Quel primo porto in legno che i capresi costruirono a Marina Grande

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Quel primo porto in legno che i capresi costruirono a Marina Grande
Quel primo porto in legno che i capresi costruirono a Marina Grande
di Giuseppe Aprea
Riassunto puntate precedenti.
L'annunciata visita a Capri di re Francesco I di Borbone e della regina Isabella risveglia l'isola dal
suo torpore. Il sindaco Feola, colto gentiluomo napoletano, diventa il vero regista di un progetto di
ospitalità che coinvolge l'intera popolazione; il palazzo di famiglia ne è il centro operativo. Egli è
convinto che è indispensabile fare in modo che questa volta la venuta del re non si esaurisca nella
solita "regalia" finale e che è, invece, indispensabile puntare a realizzare grazie all'aiuto del sovrano
lo sviluppo complessivo per l'isola, che non comprenda soltanto la pesca e l'agricoltura. Fare cioè
quel che in passato aveva fatto il vescovo Saverio Gamboni, convincendo il compianto re
Ferdinando a finanziare la realizzazione di un Seminario nell'isola, onde garantire alla popolazione
un minimo d'istruzione. Ma, per raggiungere questo obiettivo, occorre che il re e il suo seguito
godano di un soggiorno felice a Capri, e quindi c'è da rimboccarsi le maniche e lavorare. Non è una
favola ma una storia vera.
3.
I piani del nostro colto e appassionato sindaco Feola erano veramente degni di una mente illuminata
e lungimirante. Molto chiari nei loro obiettivi, cioè predisporre ogni cosa in maniera che 'o re, una
volta sbarcato, non avesse da lamentarsi della men che minima contrarietà, nascondevano però nelle
stesse premesse una non trascurabile incognita.
Perché era per l'appunto lo sbarco di sua maestà il primo dei problemi cui occorreva trovare una
soluzione e ciò per un motivo assai semplice: nell'isola, ancora in quel 1825, non si sbarcava,
perché non c'era nulla che assomigliasse ad un porto. Insomma, dalla galeotta o dallo sciabecco su
cui si giungeva in vista di una delle due marine, era d'obbligo trasbordare su di un'imbarcazione
molto più piccola, che veniva spinta poi a remi dai locali fino a farla insabbiare sull'arenile. Più o
meno dolcemente, a seconda delle condizioni del mare e (direbbe qualche maligno) del rango
sociale dei viaggiatori ... A quel punto, per coloro che non volevano bagnarsi i piedi nell'acqua
salata, non c'era che una scappatoia: affidarsi alle braccia del più forzuto dei rematori e, una volta
poggiati entrambi i piedi sull'arenile, ricompensarlo adeguatamente.
Per settimane e settimane, don Giuseppe Feola e gli altri si erano arrovellati a risolvere il terribile
problema, ma soprattutto per farlo nel modo giusto: affinché la soluzione alla fine individuata
potesse diventare una vera opportunità di sviluppo per il paese. Alla fine un sistema si era
escogitato e a tutti - non solo gli amministratori ma anche quella parte della popolazione coinvolta
nei vari lavori da eseguirsi - era sembrato non solo quello giusto, ma anche quello più conveniente
in prospettiva. La marina di Capri non aveva un porto? Bene, quello non poteva certo costruirlo un
gruppo di volenterosi e coraggiosi cittadini, con i loro modesti mezzi. Ma un molo di legno, un
semplice molo, questo sì che si poteva tirar su alla meglio. Uno sbarcatoio, insomma, che uno dei
bravi artigiani dell'isola avrebbe potuto realizzare, con assi di buon castagno e solidi piloni piantati
sul fondo del mare. Un lavoro semplice, tutto sommato, una soluzione dignitosa ed efficace allo
stesso tempo. E soprattutto riutilizzabile in più occasioni, provvedendo opportunamente allo
smontaggio del pontile prima delle mareggiate dell'inverno ed alla sua conservazione al coperto.
Una volta risolto sul piano teorico il problema principale, Feola e gli altri avevano tirato un respiro
di sollievo e l'operazione "Visita del Re" era stata inaugurata ufficialmente il 31 agosto di qual
fatidico 1825 con la prima delle iniziative messe in cantiere, cui aveva corrisposto il primo, assai
sofferto esborso di pubblico denaro da parte del Decurionato. I primi cinque ducati - per intenderci si mossero dalle casse comunali fino alle tasche solitamente sofferenti di Costanzo Sardella,
industrioso tuttofare senza fissa professione, che aveva predisposto per l'accensione, nei punti più
visibili dell'isola, le luminarie di rito nelle grandi occasioni. Bisognava infatti onorare il re e la
regina che tornavano dall'esilio in Sicilia e festeggiare il compleanno di Francesco I, ch'era caduto il
diciannove dello stesso mese.
Ma, come il lettore attento a questo punto avrà già intuito, a quel punto diverse altre cose molto
importanti restavano ancora da sistemare e ben altre spese si profilavano all'orizzonte dei nostri
amministratori sempre alle prese con un bilancio assai ristretto.
*****
Botti, fragori, sfregare di seghe dall'alba al tramonto e qui e là persino qualche scoppio: la grande
marina era diventata infatti il cuore di un cantiere che a ben guardare, in verità, abbracciava gran
parte dell'isola. Il mastro falegname Domenico Cotrone, nominato dal Decurionato di Capri
direttore responsabile della costruzione dello sbarcatoio, aveva tenuto in pugno la situazione grazie
a quell'autorevolezza che gli era unanimemente riconosciuta; del resto aveva promesso
solennemente che l'opera sarebbe stata completata in meno di dieci giorni e intendeva mantenere
l'impegno a qualunque costo.
Prima di ogni cosa c'era stato da controllare che il legname comperato fosse corrispondente
all'ordinazione e soprattutto fosse stagionato a dovere. Perciò, quando il barcone di padron
Domenico Viva, l'anacaprese incaricato del trasporto, era giunto da Maiori con il legno e i facchini
si erano messi in azione per scaricarlo, il nostro Cotrone, che non era dolce di sale e non si prendeva
neppure la pena di nasconderlo, si era piazzato nella posizione più strategica per sorvegliare al
meglio ogni cosa. Le diciassette tavole di castagno lunghe otto palmi e mezzo e larghe un palmo e
un quarto; i correnti lunghi venti palmi e mezzo; le chianelle, le ginelle e le tavole di pioppo;
persino le rotola sette e mezzo di chiodi. Cotrone aveva passato in rassegna i materiali come un
colonnello il suo battaglione: dalla cima dell'elmo alla punta degli stivali. E mai atteggiamento era
apparso più naturale del suo, considerato il fatto che, specialmente in quell'ultimo ventennio, la
marina di Capri era stata quasi esclusivamente popolata di soldati. E di ufficiali che li strigliavano
come cavalli.
Come molti altri nell'isola Angelamaria, la moglie di Tatore 'o nassaiuolo, il tempo dei soldati lo
ricordava bene perché era stato duro, molto duro. Specialmente per una donna sposata che ha il
marito lontano in mare e la fame che bussa ogni giorno alla porta di casa: il paese si era riempito di
divise, di qualche piccolo bastardiello e di un po' di vergogna. L'unica cosa che fosse realmente
cambiata, tra l'uno e l'altro dei nuovi padroni che erano arrivati, gli inglesi e poi i francesi, era stata
la lingua in cui venivano impartiti gli ordini e imposti i divieti.
Nient'altro che quella. Anche se gli ultimi ad andare via, i soldati di Murat, forse almeno un po' di
compassione per la povera gente lo avevano dimostrato e, se non altro per un anno, avevano
esentato i capresi dal pagare le tasse! E Fortunatella, la figlia che il governatore di Capri Jean
Thomas aveva avuto dalla sua serva, in paese si diceva che il padre non l'avesse del tutto
abbandonata, dopo la sua partenza, nel 1815. E si diceva pure che ogni tanto le mandasse qualche
soldo, perché non crescesse selvaggia e analfabeta come sua madre...
Da allora era trascorso un decennio e la grande marina, sempre meno simile ad una piazza d'armi,
cominciava a somigliare al pacioso litorale di un'isola mediterranea. Malgrado il fortino di
Capopisco si affacciasse ancora arcigno dal promontorio di Bevaro, a ponente, e quello di San
Francesco, eretto sulle rovine di un antico convento di frati, campeggiasse a levante.
Per questo motivo, cioè per la tanto a lungo sospirata felicità di rivedere il luogo natìo animato
come un tempo solo dal lavoro degli uomini e dalle grida gioiose dei bambini, e non dalla furia e
dal fragore della guerra, Angela Maria si era sentita contenta ogni giorno di più, affacciata a quel
suo finestrino alla marina Mentre in quell'agosto infocato osservava tutto il via vai di gente
indaffarata, e quel vecchio sindaco, che sbucava quando meno te lo aspettavi in sella ad un asino.
Pronto a mettere sugli attenti chiunque gli si parasse innanzi. Dopo sole sette giornate e mezzo di
lavoro intenso, la struttura in legno del pontile era stata ultimata e posizionata nello spazio
antistante il magazzino di Costanzo Viva, in cui era previsto che fosse messa al riparo dopo
l'utilizzo. Il responsabile di tanta efficienza, cioè mastro Domenico il falegname, seguito dal suo
giovane aiutante Anselmo, avevano appena intascato la paga pattuita, che già era loro subentrato
colui che il sindaco Feola in persona aveva scelto per completare l'opera con la ferramenteria.
(Naturalmente con lui c'era una foltissima e scelta brigata di manovali, i cui nomi sarebbe troppo
lungo riportare qui. Sebbene tutti, per serietà ed impegno, meriterebbero l'onore della menzione).
Raffaele Salvia, il masto incaricato della bisogna, era sicuramente il più valente fabbro di Capri. In
verità faceva anche parte del Decurionato, anche se in questa seconda qualifica di amministratore le
cose gli riuscivano più difficili rispetto a quelle della sua professione. Questo non perché non ci
mettesse l'impegno sufficiente, ché anzi sacrificava anche quelle poche ore che avrebbe voluto
dedicare ai figli per dare una mano a quel grande sindaco che aveva l'isola, che Salvia ammirava al
punto da servirlo come un prete sull'altare. Il problema di masto Raffaele (ma a scorrere il Libro
delle Delibere non solo il suo) era la poca dimestichezza con le lettere dell'alfabeto e quindi con
tutto ciò che era da leggere e da firmare! Però in compenso aveva abbastanza carattere per
difendersi in ogni occasione...
"Con tutto il rispetto per il signor Domenico Cotrone - aveva messo bene in chiaro il ferraio davanti
al sindaco ed ai colleghi non appena ricevuto l'incarico - inchiodare le tavole una accanto all'altra
non è che fosse poi una cosa dell'altro mondo ... Il compito veramente difficile è quello che affidate
ora a me: sono io che devo fissare con piastre, scive, borchie e chissà in quale altro modo quel
benedetto ponte su quegli strabenedetti otto piloni che devono sorreggerlo!". "Don Giusé - aveva
poi esclamato, rivolgendosi a Feola - conoscete la mia devozione per la vostra persona, ma ditemi,
con chi ve la prenderete, se una notte 'scende un mare' all'improvviso e si prende lo sbarcatoio?...".
Masto Rafèle era fatto così, che volete fare... Un po' com'erano fatti tutti gli isolani, probabilmente:
facili a lamentarsi e a far polemica quando non ce n'è alcun bisogno. Ma era pure ricco d'ingegno
come molti dei suoi concittadini e fiero assai dei suoi natali, malgrado la quotidiana lotta per
sopravvivere. Ché quell'isola, come diceva lui, se tutta quella gente forestiera veniva a vederla e se
persino il re, che in mezzo alle cose belle ci viveva ogni giorno nei suoi palazzi, ci teneva tanto a
mostrarla alla sua regina, doveva essere veramente una cosa rara tra tutte le isole della terra ...!
Negli stessi giorni in cui il fabbro ed i suoi aiutanti avevano predisposto l'ancoraggio del pontile ai
possenti piloni, in zone diverse del paese molte altre persone avevano lavorato alacremente al
grande evento che si avvicinava. Ovunque esse si trovassero, don Giuseppe Feola faceva in modo di
esser loro vicino: di persona, se possibile, o con lo spirito, cioè incaricando uno dei decurioni di
controllare l'opera e di portar loro il suo saluto. Uno dei suoi inviati, tale Giovanni Di Martino, era
stato spedito a sorvegliare gli accomodi della strada che saliva dalla marina e di quella che univa il
palazzo dei Canale con l'antica scalinata scavata nella roccia che menava ad Anacapri. I due mastri
fabbricatori incaricati di quel lavoro, Raffaele Trama e Marziale Desiderio, erano degni della
massima fiducia, ma quando si spendono più di cinquanta ducati di pubblico denaro, l'attenzione
non è mai troppa...
Se re Francesco, insomma, avesse tenuto fermo il suo proposito di salire ad Anacapri il secondo
giorno del suo soggiorno nell'isola, avrebbe trovato la strada in perfetto ordine: fino alla scalinata il
corteo sarebbe arrivato senza impedimenti. La salita successiva, lungo i terribili e ripidi scalini di
pietra, sarebbe stata questione di buoni muscoli - e qui il re avrebbe potuto contare su di un intero
stuolo di forzuti e volenterosi portantini - e di ben addestrate cavalcature.
A questo proposito, è d'obbligo raccontare seppur per sommi capi della avvenuta 'moltiplicazione'
degli asini: un ulteriore, prodigioso intervento cui il sindaco Feola era stato chiamato
immediatamente dopo aver scoperto, al termine di un laborioso conteggio in cui furono comprese
tutte le ciucciare dell'isola ed i quadrupedi di pertinenza di ognuna, che i somari non erano
abbastanza. Proprio così: non c'erano asini in numero sufficiente a trasportare le così tante persone
che sarebbero arrivate al seguito del re e della regina. La soluzione del problema (purtroppo anche
questa assai dispendiosa per le casse comunali) era stata individuata nell'arruolamento di una
quindicina di ciucciarielli massesi e sorrentini con i relativi conduttori, della stessa "nazionalità".
Ma quando - nel bel mezzo di una scoppiettante seduta decurionale - si era affrontato il delicato
problema dell'alloggio, per quella piccola pattuglia mercenaria di asini e asinai, si era scoperto che
in realtà il tema più scottante non era tanto quello, quanto la sistemazione dignitosa da fornire alle
persone che avrebbero accompagnato i reali a Capri.
Per quanto riguardava il gruppo dei primi, gli ospiti raglianti provenienti dalla penisola, essi erano
stati affidati a tal Sabato Federico, ch'era persona fidata e che disponeva, sempre lì alla marina
grande, di un locale sufficientemente grande e già attrezzato come stalla; con lui era stato fissato un
prezzo di 75 grana per un totale di tre notti. Importo eguale (sic) aveva poi preteso Salvatore Ferraro
per il camerone dove avrebbero dormito gli ospiti parlanti, cioè gli asinai ... Ma ben più complicato,
com'è ovvio, era stato organizzare l'alloggio per lo stesso periodo per gli uomini di servizio di sua
maestà Francesco I di Borbone: personale di cucina, addetti alla bottiglieria, componenti la banda
reale ed altri. Don Giuseppe Feola, ancor più che le altre operazioni, questa l'aveva condotta
personalmente dall'a alla zeta, non trascurando d'incontrare una per una le persone coinvolte per la
bisogna, quasi tutte donne e quasi tutte al loro esordio nella non facile professione di locandiera.
Aveva cominciato convocando nella casa comunale Rachele Tedesco, che locandiera lo era già da
un po' e con buon profitto. Presso di lei, proprio in virtù della sua esperienza nel settore
dell'accoglienza, l'accorto sindaco aveva deciso di alloggiare il principe di Conca, l'arcigno
Sottintendente di Castellammare che aveva annunciato il suo arrivo qualche giorno prima del re per
dare il suo imprimatur all'operazione in corso. Il felice esito di questo soggiorno - il Sottintendente
si era dichiarato alla fine assai soddisfatto, tanto delle camere che donna Rachele aveva preparato
per lui ed il suo seguito, tanto degli ottimi pranzetti che gli erano stati cucinati - era stato per Feola
il miglior viatico in vista degli incontri con le aspiranti "albergatrici" cui si accennava poc'anzi.
Riferendosi a donna Rachele come esempio di simpatia e di efficienza, don Giuseppe aveva
spiegato a tutte quanta decisiva importanza avesse il loro personale contributo ai fini del
raggiungimento degli obiettivi comuni.
"Un pagliericcio comodo e delle lenzuola pulite e profumate di lavanda faranno sì che i vostri ospiti
si sveglino di buon'umore; un buon bicchiere del nostro vino ed un vostro sorriso saranno il
migliore augurio per un loro felice soggiorno nell'isola - aveva raccomandato loro nel corso
dell'incontro. - In tal modo essi serviranno bene il nostro re e di conseguenza sua maestà e la regina
saranno ancor più generosi nei confronti di noi tutti!".
Teresa l'ostetrica, Antonietta e Anastasia, che si arrangiavano facendo le tessitrici, ma pure tutte le
altre, Carmina, Annuccia Serafina, si erano dichiarate immediatamente pronte a qualsiasi sacrificio,
pur di migliorare la propria situazione, ch'era alquanto triste. E soprattutto disposte a tutto per dare
un avvenire più degno ai figli.
La stessa disponibilità, che doveva naturalmente tradursi in letti e camere a buon mercato, Feola
aveva ricevuto insomma da tutte le persone interpellate (che non erano solo donne), individuate una
ad una non solo per la moralità specchiata nei costumi, come la delicatezza del caso richiedeva, ma
anche in base ad un secondo criterio, meno aleatorio e più pragmatico: la centralità delle loro
abitazioni rispetto alla piazza di Capri. All'unica piazza del paese. Era importante, infatti, forse
addirittura vitale, che gli addetti al servizio dei Reali non pernottassero troppo lontano da Casa
Feola, poco più su della chiesa di Santo Stefano, dove le loro maestà avrebbero soggiornato in quei
tre giorni. E, tanto per fare un esempio, la vedova bisognosa Teresa Spinetti, che aveva offerto un
letto in cambio di soli trenta grana, abitava infatti a San Pietro a calcara, a pochi minuti di distanza.
Anna Strina, che si era impegnata per la stessa somma, la sua casa ce l'aveva a Longano, a due passi
di distanza dalla piazza con il campanile; Annuccia Ferraro, che abitava dall'altra parte, nella strada
Le Botteghe, era pur tuttavia sempre negli immediati paraggi. La stessa donna Rachele Tedesco la
sua piccola locanda l'aveva aperta a Fuorlovado, a poche decine di metri dalle porte che davano
accesso al paese.
Tutt'intorno alla piazza ed alla sua chiesa, troppo grande in proporzione, si era venuta a creare per la
fausta occasione della visita del re una sorta di "zona di servizio". Di quest'area facevano parte, oltre
che la casa comunale e le botteghe di sua pertinenza, e oltre le minuscole locande familiari di cui
sopra, anche altrettanto piccole attività artigianali legate al ristoro. Intendiamoci, nulla di
lontanamente simile ai caffè napoletani che Feola conosceva, come il Caffè di Parigi, in piazza San
Ferdinando, o la Bottega del Caffè al Largo alla Carità, dove i clienti più affezionati, però,
preferivano al caffè un'altra delle specialità di don Vito Conte, il padrone, e cioè il sorbetto. No, a
Capri, in quel tempo non c'era nulla di simile.
Però, già in quel 1825, c'era nell'isola chi, come donna Nicoletta, faceva da un po' la caffettiera di
professione in casa sua, nella strada di Fuorlovado, quella che dalla piazza si avventurava stretta
stretta e in parte coperta, verso le pendici del monte Tiberio. Nel piccolo quartiere di San Pietro - un
pugno di casette bianche tutt'intorno all'antica e amata chiesuccia con il sagrato coperto da un
pergolato di uva fragola - Andrea Trama era famoso per essere anche più abile di lei. Quando
abbrustoliva il suo caffè, il profumo vicolo dopo vicolo arrivava fino alla Certosa di San Giacomo,
dove nelle piccole celle le preghiere non le dicevano più i frati, ma i soldati carcerati della
Compagnia di Disciplina ...
Poco più in su di don Andrea 'o caffettiere, verso Sopramonte, viveva e operava un concorrente di
entrambi: si chiamava Michele Di Stefano ed era una vecchia conoscenza del sindaco Feola, in
quanto decurione tra i suoi preferiti. Uno di quelli che parlava il suo stesso linguaggio: preferiva
guardare avanti, più che girarsi indietro.
3. Continua