto del nazismo e
del fascismo non si era antitedeschi o antiitaliani, semplicemente non si accettava che la
spietatezza del nazismo e la corresponsabilità che il fascismo italiano si era assunto affiancandosi
ad esso diventassero l’anima del mondo. Se l’America e, al suo seguito, le democrazie occidentali
fanno delle scelte discutibili o addirittura rovinose, possiamo dirlo? Non si tratta di negare la
democrazia, ma di chiedere che la democrazia, se ci riesce, sia coerente con i suoi nobili principi. Se
non ci riesce, vuol dire che qualcosa non funziona. E su questo qualcosa non è opportuno che si
stendano veli di occultamento.
giovedì 14 maggio 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Guardie e ladri
L’autonomia dei giudici è irrinunciabile e lo scandalo delle tangenti lo conferma
La tempesta “tangenti” provoca o suggerisce molte riflessioni. I giornali in questi giorni ne sono
zeppi. Se ne parla per le strade, nei bar, oltreché, riteniamo, in mille altre sedi, comprese,
ovviamente, quelle più qualificate, e quelle che più da vicino sentono il bruciore dell’argomento.
Accennarne in una rubrichetta settimanale può essere perfino pleonastico e ripetitivo. Proviamo
però a fissarne alcune, di queste riflessioni, con l’elementarissimo metodo del “catalogon”, che,
come ritenevano gli antichi, può avere il pregio di far parlare le cose e di aiutare ad elencarle.
Alcune cose, approssimativamente, potrebbero essere le seguenti.
1) Non è vero che è una sorpresa. Lo sapevano, più o meno, tutti, anche quelli che non
l’avevano sperimentato sulla propria pelle. Tutti, cioè, sapevano che una buona parte
della classe politica praticava da anni, in modo sempre più sistematico, la prassi delle
percentuali e delle richieste, con varia elasticità, di compensi e tangenti. Nel regno del “si
dice”, “si mormora”, “pare proprio che”, “un mi amico mi ha detto”, un regno che
purtroppo fa fatica a diventare “prova” e aperta denuncia, si facevano nomi e cifre.
Sorpresa è, semmai, che alle elezioni del 5 Aprile queste certezze o convinzioni o sospetti
non si siano espresse riversandosi in modo più quantitativamente rilevante sui cosiddetti
voti di protesta, che hanno sicuramente avuto anche altre motivazioni, ma questa era fuor
di dubbio fra le più pressanti.
2)
Non è vero che la faccenda riguardi solo e prevalentemente Milano. La cosa,
in termini di radicato costume, e ai livelli più diversi, riguarda l’Italia intera.
3)È vero che nei regimi autoritari situazioni siffatte vengono molto più facilmente
sopite, e che la democrazia, con tutti i suoi difetti, perfino quando è vicina allo sfascio, ha
almeno questo pregio, che talvolta gli scandali emergono. Ma non è, per la democrazia,
gran motivo di soddisfazione e tanto meno di gloria.
4)
È vero che anche in altre democrazie, che sembrano più salde e più decenti
della nostra, la piaga della corruzione è tutt’altro che assente come alcuni giornali da
tempo vanno documentando (per lodevole gusto dell’informazione, per consolarsi o per
mettere la mani avanti?). Ma è altrettanto vero che l’Italia ha il primato in questo genere
di scandali, soprattutto il primato nel soffocarli o nel far di tutto per soffocarli; col
corollario, anche questo da primato, che quasi mai un politico, investito o sfiorato da
accuse o da sospetti pesanti, sia stato messo ai margini del suo partito o abbia avuto il
buon senso di dimettersi dalle sue cariche pubbliche. Il che significa che la classe politica
tende a fare quadrato, è governata da un’etica che rifiuta criteri di autoregolamentazione
e capacità, al suo interno, di sanzioni. La sanzione arriva solo se, dall’esterno, scatta il
codice penale. Il che dunque anche significa che tutto è considerato lecito, fino a tanto che
non si arrivi alla sanzione giuridica del reato. In altre parole: la correttezza nella vita
sociale e politica è affidata soltanto alla magistratura. Che sarà anche, per la magistratura,
un motivo in più per prendere coscienza della propria responsabilità e dei propri doveri,
ma non fa certo pensare che viviamo in una società civile che tenti di darsi una qualche
impronta etica.
5)Il che, tra l’altro, non può non far pensare che le ripetute, recenti e meno recenti,
campagne di delegittimazione della magistratura, che spesso sono state messe in atto
anche con l’apporto della vita politica, avessero per scopo non di rendere più solerte e
incisiva la prassi giudiziaria, ma esattamente il contrario, cioè di impastoiarla e di
toglierle autorevolezza e pubblico consenso. Quel consenso che è, anche
psicologicamente, strumento importante per sottrarre il giudice al rischio della
solitudine.
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
6)
“Di Pietro grazie”, “Colombo grazie”. Queste scritte che stanno tappezzando i
muri di Milano sono molto significative, da più punti di vista. Fanno, per esempio,
constatare che l’irritazione e la sfiducia sono a tal punto, che occorre pubblicamente
ringraziare chi fa il suo dovere.
Questa volta dunque il giudici hanno pubblico consenso, che si ripercuote
ultimamente perfino sui mass-media. C’è già però chi ha incominciato a dire che i
colpevoli sono tali soltanto quando si è arrivati alla sentenza definitiva. Giusto e ovvio.
Purché questa non sia la prima avvisaglia per incominciare a far funzionare meccanismi
che portino a delegittimazioni e insabbiamenti. Il clamore e la gravità dello scandalo, il
rilievo che esso ha assunto, sono tali da far sperare che questa volta il fenomeno a cui
siamo tristemente abituati trovi difficoltà a farsi strada. Si vedrà.
7)Ai giudici in questione sono stati forniti mezzi di protezione eccezionali,
autoblindate. Non sappiamo quali preoccupazioni, quali informazioni, quali “input”
abbiano fatto prendere questa decisione. Opportuna senza dubbio. Ma non si può negare
che tale decisione dia un’immagine lugubremente inquietante. Finora questi mezzi di
protezione erano decisi quando c’era di mezzo la criminalità organizzata, il terrorismo, la
mafia, nelle loro forme di aggressione allo Stato. Politici e imprenditori, fino a prova
contraria, sono persone “per bene”. Dobbiamo pensare il contrario o, più verosimilmente,
che della situazione potrebbe approfittare qualcuno interessato a provocare scompigli? È
lecito, purtroppo, con l’esperienza che abbiamo alle spalle, mettere anche questo nella
lista del possibile.
8)
C’è chi ha affermato che questa bufera mira a sovvertire la struttura
istituzionale e politica dello Stato italiano, a delegittimare i partiti, a far rinnegare quasi
mezzo secolo di repubblica democratica e in ultima analisi a mettere in pericolo la
Costituzione stessa. È certo che a qualcuno piacerebbe molto servirsene per andare in
questa direzione.
9)I pessimisti, e tra questi mettiamo anche coloro che sono ideologicamente convinti
che questi mali appartengono al “sistema”, pensano che questa ventata per quanto
impetuosa non cambierà, alle radici, nulla o quasi. Che tutto, magari con persone diverse,
magari con altri metodi, funzionerà come scandalosamente ha funzionato: la simbiosi
corrotti-corruttori come consustanziale ai sistema.
Può darsi. Anche se sulle forme che questa specularità assume ci sarebbe da fare forse
qualche verifica e qualche distinguo, specie ai livelli medio-bassi, nei quali il politico che
abbia deciso di “governare per rubare” (anziché “rubare per governare, come alcuni di
essi sostengono) può avere facilmente il coltello per il manico. Ma comunque sia,
prendiamoci la soddisfazione di pensare che forse la bufera qualche impaccio, a chi
governa pere rubare, riesca a darlo. E speriamo anche a chi ruba per governare.
giovedì 21 maggio
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Il colore dei soldi
Lo Stato non paga la contingenza, ma…
La giungla dei salari rende tutti gretti e pettegoli: cerchiamo di ficcare il naso nella Busta paga
degli altri, per vedere di quale uguale destino possiamo consolarci o di quale ingiusta
disuguaglianza lamentarci. La battaglia per la scala mobile sta ottenendo anche questo risultato, di
offrire ulteriori strumenti alla disuguaglianza e di conseguentemente intristirci nella avvilente
riflessione sugli intrighi, i viluppi, le tagliole di cui si imbastisce la giungla. Ecco, dunque. La scala
mobile sarà pagata ai dirigenti dello Stato, perché una recente leggina, varata fra la disattenzione
generale nel clima confuso di fine legislatura, li ha abilmente sottratti a questa infornata al ribasso.
Uguale fortunata sorte per alcune fasce di dipendenti del settore chimico, che sono riusciti a
mettere nel contratto un diverso meccanismo di indicizzazione. Per tutti gli altri niente da fare.
Niente da fare nemmeno per i dipendenti di Cisl e Uil, le confederazioni che stanno meditando
su proposte sostitutive della scala mobile. Pagherà, invece, la Cgil; coerentemente, perché non si
può far la battaglia per mantenere la scala mobile e in attesa del risultato non applicarla in casa
propria. Non pagherà, invece, la lega delle Cooperative, chissà mai perché. Starà anch’essa
meditando in attesa del risultato.
Il tutto, comunque, per aiutarci a consolidare l’opinione che il nostro, più che uno Stato liberaldemocratico, è uno stato feudale.
***
La danza delle cifre lascia sempre un po’ allocchiti. Stando ai numeri che compaiono sui
giornali, non si riesce a capire bene quale sia l’importo annuale della spesa per le opere pubbliche.
Si passa dai 58.000 miliardi ai 135.000. Forse siamo noi che non sappiamo leggere. Ma il problema
che agli allocchiti può interessare non è tanto l’accertamento di questa cifra quanto un piccolo
ragionamento che, in base ai recenti avvenimenti, su di essa, qual ch’essa sia, si può fare. E cioè:
calcolando, quasi sicuramente per difetto, una media del 7% per le tangenti che, tramite l’allegro
sistema in vigore, vi vengono applicate, ne risulta una cifra, che chiameremo di surplus, di alcune
migliaia di miliardi, con tutta probabilità di almeno quattromila. Dal punto di vista, chiamiamolo
così, etico, sappiamo che qualcuno, comunque questo denaro sia distribuito, di questi miliardi ha il
godimento. Godimento illecito, e perciò la gente protesta e spera vi si ponga fine. Ma dal punto di
vista più strettamente “economico” sarebbe interessante sapere dagli esperti se e quanto questi
miliardi pesino e sui meccanismi del calcolo dell’inflazione e sul calcolo del costo del lavoro,
solitamente ritenuto elemento determinante della spinta inflattiva. Sarebbe, ripetiamo,
interessante sapere se quei miliardi, come viene da sospettare, non pesino assai più della cifra che
occorre per il pagamento della scala mobile.
Ricchi e poveri
Ronald Dworkin, uno dei rappresentanti più in vista del pensiero “liberal” anglosassone, in una
intervista ha dichiarato che “vivere da ricchi in mezzo ai poveri, da privilegiati in una società
ingiusta” è un assurdo. Un assurdo etico, ma anche politico, perché implica tensioni e paure, fa
scattare meccanismi difensivi e preventivi del cui controllo e della cui efficienza non si può mai
essere sicuri.
Insomma, chi si arrocca nella difesa della ricchezza e del privilegio, chi insiste nell’adottare
criteri e strumenti che conducono all’allargamento della “forbice”, è su una strada rovinosa, per sé
oltre che per gli altri. Di conseguenza, bisogna far di tutto per ridurre alla riflessione sulla
inopportunità di queste scelte, bisogna persuadere a organizzare i rapporti sociali in modo che il
problema dell’eguaglianza sia continuamente al centro dell’attenzione.
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Purtroppo, aggiunge Dworkin, quest’opera di persuasione è difficile. “Gli elettori sono egoisti,
votano solo col portafoglio”. Il perseverare della linea del massiccio liberalismo, della linea ReaganBush, della linea Thacher-Major, ne è la testimonianza. I democratici americani non san più come
fare per proporre un progetto che non spaventi i ricchi e ottenga consensi senza appiattirsi sulla
linea del peggior neoliberismo; i conservatori inglesi dirigono sempre il gioco, nonostante l’affanno
dei laburisti, che non solo non osano più nemmeno parlare di “socialismo”, ma che probabilmente
sono stati sconfitti proprio perché hanno fatto perno sul concetto di riduzione della disuguaglianza.
Che fare? Dworkin confida nella forza della ragione e spera in un futuro di ragionevolezza, in un
futuro nel quale non si permetta più al “capitalismo di instillare nella gente l’idea che più danaro si
ha, meglio si vive.
Già, ma come si fa ad impedire che il capitalismo continui a compiere questa sua “instillazione”?
Una sola tribù
Uno studioso di antropologia ha calcolato che intorno al 1.000 a.C. ci fossero sulla nostra madre
Terra 500.000 unità politiche: tribù, villaggi, comunità di varia natura, alcuni piccoli stati, etc.
mille anni dopo erano ridotte a 200.000 circa. Oggi sono non più di duecento. Prendendo in
considerazione la cosiddetta “curva di tendenza”, nel 2300 ci dovrebbe essere un unico stato.
appoggiandoci a questa constatazione-riflessione si potrebbe dedurre che l’intera storia umana è
stata governata da un interno processo che la portava dalla pulviscolare frammentarietà,
inesorabile generatrice di conflitti, ad una finale unità, con la raggiunta pacifica umana convivenza.
Una versione moderna della teoria della presenza di una spinta finalizzatrice all’interno della
storia. L’attuarsi dell’antico sogno: la pax Augusta, la societas universalis, forse l’ONU che
finalmente davvero governa il mondo, anziché farsi governare dal Consiglio di sicurezza o da Bush.
Con fiducioso ottimismo si può sperare in una universitas retta con metodi in grado di risolvere
ogni contesa con un illuminato arbitrato capace di garantire a tutti libertà e felicità. Nel frattempo
però sembra che le cose vadano un po’ diversamente: al posto della rassicurante immagine offertaci
da quella curva di tendenza, con la quale l’antropologo recupera la forza consolatoria che promana
dalla certezza o speranza di un disegno “provvidenziale”, siamo costretti a constatare la presenza di
due contrastanti violenze, che sanno entrambe molto di terrigno: da un lato l’esplosione della
barbarica primordiale irrazionale conflittualità originaria, la violenza tribale ribattezzata con nomi
recenti – popolo, nazione, etnia e simili -; dall’altro il controllo “globale” planetario, che consente
alla oligarchica e organizzatissima potenza dei detentori delle grandi leve economiche di mantenere
la propria sovranità e la propria trionfale esistenza, mentre le tribù, qua e là per il mondo, fra loro
si ammazzano e si scannano. Non è un panorama consolante.
domenica 24 maggio
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Quella mafia delle mafie
così forte, così sovrana
La conferma della morte del giudice Falcone arriva in chiusura del telegiornale che, per primo,
già in apertura, aveva dato la notizia quasi per certa. Un telegiornale cupamente luttuoso
quant’altri mai.
Immediatamente irrompe la pubblicità, col sottofondo di allegre e frizzanti musichette, che
promette delizie palatali, mette in mostra belle ragazze che assaporano la gioia del vivere,
garantisce che il futuro, basta aver fiducia e saper scegliere, è lietamente voluttuoso, affidato a
rombanti motori e a domestiche felicità.
Certo, gli spazi pubblicitari sono già prenotati, e nessun si sognerebbe di sospenderne il ritmo
produttivo. D’altra parte, come è noto, la vita continua. E, per di più, nessuno ti vieta di spegnere il
televisore. Ma, se lo lasci acceso, hai la conferma del potere allucinantemente devastante del
linguaggio televisivo: quella successione di immagini assume un valore simbolico, si alza come
emblema della oggettiva, immodificabile aridità morale nella quale siamo immersi.
Poco dopo, come è giusto, arrivano le “prime reazioni”: sdegno, sgomento, sottolineatura
vigorosa della deplorevole infamia degli accadimenti, dichiarazioni volonterose di continuità nella
lotta contro la barbarie, eccetera. E cos’altro si potrebbe dire? Dato che qualcosa bisogna pur dire.
Resta, terrificante, il fatto. Che si inserisce nella spirale di infiniti altri fatti, che, tutti insieme,
costruiscono un fatto di proporzioni macroscopiche: la mafia può compiere tutti i misfatti che
vuole. Procurarsi, per esempio, mille chili di tritolo, che, come è evidente, sono a disposizione di chi
li vuole acquistare, forse dal pizzicagnolo o nei negozi clandestini dei fuochi artificiali; e poi, può
collocarli negli anfratti di una pubblica via, aperta al traffico, senza che nessuno se ne accorga.
Ma sarà davvero la mafia?
O una mafia delle mafie, suprema e sovrana, alla quale spetta il compito di controllare il Bel
Paese, assestandogli, ad ogni occasione, il colpo giusto, perché nessuno si illuda di poter governarlo
sottraendosi al suo Potere?
Può darsi che la mafia abbia deciso di eliminare un suo pericoloso nemico, ma può anche darsi
che qualcuno si serva della mafia per assestare colpi di sconvolgente significato terroristico nei
momenti in cui si pensa che è utile terrorizzare.
mercoledì 27 maggio (prima pagina)
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Diffidare di chi manda fiamme
È comprensibile che la gente inferocita abbia insultato i politici giunti a Palermo per presenziare
ai tristi e angoscianti rituali che seguono alle stragi, ai sanguinosi delitti che macchiano la vita
italiana con tragico stillicidio. L’assassinio di un giudice, che la coscienza collettiva sentiva come
immagine simbolica di una tenace, irriducibile volontà di lotta alla mafia, non piò, non poteva, non
destare una irosa, incontenibile protesta. La protesta, appunto, contro coloro che, da anni ai più alti
livelli delle istituzioni, si trovano oggettivamente a dover rispondere di una responsabilità che
inesorabilmente gli grava addosso, la responsabilità di non avere liberato il Paese dall’incubo di
una criminalità che offende la società civile, che si contrappone allo Stato e che, da molti indizi,
anzi forse persino da prove, appare annidata all’interno stesso dello Stato e delle sue istituzioni; e,
anche, la responsabilità di non saper proteggere chi nella lotta contro la criminalità si trova a
combattere in prima linea.
Comprensibile, certamente. Ma un p’ meno accettabile che su alcuni giornali questa protesta
venga adoperata per incrementare la convinzione che occorre spazzar via tutta la classe politica,
bollata genericamente di indegnità, accusata addirittura, secondo un articolista, di “reato di
tradimento”. Chi fa di ogni erba un fascio, non adopera i necessari distinguo, non indica con
precisione cosa ci sarebbe da fare, e chi dovrebbe farlo, non segnala con rigore dove stia il marcio,
può anche darsi che sia animato da palingenetiche volontà rivoluzionarie. Il guaio è che questi
propugnatori di operazioni di radicale rinnovamento e di “spazzamento” generalizzato li troviamo,
di solito, pronti a fiancheggiare, di quella classe politica, proprio gli uomini e le proposte che
destano ampiamente il sospetto delle peggiori involuzioni.
***
L’assassinio del giudice Falcone sta facendo riemergere in piena luce un contrasto di opinioni
che da sempre divide gli animi. Le stragi, i crimini che costellano senza fine la cronaca italiana, chi
li organizza, chi è interessato a compierli? C’è tutta una casistica, una storia infinita di menzogne,
di depistaggi, di occultamenti, un montagna di indizi che fanno pensare a una connessione fra
criminalità e volontà politiche, tra rozzi interessi di clan e ben più sottili e perversi calcoli, le cui
radici purtroppo sono più intuibili che provabili. Ma c’è chi imperterrito rifiuta questa lettura dei
fatti, aggredisce chi la fa propria, parlando beffardamente di “sindrome pistaiola”, di “cultura
delirante”, di “inquisizioni paranoiche”. Anche per quest’ultima vicenda c’è già chi ha sbito
perentoriamente chiesto di “non fare dietrologia”, di “non dar corpo ai fantasmi”: queste cose le fa
la mafia, le fa la camorra, ogni altro discorso o presupposto o riflessione è “calunnia”, è mania
ideologica.
Per doveroso sforzo di obiettività mettiamo anche questa fra le cose possibili.
Ma, siccome, nonostante la sua apparenza di realismo, “ideologia” è anche la scelta di non voler
tenere in alcuna considerazione le montagne di indizi che fan pensare al contrario, basterà qui fare
una osservazione di carattere psicologico, che potrà sembrare di scarso rilievo, ma che forse non è
priva di peso: coloro che si rifiutano di guardare il cumulo degli indizi, lo fanno con accanimento
verbale, con una aggressiva acredine carica di iattanza e pronta agli insulti, da far pensare che si
tratti del classico caso che la saggezza popolare indica con l’affermazione che, quando uno ragiona,
e l’altro urla e manda fiamme, è quest’ultimo che probabilmente è dalla parte del torto.
***
Ma c’è un’altra cosa, più delicata, inquietante e dolorosa, che la terribile e offensiva
eliminazione fisica del giudice Falcone sta facendo emergere: la riesumazione del contrasto che
impedì la nomina di Falcone a capo della superprocura che, presso il ministero di Grazia e giustizia,
avrebbe dovuto avere compito di coordinamento e di orientamento unitario del lavoro e delle
singole procure sparse sul territorio nazionale, al fine di una più sicura e precisa lotta contro la
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
criminalità. È certo che il giudice Falcone, con la sua dirittura, competenza ed energia, avrebbe, in
quella collocazione, operato da par suo.
Ma il problema non era la persona Falcone. La questione si inquadrava e si inquadra, entro il
problema, captale, di garantire, in linea di principio e in linea di fatto, che le scelte che riguardano
il mondo giudiziario non vengano mai meno alla fondamentale esigenza della sua “autonomia”; e
quando si dice “autonomia”, non si sta facendo un discorso vagamente ideale, ma si fa riferimento
a una cosa molto concreta: l’autonomia dell’esecutivo, cioè dal potere politico.
Questa è stata la materia del contendere. E non si vede proprio perché chi ha insistito su questa
esigenza possa essere oggetto, ancora, di contestazione.
Coloro che, giustamente, applaudono i Di Pietro e, giustamente, ricordano con gratitudine e
ammirazione Falcone, non dovrebbero dimenticare che quel che essi come giudici sono stati in
grado di fare è stato possibile proprio nell’esercizio della loro autonomia.
Ed è, ci sembra, veramente contraddittorio applaudirli e chiedere la loro subordinazione; così
come è contraddittorio prendersela con i politici e poi accettare che il politico, l’esecutivo, sottragga
ai giudici questa autonomia.
***
È triste pensarlo, ma è probabile che l’assassinio del giudice Falcone abbia accelerato la nomina
del presidente della Repubblica.
Se è così. Dobbiamo alla mafia e a chi l’ha guidata nella sua azione criminale, un risultato del
quale forse c’è da non dolersi. Diciamo “forse”, perché è sempre bene non abbandonarsi del tutto al
rito consolatorio della soddisfazione e dei rallegramenti, per quanto supportati da qualche fondato
motivo.
Quando si elegge un presidente della Repubblica si tende a dedurre dal suo passato quel che
potrà essere il suo comportamento nel futuro. Nel caso di Scalfaro i fondati motivi per bene sperare
ci sono: quel suo cattolicesimo onestamente chiaro e severo, questa sua intransigente difesa della
Costituzione e dello Stato parlamentare che, come pochi, lo ha nettamente sottratto a ogni pericolo
di collusione col cossighismo.
Si può, dunque, intuire e dedurre. Sperando di non sbagliare, come è già accaduto. Lo scranno
presidenziale può far dare qualche giramento di testa. ne abbiamo visti. Ci conforta che Scalfaro dia
tutta l’impressione di averla ben salda, la testa.
Il che comporta almeno due cose, essenziali: di essere un uomo di limpidi principi e di non
essere un personaggio disponibile agli intrighi. E questo basta.
Ma non si può parlare dei risultati della elezione per la presidenza della Repubblica senza
esprimere la soddisfazione di aver visto Cossiga ricevere i voto di preferenza dei missini.
Coerenti i missini, bisogna riconoscerlo.
Segnato, Cossiga, in chiusura di carriera, da una significativa epigrafe.
giovedì 4 giugno 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
La ragione delle armi
I filosofi (alcuni) dicono che la guerra è un fattore ineluttabile
Ma c’è chi non è d’accordo
I filosofi, o almeno molti fra essi, ci spiegano che la guerra è la madre di tutte le cose. Da Eraclito
a Severino. Le radici della violenza stanno in un abissale sottosuolo che sembra configurarsi come
“luogo” ineliminabile, come una implacabile fatalità cui l’uomo soggiace. Biologi, scienziati di varia
estrazione portano il loro contributo a persuaderci di questa tragica inevitabilità. La civiltà del
dialogo è un’illusione: viene il momento nel quale uno dei due interlocutori, se non riesce a
persuadere l’altro, se non riesce a piegarlo alle proprie ragioni, passa alle vie di fatto, mette a tacere
l’altro con una scelta che non può non essere “violenta”. Senza tacere del fatto che l’”altro”, di
solito, non si lascia tacitare tanto facilmente, e i due interlocutori si sbranano, con reciproco
appagamento delle pulsioni profonde che ci chiamano alla contesa e alla guerra.
Nell’ex Jugoslavia, per stare all’esempio più recente, è accaduto così. E i risultati li abbiamo
sotto gli occhi. Se negli anni della guerra “fredda” non c’è stata la guerra “calda”, il dispiegarsi
implacabile della violenza armata, lo dobbiamo al fatto che, probabilmente, nessuno dei due
contendenti era in grado di sapere se poteva essere sicuro di vincere. C’è da rimpiangere che non si
coltivi abbastanza la civiltà della paura. Quando tutto hanno paura, ci si arma, ma non si arriva alla
guerra.
Le nazioni dell’Europa centro-occidentale, dopo essersi reciprocamente sgozzate in due conflitti
feroci, hanno fatto il calcolo “economico” che non conviene affrontarsi con la guerra.
E quando non si è trattenuti dalla paura o quando non si sanno fare calcoli economici? Filosofi e
scienziati si riconfermano nell’opinione che al centro e al fondo dell’esperienza umana, della storia
dell’uomo, c’è, inesorabile, la guerra, prima ed ultima “ratio”. Jahvé, il “dio degli eserciti, torna ad
essere la divinità cui si bruciano gli incensi. Meglio Mercurio, ma Jahvé è più potente. Ha “ragione”
chi ottiene i suoi favori. “irragionevoli” e “perdenti” sono coloro che ingenuamente credono nella
predicazione della pace, coloro che, anche ammesso che siano disponibili, si rifiutano di chiedere
l’intervento delle legioni angeliche: porterebbero guerra anch’esse.
Non chiedere l’intervento di legioni angeliche o non, significa aver “fede” che alla natura
dell’uomo sia concesso un mutamento, una conquista, che gli permetta di annullare quell’antico,
originario “luogo” dove sembra albergare il destino tragico che ci condanna alla violenza e alla
guerra. testimoniare questa fede, come fanno in questi giorni nella ex Jugoslavia uomini e donne
che si oppongono, greggi umiliate ed offese, alla logica della violenza e della guerra, è l’unica cosa
che resta da fare. può darsi che, come dice Bossuet, e con lui ogni “pessimista”, cristiano e non, sia
perfino blasfemo pensare che sia possibile alla condizione umana uscire dalla sua “negatività”. Può
darsi. Ma non condividere la follia, rifiutare “utopisticamente” la logica della guerra, denunciare chi
“economicamente” la vuole e la gestisce, resta pur sempre il compito più umano del quale
profondamente convincersi e convincere.
Tutti in parata per la patria
La decisione di non ripristinare la parata militare del 2 giugno è stata accolta con soddisfazione,
era ovvio, da coloro che avevano richiamato l’attenzione sia sull’inutile dispendio di danaro che sui
danni all’ambiente che essa comportava. Meno soddisfatti, ovvio anche questo, coloro che nel
dispiegarsi di quello spettacolo di soldati e di strumenti guerreschi vedono l’immagine di una patria
forte e virilmente pronta al cimento, un’immagine da proporre simbolicamente alla nazione. Il che,
in sostanza,. significa che il “no” a quella parata non può essere motivato soltanto con argomenti
contabili ed ecologici. Quel “no”, anche se non lo si vuol dire, implicitamente suona come un rifiuto
dell’immagine militaresca dello Stato.
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RENZO BALDO
Non è forse il caso di leggere la questione come uno scontro fra militarismo e antimilitarismo,
almeno nel senso più idealmente drastico che questa contrapposizione implica.
Se, come pare certo, viviamo ancora in una contingenza storica che rende necessaria la presenza
istituzionalizzata di forze armate, sembrerebbe invece davvero opportuno togliere di mezzo ogni
enfatizzazione che rischi di mantenere, di esse, un’immagine arcaica, quella che ci è stata
tramandata, in Italia come altrove, da una secolare tradizione di orgogli nazionalistici, una
tradizione che potremmo definire ottocentesca, che stride con una moderna e consapevole idea di
democrazia e di nazione.
Se però si sostiene che l’istituzione Forze armate merita il riconoscimento della nazione e che la
“parata” è l’immagine simbolica di questo riconoscimento, siamo costretti ad un paradosso, che
può sembrare irrispettoso, ma non lo è. Se vogliamo far sfilare davanti alle supreme autorità dello
Stato e sotto gli occhi del popolo plaudente – al fine, anche di pedagogizzarlo – coloro che bene
meritano il nostro riconoscimento, non ci si può limitare alle sole Forze armate. Esse difendono,
eventualmente, i sacri confini della patria. Ma perché non dovremmo avere una parata dei
rappresentanti del mondo del lavoro, ai quali pure va il nostro riconoscimento, visto che se non
lavorassero, la patria andrebbe in malora? Il primo maggio, per esempio, i lavoratori dell’industria
e dell’edilizia, in tuta e con i loro attrezzi, e magari con grandi cartelli con scritte significative tipo
“doniamo alla patria il plusvalore”, “è statisticamente approvato che ne muoiono circa tremila
all’anno”. ma siccome siamo in un Paese interclassista, ci dovrebbe essere anche la parata, lo
diciamo senza alcun intendimento schernevole, dei datori di lavoro; anche loro con adeguati
cartelli, “a noi si deve il Pnl”, “aveva ragione Menenio Agrippa”, “la produzione della ricchezza
riguarda tutti” e simili. E in un’altra giornata gli operatori della scuola, anch’essi con scritte ben
pertinenti: “senza alfabetizzazione non c’è futuro”, “tecnologia e studia humanitatis”. E gli addetti
alle campagne e alle industrie alimentari, senza i quali morremmo tutti di fame? Ci viene in mente
Juarés, che in una celebre e alata pagina ricordava che una nazione non sta in piedi senza
competenti e solide burocrazie: una parata per funzionari ed impiegati degli uffici finanziari, del
catasto, etc., etc.
Permetteteci di non continuare nelle esemplificazioni. La patria si regge in piedi perché in tanti
sono incaricati di farla funzionare. Tutti benemeriti, speriamo.
giovedì 11 giugno 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Medicina o placebo?
Non è detto che le invocate riforme
siano la panacea dei mali italiani
Ascoltiamo sempre molto attentamente coloro che parlano di “mutamenti”, “rinnovamento”,
“trasformazioni”, “cambiamento” e che con l’uso macroscopico di questi sinonimi, compreso il fin
troppo celebre “picconamento” di cossighiana memoria, additano scenari immersi in aloni di
speranze e di attese.
È giusto, naturalmente, dare credito ai buoni propositi da cui scaturisce questo appello
palingenetico. Ci si consenta, però. a costo di passare per ottusi reazionari, di fare due obiezioni, o,
meglio, di avanzare due interrogativi.
Primo: se per “riforme” si intendono mutamenti di ingegneria istituzionale, c’è da temere che si
tratti di una grossa illusione. Davvero, per fare un esempio, cambierà l’andamento, così spesso
discutibile e talora perfino rovinoso, delle amministrazioni locali, se il sindaco, come viene
ventilato, verrà scelto direttamente dagli elettori?
Davvero, per fare un altro esempio, la trasformazione della legge elettorale verso, poniamo, il
collegio uninominale, farà da opportuna panacea ai mali chi affliggono?
Nei Paesi dove vige il collegio uninominale si fa un gran parlare della sua inaccettabilità, degli
inconvenienti a cui dà luogo; nei Paesi dove vige un sistema di tipo proporzionale si sogna e si
attende la medicina dell’uninominale.
Forse potrebbe essere motivo sufficiente per domandarsi se, appunto, possiamo attenderci un
futuro migliore intervenendo sui meccanismi del sistema. Perfino il referendum Segni, sulla
preferenza unica, che in molti abbiamo accolto quasi con entusiasmo, e che ha avuto,
indubbiamente, col suo risultato nella contingenza in cui si è mosso, un apprezzabile significato
politico, visto oggi con occhi disincantati appare tutt’altro che rivoluzionario: ha tolto degli
inconvenienti e ne ha generato altri.
Le ingegnerie istituzionali non sembrano avere dalla loro una reale carica di “miglioramento”,
anche se forse è eccessivo definirle, come qualcuno ha fatto, “l’ultimo belletto sul cadavere”.
Secondo: abbiamo letto un severo e solido intervento del presidente della Corte dei conti,
Giuseppe Carbone, il cui senso complessivo si può riassumere nella dolente affermazione che
l’Italia è pessimamente amministrata.
La manomissione delle pubbliche finanze, la “razionalizzazione” della corruzione-concussione,
la riduzione dell’apparato amministrativo a strumento di funzionamento di soggetti e di
organizzazioni che hanno smarrito o ignorano i valori del rappresentare e del governare ha la sua
radice in una drammatica inefficienza del sistema dei “controlli”, per cui distorsioni, patologie,
inefficienze emergono a livello di giustizia penale.
Il giudice penale sembra ormai l’unica sponda - e ultima – di difesa dell’ordinamento civile.
Prevenire, con gli strumenti adeguati, che le istituzioni prevedono, la dilagante consumazione della
illegalità, correggere le patologie, individuare le collusioni affari-politica, affari-amministrazione,
sembra essere problema dimenticato, prassi non praticata, ignota.
Non si potrebbe incominciare, per esempio, col leggere attentamente la relazione annuale della
Corte dei conti al Parlamento e chiedere, al Parlamento, di attivamente intervenire?
Pensavamo che l’articolo del Presidente della Corte dei conti, pubblicato su un grande giornale
italiano, destasse largo dibattito. A quanto risulta, nulla. si preferisce parlare d’altro.
Ci conforta, da una ”antologia” di opinioni e battute espresse da Scalfaro in varie occasioni, aver
letto: “Le grandi riforme? Sono soltanto un’immensa vetrina, un magazzino vuoto. Credo invece
nella normale amministrazione ben fatta: è la più rivoluzionaria”. Speriamo che gli sbandieratori
del “cambiamento” non gli facciano cambiare opinione.
Sentiamo già le obiezioni; ma questa è mancanza di ideali, è gretto “giolittismo”. Può darsi.
Sempre meglio degli arruffamenti che non correggono gli arraffamenti.
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Un dubbio amletico
Amleto lo sapeva, ce lo garantisce Shakespeare, che ci sono molte cose, in questo vuoto mondo,
che sfuggono alla ragione. Così anche noi – noi tutti – senza presumere di avere grandezza e
profondità amletiche, talvolta certe cose facciamo fatica a capirle.
Per esempio. Si fa un gran baccano sui fondi che da un Paese straniero potrebbero essere giunti
ad un partito italiano.
Non siamo ancora riusciti a sapere se si tratta di indignazione morale, di protesta dovuta a un
sussulto ideologico, della certezza che si siano infrante delle leggi valutarie oppure di lesione delle
norme che regolano il finanziamento dei partiti o della incrinabilità dei bilanci gestiti col criterio
della doppia contabilità o addirittura del generoso impegno di far restituire il maltolto alle fonti di
provenienza. Forse tutto questo. Per cui un giudice, che pare aver avuto il prolungamento dell’età
pensionabile, per compiere questa operazione, fondamentale per raddrizzare il Paese – il nostro
Paese – sta attivamente operando per chiarire la faccenda.
Tutto legittimo, probabilmente. Ma la domanda, amletica, è questa: non risulta, non si ha
sentore, che da Paesi stranieri siano giunte, negli ultimi cinquant’anni, cospicue somme di denaro,
per partiti, associazioni, sindacati, etc. etc.? Una passeggiata in qualche altro luogo geografico per
chiedere informazioni, non sarebbe altrettanto opportuna, se non altro per ragioni di equità?
Probabilmente sarebbe una passeggiata inutile, con la risposta che non risulta niente. Ma
almeno la pubblica opinione sarebbe informata che, anche se pensa esattamente il contrario, non
risulta niente.
giovedì 18 giugno 1992
Editoriali e asterischi
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RENZO BALDO
Non occorre un nemico
Il pacifismo è sempre contro la guerra
a prescindere dal colore dell’aggressore
L’obiezione, anzi il rimprovero, che più di frequente viene mosso ai pacifisti è quello di
proclamare la pace “contro” qualcuno, di essere quindi nel profondo, animati da una volontà di
guerra, di avere bisogno di un nemico. In altre parole: il pacifismo, per essere tale dovrebbe essere
puramente “religioso”, non avere alcuna connotazione politica, proclamare la volontà di pace
sempre e ovunque, rifiutando di prendere in considerazione le ragioni dei contendenti,
semplicemente contestandone le scelte che si appoggino alle armi.
È possibile una simile depoliticizzazione? Secondo coloro che più animosamente hanno in
antipatia il pacifismo, i fatti lo negherebbero.
I pacifisti, essi osservano, si muovono, scendono in piazza quando credono di poter individuare
da che parte sta il nemico, cioè l’aggressore. Che in tutti questi anni, fino, clamorosamente, alla
guerra del Golfo, è stato, agli occhi dei pacifisti, l’Americano. I pacifisti sono degli antiamericani.
Portatori inconsci dell’opinione che il male viene dalla gestione del capitalismo, che ha il suo
volano in America, l’America è il loro vero nemico. Fino a ottusamente, dicono i loro contestatori,
non capire, come è accaduto proprio per la guerra del Golfo, che l’America può anche essere
portatrice di u8na guerra “giusta”.
Sicché, paradossalmente e contraddittoriamente, al pacifismo si chiede, in sostanza, di non
esprimere opinioni, di essere “religioso” e, contemporaneamente, lo si rimprovera di non voler
capire da che parte sta il “giusto”.
Questa polemica ha ripreso quota in occasione della vicenda jugoslava. Come mai, dicono i
contestatori del pacifismo, i pacifisti non riescono a scuotersi davanti a tanta tragedia, non sanno
proprio che dire? Si danno magari anche volonterosamente da fare partecipando a qualche
iniziativa umanitaria, ma non si “pronunciano”, non scendono in piazza contro l’aggressore,
talmente si è formata, nelle loro teste, l’immagine stereotipata dell’aggressore come “amerikano”.
Se non c’è di mezzo l’amerikano, non sanno che pesci pigliare.
Ma è davvero così? Sicuramente no. In Jugoslavia, che è l’aggressore? L’opinione pubblica
frastornata dai mass-media non ha dubbi: la Serbia. Ma se si guarda con qualche attenzione agli
avvenimenti, a cominciare dall’ormai evidente fascistizzazione della Croazia, dove arrivano armi e
mercenari da ogni parte d’Europa, può legittimamente nascere qualche dubbio. Il groviglio nel
quale si è disgregata la Jugoslavia ha spiazzato i pacifisti perché, tragicamente, quella vicenda ha
fatto compiere, al problema della pace e della guerra, un angosciante salto all’indietro: il dramma
jugoslavo sembra non prestarsi ad alcuna spiegazione che non sia quella, la più orribilmente triste,
della guerra come scatenamento di istinti primordiali col nome di orgoglio etnico. Le etnie, cioè
l’istinto tribale decorato con immagini dorate.
Che cosa può fare e che cosa può dire il pacifista? Non gli resta che partecipare alle opere di
carità.
Una giornalista serba che lavora al centro antiguerra di Belgrado ha dichiarato: “per gli uomini
rifiutare la guerra è considerato tuttora segno di scarsa virilità: si vergognano”. Imbracciare armi
per timore di passare per vili. È il muro della irrazionalità primitiva, arcaica, barbarica, tribale. Non
resta dunque che dare una mano, se possibile, alle vittime inermi dei virili che imbracciano e usano
le armi. Senza domandarsi chi è l’aggressore, perché nella follia del riproporsi della violenza tribale,
cercare questa individualizzazione non ha senso.
I pacifisti lo sanno, e operano per quanto loro possibile. Gli altri, quelli che sono sicuri di avere
individuato l’aggressore, si schierano con gli ustascia.
Politici ben dotati
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RENZO BALDO
Una tradizione culturale secolare, anzi millenaria, ha creduto di poter localizzare gli impulsi che
determinano i nostri comportamenti nelle singole parti del nostro corpo. Così di chi non brilla per
coraggio diciamo che non ha fegato, ai bambini cattivi contestiamo di essere senza cuore, delle
persone che ammiriamo garantiamo che hanno una buona testa o fior di cervello, di chi non brilla
per coerenza riflessiva affermiamo che ragiona con i piedi. Poveri piedi, così malfamati. C’è, per
fortuna, un filone del sapere orientale che ne garantisce, invece, il ruolo primario: nelle piante dei
piedi starebbero le radici di tutto il nostro essere, di tutte le manifestazioni corporee e psichiche. E
perché non dovremmo crederci?
Riabilitati, così, i piedi, possiamo più tranquillamente far nostra la riflessione di G. B. Vico, il
quale osservava che il linguaggio procede volentieri per metafore suggerite dal nostro corpo. Un
vero e proprio antefatto della scoperta della corporeità di cui si fa oggi un gran parlare.
Giustamente, d’altra parte, se può far togliere dimezzo qualche astratto spiritualismo.
Ma non peccano certo di astratti spiritualismi quei commentatori di eventi e suggeritori di
opinioni, che in questi giorni di attesa delle decisioni del presidente della Repubblica lo sollecitano
a scegliere, per governarci, un uomo che ben sia dotato dei cosiddetti “cosiddetti”. Sì, proprio. E
insistono, facendo sfoggio di cultura terminologica, un po’ vieta per la verità, ma che comunque, a
quanto pare, si presuma consenta di rendere ben chiara l’idea da conquistatori mediante la
metafora: energia ci vuole, virilità, appunto.
Ma costoro intenderanno davvero parlare metaforicamente? Forse son così nutriti di quella
cultura millenaria, che, ci credono davvero, “naturalisticamente”. Proporranno, al personaggio cui
va, senza troppi sottintesi, la loro preferenza, di farsi assegnare, da qualche istituto araldico, lo
stemma che già rese illustre la casata dei Medici e poi anche il Colleoni, tutta gente convinta di
essere ben dotata.
Qualche tempo fa abbiamo sorriso, in questa rubrica, dell’abuso del termine “grinta”. Ora si
sono fatti passi in avanti, anzi verso il basso. Forse coerentemente con l’opinione di quell’esperto di
saperi il quale ebbe a osservare che la cultura classica aveva collocato nella testa l’epicentro
dell’uomo, quella romantica nel cuore, e quella moderna nell’apparato genitale. Ma forse anche – a
proposito di politici ben dotati – per non aver letto Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda.
Del resto, per stare a manifestazioni di più pudica attenzione alla corporeità, abbiamo letto, or
non è molto, la lettera ad un giornale di un lettore che dichiarava la sua sfiducia nei confronti di un
politico, perché, a sua opinione, quando parla non guarda negli occhi l’interlocutore, mentre
esprimeva la sua ammirazione per un altro che, sempre a suo dire, lo guarda fisso negli occhi. Si
dimenticava che anche gli sfrontati guardano fisso negli occhi.
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