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Daniele Pozzi, Una sfida al capitalismo italiano: Giuseppe
Luraghi, Marsilio, Venezia 2012, pp. 318.
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Basandosi sullo studio dell’archivio di Giuseppe Luraghi (1905-1991),
custodito presso l’Istituto di storia economica della Università Bocconi,
dove egli era laureato, l’autore di questo saggio ricostruisce con puntigliosa
verifica documentaria la biografia professionale di un importante manager
italiano del secondo Novecento.
Già dalla intitolazione del volume si intuisce che tale biografia è
caratterizzata, come si legge nel risvolto di copertina, della «vicenda per
diversi aspetti anormale di un dirigente che intende rivendicare il ruolo e le
responsabilità dei manager nel contesto del capitalismo italiano, che, nella
seconda metà del Novecento, appare invece condizionato dagli interessi
delle grandi dinastie industriali o da quelli della classe politica».
Una vicenda del genere non poteva che riguardare una figura di spicco
come quella di Giuseppe Luraghi. Poche altre figure di dirigenti altrettanto
eccezionali sono state oggetto di studio, una delle quali, per fare un
esempio appropriato, è stata la figura a tutti nota di Enrico Mattei (19061962). Il volume si offre alla attenzione del lettore per suggerire quanto sia
stata notevole, per assunzione di responsabilità, nella maggior parte dei
casi, la trasformazione della professione del dirigente nel panorama dello
sviluppo industriale in Italia, nel periodo storico successivo alla fine della
seconda guerra mondiale e che si è esteso anche nella nostra più recente
contemporaneità.
Con riferimento specifico alla generazione di Luraghi, si deve ricordare
che essa iniziò ad operare ai primi livelli dirigenziali negli anni Trenta per
raggiungere i vertici della carriera più tardi, dopo la fine della guerra in
coincidenza con gli anni del cosiddetto miracolo economico, mentre poi tale
generazione progressivamente si è ritirata dagli impegni più onerosi, tra la
fine degli anni Sessanta ed il decennio successivo.
Qualche tempo dopo la assunzione nel 1929 presso la Pirelli, Luraghi
diventò uno dei principali dirigenti di questa grande impresa milanese
specializzata nella fabbricazione di pneumatici, cavi e articoli in gomma. Con
la ripresa delle attività industriali, alla fine della seconda guerra mondiale,
egli fu protagonista, con altri fidati collaboratori, di un progetto di riforme
molto ampio e coraggioso da realizzare proprio con l’azienda milanese. Infatti
la Pirelli, come altre imprese private, momentaneamente libera dal controllo
familiare dei proprietari, allontanati dalle forze antifasciste, poteva essere
ristrutturata con indirizzi strategici nuovi ed una autonomia operativa del
tutto moderna in grado di conciliare gli obiettivi ambiziosi della efficienza
manageriale con quelli del legittimo mantenimento del controllo dinastico.
Ma una volta rientrati, i proprietari disattesero le aspettative di Luraghi
che nel 1950 decise di abbandonare la Pirelli è in proposito scrisse: «Mi
dimisi perché, finita la grande paura, inaspettatamente si volle ridare alla
società una organizzazione che ritenevo inaccettabile: si tendeva a cancellare
rapidamente la più aperta e progressiva struttura adottata durante il
periodo della Liberazione. Come se nulla fosse successo, senza tener conto
delle nuove necessità, si doveva ritornare molti passi indietro e richiudere
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l’ambiente alla ventata d’aria fresca, che pur fra le tante eccezionali
difficoltà il Commissario aveva immesso nella azienda».
Già prima di lasciare la Pirelli, Luraghi aveva ricevuto una interessante
offerta di lavoro da Ferdinando Innocenti, uno degli industriali più attivi
del dopoguerra, inventore della mitica Lambretta e poi della omonima
casa automobilistica. L’offerta non fu accettata e il nuovo posto di lavoro
di Luraghi fu la carica di vicedirettore della SIP (Società idroelettrica
piemontese) che diventerà poi familiare agli italiani come l’azienda
pubblica dei telefoni con sede a Torino.
Ma poco tempo dopo Luraghi dalla SIP passò alla Finmeccanica, la
società finanziaria costituita nel 1948 dall’IRI (Istituto per la ricostruzione
industriale), come ente gestore del sistema delle partecipazioni statali.
Da questo volontario cambiamento del posto di lavoro si intuisce che
Luraghi andava alla ricerca di un ruolo con la massima responsabilità
manageriale possibile, che non aveva trovato alla SIP e che ottenne invece
con la direzione della Finmeccanica. Così egli poté finalmente avere a
disposizione il migliore punto di osservazione diretto per verificare il
quadro scarsamente produttivo della industria pubblica italiana.
Questa nuova stagione della carriera professionale di Luraghi era
rivolta ad analizzare quel coacervo di imprese che facevano capo alla
Finmeccanica, molte delle quali ereditate dopo la fine della guerra, e che
formavano una congerie di imprese meccaniche. Esse facevano un po’
di tutto ma avevano fortissime presenze nelle costruzioni navali e nella
produzione delle armi. Pertanto è indispensabile, da parte della dirigenza,
«trovare il modo di coordinare le imprese tra di loro per creare sinergie,
di evitare doppioni ed esaltare la specializzazione» (Vera Zamagni). Per
l’industria pubblica italiana era dunque necessario, secondo Luraghi,
ristrutturare e riconvertire le aziende uscite dalla guerra decotte, anche se
purtroppo le risorse finanziarie a disposizione non erano «sufficienti per
coprire tutte le necessità e anche i vertici delle imprese in alcuni casi non
erano all’altezza di comprendere la nuova fase dell’economia italiana».
Come sottolinea l’autore di questo saggio, si comprende bene che le
enormi difficoltà di attuare un piano strategico di lungo periodo, anche
per le continue devianti interferenze del potere politico, portarono
Luraghi a dover subire il fallimento di una riforma di ispirazione
manageriale per l’intero settore della industria pubblica controllato da
Finmeccanica, da cui Luraghi si dimise nel 1956. Fino al 1960 egli assunse
la carica di presidente e consigliere delegato della impresa tessile vicentina
Lanerossi, nella quale confermò le doti di essere un tecnico capace della
amministrazione e della organizzazione anche di grandi aziende private.
Ma sempre nel 1960 il ricambio alla presidenza del IRI, con la
nomina di Giuseppe Petrilli, riaprì la possibilità per Luraghi di un suo
reinserimento ai vertici dell’Alfa Romeo, con la quale, durante il periodo
alla direzione di Finmeccanica, egli aveva instaurato un rapporto
molto stretto. Sempre nel 1960 venne avviata la costruzione del nuovo
stabilimento di Arese, presso Milano, perché lo storico impianto del
Portello era ormai insufficiente a fronteggiare la domanda del mercato,
dal momento che, anche per merito di Luraghi, l’Alfa Romeo si era avviata
finalmente sui binari giusti dello sviluppo.
Tra gli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo, sotto la guida di
Luraghi, l’Alfa Romeo ebbe la capacità di realizzare auto di grande qualità,
potenziando il successo già avvenuto nel 1955 con la Giulietta, vettura diffusa
all’inizio però secondo una logica da mercato di nicchia, poi inserita nella
grande diffusione assieme ad altre vetture di successo come la Giulia, che
diedero all’impresa Alfa Romeo la possibilità di realizzare bilanci positivi,
di competere con i produttori privati dell’automobile e di dare dignità e
prestigio all’industria di Stato.
Un elemento qualificante della svolta dell’Alfa Romeo fu rappresentato
dalla costruzione di uno stabilimento nella area di Pomigliano d’Arco, presso
Napoli, costruzione avviata nel maggio del 1968. Nel febbraio del 1972 le
linee produttive iniziarono a funzionare ed i prototipi della nuova vettura,
l’Alfa-sud, fornirono subito ottimi risultati. Ma Luraghi per smorzare le
polemiche nei suoi riguardi, essendo stato accusato di aver voluto costruire
una cattedrale nel deserto, così scrisse: «Penso che davvero la nuova fabbrica
Alfa Romeo a Pomigliano rappresenterà un importante centro propulsivo
per tutta la economia del Mezzogiorno […], sono sicuro che essa avrà anche
un grande valore psicologico per i giovani; molti volonterosi troveranno un
ambiente adatto per sviluppare le loro capacità ora deluse o assopite».
Molto significativa ci sembra questa riflessione, perché indirizzata
all’obiettivo di realizzare una produzione automobilistica che non c’era mai
stata nel Mezzogiorno e conseguentemente, come sottolinea l’autore di questa
biografia, pure idonea a contrastare la espansione della FIAT, rompendone il
monopolio privato. Si può dire inoltre che l’iniziativa di Luraghi prevedeva
sia un largo impiego di manodopera sia molte attività accessorie in grado
di dare finalmente al Mezzogiorno e soprattutto alle sue generazioni più
giovani l’opportunità, fino ad allora inesistente, di un riscatto sociale e civile
di una gran massa di lavoratori.
Purtroppo, come mette in rilievo l’autore della biografia, lo stabilimento
di Pomigliano d’Arco funzionava progressivamente sempre meno, sia perché
la forza lavoro spesso risultava priva di competenze professionali sufficienti
sia perché le imprecisioni del progettato ciclo della produzione non potevano
essere corrette in modo tempestivo e ciò non era certamente da addebitarsi
alla diretta responsabilità di Luraghi. Nel 1973 si esaurì il rapporto di fiducia
tra lui ed i vertici dell’IRI e verso la metà di quell’anno si aprì un contenzioso
fra l’Alfa Romeo da una parte e l’IRI e il CIPE (Comitato interministeriale
per la programmazione economica) dall’altra.
La polemica in particolare tra Luraghi e il ministro delle Partecipazioni
statali Antonio Pietro Gullotti portò nel 1974 alla mancata riconferma
di Luraghi nell’incarico di presidente dell’Alfa Romeo, una azienda in
seguito entrata in profonda crisi per oltre un decennio e che fu acquisita
nel 1986 dalla FIAT. La lunga carriera professionale di Luraghi si avviava
alla conclusione con la responsabilità della ristrutturazione della Necchi, la
grande impresa specializzata nella produzione di macchine per cucire, di cui
egli fu vicepresidente dal 1974 al 1979.
Con la presidenza della Mondadori, mantenuta dal 1977 alla fine del
1982, Luraghi terminò la sua carriera manageriale, sulla quale viene orientata
la copiosa bibliografia che in appendice correda il saggio di Daniele Pozzi,
autore consapevole di aver dato uno spazio troppo limitato alla personalità
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di Luraghi come uomo di cultura e come letterato, personalità ben
documentata dal suo archivio presso il Fondo Manoscritti custodito dalla
Università di Pavia.
Infatti egli fu il fondatore di due prestigiose riviste aziendali, la Pirelli
(1948) e Civiltà delle macchine (1953) di Finmeccanica. Fu apprezzato
intenditore di arti figurative, fu stimato poeta e scrittore di opere narrative
e saggistiche. Non solo. Fu anche fondatore di una piccola, ma prestigiosa
casa editrice, la Meridiana, attiva a Milano dal 1947 al 1956, che si adoperò
per divulgare per un pubblico di lettori selezionato e competente le opere
più recenti di alcuni poeti e letterati diventati famosi in quegli anni.
Umberto Casari
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ISSN 0393-5108
DOI 10.7433/s96.2015.11
pp. 215-2018
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