Protesta studenti: Contro il taglio del futuro
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Protesta studenti: Contro il taglio del futuro
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi 70 ANNO periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia € 2.70 01 1 gennaio 2011 i cavalieri della libera informazione volontariato una luce nella catastrofe sociale protesta studenti contro il taglio del futuro la conoscenza come bene comune crisi economica Keynes ha di nuovo qualcosa da dire l’offensiva culturale e filosofica dell’ateismo dall’intervista una finestra sull’identità di Benedetto XVI Rocca 2010 Indice per tematiche principali Luce del mondo licenza di preservativo? TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X nel duemilaundici con Rocca Rocca sa che + lettori = + abbonati perciò confida in + nuovi lettori = + nuovi abbonati Rocca ti invita a rinnovare il tuo abbonamento farla conoscere e proporre per nuovi abbonamenti Rocca può continuare e crescere anche grazie a te un 2011 di + con Rocca Rocca 4 6 sommario 10 11 13 14 16 19 20 23 24 26 1 gennaio 2011 29 36 40 01 43 47 Ci scrivono i lettori 49 Anna Portoghese Primi Piani Attualità 50 Giovanni Sabato Notizie dalla scienza 52 Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace Una legislatura di tregua Maurizio Salvi Afghanistan Pochi passi e tante verità occultate Ritanna Armeni Protesta studenti Contro il taglio del futuro Romolo Menighetti Oltre la cronaca I cavalieri della libera informazione Fiorella Farinelli Volontariato Una luce nella catastrofe sociale Tonio Dell’Olio Camineiro Per recuperare i beni perduti Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca Quale legge elettorale?/2 54 56 57 58 58 59 59 Roberta Carlini Crisi economica Keynes ha di nuovo qualcosa da dire 60 Rocca 2010 Indice per tematiche principali 60 Pietro Greco La conoscenza come bene comune Il fornaio e Bill Gates Giannino Piana L’intervista di Benedetto XVI Licenza di preservativo? Giancarlo Zizola Luce del mondo Dall’intervista una finestra sull’identità di Benedetto XVI Giuseppe Moscati Nuova Antologia Mario Luzi Quella luce che illumina la parola 61 62 63 Filippo Gentiloni Vizi & virtù Arturo Paoli Amorizzare il mondo Amicizia nostra speranza Carlo Molari Teologia L’offensiva culturale e filosofica dell’ateismo Rosanna Virgili Introduzione alla lettura della Bibbia Una esegesi di scienza e cultura Enrico Peyretti Fatti e segni Pregi e difetti Paolo Vecchi Cinema Noi credevamo Roberto Carusi Teatro Una pedana di umanità Renzo Salvi Rf&Tv Improvvido spot Mariano Apa Arte L. Alberto Pellegrino Fotografia Come documentare il nostro tempo Enrico Romani Musica Il rock degli anni zero Giovanni Ruggeri Siti Internet Mutazioni antropologiche Libri Carlo Timio Rocca Schede Organizzazioni in primo piano Ocse Luigina Morsolin Fraternità Perù: cucire e ricamare nei vivaci colori andini Numero 1 – 1 gennaio 2011 70 ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa-LaPresse, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, LaPresse, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Natale G. M., Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione Via Ancaiani, 3 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Fax Redazione 075/3735197 Fax Uff.abbonamenti 075/3735196 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: UniCredit - Assisi intestato a: Pro Civitate Christiana - Rocca IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 (Paese IT Cin 26 Cin A Abi 02008 Cab 38277 n. 0000 41155890) dall’estero IBAN: IT 26 A 02008 38277 000041155890 BIC (o SWIFT) UNCRITM1J46 Quote abbonamento 2011 Annuale: Italia € 60,00; estero € 85,00; Sostenitore: € 150,00 Semestrale: per l’Italia € 35,00 una copia € 2,70 - numeri arretrati € 4,00 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 18/12/2010 e spedito da Città di Castello il 21/12/2010 4 ci scrivonoi lettori quindicinale della Pro Civitate Christiana Panikkar fiducia nella vita Mi è piaciuto molto l’articolo di Carlo Molari su Panikkar. Con il suo stile sempre limpido ed efficace Molari, con le sue parole, invita a conoscere questo grande uomo anche chi non ha potuto incontrarlo. Io ho ascoltato Panikkar qualche anno fa, quando è venuto a Bergamo a tenere una conferenza, bellissima. E ho letto qualcosa dei suoi scritti, non sempre facili per me. Ma continuerò a leggere altre cose, perché Panikkar aiuta davvero ad avere una visione più ampia della realtà. E poi perché trasmette sempre tanta fiducia nella vita e un grande ottimismo. Grazie a quanto «Rocca», con i nuovi collaboratori, continua a pubblicare. Un saluto affettuoso. Elena Berlanda Bergamo L’umanità della coppia Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute La lettera di Giovanni Marucci (Rocca n. 22, 15 novembre) mi ha spinto a scrivere sui corsi prematrimoniali. Premetto che a Potenza ci sono il 10% di matrimoni civili con il 20% di divorzi. Mentre i matrimoni religiosi hanno il 10% di fallimento. In questo contesto cittadino su 500 coppie che hanno partecipato ai corsi prematrimoniali nella mia Parrocchia abbiamo avuto il 2% di fallimento. Una o due coppie all’anno si lasciano durante i corsi. A cosa è dovuta questa differenza? Ritengo semplicemente dal fatto che viene usato un metodo che tiene conto della psicologia delle persone, della storia familiare, dell’antropologia, insomma, su cui va ad inserirsi il discorso della famiglia cristiana. Non basta fare catechesi sulla famiglia. Bisogna aiutare i fidanzati a conoscersi nel proprio intimo ed a conoscere bene l’altro/a. Su questa base umana si può bene in- serire la vocazione cristiana al matrimonio. Troppo spesso ci si preoccupa di catechizzare i fidanzati prescindendo dalla loro concreta umanità. Un altro elemento importante, per me, è che nei corsi prematrimoniali le coppie debbono confrontarsi tra di loro e con alcune coppie mature per fare emergere il profondo del loro vissuto, della loro cultura, del loro modo di immaginare la coppia e la famiglia. Spesso queste cose vengono fuori solo dopo il matrimonio con relative sorprese e crisi. Penso, dunque, che bisognerebbe affrontare bene queste problematiche per fare emergere le contraddizioni che ognuno si porta dentro, le differenze culturali, i diversi modi di vedere i ruoli all’interno della coppia, ecc. Un buon percorso potrebbe essere il seguente: 1°. Nessuna persona è un’isola (Chi sono? Chi è il mio partner?). 2°. Il matrimonio cristiano: Perché? Quale è la mia situazione di fede? 3°. Costruire insieme il nostro matrimonio – Sociologia della famiglia e dei ruoli (Divenire coppia – Divenire coppia cristiana). 4°. Matrimonio e comunicazione (Rapporti interpersonali nella coppia e con Dio). 5°. La conflittualità nella coppia (Come prepararsi per la conflittualità); Dio e le difficoltà della coppia. 6°. Amore e sessualità (La comunicazione sessuale): Sessualità e corporeità; Dio è amore. 7°. Il servizio alla vita (Maternità e paternità responsabili). I metodi naturali e i mezzi per la regolazione delle nascite. 8°. Il matrimonio aperto (Una comunità di vita e di amore). 9°. Gli aspetti giuridici del matrimonio civile e canonico. 10°. Essere genitori-educatori (Genitori si diventa, non si nasce). Educazione cristiana dei figli. 11°. Il sacramento del Matrimonio. 12°. La Celebrazione del matrimonio; La verifica pre- matrimoniale; La liturgia Matrimoniale. Naturalmente il tutto va diretto dal sacerdote con la collaborazione di esperti. Riguardo ai risposati che formano belle famiglie, si pone il problema. La Chiesa ortodossa ammette una solenne benedizione delle seconde nozze. Non ripete il sacramento ma non esclude dall’eucaristia. Bisognerebbe riflettere molto su questa ipotesi. Don Franco Corbo Potenza Diritti dei bambini ma quali? Vi scrive un gruppo di insegnanti che, con molti altri volontari della Comunità di S. Egidio, si sta occupando da qualche mese della terribile emergenza umanitaria creata dagli sgomberi del popolo rom a Milano. Possiamo garantirvi che da allora abbiamo aperto una finestra sull’abisso di composta disperazione di questi forzati del nomadismo. Ormai vivono quotidianamente braccati come criminali nella nostra città, sostenuti soltanto dalla silenziosa ma concreta solidarietà di molti anonimi cittadini, come la gente del quartiere Rubattino. Da settembre abbiamo cercato di rendere più sopportabile la vita dei bambini rom cacciati da quel quartiere. Li abbiamo così raggiunti nel dormitorio di via Ortles, dove sono stati temporaneamente accampati, per fare doposcuola o giocare con loro. Oggi sono nuovamente dispersi. Ma vogliamo parlarle di Marius, sorridente quindicenne rom analfabeta che stiamo seguendo da tre mesi come insegnanti, al circolo Acli di via Conte Rosso. Marius, sgomberato cinque volte da settembre. Marius, che viene puntuale con i suoi quaderni asciutti per fare scuola con noi, nonostante dorma sotto le stelle e la pioggia. Marius, che vuole imparare in fretta a capire, a parlare, a leggere e a scrivere in italiano per trovare lavoro, per far parte della nostra comunità. Marius, che è venuto a fare scuola all’Acli, venerdì 19 novembre, alle 14,30, puntuale come sempre anche se alle 6 del mattino stesso ha subìto l’ultimo sgombero. Fino a quando potrà sopportare? Certo è che negli occhi e nei gesti di tutti questi ragazzi e bambini abbiamo visto un tratto comune: il desiderio disperato di andare a scuola e di avere una casa come tutti gli altri, anche se vengono respinti da una città che non ha più cuore né testa. Il 20 novembre si è celebrata la «Giornata mondiale dei diritti dei bambini», sì, ma quali? Non certo di Marius, della sua sorellina e dei bambini rom della nostra città. Ce ne vergogniamo terribilmente come insegnanti, come madri e padri, e come cittadini. Un gruppo di insegnanti dell’Itcs Schiaparelli Gramsci Milano Conferenza nazionale sulla famiglia A Milano si è chiusa la conferenza nazionale sulla famiglia con un nulla di fatto, secondo la mia opinione, perché ancora una volta non si è voluto affrontare strutturalmente l’aspetto economico. È stato detto che il quoziente familiare non rende giustizia e si prova ad introdurre il fattore famiglia: ma il quoziente familiare non era un cavallo da battaglia? Come mai è stato abbandonato senza un minimo di sperimentazione? Allora avevano ragione coloro che alcuni anni fa sostenevano che tale strumento creava disparità. E fra una proposta e un’altra si sono decurtate le finanze ai servizi sociali, alle associazioni ed alle famiglie, di modo che la prossima discussione sulle politiche familiari inizierà con un’asticella molto più bassa. È stato detto che la famiglia è tutelata attraverso gli ammortizzatori sociali, quali cassa integrazione, sistema pensionistico... Tutto falso, perché tali ammortizzatori distruggono la famiglia oggi. Queste soluzioni potevano andar bene 30/40 anni fa (ed infatti la famiglia era tutelata), ma oggi sono solo un aiuto per chi ha una pensione od un lavoro, ma non per i figli, che pagheranno in futuro queste scelte fatte per i genitori o per i nonni. Se vogliamo tutelare la famiglia, occorre pensare ai nostri figli. Un figlio maggiorenne, che è costretto ad essere ancora mantenuto dal genitore, non potrà garantire un serio futuro. Allora occorrono strumenti che aiutino la famiglia pensando ai figli, cioè al futuro. In Europa lo fanno: Francia, Germania, Paesi Scandinavi... hanno pensato alla famiglia sostenendo i figli. L’Italia no! Strano che in un Paese cattolico la famiglia sia il fanalino di coda; in Europa in buona compagnia con altri Paesi ‘cattolici’ come Polonia e Malta. In Francia per esempio hanno puntato tutto sui figli ed hanno avuto ragione. Anche in Italia il Trentino ha fatto questa scelta che ha ottenuto un buon risultato. Non si tratta di penalizzare nessuno; si tratta di stabilire pesi e misure giuste. Invece andiamo avanti ancora con uno strumento chiamato Isee, oppure stiamo introducendo una nuova tassa sui rifiuti, Tia, che sarà anche buona perché tende a ridurre i rifiuti, ma penalizza le famiglie, perché è calibrata sul nucleo e non sui singoli componenti. La soluzione ci sarebbe: pesare complessivamente la famiglia e dividere tale peso equamente secondo la composizione. In questo modo si attuerebbe anche una giustizia redistributiva, in cui ogni cittadino è chiamato a contribuire secondo le proprie disponibilità. Ma siamo pronti a pensare per il futuro dei figli, che in questo caso coincide con il futuro della nostra Italia? Simone Baroncia Tolentino (Mc) 5 ROCCA 1 GENNAIO 2011 CI SCRIVONO I LETTORI ROCCA 1 GENNAIO 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 6 Cancun lucide analisi però... il clima non aspetta Vaticano l’inverno ecumenico è passato? 194 Paesi hanno adottato l’11 dicembre alla Conferenza di Cancun (Messico) un «pacchetto» sui cambiamenti climatici. Si tratta di una «visione condivisa», che rilancia gli accordi dopo il fallimento della precedente conferenza di Copenaghen. Ha guidato i negoziati, con riconosciuta e agguerrita fermezza, Patricia Espinosa, ministra degli Esteri del Messico e presidente della «Conferenza delle parti». Il pacchetto è composto da 32 pagine e sette capitoli con premessa e annessi. Oltre alla creazione di un fondo verde, ancora non contabilizzato, da gestire attraverso un comitato di 40 membri, 15 dei paesi industrializzati e 25 dei paesi in via di sviluppo, il pacchetto prevede azioni di adattamento, mitigazione (tagli di Co2), finanza (subito 30 miliardi di dollari per il periodo 20102013 e successivamente la necessità di mobilitare 100miliardi di dollari l’anno fino al 2020 in favore dei paesi poveri colpiti dai cambiamenti), il trasferimento di tecnologie e un fondo a favore dei progetti di blocco della deforestazione. Entro il 2012 bisognerà comunque trovare la strada «per andare avanti», data la scadenza del Protocollo di Kyoto, e cioè il modo di concertare e concretizzare la diminuzione delle emissioni. L’appuntamento è per il prossimo anno a Durban (Sudafrica). Da Cancun si ricomincia Nonostante la visione condivisa sulla necessità di drastici tagli alle emissioni, la conclusione di Cancun non ha portato a impegni vincolanti, ma a «che ognuno faccia quello che può». Positiva la posizione di accettare una verifica indipendente e trasparente sul territorio, una volta costituito un Protocollo vincolante delle emissioni. Finora si erano opposti la Cina e gli Stati Uniti. Ma Pechino ha ora accettato e, data la quantità delle sue emissioni, questo è un risultato importante. Papa Benedetto XVI ha ricevuto il 4 dicembre il segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) il pastore norvegese Olav Fykse Tveit, in «un incontro aperto e caloroso», come ha dichiarato l’ospite all’uscita, ai giornalisti. Il pastore luterano e la delegazione da lui guidata sono stati pure ricevuti dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani. L’unione visibile delle Chiese, il sostegno alle comunità cristiane in Medio Oriente e un rinnovato impegno ecumenico per un’azione comune nel mondo sono stati i temi sul tappeto. Riguardo alla ricerca ecumenica, «condivisa da molti come una priorità – ha detto Tveit – so che è la causa di Papa Benedetto XVI». «È importante – ha proseguito – che si parli onestamente delle sfide che abbiamo. Ci sono aspettative per il movimento ecumenico che non sono state soddisfatte, e ci sono tensioni che provengono da e tra le Chiese. È quindi necessario più che mai ribadire questo nostro impegno e riflettere su ciò che questo comporta nella nostra vita quotidiana», concentrandosi su «ciò che è possibile fare insieme». Ha richiamando l’attenzione sulle «questioni ecclesiologiche di fondo che sono ancora un ostacolo per l’unità visibile, come quelle dell’Eucaristia e del ministero ordinato», e ha ricordato poi la questione mediorientale. Alla fine il pastore ha offerto al Papa un paio di guanti di lana norvegese «perché in inverno proteggono bene dal freddo», ha detto. «E poiché alcuni considerano questo periodo un inverno ecumenico, sono simbolo della possibilità di andare avanti a dispetto delle difficoltà». Il Cec – che il rev. Tveit guida – è una partnership di 349 Chiese (protestanti, anglicane e ortodosse) per una rappresentanza di 560 milioni di cristiani di 110 Paesi del mondo. La chiesa cattolica è presente in alcune commissioni. Costa d’Avorio l’incognita post elettorale La notizia dei risultati elettorali riguardanti il ballottaggio delle presidenziali ivoriane del 28 novembre definite «storiche», si è trasformata in uno scontro che fa temere il ritorno dell’instabilità governativa, che ha caratterizzato questi ultimi anni la Costa d’Avorio. I due candidati, il presidente Laurent Gbagbo e l’ex premier Alassane Quattara si trovano davanti un paese diviso, il nord controllato dai ribelli delle Forze nuove, vicini a Quattara, il sud dal governo di Gbaho. Gli ivoriani all’estero hanno votato Quattara, l’Onu lo ha riconosciuto vincitore, ma Gbagho ha tentato ed è riuscito a invertire la tendenza facendo dichiarare nullo il voto di otto regioni che avevano votato Quattara. Situazione molto grave, mentre Quattara, protetto dai caschi blu, giurava nell’Hotel du Golfe fuori Abidjan, il leader uscente Gbagbo si proclamava presidente nel palazzo presidenziale. Coprifuoco, scontri nelle strade si susseguono tuttora. ATTUALITÀ Kosovo Hashim Thaçi vincitore alle elezioni Haiti il colera, gli stregoni, il Nepal 2011 è l’anima del volontariato Alle elezioni del 12 dicembre, prime elezioni politiche del Kosovo indipendente, il partito democratico del primo ministro Hashim Thaçi si conferma nettamente vincitore, ma il paese è sempre sotto una «calma tesa», anormalità stabile sotto la supervisione internazionale. Ricordiamo che il Kosovo ha proclamato unilateralmente l’indipendenza il 17 febbraio 2008. E fino ad oggi è stato riconosciuto da 72 dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite. Tra questi, 22 Paesi dell’Ue. Per le prime legislative del dopo indipendenza dalla Serbia, la delegazione di osservatori del Parlamento europeo si è detta sostanzialmente soddisfatta, affermando che un paio di episodi in cui si sono registrate «gravi irregolarità» non possono mettere in discussione il risultato positivo. Ma la vittoria non facilita il dialogo con Belgrado, mentre sale al 12% il movimento che vuole collegarsi con Tirana. In un documento confidenziale reso noto dal quotidiano «Le Monde» del 6 dicembre, il medico francese Renaud Piarroux ha dichiarato che l’origine dell’ infezione colerica ad Haiti è un campo di caschi blu nepalesi della missione Onu situata a Mirebalais, regione del centro. Ha analizzato dal 7 al 22 novembre il vibrione sul territorio e non ha dubbi in merito alle conclusioni. I volontari di «Medici senza frontiere» hanno confermato l’analisi e dibattuto sull’opportunità di dire o no la verità alla popolazione per timore di rappresaglie. Si sono infatti verificate accuse di stregoneria a persone, associate a questa epidemia finora dalla violenza sconosciuta, e purtroppo 14 di esse sono state linciate. Il responsabile sanitario a Grand Anse, Duvelson Augello, confermando il bilancio di 2000 morti e di 90mila casi di contagio, non ha potuto nascondere la drammatica situazione. Non ci sono davvero parole adeguate per dirla. Demmo notizia sul numero scorso della rivista dei tagli al cinque per mille alle associazioni di volontariato da parte della Legge sulla stabilità dello Stato italiano (ex Finanziaria). Per la precisione, i fondi statali di carattere sociale (politiche della famiglia, pari opportunità, politiche giovanili, servizi infanzia, non autosufficienza, servizio civile...) nei bilanci di previsione in questi anni sono andati sempre più assottigliandosi. Da un totale dell’anno 2000 (in milioni di euro) di 2.526, 70 si è arrivati per il 2011 a prevederne 349,40. Colpito il Volontariato, al quale però il capo dello Stato Giorgio Napolitano non ha mancato – in occasione dell’anno internazionale del Volontariato – di far giungere un messaggio di «profondo apprezzamento» per il suo protagonismo attivo. «Il suo ruolo, scrive, è la linfa vitale della nostra convivenza civile. Va sostenuto anche garantendo le risorse necessarie». Milano alla Scala Valchiria e Costituzione ROCCA 1 GENNAIO 2011 Il 7 dicembre 2010, inaugurazione della stagione lirica alla Scala, passerà alla storia non solo per i 14 minuti di applausi alla Valchiria diretta dal maestro Daniel Barenboim (nella foto), ma per il messaggio che prima dell’inizio dell’opera il maestro ha rivolto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano presente in teatro, messaggio misurato e calibrato nei toni, ma forte nel suo significato simbolico. «Sono molto felice di dirigere ancora una volta alla Scala. Sono onorato di essere stato dichiarato maestro scaligero, ma a nome dei miei colleghi sono molto preoccupato per il futuro della cultura in Italia e in Europa». E aggiunge la lettura dell’art. 9 della nostra Costituzione che così recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Gli fa eco Umberto Veronesi per aver ricordato an la scienza. Stona l’assenza del ministro dei Beni Culturali. 7 ROCCA 1 GENNAIO 2011 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ Assisi Capitanucci poeta liberato dall’arte Eritrei incatenati nel deserto Scultore, pittore, poeta, Capitanucci vive, non certo per sua vocazione, una vita difficile, irta di problemi non solo, e non tanto, di concreta, quotidiana sopravvivenza, sa fondere, col sigillo di una memoria non turbata da risentimenti, nell’esercizio liberatorio dell’Arte. Col pennello, col bulino, col verso, esprime la sua sete di giustizia e di uguaglianza tra gli uomini; rincorre la bellezza come messaggera unica di serenità e di pace; dichiara la consapevolezza del suo destino di artista e l’ansia insopprimibile dell’Eterno che lo protegge e l’ispira. In un epigramma dedicato all’amico e protettore, senatore e console Sterminio Avito, Marziale esprime un giudizio valido per ogni opera d’inchiostro (Epigr. I, 16). Giudizio valido anche per l’intera poetica di Giuseppe Caputanucci. A dispetto di tutte le grammatiche normative, la sua parola poetica si sostanzia esclusivamente, e con mirabile costanza, di profonda e rara risonanza interiore, incapace, per indole, di offendere il buon gusto e il buon senso. Nel 1994, a conclusione di un contributo sulla sua opera poetica, scrivevo: «Nelle varie modulazioni della sua reinvenzione del reale, e nel suo stesso saperla vivere, egli aiuta ad affrontare la vita con coraggio, a non lasciarsi vincere. Così con la pittura, con la scultura, con la poesia, con l’Arte, Capitanucci si riappropria di quella dignità, di quel rispetto, soprattutto del refrigerio spirituale della pacificazione interiore, che la stoltezza di alcuni comportamenti di questa società ‘civile’ si era illusa di avergli negato». Giudizio che, a distanza di oltre un quindicennio, ritengo tuttora valido, perfettamente aderente agli esiti recenti delle sue opere artistiche, sempre sorprendenti, lievitate di quella suggestiva, calamitante semplicità che è il segreto di ognia utentica opera d’arte. «Siamo incatenati, in condizioni gravissime, da tre giorni non mangiamo. Salvateci». È l’appello lanciato alla Radio Vaticana da un ragazzo eritreo, uno dei 74 profughi da più di un mese nelle mani dei predoni nel deserto del Sinai, tra Egitto e Israele. Ha raccolto l’allarme Mussie Zerai, missionario eritreo in Italia, che dice dei connazionali: «Già da un mese vengono tenuti legati con le catene ai piedi come schiavi. Non hanno acqua per lavarsi, vengono picchiati e minacciati di morte se non pagano ottomila dollari ciascuno. I trafficanti d’uomini chiedono questo riscatto a testa per liberarli e per questo gli permettono di comunicare via telefono con l’esterno». Don Mussie ha parlato con i famigliari che hanno ricevuto telefonate disperate da un punto indefinito del monte Sinai, deserto egiziano attraversato da predoni. Sono profughi che forse avrebbero voluto arrivare in Europa attraverso la Libia. Forse facevano parte del gruppo dei 255 (tra loro anche donne incinte) che nell’estate del 2009 aveva cercato invano il passaggio via mare verso l’Italia. Approfittando di un’amnistia i 255 profughi escono dalla segregazione libica del campo di Al praq e si disperdono. Un gruppo di 80 paga ciascuno 2000 dollari ai passatori che promettono di farli arrivare al Sinai e di lì attraversare la frontiera con Israele. In realtà finiscono nelle mani dei trafficanti. Seguendo le sorti degli eritrei don Mussie scopre altri migranti finiti nel campo di detenzione fino a quando non sono in grado di pagare. Sarebbero seicento tra somali, etiopici e sudanesi. Sull’urgenza della situazione ha lanciato un appello il Papa mentre ripetiamo anche l’appello pressante della comunità di sant’Egidio al governo italiano e ai media, nell’inerzia del governo egiziano e nell’immobilismo della comunità internazionale. Pasquale Tuscano 8 L’Aquila un’inchiesta tra le macerie Un’inchiesta a tutto campo su quel che è successo nel dopo terremoto a L’Aquila è stata condotta da «Libera», l’associazione contro tutte le mafie fondata da don Ciotti. Una cinquantina di pagine firmate da Angelo Venti dal titolo «L’isola felice» rivelano i molteplici ‘buoni affari’ per la criminalità organizzata, denunciano gli interessi dei clan e delle cricche mafiose, nell’intrico del sottobosco della ricostruzione. Il dossier, distribuito a L’Aquila in 40mila copie, lo ha presentato don Ciotti, dicendo: «È un lavoro che abbiamo voluto tutti noi di Libera perché, oggi più che mai, abbiamo il dovere di rompere il silenzio». Un silenzio che dura da quella notte fra il 5 e il 6 aprile 2009 quando, a poche ore dalla tragedia, con i soccorsi «il rischio delle infiltrazioni non ha dovuto attendere l’inizio della ricostruzione, ma è arrivato nelle prime ore insieme con la Protezione Civile e con un appalto sul modello di gestione dei Grandi Eventi». E il dossier coraggioso continua con puntuale documentazione. notizie seminari & convegni Per la pubblicazione in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a: a.portoghese@ cittadella.org Novara. Nel corso di una solenne celebrazione, il 29 novembre il vescovo monsignor Renato Corti, parlando della pace ha evocato per contrasto «quel fiume di danaro che nel mondo si spende per armi e per guerre. La questione – ha sottolineato – riguarda anche l’Italia, che pure costruisce e vende armi. Da tempo suscita discussione la costruzione di un aereo da guerra (F35) che verrà assemblato sul nostro territorio e che farà spendere diversi milioni di euro... Desideriamo riaffermare come comunità cristiana la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione degli armamenti costruiti per la guerra». Parigi. Il premio annuale per la Pace di Pax Christi International 2010 è andato a monsignor Louis Sako, arcivescovo di Kirkut in Iraq. È uno dei più strenui difensori delle minoranze e dei sostenitori del pro- cesso di democratizzazione e di riconciliazione del Paese. La premiazione è avvenuta nella sede della Conferenza episcopale francese l’8 dicembre. Monsignor Saki ha sottolineato la «praticità» del messaggio cristiano e citato in siriano il canto egli angeli che recita: «pace agli uomini che sperano». Bruxelles. «La letteratura crea visioni per l’Europa di domani» Così il presidente Jerzy Buzek ha aperto la cerimonia del Premio del Libro europeo, che si è tenuta l’8 dicembre in un’affollatissima sala del Parlamento. I due vincitori sono stati il romanzo «Purga» della finlandese Sofi Oksanen, e il saggio dell’italiano Roberto Saviano «La bellezza e l’inferno». Buzek li ha definiti «testimoni della lotta per l’emancipazione che è parte integrante dell’identità europea». Perugia. La scuola quadriennale di Psicoterapia psicoana- litica esistenziale «Gaetano Benedetti» ha aperto i suoi corsi specialistici (sede didattica anche ad Assisi, Cittadella cristiana) con due fine-settimana al mese. Si rivolge a medici o psicologi abilitati. Informazioni: sito e-mail: [email protected] cell. 3939022836. Mantova. L’Editore Negretto bandisce, dal novembre al 15 aprile 2011, il premio «Odorisuonicolori. Ho un quadro per la testa», dedicato agli utilizzatori del kit per non vedenti e ipovedenti, messo a punto da Lidia Beduschi, per insegnare l’alfabeto dei colori. Il libro (che è un vero e proprio kit) è formato da 22 schede mobili collegati al sito «odorisuonicolori.it», dove è possibile ascoltare i suoni e le musiche corrispondenti a ciascuno dei colori-base. Informazioni: Andrea Sartori, Negretto Editore, via Bertani 33, 46100 Mantova, tel. 3405241726. 2-4 gennaio. Assisi (Pg). Stage «Ascoltare la vita. Decidersi a scegliere», due giornate di riflessione sui propri orientamenti di vita, in risposta alle domande fondamentali di oggi, per conoscere il Volontariato della Pro Civitate Christiana. Lo stage è rivolto ai Pre-Volontari e anche a celibi o giovani coppie che vogliano conoscere la vita e le attività dell’Associazione. Preghiera, riflessioni, confronti, testimonianze. Informazioni: Cittadella Stage, via Ancajani 3, 06081 Assisi tel. 075 812308, e-mail: [email protected]. 4 gennaio. Toscana. Avvio di corsi per rappresentanti di classe in teleconferenza, organizzati dall’Associazione Genitori Age Toscana. Ogni mercoledì dalle 18 alle 19 piccoli gruppi di genitori potranno imparare strategia e normative in diretta con la presidente dell’Age Rita Mangani Di Goro. Informazioni: [email protected], cell. 328 8424375. 22 gennaio. Aci Sant’Antonio (Ct). Nell’ambito degli incontri «Semplicemente amare... La sessualità umana» incontro sul tema: «Gesù, l’umanità esemplare». Relatore Carmelo Raspa, biblista. Sede: Casa del Giovane, via Umberto 72, Aci Sant’Antonio, ore 18-21, tel. 095 7891 350. 4-6 febbraio. Ravenna. Convegno di Biblia, associazione laica di cultura biblica, sul tema «Li disseminò sulla faccia della terra» (Genesi 11,8): «Incontro o scontro di culture?». Relatori: rav. Luciano Caro, Paolo De Benedetti, Stefano Levi della Torre, Luca Mazzinghi, Massimo Bubboli, Piero Stefani, Giancarla Codrignani, Mauro Perani, Nuria Calduch Beneges, moderatore Gioacchino Pistone. Visite alla città. Ravenna, Sala Cavalcali, Camera Commercio, viale Farini 14. Informazioni: Biblia, Via A. da Settimello 129, 50040 Settimello (Fi). 14 febbraio. Bari. Per il ciclo degli incontri interreligiosi, Simona Dobrescu, ortodossa rumena, e Bernard Keltz, ebreo, interverranno sul tema: «Interazione tra le varie comunità etniche: difficoltà e speranze». Sede: ore 20.00, Aula magna Chiesa san Marcello, largo Franco Ricci, tel. 080 5575519-340 8429649 (don Gianni De Robertis). 21-23 febbraio. Roma. 52° Convegno liturgico-pastorale sul sacramento della Riconciliazione «Convertitevi e credete al Vangelo». Relatori: Antonio Donghi, Luca Benedini, Bruno Maggioni, Pietro Sorci, Ernesto Preziosi, Felice Di Molfetta. Dibattiti e Tavola rotonda con Barbara Pandolfi, Antonella Perugini, Athos Righi. Sede: Casa «Tra noi» via Monte del Gallo 113, Roma, tel. 06 39387355. 14-18 febbraio. Varazze (Sv). Esercizi spirituali guidati dal Vescovo di Asti mons. Francesco Ravinale sul tema: «Salvi nella speranza». Casa di ospitalità Fatebenefratelli, Via Genova 11, Varazze, tel. 019 93511. E-mail: r e p o r t @ n e w s l e t t e r. m d c comunicazione.net. 18-20 febbraio. Assisi (Pg). «La dimensione interiore della corporeità» è il tema del 7° Seminario di Arteterapia articolato in lezioni e laboratori, questi ultimi condotti dagli esperti arteterapeuti Paola Luzzatto, Tiziana Luciani, Rosella De Leonibus, Carlo Coppelli, Luigi Bovo, Lucia Russo, Lorella Natalizi, Loredana Alcino, Simone Donnari, Maurizio Peciccia. Il seminario è rivolto a docenti e allievi di ogni ordine di scuola, Accademie, Facoltà universitarie, Operatori sociali e sanitari, Psicologi, Psichiatri, Sociologi, Educatori. Possibilità di terapia amniotica a Ponte Felcino (Pg). Riconoscimento della Regione Umbria e del Miur. Informazioni: Cittadella cristiana, via Ancajani 3 - 06081 Assisi, tel. 075 812308, 813231, email: [email protected]; [email protected]. ROCCA 1 GENNAIO 2011 ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Il gene che fa ringiovanire notizie dalla scienza I danni dell’invecchiamento non sono irreversibili: riattivando un enzima deficitario, si possono far regredire. Questo perlomeno in topi privi dell’enzima stesso, e perciò geneticamente predisposti a un invecchiamento prematuro. Lo mostra uno studio su «Nature». L’enzima è la telomerasi, scoperta una ventina d’anni fa e considerata come una fontana di giovinezza, perché ripara le estremità dei cromosomi – i telomeri – che con l’età si consumano portando alla morte della cellula. Nelle cellule che non muoiono ma continuano a replicarsi indefinitamente, come le staminali, la telomerasi mantiene stabile la lunghezza dei telomeri, mentre le sue mutazioni causano malattie rare caratterizzate da invecchiamento prematuro. Studi più approfonditi tuttavia hanno mostrato che il nesso tra telomerasi e senescenza è più sfumato, e che la sua sovrattivazione contribuisce spesso a rendere cancerosa una cellula. Un team guidato da Ronald DePinho, di Harvard, ha reintrodotto l’enzima in topi che ne sono privi, e perciò invecchiano precocemente con gravi danni agli organi, e sono quasi sterili. L’enzima era attivabile a comando somministrando un composto chimico. I topi sono quindi cresciuti in sua assenza, sviluppando i consueti danni. Quando l’enzima è stato attivato, molti danni sono regrediti in misura così drastica da stupire i ricercatori: milza, fegato, intestino, testicoli, cervello sono tornati quasi normali, e si è ripristinata la fertilità. In linea di principio, secondo DePinho, ciò prova che l’invecchiamento è reversibile, e farmaci mirati ai meccanismi biologici che lo promuovono potrebbero farlo regredire. Restano però molti dubbi: se il risultato valga per organismi normali, non predisposti all’invecchiamento anomalo; come gestire, nel caso, i rischi di cancro dati da una telomerasi più attiva; e quanto pesi davvero la telomerasi tra i tanti meccanismi biologici che contribuiscono all’invecchiamento. ROCCA 1 GENNAIO 2011 L’albero della plastica Giovanni Sabato 10 Plastiche di ogni genere ricavate in modo rinnovabile dalle piante, anziché dal petrolio. È quanto promette la ricerca pubblicata su «Plant Physiology» da ricercatori del Dipartimento dell’energia statunitense a Brookhaven e dalla società Dow Agrosciences, guidati da John Shanklin. Le piante producono normalmente le molecole, dette acidi grassi, che assemblate fra loro formano gli olii vegetali. Alcuni acidi grassi «insoliti» prodotti da particolari piante, detti omega 7, sarebbero adatti come materia prima per la produzione di plastiche. Ma le piante che nei loro semi producono questi acidi sono disagevoli da coltivare e ne accumulano troppo pochi per l’uso commerciale. Perciò Shanklin ha trasferito i geni necessari a produrre gli omega 7 in specie più adatte all’uso agricolo. Gli acidi grassi prodotti restavano però ancora troppo pochi. Shanklin, sfruttando le approfondite conoscenze del metabolismo vegetale accumulatesi negli ultimi decenni, ha allora iniziato a manipolare il metabolismo delle piante, lavorando in una specie-modello usata di norma per esperimenti di questo tipo, Arabidopsis. Dapprima ha modificato l’enzima che produce gli omega 7, ottenendo una versione più efficiente di quella naturale che ha aumentato le rese dal 2% del contenuto del seme al 14%. Poiché non bastava ancora, ha modificato anche altre vie metaboliche, per esempio riducendo le quantità di un altro enzima, che consuma il precursore degli omega 7 per sintetizzare altre sostanze. Così, a furia di prove, è arrivato a un rendimento del 71%. L’Arabidopsis modificata non risente delle manipolazioni e cresce come la controparte naturale. Resta ora da trasferire il sistema in colture di uso agricolo, e realizzare processi industriali più efficienti per ricavare la plastica dagli omega 7, ma la prova di principio intanto è riuscita, e indica una via generale che si potrà applicare alla sintesi vegetale di altri precursori industriali. Luce solare e carattere La stagione in cui si nasce influenza drasticamente l’orologio biologico interno che controlla i ritmi veglia-sonno e molti altri ritmi circadiani. Lo mostra uno studio sui topi pubblicato su «Nature Neuroscience» da Douglas McMahon della Vanderbilt University. I topi cresciuti fino allo svezzamento con un ciclo estivo di 16 ore di luce e 8 di buio, e poi mantenuti allo stesso ciclo o passati a quello opposto invernale, mostravano un bioritmo con 10 ore di attività, a partire dal crepuscolo, e 14 di riposo. Il bioritmo dunque non era influenzato dalla luce successiva allo svezzamento. Per i topi cresciuti sotto un ciclo luminoso invernale, viceversa, il bioritmo dipendeva dalla luce successiva: chi restava sotto un ciclo invernale si comportava allo stesso modo dei consimili «estivi», mentre chi passava a un ciclo estivo restava attivo un’ora e mezzo in più. L’esame dei neuroni che controllano i bioritmi mostrava cicli di attivazione e spegnimento analoghi a quelli osservati nei comportamenti. Poiché questi topi sono più sensibili al variare delle ore di luce, e i ritmi circadiani hanno un profondo effetto anche sull’umore, McMahon ipotizza che ciò spieghi la maggiore suscettibilità di chi nasce in inverno a vari disturbi psicologici, inclusa la depressione stagionale. il meglio della quindicina vignette ATTUALITÀ da LA REPUBBLICA, 2 dicembre da L’UNITÀ, 3 dicembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 dicembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 10 dicembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 11 dicembre da LA REPUBBLICA, 15 dicembre da IL CORRIERE DELLA SERA, 16 dicembre ROCCA 1 GENNAIO 2011 da IL CORRIERE DELLA SERA, 1 dicembre 11 ROCCA 1 GENNAIO 2011 incontri e convegni CITTADELLA 2011 GENNAIO 14 – 16 Forum delle Associazioni Familiari (osp.) FEBBRAIO 18 – 20 7° Seminario di Arteterapia MARZO 05 – 09 Centro Pastorale Accoglienza S. Luigi di Francia (osp.) APRILE 01 – 03 21 – 25 25 - 30 Convegno Nazionale della Federazione Italiana di Yoga (osp.) Pasqua in Cittadella Giornate di spiritualità Giovani della Diocesi di Rouen (osp.) MAGGIO 06 – 08 13 – 15 20 – 22 26 – 29 9° Corso Terza Età 19° Congr. Spiritualità Antropologica ed Ecologia Sociale (osp.) Congr. Internaz. della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (osp.) Convegno Nazionale Società Teosofica Italiana (osp.) GIUGNO 02 – 05 10 – 12 25 – 28 33° Seminario Coppia 10° Convegno dell’Associazione Culturale «Pietro Ubaldi» (osp.) 11° Seminario «Bibbia e Psicologia» LUGLIO 9 – 23 Corso Quadriennale di Musicoterapia AGOSTO 13 – 16 17 – 19 20 – 25 35° Seminario «Bibbia e Spiritualità» 25° Seminario «Lettere di San Paolo» 69° Corso Internazionale di Studi Cristiani SETTEMBRE 02 – 04 19° Incontro Biblico con padre Alberto Maggi OTTOBRE 07 – 09 13 – 16 Incontro amici della Banca d’Italia (osp.) Conv. Nazionale della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (osp.) NOVEMBRE 07 – 11 24 – 26 Esercizi spirituali per presbiteri, diaconi, suore e laici 51° Seminario di Filosofia in collaborazione con Università di PG DICEMBRE 23 – 26 29 – 31 31 – 1° gen./2012 Natale in Amicizia 2° Generazioni in Dialogo Incontro al Nuovo Anno: giornata di confronto e preghiera informazioni iscrizioni soggiorno Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg e-mail: [email protected]; [email protected] tel. 075/812308; 075/813231; fax 075/812445; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org 12 RESISTENZA E PACE Raniero La Valle dolori non finiscono mai, così Berlusconi è ancora lì col suo governo, dopo la «due giorni» parlamentare giunta talmente in ritardo, dopo un mese dalla presentazione della mozione di sfiducia, e di favori fatti al presidente del Consiglio, da ribaltare il previsto risultato del voto. Quello che è avvenuto tra il 13 e il 14 dicembre in Parlamento dimostra che ormai il problema della salvezza della nostra Repubblica non è riducibile al superamento di Berlusconi, ma è legato al superamento del berlusconismo; la corruzione delle persone e delle idee infatti è scesa per i rami, e dai vertici del potere attraversando il Parlamento si diffonde nel Paese penetrando, in cerca di legittimazione, nel senso comune. Lo sfondo è uno sfondo di violenza, che a Roma è venuta alla superficie nella guerriglia urbana provocata dai black bloc in coincidenza con il voto parlamentare. Ma almeno due volte gli attori principali della scena politica hanno sprigionato una violenza non meno pericolosa di quella dei black bloc. La prima si annidava nel discorso antiparlamentare del presidente del Consiglio, laddove egli sosteneva che un capo del governo eletto dal popolo non può che essere rimosso dal popolo: «se un governo non ha bene operato e deve lasciare», deve essere il popolo infatti a deciderlo (a tempo debito, con le elezioni), mentre non avrebbero questa facoltà i Parlamenti che sono chiamati a «interpretare e rappresentare» la volontà popolare (espressasi nella nomina del capo del governo), non a «sostituirvisi»; il che vuol dire che per cinque anni il governo dovrebbe essere immune da qualsiasi interferenza parlamentare, con la conseguenza che la protesta contro un governo che «non opera bene» e che perciò dovrebbe «lasciare», non potrebbe manifestarsi che attraverso gli operai che salgono sulle gru, i disoccupati che salgono sui tetti, gli studenti che occupano aeroporti e ferrovie, e black bloc che spaccano tutto. In tal modo l’insindacabilità e imperturbabilità dei governi sarebbe pagata con la collera e la violenza sociale. La seconda violenza si è avuta quando, dopo l’esito favorevole del voto, la gioia incontenibile dei deputati della maggioranza si è manifestata con lo sventolio dei tricolori, che hanno pavesato di bianco rosso e verde metà dell’aula di Montecitorio. Qui la violenza sta- I va nell’interpretare la propria vittoria come una vittoria dell’Italia, come se l’altra non fosse Italia, e anzi nel presentare la propria parte come l’unica qualificata a dirsi italiana. Ciò voleva dire mettere fuori l’altra metà (e anzi più) dell’Italia, radiarla dalla comunità nazionale, considerarla indegna di appartenervi; che se poi quest’altra Italia dovesse governare sarebbe, come aveva detto il premier, un «orrore». Dunque la spaccatura radicale e violenta che questa politica infligge alla società italiana è di dividerla tra un’Italia che fa meraviglie e un’Italia che fa orrore. E come possono stare insieme sullo stesso territorio? A questo punto è meglio che, al più presto, si vada alle elezioni, pensando però alla prossima legislatura non come la ripetizione e lo sviluppo dei mali passati, ma come una legislatura ricostruttiva e ricostituente, in cui si ricomponga l’unità del Paese, si ripristini l’idea del bene comune, si ristabilisca la stima fra le parti contrapposte e si facciano quelle riforme che possano dare uno sbocco efficace e mite alla ormai troppo lunga transizione italiana. Per avere una legislatura così, non ci si può arrivare né con la riduzione della battaglia a due soli contendenti né con quella forzatura rappresentata dal premio di maggioranza previsto dalla legge Calderoli. Senonché la stessa legge Calderoli prevede e permette che un adeguato collegamento tecnico-istituzionale tra forze politiche diverse produca un risultato elettorale tale che vada al di là di quello per il quale è destinato a scattare il premio di maggioranza. In tal caso non si avrebbe alcuna manipolazione del voto in sede di attribuzione dei seggi, i quali sarebbero distribuiti tra tutti i partiti, dell’uno e dell’altro schieramento, secondo la reale forza di ciascuno in modo proporzionale. Ciò permetterebbe un momento di tregua nella durezza della contrapposizione politica, e la formazione di un Parlamento più capace di dialogo e più sereno, sia per fare una nuova legge elettorale, sia per decidere con più vasti e articolati consensi la strada che deve prendere il Paese. Quanto al governo esso sarebbe formato dalle forze che abbiano ricevuto i maggiori consensi, che siano più affini tra loro e abbiano la maggiore capacità di aggregazione. È questa la proposta che i Comitati Dossetti per la Costituzione faranno a tutti i partiti in un convegno che si terrà a Bologna il 28 gennaio prossimo. ❑ 13 ROCCA 1 GENNAIO 2011 una legislatura di tregua AFGHANISTAN pochi passi e tante verità occultate Maurizio Salvi rmai è deciso: la crisi in Afghanistan non è risolvibile con le maniere forti, per cui da quest’anno, e fino alla fine del 2014, la Coalizione internazionale denominata Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) eseguirà un elegante dietrofront cominciando a ritirare il contingente militare multinazionale, che nell’ultima fase ha raggiunto quasi 150.000 uomini. E lo farà affidando gradualmente lo sforzo di contrasto dell’opposizione armata interna (soprattutto talebani) ad esercito e polizia afghani che, ovviamente, «saranno opportunamente addestrati». I governi occidentali e gli alti vertici della Nato, hanno comunque ripetutamente assicurato che «non si tratta di una fuga» e che, anche dopo la data fissata lo scorso novembre al Vertice di Lisbona per la fase di trasferimento delle responsabilità, l’Alleanza atlantica manterrà un presidio militare per tutelare sia la stabilità del governo del presidente Hamid Karzai, sia gli importanti interessi strategici occidentali in un paese che è crocevia di vitali flussi economici ed energetici fra Asia ed Europa. O il viaggio lampo di Obama ROCCA 1 GENNAIO 2011 Nonostante che l’Operazione Enduring Freedom sia entrata ormai nel suo decimo anno, si deve notare che i progressi sul terreno non sono stati commisurati alle risorse impiegate. E dopo 2.250 soldati stranieri morti (al 7 dicembre 2010), la realtà è che ben poche zone dell’Afghanistan sono veramente sicure e praticabili. L’ultimo incredibile esempio? Il viaggio lampo realizzato dal presidente americano Barack Obama all’inizio di dicembre con l’obiettivo di discutere a quattr’occhi con Karzai sugli strascichi della pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti segreti della diplomazia Usa. Arrivato nella base militare di Bagram dopo 13 ore di volo con l’Air Force One, Obama avrebbe dovuto prendere un elicottero per coprire i 50 chilometri che lo dividevano da Kabul. Ma non lo ha potuto fare. Ragione? I forti venti che avrebbero reso precaria la 14 stabilità del velivolo. Allora i collaboratori del capo della Casa Bianca hanno pensato di affidare il confronto fra i due statisti ad una videoconferenza che, però, non è stato possibile realizzare per «motivi tecnici». A questo punto Obama ha preso il telefono ed ha chiamato il suo interlocutore, come avrebbe potuto però fare da casa sua. Poi, dopo un saluto alle truppe a cui ha assicurato che «stiamo vincendo», ed una permanenza di appena quattro ore nel paese, è risalito sul suo aereo per rientrare a Washington. Anche questo è l’Afghanistan quindi, dopo la decennale cura internazionale. l’unica opzione il negoziato? Ora discretamente, ma di fatto come unica opzione rimasta, la crisi è entrata nella fase del negoziato. E non solo Karzai, ma anche i vertici militari della Nato hanno manifestato volontà (gli uni) e disponibilità (gli altri) ad aprire un processo di pace, riconciliazione e reintegrazione con «quegli oppositori che accetteranno la Costituzione afghana e abbandoneranno le armi». Ma esiste già davvero questo negoziato? Vi sono interlocutori credibili fra i talebani e fra gli altri gruppi clandestini (Gulbuddin Hekmatyar e Rete Haqqani)? È possibile che una trattativa possa andare felicemente in porto con la presenza militare straniera sul suolo afghano? O senza un serio impegno da parte dei paesi della regione? Ognuno di questi interrogativi rappresenta allo stadio attuale della crisi, una autentica classica «domanda da un milione» per la quale la risposta non può che essere complessa ed articolata. Per poter comunque cercare di avvicinarci ad essa dobbiamo prendere atto di alcune verità che spesso sono state volutamente occultate. L’Afghanistan è un paese dalla profonda tradizione islamica, alieno alla cultura occidentale, con leggi e comportamenti che non hanno mai avuto agganci con la tradizione democratica che ha pervaso i paesi europei e gli Stati Uniti. L’amministrazione della giustizia è ancora ampiamente influenzata dal Corano e a livello locale è imprescindibile immaginare Karzai convitato di pietra Valutando le prospettive di un possibile negoziato fra il governo afghano e i talebani, si deve tenere presente che la figura di Karzai è imprescindibile, anche se i giudizi su di lui, come hanno dimostrato i documenti pubblicati da Wikileaks, sono praticamente quasi solo negativi. Ma ormai tutti si sono convinti allo stesso tempo che in questi anni non è emerso nessuna alternativa seria di leader politico che possa prenderne il posto. E nemmeno potrebbe farlo l’ex ministro degli Esteri ed ex candidato presidenziale Abdullah Abdullah, che ha una fetta importante di consensi ma è profondamente inviso ai talebani che non possono essere assolutamente ignorati nello sforzo di raggiungere un compromesso politico. Ma c’è margine per tale compromesso? Sono già cominciati i negoziati (diretti o indiretti) con gli insorti? Data la complessità del problema e l’ambiguità di molti dei personaggi che ne fanno parte, una risposta certa non è possibile. Incontri, riunioni, perfino seminari, per trattare la questione con personaggi di seconda e terza fila talebani e non, vi sono sicuramente stati negli ultimi tre anni. Da quando cioè è emersa lentamente la convinzione che non c’era soluzione unicamente militare alla crisi afghana. Un’accelerazione c’è stata quest’anno, poi, con la riunione a Kabul di una Jirga (Assemblea) di pace afghana e dalla successiva costituzione di un Alto Consiglio per la pace di 70 mem- bri, incaricato formalmente di individuare la strada che possa portare ad un tavolo delle trattative. A questo attivismo del governo di Karzai appoggiato dalla comunità internazionale una risposta c’è stata, ma è di difficile lettura. Da una parte l’Emirato islamico dell’Afghanistan – questo il nome che attribuiscono al paese i talebani – ha liquidato le avances, sostenendo che nessun negoziato «è possibile con il governo ‘fantoccio’ fino a quando gli ‘invasori’ avranno truppe nel paese». Come dire, nessuna trattattiva nell’immediato. Ma proprio così non deve essere se è vero, come è vero, che il «numero due» dei talebani, il Mullah Abdul Ghani Baradar, è stato arrestato all’inizio di quest’anno a Quetta, in Pakistan, mentre per ammissione generale esplorava una possibile soluzione politica alla crisi. Gli analisti hanno visto dietro all’inatteso stop la mano del Pakistan, che non vuole essere scavalcato sulle vicende afghane, e dell’ala dura del governo e delle Forze armate americane, per la quale il dialogo deve materializzarsi solo con i talebani del Mullah Omar debilitati. Ma con il passare dei mesi, e delle difficoltà economiche e finanziarie dell’Occidente, le fila dei trattativisti si sono infoltite e di esse sono entrati a far parte molti paesi dell’Isaf che vogliono riportare i loro uomini a casa, senza ovviamente dare troppo nell’occhio. Sarà dunque per questo che quando all’inizio del 2010 è entrato in scena un «autorevole» membro dei talebani «disposto a verificare gli spazi ed il contenuto del progetto di riconciliazione e reintegrazione del governo», molti si sono sfregati le mani di soddisfazione. Prima nel più completo riserbo, poi con nome e cognome (Mullah Akhtar Muhammad Mansour) «l’inviato» nel corso delle settimane è stato trattato con il massimo rispetto. Lo si è trasportato su elicotteri britannici, finanziato con svariate decine di migliaia di dollari, portato perfino al cospetto del comandante delle forze internazionali, generale David Petraeus e, pare, dello stesso Karzai. il bidone Tutto bene, si dirà. Fino a quando si è scoperto che il vero mestiere dell’autorevole religioso era quello di droghiere a Quetta, la città pachistana al confine con l’Afghanistan. È difficile poter credere che sofisticati servizi segreti, fra cui il blasonatissimo M16 britannico, possano essere caduti o aver accreditato una simile storia, rivelatasi poi un «bidone». Ma così è stato e questo lascia capire che sul piano della soluzione di pace per l’Afghanistan, le parole sono molte, ma la carne al fuoco è pochissima. Per cui per vedere frutti maturare sull’albero ci vorrà sicuramente molto altro tempo. ROCCA 1 GENNAIO 2011 decisioni riguardanti la vita quotidiana che possano essere prese a prescindere dai Consigli degli anziani e dalle autorità tribali. È anche un fatto che nelle zone rurali sono ancora in vigore molte delle leggi imposte sotto il governo dei talebani (1996-2001). Nel decennio appena trascorso una profonda riforma del sistema giudiziario è stata avviata (anche con l’aiuto dell’Italia), ma si tratta di un processo lungo che richiederà ancora molto tempo. Insomma l’esistenza di un Afghanistan «democratico» come lo immaginiamo noi è per il momento un mero auspicio e onestamente non sappiamo se una tale condizione sarà mai raggiunta. Questo aiuta anche a capire il fallimento delle elezioni presidenziali e legislative degli ultimi due anni, macchiate da brogli colossali e da scarsa affluenza alle urne dovuta a disinteresse, o alle minacce dei talebani. E a comprendere perché alla fine il potere del presidente Karzai non si basi tanto sull’autorità che gli proviene dall’aver vinto le elezioni, ma dalla capacità di gestire il potere attraverso il compromesso con i vari gruppi etnici e con gli ex comandanti della vecchia Alleanza del Nord del defunto Ahmad Shah Massoud e, come quotidianamente ha ricordato la stampa, da tanta, tanta corruzione. Maurizio Salvi 15 PROTESTA STUDENTI contro il taglio del futuro ROCCA 1 GENNAIO 2011 Ritanna Armeni eriodicamente gli studenti pongono delle domande. Scendono in piazza, protestano, manifestano, chiedono di essere ascoltati. Questa volta è avvenuto pressoché simultaneamente in Italia in Francia e in Gran Bretagna. In Italia contro la riforma Gelmini e la politica dei tagli all’istruzione del governo Berlusconi, in Francia contro la riforma delle pensioni voluta dal governo Sarkozy, in Inghilterra contro l’aumento spropositato delle tasse che di fatto impedirà ai meno abbienti di accedere agli studi universitari. Si tratta di movimenti impetuosi, spesso fortemente politicizzati, che usano forme di lotta creative e radicali. Spesso – negli anni scorsi è accaduto – vengono sopportati e tollerati in attesa che, come le malattie esantematiche, passino. Questa volta sono stati più fortunati: hanno avuto l’appoggio delle forze di opposizione impegnate nella lotta contro le politiche del governo di quei paesi. E qualche comprensione anche da un’opinione pubblica non più convinta che le cose vadano per il verso giusto. P ma che cosa davvero vogliono? Ma torniamo a loro, agli studenti e poniamoci a nostra volta qualche domanda. Che 16 cosa davvero vogliono? Che cosa esprimono? E poi il quesito più importante: ci troviamo di fronte ad un movimento che vuole cambiare ed è in grado di cambiare la scuola e l’università? Naturalmente quando diciamo «in grado» non pensiamo che lo debbano fare da soli e domani. Ma ci chiediamo se abbiano idee, proposte e forza politica per smuovere qualcosa di più profondo che riguarda loro stessi, la condizione dei giovani nella società e, di conseguenza, la società nel suo complesso. Intanto diciamo subito che la riforma delle pensioni in Francia, l’aumento delle tasse universitarie in Gran Bretagna e la riforma Gelmini in Italia costituiscono sicuramente la spinta alla protesta, l’occasione più evidente ma non la ragione più profonda. Del resto questa è stata sempre una caratteristica del movimento degli studenti. Anche nel mitico 68 si scese in piazza contro la riforma Gui, ma la maggior parte degli studenti imparò solo strada facendo di che cosa si trattava. La sua adesione alle manifestazioni e alle assemblee avvenne su qualcosa di più forte e non detto: la lotta contro una società italiana classista e autoritaria. Insomma per una utiopia di libertà e di giustizia in un paese che era in pieno e impetuoso sviluppo, che puntava alla piena occupazione e all’aumento dei consumi. Fu una lotta vincente disagio malessere infelicità Ma la protesta è un fenomeno necessariamente confuso. Può esprimere malessere, disagio, infelicità. Oppure difficoltà e conseguente decisione a superarla. O, ancora, la necessità di un mondo migliore e diverso che superi quello attuale. Può, in- somma, contenere un’utopia e – perché no – un sogno. E può esprimere in un mix diverso tutte queste cose insieme. Credo che l’attuale movimento esprima essenzialmente malessere, disagio e infelicità. Che non abbia chiaro fino in fondo il genere di difficoltà che ha di fronte. E che abbia scarse idee – il sogno, l’utopia – sul mondo che vorrebbe. A scanso di equivoci è bene chiarire che ritengo l’espressione di disagio e di malessere e di infelicità un fatto importante. E che ritengo altrettanto importante che questo avvenga in modo collettivo. Non solo. Sono convinta che qualunque classe dirigente al governo e all’opposizione di quel malessere e di quella infelicità dovrebbe tenere massimamente conto. Ma che questa non basta, per quanto si diffonda e per quanto possa essere radicale, a restituire a quei giovani il futuro che è stato loro tolto. Per restituire un futuro occorre innanzitutto che si abbia qualche idea su ciò che vorremmo che fosse. E poi andare alle radici del motivo per cui questo futuro è stato così drammaticamente e così drasticamente cancellato. ROCCA 1 GENNAIO 2011 perché l’antiautoritarismo, cioè l’istanza di libertà, produsse velocemente una trasformazione dei costumi, nella famiglia, nella sessualità, nei rapporti fra le persone. E la lotta contro la scuola di classe, cioè l’istanza egualitaria e di giustizia, consentì quel rapporto fecondo con il movimento operaio che produsse un prolungamento del 68 italiano fino metà degli anni 70 e che si tradusse in riforme importanti e radicali ancora oggi fastidiose per i sostenitori del mercato, della inutilità di ogni solidarietà sociale e di un intervento dello Stato Anche gli studenti che oggi scendono in piazza, come quelli di 40 anni fa, non apprezzano questo sistema sociale. Non lo apprezzano perché è loro chiaro – le misure dei governi o le cosiddette riforme ne sono la dimostrazione – che taglia il loro futuro. Non è che lo peggiori o lo renda più difficile. Impedisce la loro formazione o la rende carissima e quindi lo cancella. Di qui la protesta. quale futuro? Ora è chiaro che sul futuro non c’è prati17 PROTESTA STUDENTI camente nessuna idea. Non c’è per dirla in parole povere nessuna idea su quale scuola e università si vorrebbe per costruirlo e garantirlo. E non per responsabilità dei giovani che scendono in piazza, ma per una responsabilità più diffusa e collettiva che investe coloro che vogliono cambiare lo stato di cose esistente, la sinistra e chi in questi anni si è trovato all’opposizione dei governi di destra in Europa. Un esempio per tutti. Ed Miliband, rosso avversario del governo Cameron, ha appoggiato ovviamente la rivolta degli studenti, ha definito Cameron e Clegg «vandali culturali» ma alla proposta governativa di triplicare le tasse universitarie ha controproposto un graduale aumento di alcune centinaia di sterline l’anno. In sostanza la stessa ricetta solo ammorbidita. E con essa la riconferma che il futuro non può che essere quello che prevede un’istruzione selettiva e di classe. E in Italia? Gli esponenti dell’opposizione salgono sul tetti con gli studenti in lotta, mostrano solidarietà, ma quale idea di futuro offrono loro? Quale scuola e quale università vorrebbero? Su quali contenuti vorrebbero si formassero le giovani generazioni? Non si può sfuggire alla sensazione di un appoggio strumentale alla sempre più aspra battaglia per cacciare via il governo Berlusconi. Anch’essa ovviamente legittima e giusta, ma con quali proposte per il dopo? le conseguenze della politica rigorista ROCCA 1 GENNAIO 2011 Il punto è – e dovrebbe essere chiaro a tutti – che quel che si sta profilando per le giovani generazioni e non solo per l’università, ma per il lavoro, per il loro domani familiare, per i loro equilibri affettivi e sentimentali (perché tutto si tiene e i discorsi economi cistici lasciano il tempo che trovano) non è che la conseguenza estrema delle politiche rigoriste adottate dalla maggior parte dei governi con la spinta convinta della Commissione europea. E queste politiche rigoriste sono, a loro volta, l’unica risposta che i governi di destra sono in grado di dare alla crisi economica globale. Alla mancanza di risorse si risponde con i tagli e questi si rivolgono soprattutto ai più deboli e svantaggiati. In questa logica, nella logica del rigore per salvare il sistema, la risposta non può essere che quella che vediamo. Tant’è ch essa è uguale anche dove come in Spagna c’è un governo di sinistra che persegue la stessa linea del rigore e dei tagli. Per darne una diversa occorre uscirne e rovesciarla. 18 Non basta dire, per rimanere alla scuola e all’università, «state cancellando il futuro dei giovani» impedendo loro l’accesso all’istruzione, condannandoli al precariato e, quindi chiedere che i vecchi equilibri rimangano tali, l’università continui a sfornare disoccupati e che, al massimo, qualche risorsa in più venga convogliata verso l’istruzione per rendere meno traumatica una situazione oggettiva e necessaria. Occorre criticare il modello di istruzione che è compatibile col modello economico proposto e che, quindi, di fronte alla mancanza di risorse va semplicemente tagliato o reso ancora più selettivo. Ora, sbaglierò, ma non ho sentito alcuna critica nel merito, a quello che si studia e al modo in cui si studia. Non ho sentito da nessuna parte le osservazioni che, ad esempio, Martha Nussbaum, filosofa statunitense e docente di Legge ed etica all’Università di Chicago fa nel suo libro Not for profit. Why democracy needs the humanities. Già il titolo parla chiaro. La filosofa americana mette in guardia contro i test e gli esami, i metodi di studio che nella maggior parte dei paesi democratici stanno preparando, a suo parere, una generazione mentalmente chiusa e non in grado di affrontare i problemi del suo tempo. Secondo la Nussbaum oggi c’è in questi paesi «un piano preciso» che tende a trascurare le scienze umane perché in nome del profitto economico punta sull’accumulo delle capacità piuttosto che sulla cultura. Non è detto che abbia ragione. Ma è certo che questo è l’ambito, il livello in cui muoversi. In cui fare proposte alternative per uscire dalla mancanza di futuro a cui sembrano condannati i giovani. Se non ci si pone in questo orizzonte la protesta non potrà che essere segnale di disagio e di malessere, ma non sarà mai in grado di minare i pilastri di un sistema che invece, proprio perché in crisi, proprio perché incapace di proporre sviluppo e crescita, colpisce duramente. Naturalmente una discussione a questo livello non spetta agli studenti. E quindi una risposta non può venire solo da loro. Il problema oggi è quello di riprendere una ricerca culturale che sia capace di andare oltre gli orizzonti e le ricette fin qui proposto dall’establishment economico europeo. La solidarietà con loro non può esprimersi solo in un assenso acritico alle loro lotte, ma in una ricerca comune che tenga conto della loro protesta, ma non si fermi a essa. Ritanna Armeni OLTRE LA CRONACA Romolo Menighetti dello stesso Autore LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa pp. 112 - € 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca € 10,00 anziché € 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] U n anticipo della valle di Giosafat, il luogo nel quale alla fine dei tempi saremo convocati per sentirci elencare da Domineddio tutte le nostre magagne nascoste, l’ha in parte prefigurato l’australiano Julian Assange, direttore del sito Wikileaks (wiki in lingua hawaiana significa rapido, e leaks in inglese significa falla, crepa, fuga di notizie). Egli, infatti, ha messo in rete notizie riservate di fonte statunitense che hanno fatto luce su politiche, misfatti, crimini che dovevano restare segreti, custoditi nelle stanze più riparate delle ambasciate e delle cancellerie, inaccessibili all’opinione pubblica mondiale. Ora, che Assange abbia fatto centro lo dimostra il panico che ha determinato nelle diplomazie Usa, europee e mediorientali, al punto che è stato accusato in Svezia di crimini improbabili e di terrorismo. A noi qui non interessano i contenuti delle notizie (ma mi viene in mente Andrey Sinjavskij: «Quando sarà svelato ogni mistero, bella figura faremo», da Pensieri improvvisi). Mi preme invece considerare gli effetti nei rapporti tra gli Stati e tra i vari centri di potere quando il sistema informativo viene a trovarsi senza copertura, a causa di informazioni offerte alla portata di tutti. Intanto va in frantumi l’immagine romantica e felpata della diplomazia intesa come «l’arte patriottica di mentire per il bene del proprio paese». La diplomazia non potrà più fare affidamento sul segreto, e su di esso non potrà più fondare la raccolta di notizie e le scelte strategiche. Tutto ciò, però, a mio parere non è male in quanto – volenti o nolenti – spinge i governanti a stabilire rapporti più trasparenti, e a far convergere quel che dicono ufficialmente con quel che pensano. Si va verso l’evangelico: sia il vostro linguaggio sì o no. Il che non è poco. Insomma, Wikileaks ha aperto una pagina di grande trasparenza politica nelle relazioni internazionali, da sempre dominate da interessi occulti. E, agli occhi di molti, ha trasformato gli hackers, da criminali informatici dediti alla clonazione di carte di credito e a infettare programmi, in «cavalieri della libera informazione». «L’informazione deve essere libera» è, infatti, il primo comandamento degli hackers scesi in difesa di Julian Assange, coagulati attorno a Anonymous, il network che ha lanciato attacchi contro i siti anti-Wikileaks, avente come parole d’ordine: «Verità, informazione, propagazione delle idee». Tale raggruppamento, che ha trovato nella difesa di Wikileaks il primo campo di battaglia, si definisce una comunità telematica di «cittadini di Internet, stanchi delle ingiustizie grandi e piccole» che vedono «ogni giorno». Questa comunità è una potenza in crescita, in grado ormai di resistere alle offensive degli Stati. Ciò è dimostrato dal fatto che ha creato una serie di mirrow (specchi) che hanno permesso alle informazioni di continuare a viaggiare nella rete, nonostante l’oscuramento di Wikileaks. Inoltre sono riusciti a far capitolare i siti Visa, Mastercard e Paypal, colpevoli di aver bloccato i conti di Wikileaks. Ancora, hanno messo nel mirino i siti istituzionali del governo svedese, nonché quelli della Procura e della polizia olandese, a seguito dell’arresto di un hacker dei Paesi Bassi. E il fenomeno prolifica: da Bruxelles arriva la notizia della nascita del sito Brusselsleaks.com, che promette di mettere a nudo l’Unione Europea «per rendere più trasparenti le decisioni prese dietro le porte chiuse» della Commissione Europea, del Consiglio e dell’Europarlamento. Anche la Russia di Putin ha il suo Assange. Si chiama Alexei Navalny (Rospil.info) e si propone di intaccare il potere del neocapitalismo russo. Insomma, gli Anonimi coordinati dimostrano di poter contrastare qualsiasi sito. Sono quindi una potenza emergente. Tra essi Assange è ormai un’icona. La hanno messo pure nei presepi di Napoli. Certo, questa nuova potente realtà, questa rete ombra comporta anche dei grossi pericoli, nel caso venga gestita non tanto per difendere la libertà d’informazione, ma per creare ad arte incidenti e caos, magari in vista dell’instaurazione di uno Stato di polizia, o addirittura per far scoppiare conflitti tra nazioni. Per una nuova Sarajevo non sarà più necessario un colpo di pistola. Potrebbe bastare un clik sulla tastiera di un computer. ❑ 19 ROCCA 1 GENNAIO 2011 i cavalieri della libera informazione VOLONTARIATO ROCCA 1 GENNAIO 2011 Fiorella Farinelli 20 una luce nella catastrofe sociale S consolato come non mai, il 44esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese. La crisi di cui si parla non è solo economica. Con parole dure e pesanti, il Rapporto descrive una società piatta che appiattisce ogni slancio collettivo. Afflitta da una sorta di perdita di spessore, di consistenza anche morale e psichica. Corrosa dall’insicurezza e delusa dalla politica. Rassegnata alla corruzione, alla criminalità organizzata, alla violazione continua e alla deformazione delle regole del vivere civile. Schiacciata su un presente senza memoria e senza futuro. Sotto il fuoco di un’analisi spietata, risaltano gli ingredienti di un contesto scoraggiante, i comportamenti individuali spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi o arrampicatori, prigionieri delle influenze mediatiche. Una società in crisi, dunque. E una crisi che non è fatta solo di disoccupazione, difficoltà economiche, debolezze produttive, calo delle esportazioni, vincoli ai consumi. Che è profonda e maligna perché impatta su un contesto invecchiato e poco reattivo, in cui sembrano venute meno, o trasfigurate in peggio, le doti tradizionali della popolazione italiana, la voglia di fare e di inventare, la passione politica, il coraggio pragmatico, gli sforzi collettivi per un migliore futuro di tante altre stagioni, pure agre e difficili, pure dolorose e faticose. Fa impressione – ma era stato anticipato dalla società metaforizzata in «mucillagine» del 43esimo Rapporto – un ritratto così desolante. Tanto più che in altri tempi, non troppo lontani, i ricercatori del Censis si erano invece dedicati con entusiasmo ta- lora anche eccessivo a riconoscere e dare valore a molte delle caratteristiche della realtà italiana – le microaziende familiari e i distretti industriali, la centralità del made in Italy, l’attaccamento ai paesi e alle piccole realtà urbane, la propensione al far da sé, perfino il familismo – offrendone versioni interpretative in cui venivano alla luce più i pregi che i difetti, più le risorse che i rischi. Che cosa sia successo in pochi anni, i ricercatori non lo dicono. Lo sguardo, attento ai fenomeni, è esclusivamente sociologico. Come sempre, non storico e neppure esplicitamente politico, anche se il quadro offerto è una pugnalata a un ceto politico – e a un governo – che raccontano, di se stessi, e della realtà italiana tutta un’altra favola. il pilastro della comunità Emergono tuttavia, nelle parti che il Rapporto dedica all’una o all’altra faccia del prisma utilizzando i risultati delle indagini svolte nel corso dell’anno, elementi divergenti rispetto alla rappresentazione complessiva. Che non autorizzano interpretazioni più ottimistiche sulla possibilità di invertire la tendenza al declino e al ripiegamento della società italiana né rivelano promettenti percorsi di uscita dalla crisi, ma neanche confermano la diagnosi di una società ormai solo indifferente, solipsistica, cinica. Tiene la famiglia, intanto, che supporta fin dove e quando può le fragilità e i problemi dei suoi membri meno fortunati, cellula immancabile di solidarietà, luogo di legami e di scambi che contrastano le solitudini individuali. 21 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Ma la famiglia, pur sempre valorizzata dal guru cattolico del Censis Giuseppe De Rita, non fa di per sé comunità. Non può farlo, neppure quando riesce a recuperare qualche tratto di quella fisionomia di gruppo aperto ed esposto a possibili integrazioni di altre epoche storiche, perché il senso di comunità è qualcosa di molto più ampio e generoso di quello che possono essere e fare i legami di sangue e di parentela. Perché il sentimento di comunità ha a che fare, e strettamente, con la cittadinanza, ovvero col riconoscersi tutti, nessuno escluso, come appartenenti a una comunità, e titolari degli stessi diritti. Anche se non si è figli, nonni, cognati, genitori. Anche se si viene da altri paesi, storie, culture. Anche se si è in qualche misura responsabili delle proprie disgrazie, detenuti, tossicodipendenti, divenuti marginali o esclusi per non avere avuto abbastanza control- lo di sé e rispetto degli altri. No, non è questo il «mestiere» della famiglia, cellula forse della comunità, ma non comunità essa stessa. «Pilastro della comunità», in una fase in cui il welfare si impoverisce e si raggrinzisce, lo Stato e gli Enti Locali sono più burocrazia e politica che regole e progetto del vivere insieme, e quando diventano sempre più numerosi i bisogni essenziali nudi e scoperti, è piuttosto, secondo il Censis, il volontariato. I dati che offre quest’anno il Rapporto sono molto interessanti, e coincidono sostanzialmente con i risultati di un’altra indagine, promossa da Focsiv – la federazione di 64 ong cristiane di servizio internazionale volontario – e condotta da Doxa. I numeri, intanto, che sono molto alti. Oltre il 26% degli italiani, infatti, dichiara di svolgere attività di volontariato, all’interno di realtà organizzate o in modo spontaneo, informale. Altri – dice Doxa-Focsiv – pur non volontari attivi, danno fiducia alle associazioni di volontariato, per la prima volta più a quelle nazionali che a quelle internazionali, e le supportano con donazioni. Negli ultimi 12 mesi, nonostante la crisi, hanno fatto donazioni almeno una volta il 44% degli italiani, più di una volta ROCCA 1 GENNAIO 2011 VOLONTARIATO 22 il 33%. Una frequenza che si spiega certamente con il terremoto dell’Aquila, ma che riguarda anche altre catastrofi naturali, il Cile e Haiti. Quanto alle motivazioni, oltre il 38% dei volontari intervistati da Censis dichiara di esserlo perché vuole fare qualcosa per gli altri, mentre il 27,3% richiama ragioni etiche e ideali. Ma c’è anche una quota tutt’altro che modesta (19,5%) che dice di aver cominciato a fare volontariato per caso, forse a seguito di qualche incontro speciale o per qualche altro motivo. Per alcuni, l’incontro dev’essere stato con se stessi, quasi il 15% parla di un’«esperienza di sofferenza»: una malattia grave propria o di persone care, storie difficili da cui si è usciti con l’aiuto di un’associazione. Sono esperienze frequenti, come sanno le persone che, assistendo fino all’ultimo un malato terminale non ospedalizzato, hanno trovato sulla loro strada volontari capaci, oltre che di assistenza medica, anche di accudimento fisico e psicologico. E non lo dimenticano. Sono del resto questi settori – e questi bisogni – quelli in cui, sempre secondo Censis, i cittadini constatano una maggiore presenza di volontari nelle comunità in cui vivono: strutture sanitarie in generale (69%), case di riposo, comunità alloggio, presidi socio-assistenziali di vario tipo (54,3%), poi le varie forme di assistenza a domicilio per malati, anziani, persone non autosufficienti. Ma c’è anche un volontariato che si occupa di altri bisogni. Il Censis ne fa solo pochi cenni, ma sono un’enormità i siti che danno conto di biblioteche scolastiche che vengono aperte anche al quartiere per il lavoro volontario di studenti, insegnanti, pensionati; di circoli di lettura e di consegna a casa di libri per chi non si può più muovere; di corsi di italiano per stranieri; di lettura collettiva di libri e giornali nei luoghi di detenzione; di studenti che insegnano l’uso del personal computer agli anziani. Poi c’è il volontariato della protezione civile, quello internazionale nei paesi della povertà, della fame, delle guerre, quello medico nei luoghi della malaria e delle malattie endemiche, quello che si occupa di tratta e di prostituzione coatta, quello che offre sostegni psicologici e legali alle vittime di violenza. Fino al volontariato leggero, quello delle «banche del tempo», in cui si scambiano servizi, assistenza, compagnia, cucina, aiuti reciproci di ogni tipo. Sempre gratis, sempre fuori dalle logiche di mercato. ma chi sono i volontari? Sono smentite, intanto, le interpretazioni per cui il volontariato sarebbe un’attività prevalentemente di pensionati liberati dal lavoro quotidiano e con molto tempo libero. I 65enni e oltre sono solo il 19,4%, la fascia d’età più coinvolta è quella tra i 45 e i 64 anni (28,5%), il 52,3% è fatto di giovani e meno giovani dai 18 ai 44 anni. Molta gente attiva, dunque, e molta che nel volontariato porta la risorsa delle sue capacità ed esperienze professionali, medici, infermieri, elettricisti, avvocati, cuochi, informatici. O dei suoi interessi, vocazioni, aspettative professionali. Soprattutto fra i più giovani, quelli sotto i 29 anni, sono presenti motivazioni come «è un’opportunità per acquisire competenze ed esperienze», «è un’occasione per accedere a opportunità di lavoro», e anche «è un’opportunità per mettere a disposizione le mie competenze». Ma c’è dell’altro. Che segnala convinzioni e spinte diverse. C’è chi dice, per esempio – e sono il 10%, ma il 26% nelle fasce più giovani fino ai 44 anni – «per essere parte di una realtà collettiva» o «per avere maggiori opportunità di relazioni con altre persone». Il bisogno di non essere soli, il bisogno di essere insieme. Una via alternativa a una politica che non c’è più come dimensione collettiva, scambio di idee, progetti comuni? Una via di fuga dal cinismo e dall’egoismo che sembrano prevalere? La ricerca di qualcosa che la crisi degli organismi intermedi della società – sindacato incluso – oggi non danno più? Certamente una risorsa importante. Non solo di buoni sentimenti, ma di energie e di impegno civile, in cui l’appartenenza religiosa può avere un peso ma non così importante come talora si ritiene. Comunque sia, c’è del buono in questa realtà del volontariato. Non solo per i vantaggi che possono venirne ai «beneficati» o agli «assistiti», ma per tenere viva l’idea e la pratica di una comunità civile. Eppure le istituzioni non fanno granché per supportarla. Poco le Regioni, un po’ di più le Province e i Comuni. Sempre meno lo Stato, che taglia i fondi del 5 per mille. La copertura finanziaria, che lo scorso anno era di 400 milioni, è stata ridotta con la legge di stabilità a soli 100 milioni. Una catastrofe per tante associazioni che vivono sostanzialmente di questo. Che realtà descriverà, il prossimo anno, il Rapporto del Censis? Fiorella Farinelli CAMINEIRO per recuperare i beni perduti U la cifra nera «La corruzione è un reato con una cifra nera molto elevata. Si definisce cifra nera la differenza fra il numero di reati commessi e quelli risultanti dalle statistiche giudiziarie. La cifra nera varia a seconda di molti fattori, tra i quali il tipo di reato e il contesto in cui viene commesso. La cifra nera della corruzione dipende dal fatto che è un reato a vittima diffusa (nel quale nessuno percepisce di essere stato danneggiato direttamente); dal fatto che, normalmente, viene commesso in assenza di testimoni (...); e che corrotti e corruttori hanno un convergente interesse al silenzio» (Pier Camillo Davigo). È la cifra nera della coscienza. Tanto scura da non riuscire più ad essere distinta, percepita come danno reale arrecato a ciascuno di noi. È una tossina che penetra tra i globuli sociali. Per questo può essere contrastata solo dagli antidoti efficaci delle leggi giuste, della pena certa, della cultura e dell’educazione. Un’azione concentrica che richiede il contributo di ciascuno. il Global Corruption Barometer Lo ha reso noto Transparency International il 9 dicembre scorso, Giornata mondiale contro la corruzione. Preoccupanti sono i dati riferiti all’Italia. Il 17,8% afferma che l’operato del governo nella lotta alla corruzione è molto/abbastanza efficace e il 58,9% che è abbastanza/molto inefficace. Alla domanda: Chi è più attivo nel tuo Paese nella lotta alla corruzione? Ben il 40,1% risponde: nessuno. La corruzione non scava soltanto voragini nei bilanci pubblici. Produce un costo politico enorme perché insidia profondamente il vincolo di fiducia tra cittadini e istituzioni, tra la comunità e chi la rappresenta. Compromette la democrazia. sull’esempio di Zaccheo Nel 1995 Libera raccolse un milione di firme e chiese l’approvazione di una legge che prevedesse l’uso sociale dei beni confiscati a mafiosi e corrotti. Il Parlamento licenziò una legge che prevedeva solo la prima parte lasciando intoccabili i beni dei corrotti. Oggi si ritorna su quella richiesta. I beni che sono stati acquisiti sottraendo risorse ai cittadini, devono essere restituiti. E non solo la cifra della corruzione ma il capitale accumulato grazie a quell’atto illecito. Non solo la mazzetta, ma ciò che la mazzetta ha permesso di guadagnare. Riconvertire il maltolto in politiche sociali, la frode in bene comune, il malcostume in un ricostituente per la democrazia. 23 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Tonio Dell’Olio na campagna di informazione e di pressione perché si giunga a una legge che punisca veramente il reato di corruzione. Alla luce dei trattati che l’Europa e le Nazioni Unite hanno promosso in questi anni e che l’Italia ha sottoscritto, ma non ha mai ratificato. Ovvero siamo teoricamente d’accordo, ma la realtà è un’altra cosa. Libera – associazioni nomi e numeri contro le mafie – e Avviso Pubblico (la rete degli enti locali contro le mafie), chiedono di firmare l’appello al Presidente della Repubblica (www.libera.it) perché il malcostume diffuso della mazzetta trovi una diga; la complicità tra malaffare e apparati dello Stato venga diluita nella legalità; venga restituito alla comunità il sovrapprezzo che ci tocca pagare ogni giorno. Le statistiche della Corte dei Conti arrivano a calcolare in mille euro a testa per ogni cittadino, la ricchezza che defluisce nel fiume della corruzione nel nostro Paese. Un peso che è urgente scrollarsi di dosso. Dalla coscienza collettiva e dalla mentalità diffusa. Per molti, infatti, sembra una prassi normale, un costo dovuto, una consuetudine che diventa diritto. E rischia di ammaccare irrimediabilmente persino le coscienze più giovani e di compromettere qualunque messaggio educativo. Un tumore sociale che merita una diagnosi certa e una chemioterapia che apra alla speranza. un confronto tra Autori e Lettori di Rocca quale legge elettorale? Consapevolezza e partecipazione: è quanto vorremmo promuovere con questa iniziativa tra gli Autori e i Lettori di Rocca. Sono intervenuti (n. 22/2009) Roberta Carlini, Giancarlo Ferrero, Filippo Gentiloni, Pietro Greco, Raniero La Valle, Romolo Menighetti. Pubblichiamo ora i primi nuovi interventi pervenuti. Attendiamo altre vostre proposte di uno schema di legge elettorale secondo le vostre preferenze, presentata nelle sue linee essenziali e motivandone praticabilità, pregi e difetti, precisando in particolare se nell’ambito della stessa si tratta nella vostra ipotesi di liste monopartiche o di coalizioni di alleati (non più di 2000 battute). Diamo per scontato che tale legge dovrebbe produrre un Parlamento di eletti e non di nominati, che assicuri al meglio rappresentanza e governabilità. Giannino Piana M ROCCA 1 GENNAIO 2011 i limito ad alcune osservazioni di carattere generale, che riguardano, rispettivamente, ciò che è necessario fare nell’immediato e ciò che, invece, andrebbe fatto in prospettiva nel futuro. Credo che la cosa che nell’immediato occorre anzitutto mettere in atto è la modifica della legge attualmente vigente almeno su due punti fondamentali, che rappresentano altrettante gravissime anomalie: la sottrazione agli elettori della possibilità di scegliere i candidati da mandare in parlamento e l’assegnazione del premio di maggioranza del 55% dei seggi alla coalizione che ha raggiunto la percentuale relativamente più alta (anche se soltanto del 30%). Nel primo caso siamo infatti di fronte a un comportamento apertamente antidemocratico; nel secondo a una forma di palese ingiustizia che contraddice il criterio della rappresentanza. Sottrarre ai partiti il potere di decidere le liste bloccate e restituire ai cittadini la possibilità della preferenza e ristabilire un giusto equilibrio nell’assegnazione del premio di maggioranza (attorno almeno al 45%) sono due correttivi essenziali che 24 andrebbero immediatamente introdotti. Quanto alle prospettive per il futuro personalmente sono sempre stato contrario al maggioritario – lo sono stato fin dal momento del famoso referendum che ha sancito con una maggioranza bulgara il cambiamento – e ho sempre caldeggiato un proporzionale con sbarramento (attorno al 3-4%) per una serie di ragioni, che sarebbe lungo analizzare e che sono legate in particolare alla situazione storico-politica del nostro paese che non è quella dei paesi anglosassoni. D’altronde, il bipolarismo maggioritario, oltre a non aver risolta la questione della governabilità per cui era nato, ha provocato danni enormi alla vita democratica: dal costituirsi di poli disomogenei con un alto livello di litigiosità interna che si sono puntualmente disgregati, alla cancellazione di partiti con una grande tradizione storico-ideologica e allo sviluppo di nuove aggregazioni partitiche con anime diverse non facilmente conciliabili o nelle quali a fare da collante è il carisma del capo (con l’esito di una pericolosa personalizzazione della politica), fino all’imposizione alla destra e alla sinistra di stemperare la propria identità in vista della ricerca di un consenso allargato. Credo, dunque, che si debba abbandonare questa strada, e tornare al sistema propor- Ennio Seghetti Cinisello Balsamo (Mi) L a nostra Costituzione dice che siamo ancora in una repubblica parlamentare nella quale il parlamento, eletto dal popolo, esprime il governo del Paese; ne deriva che: a) ritengo che nessun candidato debba essere predesignato come primo ministro; sarà la maggioranza che si riconosce in un comune programma a proporre al Capo dello Stato il nominativo dello stesso. Diverso discorso è la compilazione della lista dei candidati che ogni partito presenta; personalmente sostengo quei partiti che hanno il coraggio politico di rimettersi al giudizio dei propri elettori, facendo elezioni primarie. b) Il parlamento deve essere il più possibile lo specchio delle diverse culture politiche presenti, quindi considero il proporzionale come il più congruo alla realtà italiana. Nessun premio di maggioranza, ma certamente uno sbarramento al 4% (sacrificio necessario per facilitare la governabilità). c) Ogni partito si presenta solo, ma può preventivamente impegnarsi di fronte agli elettori nel riconoscersi in una coalizione con comune programma di governo (si può studiare come), senza con questo nulla togliere alla caratterizzazione specifica della forza politica in questione all'interno del programma e quindi al risultato proporzionale della medesima. d) Concordo con Romolo Menighetti nel preferire l’uso di una crocetta a fianco dei nomi prestampati dei candidati; al tetto di spese elettorali dei singoli; al libero ed uguale accesso alle tv pubbliche e private. e) Se poi dovesse prevalere l'orientamento verso il maggioritario, spero che sia studiato in modo da prevedere il doppio turno. ❑ Giovanni Pigozzo Salzano (Ve) D ato un mio particolare interesse per il tema, ho deciso con entusiasmo di rispondere all’invito rivolto ai lettori del numero 22, e inviarmi qualche mia riflessione su una nuova legge elettorale. Confesso fin da subito il mio debole invece per un sistema maggioritario come quello inglese. Il funzionamento è semplice: suddividere il paese in 630 collegi per la Camera dei Deputati, 315 per il Senato della Repubblica. Ciascun collegio, formato naturalmente in maniera omogenea quanto a consistenza demografica, elegge uno e un solo Parlamentare tra quelli che ciascun partito propone. Un sistema simile ha i pregi di un contatto diretto elettore-eletto, senza i rischi di lotte intestine ai partiti; senza contare che la sfida tra quattro o cinque candidati contrapposti è senz’altro (lo insegna la storia delle primarie) più appassionante rispetto a una contesa tra una serie di liste in cui pescare. Ciascun candidato, poi, metterà la propria faccia, per quello che ha fatto e promette di fare sarà giudicato e scelto o meno dai suoi elettori: avendo un territorio ben delimitato, sarà ancora più incentivato, se vuole essere eletto, a incontrare persone, stringere mani e ascoltare le esigenze dei suoi (pochi, rispetto alle dimensioni regionali di adesso) elettori. Il fatto che sia eletto solo chi prende più voti, da un lato premia le grandi formazioni, dall’altro non lascia necessariamente indietro i piccoli movimenti. Non esistono naturalmente meccanismi automatici, ma azzardo la scommessa che aiuterebbe a ridurre la frammentazione, non con la mannaia dello sbarramento ma con l’abbraccio delle liste unitarie: logicamente, se per esempio Sinistra Ecologia Libertà, il Partito Democratico e l’Italia dei Valori sanno che attingono in parte da uno stesso elettorato, potrebbero trovare conveniente mettersi insieme anziché ostacolarsi, per portare a casa il risultato, scegliendo accuratamente i candidati più credibili per i singoli collegi. La nostra cultura costituzionale ci insegna a guardare con sospetto un sistema di questo tipo, ritenendo che favorisca troppo le grandi formazioni, preferendo un sistema proporzionale in cui anche le più piccole abbiano voce. La sfida, a mio modo di vedere, è in realtà cambiare logica e punto di vista. Prendendo atto dell’evoluzione del quadro sociale e politico, e dei progressi della stessa cultura costituzionale, vediamo sempre più esaltare le singole componenti della Repubblica, che ci appare come mosaico di culture e esigenze differenti. Scacciate le grida separazioniste, credo che un sistema del genere dia rappresentatività a tutto il territorio, a tutte le singole peculiarità, culture, bisogni dei vari tasselli che compongono il nostro Stato. Ciascuno con un suo rappresentante, tutto il Paese si ritroverebbe tra le mura della nostra Assemblea legislativa. Vi saluto e colgo l’occasione per complimentarmi per l’ottimo lavoro che svolgete. ❑ ROCCA 1 GENNAIO 2011 zionale che, non solo favorisce la presenza di una rappresentanza allargata (anche di minoranze significative), ma crea soprattutto le condizioni perché si fronteggino le diverse forze politiche, sollecitandole a presentarsi con chiarezza ai cittadini con i loro programmi e a dichiarare apertamente quali saranno le loro future alleanze. ❑ 25 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Roberta Carlini olti banchieri conservatori ritengono più consono al loro abito, nonché atto a risparmiare la fatica del pensare, lo spostamento del dibattito pubblico sulle questioni finanziarie dal piano logico a un presunto piano ‘morale’, ovvero a un ambito di pensiero in cui gli stessi interessi costituti possono trionfare sul bene comune senza ulteriore discussione». Così scriveva John M. Keynes nel 1923, nel Trattato sulla riforma monetaria. Se la frase può all’improvviso saltare agli occhi oggi, per andare ad adattarsi perfettamente alla situazione finanziaria e politica mondiale, lo si deve anche a una ripubblicazione di tipo divulgativo di brevi estratti degli scritti del grande economista, intitolata «Risparmio e investimento», appena comparsa in libreria per i tipi di Donzelli (1). Come si capisce fin dalle prime righe citate, è una lettura di strettissima attualità, in questa fine del 2010 nel pieno della crisi italiana e europea. M la finanza che detta legge Il prevalere di pochi interessi forti sul bene comune; il loro farlo in nome non dell’in26 teresse egoistico ma di una presunta superiorità morale; la diffusa tendenza in certi ambienti a ‘risparmiare la fatica del pensare’: sono tutte caratteristiche che non è difficile rintracciare oggi, nelle alte sfere di quell’élite finanziaria e politica che prima ha causato la crisi, poi ha messo in salvo le sue penne, e adesso sta inguaiando gli stati sovrani. Prosegue Keynes: «Ma questo atteggiamento rende costoro (i banchieri, ndr) una guida inaffidabile in una pericolosa epoca di transizione come la nostra». Lì si parlava della transizione dal primo dopoguerra alla ricostruzione, da un’egemonia mondiale a un’altra; ma anche oggi, in presenza di un altro passaggio d’epoca e di egemonia economico-politica, valgono le frasi successive dell’economista di Cambridge: «Lo Stato non deve mai trascurare l’importanza di operare nell’amministrazione ordinaria in maniera tale da promuovere la certezza e la sicurezza degli affari. Ma quando bisogna prendere decisioni capitali, lo Stato è un organismo sovrano che ha il compito di promuovere il più grande bene possibile per la collettività nella sua interezza». Oltre che lo stile semplice e diretto – assai CRISI ECONOMICA Keynes ha di nuovo qualcosa da dire più strutturale, che prende le mosse dalla sparizione dello stesso orizzonte fisico keynesiano: lo Stato come titolare dell’azione politica, trovatosi con strumenti via via spuntati tra le mani con l’allargamento delle zone di libero scambio, la globalizzazione e la finanziarizzazione. Le due spiegazioni vanno insieme, si intrecciano e si rafforzano: per dirla con le parole di Keynes, sembra che gli interessi costituiti (quelli della grande finanza) abbiano trovato un assetto istituzionale tale da mettersi in condizione di vincere tutte le partite, quella politica e anche quella delle idee. Il quadro europeo della seconda metà del 2010 ce ne dà uno spaccato: con i governi che devono piazzare titoli del debito pubblico e che – siano di destra o di sinistra, si chiamino Sarkozy o Zapatero – corrono a fare quel che «i mercati» chiedono, ossia tagliare gli alimenti all’economia affamata, pur sapendo benissimo che questa ricetta sarà peggiore della malattia. ROCCA 1 GENNAIO 2011 lontano dal lessico che man mano poi si è costruito nei testi degli economisti – colpisce un concetto al limite della banalità: lo Stato deve fare gli interessi collettivi, i banchieri (o la finanza, diremmo meglio oggi) sono solo una parte. Vanno ascoltati, così come gli altri, e poi si decide. Ogni decisione inevitabilmente prevederà sacrifici per qualcuno e vantaggi per qualcun altro: sta alla politica farsi carico di questa scelta, tenendo presente l’esito finale e complessivo di ciascuna delle decisioni. Perché oggi, nell’anno 2010, tale visione è sparita e pare anzi improponibile? Perché la finanza – ossia una parte della società, numericamente minoritaria – continua a dettar legge per il tutto? Per molto tempo, e a ragione, si è data risposta a queste domande rileggendo l’evoluzione del pensiero economico dell’ultimo trentennio, a partire dagli anni ’80 a oggi, e la progressiva affermazione di quello che via via è stato chiamato liberismo, neoliberismo, pensiero unico, Washington consensus. Una stratificazione culturale così forte da resistere anche di fronte all’evidenza del fallimento delle ricette che in suo nome sono state prescritte e realizzate. A questa spiegazione si è aggiunta quella sfiducia nella politica Però colpisce, nella rilettura di Keynes, un’altra lontananza. Leggendo quelle pagine si capisce che in fondo, anche allora, 27 CRISI ECONOMICA non è che fosse così facile pensare di governare la finanza, far prevalere un interesse generale su quello particolare, mettere insieme delle forze per riformare uno stato di fatto nonostante il parere contrario dei più potenti dei suoi protagonisti. E questo, nonostante il fatto che a lungo andare il perseverare nella difesa dell’esistente avrebbe condotto alla rovina gli stessi interessi rappresentati dai «conservatori». La lontananza che si avverte, più ancora che nei mutati confini dell’economia e della finanza, e nei limiti alla crescita che l’emergenza ambientale impone, sta proprio nella fiducia nelle capacità della politica di agire in vista del bene comune. Una fiducia che induce l’economista a mettersi al servizio, per trovare «tecnicamente» le risorse per fare: «qualsiasi cosa possiamo fare, ce la possiamo anche permettere», risponde Keynes a chi gli chiede se i favolosi piani di ricostruzione di Londra possono essere portati avanti, se non costano troppo. È forse questo, a ben guardare, il tarlo che rode ogni proposta alternativa, ogni visione riformista – non diciamo rivoluzionaria – del sistema politico ed economico: un’implicita e diffusa sfiducia nelle capacità della politica. Sfiducia che i politici sembrano aver talmente introiettato da essere tutto sommato rassegnati (se non contenti) quando un’emergenza esterna detta l’agenda, e induce a scelte anche tragiche e impopolari, come quelle che stanno attraversando tutti i governi europei, di destra e (l’ultimo, quello di Zapatero) di sinistra. l’aggravante europea ROCCA 1 GENNAIO 2011 In questo l’Europa ha un’aggravante, e l’Italia una vera e propria pietra al collo. L’aggravante europea è nell’aver messo quella sfiducia nella politica nella sua Costituzione: prevedendo come unica entità sovranazionale per lo spazio della moneta comune europea la Banca, e vincolando la Banca a fare una sola politica, quella di deflazione. Come se deflazione e inflazione non fossero due malattie di pari gravità, entrambe causate dall’intrinseca instabilità del sistema capitalistico. Manca quindi la possibilità di una politica economica comune, e anche di una compensazione tra debiti e crediti tra uno stato e l’altro. Stanti così le cose, è evidente che nessun governo da solo, né in Spagna né in Francia e neanche nella potente Germania, potrà mai pretendere di sfuggire ai ricatti speculativi della finanza: in un 28 recente articolo sul Sole 24 Ore, si faceva notare con dovizia di numeri come alcuni stati degli Usa siano messi peggio di alcuni stati europei dal punto di vista del debito, ma come a nessuno speculatore sia venuto in mente di attaccare la California o l’Illinois perché, al contrario della Grecia o dell’Irlanda, hanno dietro un governo federale. Quanto ci vorrà perché nasca in Europa una leadership capace di riprendere in mano la bandiera del federalismo? Italia monopolizzata Per l’Italia c’è qualcosa di più. Usciamo (forse) da un quindicennio nel quale l’economia ha ristagnato, le diseguaglianze sono aumentate, la crepa tra giovani e vecchi si è aperta violentemente, le differenze tra nord e sud si sono accentuate, alcuni baluardi del welfare (a cominciare da sanità e scuola) sono stati messi in discussione. Ma soprattutto un quindicennio nel quale la crisi della politica, aperta dal crollo dei grandi partiti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, non si è rimarginata ma anzi è peggiorata. Nella contrapposizione tra interessi di parte e interesse generale, a pochi italiani verrebbe in mente che la politica è chiamata a rappresentare l’interesse generale: essendo vissuta invece come una prosecuzione dell’interesse personale con altri mezzi. Il marchio berlusconiano è il segno più evidente di questa tendenza, ma non l’unico. Tra il gigantesco interesse individuale che entra in campo e porta il suo peso dal mercato (monopolistico) alla politica (monopolizzata) e i piccoli interessi particolari del sottobosco delle amministrazioni, che hanno dato mostra di sé a destra e a sinistra, c’è una differenza quantitativa, ma per i singoli cittadini che la vedono da fuori e la subiscono la differenza non è poi decisiva. Per questo l’azione collettiva, quando c’è (e c’è molto più spesso di quanto i media prevalenti non vedano) avviene fuori dai circuiti della politica tradizionale. Prima ancora che sui programmi e sulle alchimie delle coalizioni, è su questa capacità di ritrovare la fiducia persa che si gioca il cambiamento nella politica italiana. Roberta Carlini Nota (1) J. M. Keynes, Risparmio e investimento, Donzelli, Milano 2010, pp. 106. indice 2010 per tematiche principali Armeni Ritanna Violenza alle donne: La crisi del maschio (21/24) Pallottole pasquali (9/17) Chi supporta le cosche (10/17) Caro amico ti sparo (19/17) La morte come pena (20/17) Maroni vs Saviano (24/17) Arpaia Bruno Le paure del secolo: Le radici ancestrali (24/34) Piana Giannino L’uso della forza (8/32) Bertozzi Luciano Esportazioni di armi italiane: Se i soldi dettano ancora legge (10/18) Diritto di asilo: La deportazione dalla Libia in Eritrea (15/22) Sabato Giovanni Rifugiati: La difficile documentazione della tortura (15/24) Dell’Olio Tonio Quanto vale la legalità (5/23) La pace degli altri è la nostra pace (7/21) Chiese strumento di pace? (11/21) Finalmente cattivi (14/21) Litania del potere occulto (24/21) vedi anche Internazionale e le rubriche La Valle Raniero Resistenza e pace Dell’Olio Tonio Camineiro Ferrero Giancarlo Diritti umani: Violenza nelle carceri (1/38) Festa Francesco Saverio Mezzogiorno: Immigrati preda della mafia (9/30) Greco Pietro Immigrazione, legalità, violenza: La lezione di Rosarno (3/16) Salvi Maurizio Yemen: La guerra di domani (2/14) Ecologia – Salute – Ambiente Andruccioli Paolo Emergenze: Protezione civile Spa? (7/32) Cagnazzo Claudio C’era una volta la periferia (21/38) La Valle Raniero Dove nasce la corruzione (5/13) Nonviolenza (24/13) Carlini Roberta Edilizia scolastica: Storie di ordinaria insicurezza (19/22) Leone Ugo Rifiuti: Ma è vera emergenza? (20/22) Documenti Dichiarazione di Assisi (2/56) Menighetti Romolo Pentiti addio? (4/17) Festa Francesco Saverio Della sanità al Sud (16-17/43) All’interno di ogni voce gli articoli sono indicati in ordine alfabetico per autore e, per ogni autore, in ordine di numero di Rocca Alcuni articoli sono ripetuti sotto più voci in quanto pertinenti a ciascuna di esse Galli Maria Giovanna Psichiatria: C’era una volta la città dei matti (6/36) Gianoli Romualdo Il contrasto tra patrimonio archeologico e opere pubbliche (2/34) Biodiversità: Una risorsa ad alto rischio (14/40) Greco Pietro Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16) Emergenze: La gestione autoritaria della politica ambientale (6/18) Biotecnologie verdi: La patata della discordia (7/18) Risorse energetiche: La fine del petrolio (15/31) Economia verde: Una doppia opportunità (20/18) Le paure del secolo: Rischio ambientale tra catastrofismo e negazione (21/32) Economia ecologica: Nuove ipotesi di sopravvivenza umana (24/28) Leone Ugo Inquinamento: Ri-progettare la città (3/20) Dissesto idrogeologico: La macchina del rattoppo (7/26) Eco-servizi: Quanto vale il «lavoro» della natura (16-17/22) Catastrofi: Come convivere con il rischio (19/30) Rifiuti: Ma è vera emergenza? (20/22) Menighetti Romolo Un virus per ogni autunno (2/19) Frane (5/19) 29 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Violenza – Legalità – Mafie Le due cifre riportate dopo ciascun titolo indicano rispettivamente il numero della rivista e la pagina in cui l’articolo compare Rocca 2010 - indice per tematiche principali Piana Giannino Posso donare un rene? (7/46) Cagnazzo Claudio L’era della libera solitudine (2/38) Immigrazione Capone Sabina Donne africane: Milioni di volti, una sola speranza (5/36) Bertozzi Luciano Diritto di asilo: La deportazione dalla Libia in Eritrea (15/22) Cagnazzo Claudio Tempo di crisi: Alla ricerca del capro espiatorio (16-17/38) Dell’Olio Tonio La croce della Lega (1/27) Una situazione annunciata (3/25) Finalmente cattivi (14/21) Farinelli Fiorella Cittadinanza agli stranieri: Non esistono neri italiani! (2/24) Scuole per migranti: L’esperienza di una insegnante di italiano (8/20) Quando la cultura diventa polenta (9/26) Diritto e rovescio del permesso a punti (10/22) Chance: Le scuole della seconda opportunità (16-17/40) L’italiano e il permesso a punti (20/28) L’italiano agli stranieri: Un volontariato inedito (21/28) Ferrero Giancarlo Immigrazione irregolare: Tre sentenze, una su 3 non funziona (18/30) Carra Aldo Eduardo La Befana dei giovani: Una valigia per espatriare (2/20) Farinelli Fiorella Il silenzio delle donne (7/36) Ritratto di una generazione in bilico (15/29) Giochi della Gioventù: Lo sport non è un premio (22/22) Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26) Scuola e lavoro: Ragazze poco tecnologiche (24/24) Gallizioli Marco Cybercultura: Ho un amico virtuale (13/40) Nuovi scenari: Precarietà del mutamento (15/43) La rete: ImMEDIAtamente… giovani (19/42) Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei (21/40) Menighetti Romolo Pensioni, riforma continua (13/17) Greco Pietro L’università cambia, come cambiare l’università (19/18) Lodi Mario Come nasce il bambino cittadino (4/26) Novara Daniele Una questione di apprendimento (2/40) Bambini: Il conflitto come strategia interculturale (4/36) Bulimia tecnologica: Verso la fast education? (10/38) Festa Francesco Saverio Mezzogiorno: Immigrati preda della mafia (9/30) Novara Daniele Bulimia tecnologica: Verso la fast education? (10/38) Protopapa Ilenia Beatrice Marco Lodoli: Scuola da dentro (3/43) Greco Pietro Immigrazione, legalità, violenza: La lezione di Rosarno (3/16) Migrazioni: La frenesia del viaggio, motore del progresso. Il contagio delle idee (23/33) Piana Giannino Indagine: Gli italiani e la sessualità (11/22) Rolandi Luca Giovani musulmani (3/30) Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34) Magnani Sabrina Esperienza di aiuto: Perdi il lavoro, come ti senti? (12/22) Menighetti Romolo Stagionali e caporali (11/17) Prattico Franco Migrazioni: Alla ricerca di un Altrove (23/29) Rolandi Luca Giovani musulmani (3/30) Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34) ROCCA 1 GENNAIO 2011 Carlini Roberta Diseguaglianza: Quando i vecchi sono più ricchi dei giovani (18/42) Il mito del quoziente familiare (21/18) Quando la cultura diventa polenta (9/26) Diritto e rovescio del permesso a punti (10/22) Carosello insegnanti (11/26) Che cosa ci aspetta (12/26) Il trionfo dei licei (13/22) Ritratto di una generazione in bilico (15/29) Chance: Le scuole della seconda opportunità (16-17/40) A confronto con il mitico e ben pagato insegnante tedesco (19/26) L’italiano e il permesso a punti (20/28) L’italiano agli stranieri: Un volontariato inedito (21/28) Giochi della Gioventù: Lo sport non è un premio (22/22) Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26) Scuola e lavoro: Ragazze poco tecnologiche (24/24) Sabato Giovanni Rifugiati: La difficile documentazione della tortura (15/24) Donna – Giovani – Famiglia Armeni Ritanna Violenza alle donne: La crisi del maschio (21/24) Televisione: La vita nella scatola (22/26) Donne in carriera: Susanna e Emma (23/18) 30 Protopapa Ilenia Beatrice Marco Lodoli: Scuola da dentro (3/43) Saraceno Chiara Famiglia famiglie (18/36) Diritto Internazionale Zizola Giancarlo Il Bambino, il Prete, il Papa (10/46) Allegretti Umberto L’Europa degli Stati (5/16) Istruzione Bertozzi Luciano Esportazioni di armi italiane: Se i soldi dettano ancora legge (10/18) Carlini Roberta Edilizia scolastica: Storie di ordinaria insicurezza (19/22) Castellucci Paola Università: 3+2=zero? (2/28) Atenei come aziende (4/32) Ricercatori sui tetti (6/26) Valutazione qualità ricerca (20/31) Farinelli Fiorella Circolare Gelmini: Il drappo rosso delle quote (3/26) Scuole della seconda generazione (4/18) Riforma delle superiori: Un topolino cieco e senza gambe (5/24) Scuole per migranti: L’esperienza di una insegnante di italiano (8/20) Capone Sabina Donne africane: Milioni di volti, una sola speranza (5/36) Carlini Roberta Telefoni e banche: I grandi scandali economici (7/29) Documenti Dichiarazione di Assisi (2/56) Filograna Emanuele (a cura di) Basilea 3: Intervista a Paola Musile Tanzi (23/40) Fuschetto Cristian Internet: Tra libertà e responsabilità (6/42) Rocca 2010 - indice per tematiche principali Menighetti Romolo La morte come pena (20/17) Pocar Valerio Anche gli animali sono titolari di diritto? (22/35) vedi anche Internazionale e la rubrica Dell’Olio Tonio Camineiro Italia Aa.Vv. Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca: Quale legge elettorale? (22/18) Andruccioli Paolo Emergenze: Protezione civile Spa? (7/32) Carlini Roberta Regionali: Un voto con i piedi (4/28) Federalismo (5/20) Dell’Olio Tonio E no, l’acqua no! (4/21) Quanto vale la legalità (5/23) I balilla e il crocifisso (20/21) Farinelli Fiorella Cittadinanza agli stranieri: Non esistono neri italiani! (2/24) Il silenzio delle donne (7/36) Diritto e rovescio del permesso a punti (10/22) Pomigliano: La breccia (14/22) Patto sociale: L’offensiva Marchionne (18/22) L’italiano e il permesso a punti (20/28) Ferrero Giancarlo Diritti umani: Violenza nelle carceri (1/38) Si troveranno tre giusti? (6/30) Il bavaglio alle indagini e alle informazioni (13/30) Immigrazione irregolare: Tre sentenze, una su 3 non funziona (18/30) Aggressione alle istituzioni: Un attentato allo Stato democratico (21/22) Filograna Emanuele (a cura di) Etica pubblica: Le regole dell’onestà: Intervista al prof. Giorgio Bernardo Mattarella (14/34) Laicità: Tra tradizione e Costituzione. Intervista a Stefano Rodotà (18/26) Greco Pietro Piano Nazionale della Ricerca: Analisi seria, proposte interessanti, soldi zero (1/20) Immigrazione, legalità, violenza: La lezione di Rosarno (3/16) La Valle Raniero Dove nasce la corruzione (5/13) L’Italia negata (6/13) Menighetti Romolo Delle pene alternative (3/19) Pentiti addio? (4/17) La trappola dell’arbitrato (7/17) Chi supporta le cosche (10/17) Stagionali e caporali (11/17) Pensioni, riforma continua (13/17) Sabato Giovanni Rifugiati: La difficile documentazione della tortura (15/24) vedi anche la rubrica Andraous Vincenzo Sbarre e dintorni Politica internazionale Allegretti Umberto L’Europa degli Stati (5/16) Bertozzi Luciano Esportazioni di armi italiane: Se i soldi dettano ancora legge (10/18) Diritto di asilo: La deportazione dalla Libia in Eritrea (15/22) Capone Sabina Donne africane: Milioni di volti, una sola speranza (5/36) Greco Pietro Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16) Nucleare: La revisione del Trattato di non proliferazione (14/18) Ricerca scientifica: I quindici anni che sconvolsero il mondo (16-17/14) La Valle Raniero Non ha visto il muro (4/13) L’altro Israele (13/13) Se ritornano le caravelle (14/13) La vendetta afghana (21/13) Kairòs Palestina (22/13) Magnani Sabrina Rapporto Medici senza frontiere: Quelle guerre troppo dimenticate dai tg (16-17/24) Menighetti Romolo La grazia di Gheddafi (18/17) La morte come pena (20/17) Cile, dalla solidarietà la vita (21/17) Piana Giannino I poteri forti (20/38) Pulcinelli Cristiana Esperienza brasiliana: Reciprocità contro miseria (19/32) Salvi Maurizio 2010: L’anno dell’Africa? 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(22/14) Obama: Dopo la bastonata (23/14) Salvi Maurizio-Bulla Gino Yemen: Un popolo in lento cammino (16-17/29) Europa Allegretti Umberto L’Europa degli Stati (5/16) Carlini Roberta Tragedia greca (11/18) L’Europa ai corsi di recupero (12/18) Nuove regole anticrisi (22/16) La crisi del debito pubblico (24/22) Farinelli Fiorella A confronto con il mitico e ben pagato insegnante tedesco (19/26) Greco Pietro Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16) L’Europa della conoscenza: Obiettivi mancati e promesse non mantenute (11/30) L’università cambia, come cambiare l’università (19/18) Salvi Maurizio Europa: Derive populiste (21/14) 31 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Greco Pietro Democrazia: Di secolo in secolo la conquista dei diritti (4/22) Democrazia: I nuovi diritti di cittadinanza scientifica (5/28) Nucleare: La revisione del Trattato di non proliferazione (14/18) Rocca 2010 - indice per tematiche principali Politica italiana Aa.Vv. Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca: Quale legge elettorale? (22/18) Andruccioli Paolo Emergenze: Protezione civile Spa? (7/32) Sindacato: La strada che parte da Rimini (12/37) Armeni Ritanna Vendola, Renzi, Pisapia… che bolle in pentola? (24/18) Bertozzi Luciano Esportazioni di armi italiane: Se i soldi dettano ancora legge (10/18) Carlini Roberta Dati sulla disoccupazione: Balletti poco innocenti (3/22) Regionali: Un voto con i piedi (4/28) Federalismo (5/20) I guadagni delle élites (14/26) L’oracolo Tremonti (16-17/18) I giganti senza teste (20/24) Alitalia: Il bluff (23/22) La crisi del debito pubblico (24/22) Cingari Salvatore L’equivoco meritocratico (12/42) Dell’Olio Tonio La croce della Lega (1/27) Farinelli Fiorella Cittadinanza agli stranieri: Non esistono neri italiani! (2/24) Il popolo viola: La novità c’è (6/22) Che cosa ci aspetta (12/26) Pomigliano: La breccia (14/22) Piana Giannino Economia, la scienza della pubblica felicità (3/32) I poteri forti (20/38) Piana Giannino I poteri forti (20/38) Pulcinelli Cristiana Esperienza brasiliana: Reciprocità contro miseria (19/32) Rolandi Luca Giovani musulmani (3/30) Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34) vedi anche Internazionale Rusconi Gian Enrico Post-democrazia e classe dirigente (19/36) Zizola Giancarlo La Chiesa in Italia: Nell’ora del dio padano (1/48) Filoleghismo vaticano: Il nuovo Patto Costantiniano (9/18) vedi anche la rubrica La Valle Raniero Resistenza e pace Economia e lavoro Internazionali Bertozzi Luciano Esportazioni di armi italiane: Se i soldi dettano ancora legge (10/18) Carlini Roberta Telefoni e banche: I grandi scandali economici (7/29) Tragedia greca (11/18) L’Europa ai corsi di recupero (12/18) Europa: Nuove regole anticrisi (22/16) Europa e Italia: La crisi del debito pubblico (24/22) Ferrero Giancarlo Si troveranno tre giusti? (6/30) Il bavaglio alle indagini e alle informazioni (13/30) Aggressione alle istituzioni: Un attentato allo Stato democratico (21/22) Filograna Emanuele (a cura di) Basilea 3: Intervista a Paola Musile Tanzi (23/40) Festa Francesco Saverio Questione meridionale: Un nodo politico e non solo (5/34) Greco Pietro Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16) Biotecnologie verdi: La patata della discordia (7/18) L’Europa della conoscenza: Obiettivi mancati e promesse non mantenute (11/30) Risorse energetiche: La fine del petrolio (15/31) Ricerca scientifica: I quindici anni che sconvolsero il mondo (16-17/14) Economia verde: Una doppia opportunità (20/18) Economia ecologica: Nuove ipotesi di sopravvivenza umana (24/28) Greco Pietro Piano Nazionale della Ricerca: Analisi seria, proposte interessanti, soldi zero (1/20) Emergenze: La gestione autoritaria della politica ambientale (6/18) Declino italiano: La strategia perdente (18/18) ROCCA 1 GENNAIO 2011 La grazia di Gheddafi (18/17) Caro amico ti sparo (19/17) Le istanze dei rottamatori (23/17) Maroni vs Saviano (24/17) Menighetti Romolo Lo scippo (1/23) Primo marzo giallo (6/17) Pane acqua e vergogna (8/19) Chi supporta le cosche (10/17) Piccole imprese grande Rete (12/17) Brancher, ministero ad personam (14/17) La tenaglia (15/17) 32 Fornaro Giuseppe Il nuovo obiettivo dell’economia: La felicità sociale (7/22) Leone Ugo Eco-servizi: Quanto vale il «lavoro» della natura (16-17/22) Italia Andruccioli Paolo Emergenze: Protezione civile Spa? (7/32) Sindacato: La strada che parte da Rimini (12/37) Armeni Ritanna Donne in carriera: Susanna e Emma (23/18) Bertozzi Luciano Esportazioni di armi italiane: Se i soldi dettano ancora legge (10/18) Carlini Roberta Dati sulla disoccupazione: Balletti poco innocenti (3/22) Telefoni e banche: I grandi scandali economici (7/29) Stipendi d’oro: Come prima, più di prima (9/22) Tasse: Ma perché, tu le paghi? (13/18) I guadagni delle élites (14/26) Crisi economica: Ne usciremo vivi? (15/18) L’oracolo Tremonti (16-17/18) Diseguaglianza: Quando i vecchi sono più ricchi dei giovani (18/42) Edilizia scolastica: Storie di ordinaria insicurezza (19/22) I giganti senza teste (20/24) Il mito del quoziente familiare (21/18) Alitalia: Il bluff (23/22) Europa e Italia: La crisi del debito pubblico (24/22) Dell’Olio Tonio Sei uomini tra terra e cielo (23/21) Farinelli Fiorella Circolare Gelmini: Il drappo rosso delle quote (3/26) Il silenzio delle donne (7/36) Carosello insegnanti (11/26) Che cosa ci aspetta (12/26) Pomigliano: La breccia (14/22) Ritratto di una generazione in bilico (15/29) Patto sociale: L’offensiva Marchionne (18/22) A confronto con il mitico e ben pagato insegnante tedesco (19/26) L’italiano e il permesso a punti (20/28) L’italiano agli stranieri: Un volontariato inedito (21/28) Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26) Scuola e lavoro: Ragazze poco tecno- Rocca 2010 - indice per tematiche principali sopravvivenza umana (24/28) Greco Pietro Piano Nazionale della Ricerca: Analisi seria, proposte interessanti, soldi zero (1/20) Emergenze: La gestione autoritaria della politica ambientale (6/18) L’Europa della conoscenza: Obiettivi mancati e promesse non mantenute (11/30) Declino italiano: La strategia perdente (18/18) Piana Giannino Confronti: Etica africana e cultura occidentale (1/16) Economia, la scienza della pubblica felicità (3/32) Si può parlare di legge naturale? (5/46) Posso donare un rene? (7/46) Tecnoscienza: L’uomo artificiale: Né apocalittici né integrati (8/37) L’uso della forza (9/32) Indagine: Gli italiani e la sessualità (11/22) Neuroetica: Rapporto tra scienza e etica (12/33) Etica e sindacato: Tra valori e bene possibile (13/26) Le vie alla pace (14/30) I poteri forti (20/38) Leone Ugo Catastrofi: Come convivere con il rischio (19/30) Rifiuti: Ma è vera emergenza? (20/22) Magnani Sabrina Microcredito: Yunus è anche a Bologna (8/16) Esperienza di aiuto: Perdi il lavoro, come ti senti? (12/22) Piana Giannino Etica e sindacato: Tra valori e bene possibile (13/26) I poteri forti (20/38) Etica – Bioetica – Scienze Filograna Emanuele (a cura di) Etica pubblica: Le regole dell’onestà. Intervista al prof. Giorgio Bernardo Mattarella (14/34) Fuschetto Cristian Transessuali: Niente è come sembra (1/45) Internet: Tra libertà e responsabilità (6/42) Galli Maria Giovanna Psichiatria: C’era una volta la città dei matti (6/36) Gianoli Romualdo Il contrasto tra patrimonio archeologico e opere pubbliche (2/34) Biodiversità: Una risorsa ad alto rischio (14/40) Greco Pietro Piano Nazionale della Ricerca: Analisi seria, proposte interessanti, soldi zero (1/20) Biotecnologie verdi: La patata della discordia (7/18) Genetica umana: La gallina non ha prodotto le uova d’oro (9/35) L’Europa della conoscenza: Obiettivi mancati e promesse non mantenute (11/30) Biotecnologie: Vita sì, ma non (ancora) artificiale (13/33) Nucleare: La revisione del Trattato di non proliferazione (14/18) Ricerca scientifica: I quindici anni che sconvolsero il mondo (16-17/14) Economia ecologica: Nuove ipotesi di Pisani Stefano Quel vasto oceano di matematica su cui galleggiamo (20/44) Neuroscienze Fuschetto Cristian La mente animale non è più un’eresia (11/38) Molari Carlo Prospettive evolutive (11/42) L’uomo e le menti altre Alleva Enrico-Vitale Augusto Menti animali (10/30) Greco Pietro Se anche il delfino è persona (10/33) Neuroetica Greco Pietro La teoria delle menti (12/30) Piana Giannino Rapporto tra scienza e etica (12/33) Dolore animale Greco Pietro Dolore fisico e sofferenza emotiva negli animali (22/30) Alleva Enrico-Vitale Augusto Gioia e dolore psicologici negli animali (22/32) Pocar Valerio Anche gli animali sono titolari di diritto? (22/35) Tecnoscienze Gianoli Romualdo Nanoscienze, nanotecnologie, corpo umano: Tra paura e aspettative (4/42) L’uomo artificiale Greco Pietro Macchine che pensano (8/26) Longo Giuseppe O. L’ibridazione uomo-macchina (8/34) Piana Giannino Né apocalittici né integrati (8/37) vedi anche la rubrica Sabato Giovanni Notizie dalla scienza Società - Costume - Mass media Armeni Ritanna Televisione: La vita nella scatola (22/26) Donne in carriera: Susanna e Emma (23/18) Vendola, Renzi, Pisapia… che bolle in pentola? (24/18) Arpaia Bruno Le paure del secolo: Le radici ancestrali (24/34) Carlini Roberta Dati sulla disoccupazione: Balletti poco innocenti (3/22) Stipendi d’oro: Come prima, più di prima (9/22) Tasse: Ma perché, tu le paghi? (13/18) Diseguaglianza: Quando i vecchi sono più ricchi dei giovani (18/42) Il mito del quoziente familiare (21/18) Dell’Olio Tonio I balilla e il crocifisso (20/21) Farinelli Fiorella Rapporto Censis: La leva principale del consenso politico (1/24) Il popolo viola: La novità c’è (6/22) Quando la cultura diventa polenta (9/26) Pomigliano: La breccia (14/22) Ritratto di una generazione in bilico (15/29) Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26) Gallizioli Marco Cybercultura: Ho un amico virtuale (13/40) Nuovi scenari: Precarietà del mutamento (15/43) La rete: ImMEDIAtamente… giovani (19/42) Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei (21/40) Verso il fondamentalismo? (23/42) Lodi Mario Come nasce il bambino cittadino (4/26) Longo Giuseppe O. 2010: Fuga nella rete (21/35) Magnani Sabrina Esperienza di aiuto: Perdi il lavoro, come ti senti? (12/22) Muzzi Nino La regressione iconica (9/38) Novara Daniele Bulimia tecnologica: Verso la fast education? (10/38) Piana Giannino Indagine: Gli italiani e la sessualità (11/22) Etica e sindacato: Tra valori e bene possibile (13/26) 33 ROCCA 1 GENNAIO 2011 logiche (24/24) Rocca 2010 - indice per tematiche principali Portoghese Anna 68° Corso di studi cristiani: Passione laica e profezia nella famiglia, nella politica, nella fede (18/33) Pulcinelli Cristiana Esperienza brasiliana: Reciprocità contro miseria (19/32) Rolandi Luca Giovani musulmani (3/30) Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34) Rossetti Livio Giornalismo incivile (18/45) Rusconi Gian Enrico Post-democrazia e classe dirigente (19/36) Saraceno Chiara Famiglia famiglie (18/36) vedi anche Cagnazzo Claudio Società Cultura – Religioni – Storia Cingari Salvatore L’equivoco meritocratico (12/42) Farinelli Fiorella Quando la cultura diventa polenta (9/26) Gallizioli Marco Cybercultura: Ho un amico virtuale (13/40) Nuovi scenari: Precarietà del mutamento (15/43) La rete: ImMEDIAtamente… giovani (19/42) Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei (21/40) Religioni: Verso il fondamentalismo? (23/42) ROCCA 1 GENNAIO 2011 Culture e religioni raccontate Quale Dio nella società contemporanea (3/40) Le ferite del passato (5/50) Ansie e nevrosi sulla libertà religiosa (7/49) Orfani del futuro (9/48) L’avventura del dialogo intrareligioso (11/50) Greco Pietro Ricerca scientifica: I quindici anni che sconvolsero il mondo (16-17/14) Le paure del secolo: Rischio ambientale tra catastrofismo e negazione (21/32) Migrazioni: La frenesia del viaggio, motore del progresso. Il contagio delle idee (23/33) La Valle Raniero I materiali dell’unità (11/13) Muzzi Nino La regressione iconica (9/38) 34 Novara Daniele Bambini: Il conflitto come strategia interculturale (4/36) Portoghese Anna 68° Corso di studi cristiani: Passione laica e profezia nella famiglia, nella politica, nella fede (18/33) Prattico Franco Migrazioni: Alla ricerca di un Altrove (23/29) Salvi Maurizio Russia: I conti con il proprio passato (11/14) Zizola Giancarlo La Chiesa in Italia: Nell’ora del dio padano (1/48) Il Papa in sinagoga: Un dialogo confermato (3/49) Pluralità di espressioni cristiane (14/48) La notte del cattolicesimo italiano (21/45) Il regime e le inquietudini dei cattolici (22/48) vedi anche le rubriche Cazzato Stefano – Moscati Giuseppe Maestri del nostro tempo Moscati Giuseppe – Protopapa Ilenia Beatrice Nuova Antologia Maestri del nostro tempo Cazzato Stefano Saul Kripke: Nel nome della comunità (2/43) Edmund Husserl: Quel che resta del mondo (9/43) Henri Grouès: L’esperimento del bene (11/45) Silvio Ceccato: L’ingegnere della felicità (13/43) Emil L. Fackenheim: La storia, il male, la redenzione (15/39) Francesco Adorno: Platone nostro contemporaneo (20/47) Karl-Otto Apel: Comunicazione, comunità, bene comune (22/43) Pensatori contro Marshall Sahlins: Una via zen allo sviluppo (4/45) Roger Garaudy: Reti di resistenza al non senso (6/45) Jacques T. Godbout: Dono dunque siamo (18/49) Louis Dumont: Genesi e trasformazione dell’individualismo (24/39) Moscati Giuseppe La questione della razza: Le risposte del pensiero contemporaneo (3/45) Antonio Corsano: Interprete di una nuova storiografia filosofica (5/43) Franz Boas: Pioniere dell’etno-antropologia (7/43) Rodolfo Mondolfo: Linee programmatiche per un nuovo umanesimo (8/45) Danilo Dolci: La maieutica di una rivoluzione nonviolenta (10/43) Franz Jägerstätter: La coscienza prima di tutto (12/47) Luce Irigaray: Tutto passa attraverso la differenza (14/43) Pierre Hadot: La filosofia come ‘esercizio spirituale’ (16-17/47) John Holloway: Come trasformare il mondo senza possederlo (19/47) André Glucksmann: Il totem del pensiero militante (21/43) Eric Voegelin: Quell’esperienza del trascendente che è la filosofia (23/47) Nuova Antologia Moscati Giuseppe Charles Baudelaire: Quei fiori del male che non appassiscono mai (2/45) José de Sousa Saramago: Il vangelo secondo un grande scrittore (4/47) Jack London: La letteratura sprofondata nell’avventura (6/47) Nanni Balestrini: Le mille rivoluzioni di un dadaista d’assalto (9/46) Michalis Pierìs: Viaggiando tra le impennate di fantasia e gli ancoraggi alla realtà (11/47) Grigore Vieru: Tutto l’universo nel tremolio di una foglia (13/45) Ohran Pamuk: Colorando gli oggetti e per tavolozza il Bosforo (15/41) Derek Walcott: Tra natura e storia lo squarcio della parola (18/51) Juan Ramón Jiménez: Quella religione profonda che anima la poesia (20/49) Sigrid Undset: Il fondo religioso di un’estetica del sogno (22/45) Protopapa Ilenia Beatrice Marco Lodoli: Scuola da dentro (3/43) Andrea De Carlo: Se scavando in se stesso un narratore (8/47) Paulo Coelho: Anche i sogni richiedono fatica (10/41) Alessandro Baricco: Se per ogni mare che ci aspetta… (12/45) Erri De Luca: Quello zig-zag dove scorre la vita (14/45) Nick Hornby: La vita è ironica… e non complichiamoci le cose (16-17/45) Banana Yoshimoto: Se i romanzi sono finestre (19/45) Anne Carson: Non in tutte le acque si annega (23/45) Rocca 2010 - indice per tematiche principali Teologia – Bibbia – Spiritualità Inserti e dibattiti vedi in Indice per Autore (n. 24/2010) le rubriche Rocca Indice perTematiche principali 2009 (1/29) Indice per Autore 2010 (24/57) Alberto Maggi Gesù samaritano - Il Cristo di Giovanni Lidia Maggi Ai bordi del testo Carlo Molari Teologia Arturo Paoli Amorizzare il mondo Enrico Peyretti Fatti e segni Giannino Piana Etica scienza economia politica società Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Rosanna Virgili Introduzione alla lettura della Bibbia Adriana Zarri Controcorrente Vita ecclesiale Bianchi Giovanni La chiesa ambrosiana: Dentro il cuore e fuor dai denti (3/47) Dell’Olio Tonio Il pensiero meridiano dei vescovi italiani (6/21) Chiese strumento di pace? (11/21) I balilla e il crocifisso (20/21) La Valle Raniero Cantare il gregoriano (9/13) I materiali dell’unità (11/13) Concilio e libertà (15/13) Il Concilio mancato (19/13) Portoghese Anna 68° Corso di studi cristiani: Passione laica e profezia nella famiglia, nella politica, nella fede (18/33) Sebastiani Lilia Indissolubilità: Per legge, per grazia? (18/39) Zizola Giancarlo La Chiesa in Italia: Nell’ora del dio padano (1/48) Il Papa in sinagoga: Un dialogo confermato (3/49) Filoleghismo vaticano: Il nuovo Patto Costantiniano (9/18) Il Bambino, il Prete, il Papa (10/46) Che cosa cambiare (13/48) Pluralità di espressioni cristiane (14/48) Giorni tempestosi (15/46) La notte del cattolicesimo italiano (21/45) Adriana Zarri: L’eremita scomoda e il suo Dio al femminile (24/43) Zizola Giancarlo La notte del cattolicesimo italiano (21/45) 2010 Tecnoscienza: L’uomo artificiale (8/25) Greco Pietro Macchine che pensano (8/26) Longo Giuseppe O. L’ibridazione uomo-macchina (8/34) Piana Giannino Né apocalittici né integrati (8/37) Migrazioni: La frenesia del viaggio, motore del progresso (23/29) Prattico Franco Alla ricerca di un Altrove (23/29) Greco Pietro Il contagio delle idee (23/33) L’uomo e gli animali non umani 1. Cervelli in gioco: L’uomo e le menti altre (10/29) Alleva Enrico-Vitale Augusto Menti animali (10/30) Greco Pietro Se anche il delfino è persona (10/33) 2. Neurocultura Fuschetto Cristian La mente animale non è più un’eresia (11/38) Molari Carlo Prospettive evolutive (11/42) 3. Dolore animale: Quando una scimmia muore le altre piangono? (22/29) Greco Pietro Dolore fisico e sofferenza emotiva negli animali non umani (22/30) Alleva Enrico-Vitale Augusto Gioia e dolore psicologici negli animali (22/32) Pocar Valerio Anche gli animali sono titolari di diritto? (22/35) 4. Neuroetica: Le possibili ricadute etiche, legali, sociali delle nuove conoscenze sul funzionamento del cervello (12/29) Greco Pietro La teoria delle menti (12/30) Piana Giannino Rapporto tra scienza e etica (12/33) Yemen: Un popolo in lento cammino (16-17/29) Salvi Maurizio-Bulla Gino Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca: Quale legge elettorale? (22/18) Carlini Roberta – Ferrero Giancarlo – Gentiloni Filippo – Greco Pietro – La Valle Raniero – Menighetti Romolo TUTTA l’annata di Rocca cioè quasi 1500 pagine spessore 5 mm la comodità di trovare nel CD-rom i 23 NUMERI integrali dell’anno gli INDICI per numero per autore per rubrica per tematiche principali con un click cerchi un autore scegli un articolo stampi quello che ti serve uno strumento funzionale per l’informazione la ricerca lo studio la documentazione TUTTA ROCCA con € 15 spedizione compresa PUOI SCEGLIERE IN OMAGGIO IL CD ROM SE DONI O PROCURI UN NUOVO ABBONAMENTO ANNUALE Sono disponibili i CD-ROM 2004-2005-2006-2007-2008 € 10 ciascuno spedizione compresa LA CONOSCENZA COME BENE COMUNE ROCCA 1 GENNAIO 2011 Pietro Greco 36 il fornaio e Bill Gates V iviamo nella società e nell’economia della conoscenza. La nostra vita, il nostro lavoro, il nostro tempo libero, il mercato degli oggetti e dei servizi che compriamo e vendiamo si fondano sempre più sull’uso di nuove conoscenze. Proprio come la vecchia società industriale si fondava sull’uso delle macchine. La conoscenza ha sostituito le macchine come mezzo primario di produzione. Ma delle macchine su cui si fondava la società industriale avevamo (e tuttora abbiamo) un’idea precisa di cosa siano. A chi appartengono. E a chi vorremmo che appartenessero. Karl Marx, per esempio, sosteneva che il passaggio dal capitalismo al socialismo consisteva nel passaggio del controllo delle macchine (i mezzi di produzione) dalla borghesia al proletariato. Molto più difficile è definire – anche solo da un punto di vista sociale ed economico – cosa sia esattamente la conoscenza. A chi appartenga, ammesso che possa appartenere a qualcuno. A chi vorremmo che appartenesse. Ma è una difficoltà che dobbiamo superare, perché definire cos’è la conoscenza è essenziale, proprio come nell’Ottocento era essenziale definire cosa fossero le macchine. È certo, tuttavia, che la conoscenza non è come una macchina. E neppure come un pezzo di pane. Non solo e non tanto perché, a differenza delle macchine e del pane, la conoscenza è immateriale. Ma anche e soprattutto perché, mentre le macchine e il pane sono facilmente appropriabili e possono diventare altrettanto facilmente «beni privati», la conoscenza non è facilmente appropriabile ed è per sua natura un «bene comune». Anzi, è un «bene comune» molto particolare. Infatti a differenza di altri beni comuni con l’uso non si consuma. È dunque una «risorsa infinita» che, a differenza di tanti altri «beni comu- ni», non va incontro alla «tragedia dei commons» (beni privati) ma produce naturalmente una continua «commedia dei commons». il mercato del pane Cerchiamo di spiegare cosa intendiamo. La storia può tornarci utile. L’industria nasce, come abbiamo detto, con lo sviluppo delle macchine a vapore e la realizzazione, in apposite fabbriche, di oggetti materiali il cui valore d’uso era essenzialmente determinato dal costo delle materie prime e dal costo del lavoro. Quando acquistiamo il pane da quel fornaio un po’ autistico che Adam Smith ha eletto a portatore emblematico degli animal spirits capitalistici, non paghiamo un prezzo arbitrario, dettato dai capricci del padrone del forno, ma un prezzo di equilibrio: correlato alla domanda del mercato, ma anche ai costi sopportati dal panettiere sia per reperire le materie prime (la farina, l’acqua e il sale, ma anche l’energia per far andare il forno) sia per remunerare il lavoro, suo e dei suoi eventuali operai, necessario a trasformare la farina, il sale e l’acqua in pane fragrante con sapiente impasto e giusta cottura. Noi tutti apprezziamo il pane perché soddisfa un nostro bisogno primario, quello di alimentarci. Ma agli occhi dell’economista il pane ha altre caratteristiche interessanti. Quello che ci vende il fornaio è, come abbiamo detto, un bene materiale appropriabile, perché noi possiamo comprarne un pezzo e sottrarlo all’uso di tutti gli altri uomini. Ma è anche un bene rivale, perché se noi lo usiamo, lo degradiamo irreversibilmente: dopo che lo abbiamo mangiato, il nostro pezzo di pane non è più utilizzabile da nessuno in assoluto (neanche da noi). Ed è inoltre un bene confinabile: posso impedire che esca dalla bot- un imprenditore del tutto diverso Che dire, invece, della conoscenza? Per esempio della conoscenza informatica che mi ha consentito di pubblicare questo articolo? Come il fornaio di Adam Smith, neppure Bill Gates ha messo a nostra disposizione il sistema operativo Word per scrivere queste pagine al computer in virtù del suo buon cuore, bensì per un preciso tornaconto. Ma, a parte il comune animal spirit che spinge entrambi a realizzare un profitto dalla propria attività, Bill Gates è un imprenditore affatto diverso dal nostro amico fornaio. Per molte ragioni. Perché ha fissato il lucroso prezzo del bene che ci ha venduto in maniera sostanzialmente indipendente sia dal costo delle materie prime (la poca plastica del cd o addirittura nessuna materia prima nel caso avessimo «scaricato» il sistema operativo via internet), sia dal costo del lavoro (suo, degli operai, ma anche degli ingegneri elettronici e degli informatici delle sue aziende). Bill Gates ha potuto proporre un prezzo (ahinoi, piuttosto esoso) del tutto scorrelato dal costo delle materie prime e dal costo del lavoro perché quello che ci ha venduto è un bene immateriale che richiede, per essere prodotto, una bassa intensità di forza muscolare e un’alta intensità di conoscenza. conoscenza: un bene non rivale, non escludibile, cumulativo Inoltre Bill Gates, a differenza del fornaio, ci ha venduto un bene che è non rivale. Perché, anche se noi lo abbiamo comprato, non lo abbiamo sottratto a nessuno. Tutti possono utilizzare il nostro medesimo sistema operativo per scrivere al computer: e infatti la Microsoft fondata a Seattle da Bill Gates, senza praticamente lavoro aggiuntivo rispetto alla realizzazione del prototipo, ha venduto centinaia di milioni di copie identiche dell’ultima versione di Word. Inoltre il sistema operativo con l’uso non si degrada. Può essere utilizzato da milioni di persone senza costi aggiuntivi e senza che nessuno perda qualcosa. In definitiva è un bene non rivale perché ne possiede i tre requisiti fondamentali: a) vendendo la conoscenza insita nel suo sistema operativo, la Microsoft non perde nulla. La conoscenza necessaria a sviluppare il sistema è stata acquisita in maniera definitiva e non viene perduta quando è venduta o condivisa; b) noi che compriamo il sistema operativo non abbiamo bisogno di acquistare la conoscenza (la conoscenza necessaria per utilizzarlo) più di una volta, anche se poi usiamo il sistema operativo ripetutamente per molto tempo; c) noi compratori non siamo in grado di farci un’idea precisa del valore della conoscenza connesso al sistema operativo prima di averlo acquistato. Una volta acquistato, il sistema potrebbe girare sui computer di tutto il mondo per sempre. È, per certi versi, un bene eterno. ROCCA 1 GENNAIO 2011 tega del fornaio; posso persino assediare una città e impedire che sia approvvigionata di pane (o della farina necessaria per produrlo). Tutto ciò rende possibile (non necessaria) la creazione di un «mercato del pane». E a determinare il «giusto» prezzo che, nel mondo di un’economia ideale capitalistica che in realtà non esiste né mai è esistita, è il miglior punto di equilibrio tra la domanda e l’offerta. crescita all’infinito La conoscenza si distingue dal pezzo di pane anche perché è un bene (quasi) non escludibile: posso facilmente impedire a 37 LA CONOSCENZA COME BENE COMUNE una persona di mangiare pane, non posso impedire – non facilmente almeno – a una persona di conoscere. Grazie alla sua non rivalità e non escludibilità la conoscenza è dunque un «bene naturalmente comune». Grazie alle sue proprietà di cumulatività la produzione di conoscenza ha la capacità di generare un’«esplosione combinatoria»: ovvero di crescita all’infinito del bene. Prendiamo il caso della matematica. Ebbene la conoscenza della matematica favorisce l’elaborazione di nuovi teoremi che, a loro volta godono delle tre caratteristiche e che, quindi, diventano occasioni per produrre nuovi teoremi in un processo di crescita senza limiti. la tragedia del common ROCCA 1 GENNAIO 2011 È per questo che, a proposito del bene pubblico conoscenza, parlano di (possibile) commedia dei commons, ovvero di un processo di segno opposto alla tragedia cui vanno inesorabilmente incontro i beni pubblici escludibili, rivali e non cumulativi come rilevato in un famoso articolo pubblicato nel 1968 su Science dal biologo Garrett Hardin. Se in un paesino di montagna esiste un pascolo libero cui possono brucare le pecore di tutti i cento pastori del villaggio, ebbene quel bene pubblico (common, in inglese) rischia rapidamente di esaurirsi in caso di improvvisa crescita dell’economia pastorale. L’erba del pascolo è un bene escludibile e rivale, se la bruca una pecora non è più disponibile – non immediatamente, almeno – per un’altra. Ogni pastore ha un grande vantaggio nell’aggiungere una pecora al suo gregge che consuma quel common (quando cresce la domanda di mercato della lana, del latte o della carne di pecora) e un piccolo svantaggio, perché l’erosione del bene comune si ripartisce tra tanti. Quel grande vantaggio individuale, tuttavia, si risolve ben presto in una tragedia per il common. I pastori, stimolati dal mercato, tenderanno ad aggiungere pecore e pecore ai loro greggi e ben presto il pascolo non avrà più erba sufficiente e si esaurirà. I vantaggi individuali si traducono in un danno collettivo, la perdita del bene pubblico comune esauribile, rivale e non cumulativo. È questa la tragedia dei commons. La conoscenza non è come il foraggio, che si esaurisce con il consumo: non si rischia di brucarne in eccesso. La conoscenza, come l’aria (in un ambiente non confinato), è un bene non rivale: il suo uso da par38 te di una persona non ne impedisce l’uso da parte di un’altra. Anzi, è qualcosa di più di un bene non rivale: se uso la conoscenza di tutti per elaborare un nuovo teorema, non solo non sottraggo ma, addirittura, aggiungo erba al pascolo comune della matematica. Possiamo dire quindi che la conoscenza viene arricchita e resa più accurata se aumenta il numero di ricercatori, ingegneri, artigiani e più in generale di persone che vi hanno accesso e la possono utilizzare. Nel caso di un bene pubblico non escludibile, non rivale e cumulativo possiamo, dunque, parlare non più di tragedia, ma di commedia dei commons. Cos’è Wikipedia l’enciclopedia che si è autorganizzata su Internet, se non la prova tangibile di questa caratteristica della conoscenza? Anche Wikipedia, naturalmente, ha le sue regole che tendono a preservarne la natura di common o di bene pubblico. Regole (non tutte ancora scritte) che sono diverse sia da quelle che tutelano i beni privati, sia da quelle che regolano i pascoli e tutti i beni comuni esauribili, rivali e non cumulativi. l’informazione congelata nella nuova economia della conoscenza Potremmo proseguire la ricerca dei caratteri peculiari della conoscenza. Ma conviene fermarsi a quelli essenziali. Non rivalità, (quasi) non escludibilità, e cumulatività: sono queste le differenze sostanziali tra i beni materiali proposti dalla vecchia economia industriale e i beni immateriali proposti dalla nuova economia della conoscenza. Con qualcosa in più. Si potrebbe obiettare che non tutto ciò che viene spacciato per conoscenza, nella nuova economia, lo è. Che Wikipedia è un caso particolare, non la regola. Che per poter consultare Wikipedia abbiamo bisogno di un sistema operativo. Per esempio il sistema operativo che abbiamo acquistato dalla Microsoft. Sono i dollari passati di mano con la vendita di questo sistema operativo che, a differenza della generosità gratuita degli estensori di Wikipedia, fanno l’economia della conoscenza. Ebbene, si potrebbe sostenere che quello che ci vende Bill Gates e che costituisce il fatturato su cui si regge una parte decisiva dell’economia della conoscenza in realtà non è conoscenza. Siamo un po’ tutti analfabeti informatici. E usiamo la gran parte dei sistemi operativi del nostro computer, compresi quelli Microsoft, senza avere la minima idea di come siano fatti. Quella che Bill Gates ci ha venduto è una merce partico- . questione brevetti E qui nasce una prima serie di problemi. La Microsoft ha brevettato l’informazione congelata contenuta nel suo sistema operativo, ma non distribuisce la sue royalties agli eredi di Alan Turing e a tutti coloro che hanno dato un contributo, piccolo o grande, allo sviluppo dell’informatica. Men che meno agli eredi di coloro che hanno inventato l’alfabeto e il linguaggio simbolico o sviluppato la logica e la matematica, su cui si fonda l’informatica. La verità è che – a differenza del fornaio che non ci fa pagare un costo per la ricetta del pane, un bene intellettuale comune elaborato nel corso di secoli dalla saggezza popolare, ma solo per la trasformazione delle materie prime in prodotto finale – l’azienda di Seattle fattura per la gran parte un bene comune, la conoscenza informatica, che non le appartiene certo in esclusiva. Né può sostenere che le royalties le sono dovute, perché necessarie a remunerare il lavoro dei suoi tecnici che hanno tradotto quella conoscenza in un pacchetto di informazioni congelate molto funzionali. Il prezzo unitario di Word è largamente indipendente dagli stipendi degli ingegneri della Microsoft. Il caso delle aziende biotech che, per esempio, brevettano alcuni beni comuni, come i geni contenuti nel Dna dell’uomo o di altri esseri viventi e le conoscenze molecolari diffuse intorno a questi geni, e pretendendo royalties da chiunque e in qualsiasi modo li utilizzi a prescindere dalla metodologia che usa, è ancora più eclatante. In definitiva nell’economia di mercato reale alcuni (i monopolisti) cercano di limitare il carattere non escludibile e non rivale della conoscenza. Cercano in maniera artificiosa di trasformare la conoscenza da «bene comune» a «bene privato». I costi culturali, sociali e anche economici di questa operazione artificiosa sono molto alti. Il brevetto per la protezione intellettuale dell’informazione congelata è uno dei sistemi adottati per promuovere il mercato delle idee immateriali nell’era dell’economia fondata (sull’informazione e) sulla conoscenza. il prezzo più alto Di qui la domanda: fino a che punto è giusto concedere a imprese private il brevetto per la protezione intellettuale di «pacchetti di informazione» congelati grazie soprattutto all’uso di un bene comune, come la conoscenza pubblica? Tanto più che spesso queste imprese utilizzano in maniera piuttosto aggressiva il sistema di protezione intellettuale sia per costituire monopoli o cartelli, sia per imporre un prezzo così alto da impedire l’accesso al bene prodotto a larga parte dell’umanità. Può il bene comune conoscenza diventare, attraverso i pacchetti discreti di informazione congelata confezionati dalle imprese, un fattore di esclusione sociale? La faccenda è ancor più inaccettabile e diventa addirittura odiosa quando la protezione intellettuale su un bene comune in linea di principio non rivale, non escludibile, non appropriabile, non confinabile e cumulabile concorre a impedire a milioni di persone di accedere a farmaci salvavita, come succede con i cocktails anti-aids, il cui costo taglia fuori decine di milioni di ammalati soprattutto in Africa. In definitiva, se restituiamo alla conoscenza la sua natura di «bene comune» la società che l’ha assunta a fondamento può diventare molto più democratica e anche molto più ricca. Se continuiamo a cercare di forzarne la natura e la riduciamo a un «bene privato», continueremo a pagare all’economia della conoscenza il prezzo più alto: quella della disuguaglianza crescente. dello stesso Autore BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecniche biomediche verso quale umanità? pp. 124 - i 15,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) ROCCA 1 GENNAIO 2011 lare, è un pacchetto ben definito di informazione congelata. Anche per questo può quantificare un prezzo per il sistema operativo Word senza correlarlo né al costo delle materie prime e né al costo del lavoro. Tuttavia, per poter realizzare il suo prototipo, la Microsoft ha avuto bisogno di molta conoscenza. L’informazione congelata contenuta nel suo sistema operativo non la si trova già disponibile in natura. Deve essere creata dall’uomo e organizzata in forma digitale. L’enorme conoscenza necessaria per produrre il sistema operativo Word non è posseduta tutta e neppure in parte preponderante dalla Microsoft. È per larga parte una conoscenza sofisticata e diffusa, conoscenza pubblica, ottenuta per lento accumulo di azioni creative, di innovazioni scientifiche e di scambi culturali di un numero imprecisato, ma enorme di persone sparse per il mondo in un periodo di tempo lungo e indefinito. Dietro il sistema operativo Word della Microsoft c’è, almeno, tutta la storia dell’informatica, almeno da Alan Turing in poi. E una parte rilevante della storia delle comunicazioni tra gli uomini. per i lettori di Rocca i 10,00 anziché i 15,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail Pietro Greco [email protected] 39 Giannino Piana e recenti affermazioni di Benedetto XVI circa l’uso dei preservativi, contenute nell’intervista rilasciata al giornalista tedesco Peter Seewald e pubblicate nel volume Luce del mondo, hanno suscitato vivo scalpore nell’opinione pubblica. Da più parti si è infatti rilevato come per la prima volta il Papa giustificasse, sia pure in «singoli casi» di carattere eccezionale, il ricorso al preservativo, giungendo persino ad affermare che esso può rappresentare il «il primo passo verso la moralizzazione, un primo atto di responsabilità». Al di là del caso specifico richiamato dal Pontefice, quello della prostituzione (con il rischio del contagio da Aids) – non è mancato, in proposito, anche un piccolo «giallo» dovuto alla diversa traduzione fornita da L’Osservatore Romano, che alludeva alla prostituzione femminile anziché a quella maschile come nella versione originaria tedesca – la novità consisterebbe, secondo molti commentatori, nell’ammissione, sia pure in casi straordinari, della legittimità dell’uso del preservativo, dunque, in qualche modo, nella sconfessione del principio affermato con forza dall’enciclica Humanae vitae di Paolo VI (n. 14) secondo il quale la contraccezione, sia meccanica che chimica, è un mezzo «intrinsecamente cattivo», al quale non si deve pertanto mai ricorrere in nessuna situazione e per nessun motivo. L ROCCA 1 GENNAIO 2011 le ragioni del magistero tradizionale Per sostenere questa posizione l’Humanae vitae chiama in causa – come è risaputo – il concetto di «legge naturale», sottolineando come la contraccezione implichi una diretta violazione dell’ordine della natura, in quanto determina la separazione tra il significato unitivo dell’atto sessuale (che viene direttamente perseguito) e quello pro40 creativo (che è deliberatamente escluso): significati strettamente connessi, secondo l’enciclica, alla natura dell’atto sessuale e pertanto non disgiungibili. A chi obietta che anche attraverso i «metodi naturali» si persegue la medesima finalità, il documento di Paolo VI risponde che la differenza sta nel fatto che, mentre il ricorso a questi ultimi consente semplicemente di conoscere ciò che si verifica in natura – l’esistenza nell’ambito del ciclo femminile di tempi biologicamente infecondi – nel caso della contraccezione l’infecondità è invece provocata dall’iniziativa dell’uomo (sua sponte) che stravolge artificialmente il corso della natura. Avvertendo il limite di questa impostazione eccessivamente «naturalistica» – la «legge naturale» è qui fatta coincidere con il rispetto del dato biologico – Giovanni Paolo II, che ha peraltro sempre ribadito, in termini rigidissimi, la bontà della norma dell’Humanae vitae, adduce a suo sostegno nel documento conclusivo del Sinodo sulla famiglia Familiaris consortio una motivazione di ordine più propriamente antropologico. La ragione del rifiuto della contraccezione andrebbe ricercata secondo il Pontefice nella violazione dello statuto dell’amore coniugale, il quale comporta che l’atto sessuale (che ne è l’espressione più profonda e più autentica) rimanga aperto a tutta la gamma dei significati che ad esso si riferiscono, in particolare tanto al significato unitivo che a quello procreativo. La contraccezione finirebbe dunque per mutilare l’amore coniugale, impedendo che esso sia vissuto in pienezza, poiché lo decurta deliberatamente di un significato che costitutivamente gli appartiene. la legge della gradualità La rigidità della norma e la debolezza delle motivazioni addotte per sostenerla hanno spinto, fin dall’inizio, un numero consisten- L’INTERVISTA DI BENEDETTO XVI licenza di preservativo? profetiche», come le grandi indicazioni contenute nel discorso della montagna, che hanno anch’esse un carattere normativo – non si tratta soltanto di pii consigli per una schiera di eletti, come talora si è affermato, bensì di indicazioni obbliganti per ogni cristiano – ma sono tuttavia norme aperte che, orientando la condotta verso un’ideale di perfezione, sono di loro natura destinate ad essere applicate gradualmente e mai passibili di essere totalmente esaurite. Il fatto che il rifiuto della contraccezione contenuto nella Humanae vitae venga ascritto a questa ultima tipologia di norme implica che la gradualità della sua attuazione non sia legata soltanto a un dato soggettivo – la situazione propria della persona o della coppia in causa – ma appartenga originariamente alla natura della norma stessa, sia cioè un connotato essenziale della sua identità, e che si possa perciò parlare di una vera e propria «gradualità della legge». Questa interpretazione costituisce un effettivo salto di qualità: l’ammissione che non si tratta di norma-precetto, ma di norma-ideale ha come conseguenza l’impossibilità di affermare l’intrinseca immoralità della contraccezione (intrinsice mala). A questa impostazione ha in verità reagito Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, sottolineando che il riconoscimento della «legge della gradualità» non implica l’ammissione della «gradualità della legge». Ma la posizione assunta dagli episcopati non è stata finora ufficialmente sconfessata; anzi alcuni dei documenti cui si è accennato hanno ricevuto il plauso dello stesso Paolo VI. ROCCA 1 GENNAIO 2011 te di rappresentanti autorevoli dell’episcopato mondiale e intere Conferenze episcopali, ad intervenire con la pubblicazione di una serie di commenti di natura prevalentemente pastorale – si era negli anni dell’immediato postconcilio ed è stato questo uno dei momenti più significativi di esercizio della collegialità, esplicitamente approvato da Paolo VI – che avevano lo scopo di mediare l’insegnamento papale in rapporto alla varietà e alla complessità delle situazioni esistenziali in cui le coppie si trovano a vivere. La via che è stata, a tale proposito, privilegiata dalla maggior parte degli interventi – via suggerita peraltro nell’ultima parte dalla stessa enciclica – è quella della «legge della gradualità», la quale consiste nel tenere in considerazione la condizione della singola coppia – la percezione che essa ha del significato della norma e della concreta possibilità di metterla in pratica – per spingerla progressivamente a dare il proprio assenso alla dottrina della chiesa. L’educazione morale, per essere efficace, deve infatti fare i conti con la diversità delle situazioni di partenza e graduare la proposta secondo la logica di un cammino in cui viene definita con chiarezza la successione delle tappe da percorrere. Ma l’argomento più significativo, che è stato talora invocato dalle Conferenze episcopali (tra queste va inclusa anche quella italiana), è rappresentato dall’interpretazione del «no» alla contraccezione come «norma escatologico-profetica», cioè come norma ideale di perfezione. L’etica neotestamentaria conosce infatti due ordini di norme: le norme-precetto, come i comandamenti, le quali sono norme chiuse e nettamente circoscritte – non è casuale che il decalogo appartenga al diritto apodittico, che abbia cioè una formulazione imperativo-negativa – che esigono come tali di essere messe radicalmente in pratica; e le norme «escatologico- la novità di Benedetto XVI L’intervento di Benedetto XVI fa propria quest’ultima interpretazione, mettendo in tal modo in discussione la possibilità di definire la contraccezione come «intrinsecamen41 LA CONOSCENZA COME BENE COMUNE te cattiva» o si limita a riaffermare la «legge della gradualità» mai rinnegata dal magistero papale precedente? Il testo dell’intervista, per quanto un po’ sibillino, non sembra prestarsi ad equivoci. Il Papa si muove nell’alveo della posizione tradizionale del magistero papale precedente, non solo perché asserisce di voler confermare la dottrina dell’Humanae vitae, ma soprattutto perché nel caso cui si riferisce, legato peraltro a un comportamento di per sé moralmente inaccettabile – l’esercizio della prostituzione – l’uso del preservativo è considerato sul piano soggettivo – come è detto chiaramente nel testo – un atto di responsabilità, che è il primo passo verso la moralizzazione. Non si tratta dunque di «una svolta rivoluzionaria» – come ha giustamente osservato il direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi – ma più semplicemente dell’applicazione della «legge della gradualità», che lascia pertanto impregiudicato – anche questo viene detto chiaramente nel testo – il giudizio negativo sulla contraccezione come male morale in sé. La «novità» consiste semmai nell’aver richiamato un principio – quello della «legge della gradualità» – che appartiene da sempre alla tradizione morale della chiesa come un irrinunciabile criterio pedagogico, ma che rischia talora di essere sottaciuto o dato per scontato. come uscire dalla attuale impasse? dello stesso Autore ETICA SCIENZA E SOCIETÀ i nodi critici emergenti pp. 152 - i 20,00 ROCCA 1 GENNAIO 2011 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 42 Al di là dell’interpretazione dell’intervista di Benedetto XVI, la questione della contraccezione costituisce, in ogni caso, un nodo critico che merita seria considerazione. Il criterio prioritario, al quale la coppia deve fare anzitutto riferimento nella formulazione del giudizio etico è la verifica del fine che persegue: essa deve cioè in primo luogo interrogarsi sulla disponibilità ad esercitare in modo generoso e responsabile la propria fecondità procreativa, inserendola peraltro in una visione più ampia (e specificamente umana) della fecondità che include altre forme espressive – si pensi all’adozione e all’affidamento o alle varie modalità di impegno verso gli altri – le quali rivestono un alto significato sociale. Da questo punto di vista, che è quello che più conta, si può essere generosi e responsabili ricorrendo alla contraccezione e non esserlo usando i metodi naturali. La questione del mezzo è dunque subordinata a quella del fine, pur rivestendo il mezzo un proprio spessore morale, che non può essere eluso: si incorrerebbe altrimenti in una visione machiavellica per la quale il fine buono rende automaticamente legittima l’adozione di qualsiasi mezzo. Il limite delle posizioni espresse dal magistero papale nei confronti dei cosiddetti «metodi artificiali» o «non naturali» sta tuttavia nella radicalità della loro condanna («intrinsecamente cattivi») e nell’insufficienza delle motivazioni addotte per giustificarla. Se infatti la motivazione etica, che è alla base dell’Humanae vitae, pecca – come già si è ricordato – di «naturalismo» nel senso che identifica la «legge naturale umana» con il rispetto del dato fisico-biologico, dimenticando che la natura umana è una natura complessa e pluristratificata e che perciò l’intervento nei confronti del dato biologico, quando in gioco vi è il bene della persona e della relazione interpersonale, non può essere considerato innaturale; la motivazione antropologica di Giovanni Paolo II pecca di un eccesso di idealizzazione dell’amore coniugale che si risolve nella penalizzazione di tutto ciò che non è ad esso conforme: il «no» senza riserve alla contraccezione nasce qui da una forma di purismo idealistico, che non tiene in considerazione il limite e la complessità delle situazioni umane. il bene possibile L’interpretazione fornita dagli episcopati nazionali, che definiscono – come si è detto – la norma relativa alla contraccezione come norma escatologico-profetica ha senz’altro il merito di farci uscire dalla rigidità di queste posizioni. Partendo dalla convinzione che il credente è chiamato a tendere alla perfezione del Padre (Mt 5, 48) e deve pertanto caratterizzare la sua esistenza come un cammino di permanente conversione, i vescovi invitano a considerare la norma della chiesa come una meta che va costantemente tenuta in considerazione e perseguita, senza che questo significhi rifiuto delle mediazioni che vanno messe in atto nella concretezza dei contesti in cui l’esistenza umana si svolge. Non è questo, del resto, il compito dell’etica? Ad essa non spetta infatti soltanto l’individuazione del Bene assoluto, ma anche (e soprattutto) la ricerca del «bene possibile». Di quel bene che è frutto di una mediazione tra i valori e la realtà; che è, in altre parole, la risultante di un «compromesso» che, lungi dal rinnegare i principi, si sforza di renderli efficacemente presenti nel vivo delle situazioni, impedendo che si incorra in stati di colpevolezza ingiustificata e sollecitando costantemente la tensione verso ciò che più si avvicina alla perfezione evangelica. Giannino Piana LUCE DEL MONDO dall’intervista una finestra sull’identità di Benedetto XVI A ti, dei sacramenti ai divorziati e della liceità del preservativo per la lotta all’Aids. In questo modo il papa si distanziava dalla rigida intransigenza di una scuola di teologia morale al potere a Roma dai primi anni di Wojtyla che aveva messo sotto scacco nella Chiesa cattolica le aperture pastorali del Concilio Vaticano II. grancassa mediatica sul condom Sfortunatamente la grancassa mediatica rimbombava quasi esclusivamente per la dozzina di righe in cui Benedetto XVI dichiarava che «in singoli casi giustificati» il ricorso al preservativo «può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole». Il papa ammetteva che «nell’uno o nell’altro caso, con l’intenzione di diminuire il pericolo di contagio, (il profilattico) può rappresentare tuttavia un primo passo sulla strada che porta ad una sessualità diversamente vissuta, più umana» (p. 170-171). Era questo il passaggio che catalizzava il maggiore interesse del testo, con un effetto fuorviante rispetto ad altri contenuti, non meno pregnanti. Indiscutibilmente l’ammissione della moralità in certi casi del ricorso al profilattico iscriveva il nome di Benedetto XVI nella storia moderna del progresso della dottrina morale della Chiesa cattolica verso la comprensione del linguaggio della sessualità umana, al di là dei pesanti conflitti di coscienza determinati dal pessimismo sessuale e dal rigorismo dogmatico in questo campo. Era incontestabile che il principio materiale difeso in passato secondo cui ogni contraccettivo sarebbe da considerare «intrinsecamente perverso» doveva ora fare i conti con le nuove eccezioni ammesse dal papa. Comunque alcuni pastori responsabili di diocesi in Italia non esitavano a confidare che l’intervento del papa avrebbe ottenuto immediatamente l’effetto di diminuire il 43 ROCCA 1 GENNAIO 2011 Giancarlo Zizola ccompagnato da un imponente clamore mediatico, veniva presentato il 23 novembre 2010, in una Sala Stampa della Santa Sede gremita, «Luce del mondo», il libro-intervista registrato l’ultima settimana di luglio nel palazzo di Castelgandolfo dal giornalista bavarese Peter Seewald al conterraneo Benedetto XVI. Duecentocinquantatre pagine pubblicate in italiano dalla Libreria Editrice Vaticana e nell’originale tedesco e altre lingue da dozzine di altri editori. Un testo che offriva nuove chiavi di lettura sulla storia e il futuro del pontificato attuale, e forse anche utili per migliorare le condizioni di partenza del prossimo. Oltrepassando lo stereotipo di «pastore tedesco», le risposte narravano di un Ratzinger aperto alle evoluzioni e disposto a saper fare tesoro dei propri errori. In questo bilancio del pontificato, a oltre cinque anni dall’elezione, egli si presentava non solo come un papa a suo agio nei laboratori accademici, ma anzitutto nella sua umanità semplice, quotidiana e colloquiale. Il papa ritrovava i contorni dei propri limiti umani e anche dei limiti della suprema funzione petrina. Egli si dichiarava disposto a considerare seriamente la prospettiva delle dimissioni «quando un papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli». Ciò allargava la previsione canonica delle giuste cause ammesse per la rinuncia anche alle condizioni spirituali del soggetto papale. Egli dimostrava di non essere prigioniero dei propri schemi astratti e, al contrario, di saper mettere in valore il principio di realtà, per trattare la ricerca di soluzioni di compromesso a problemi, come quello del matrimonio dei pre- LUCE DEL MONDO grado di ipocrisia nella pastorale matrimoniale. E non solo per la questione del preservativo, ma anche (e logicamente) per l’altra apertura sul controllo chimico della fecondità («è giusto che in questo campo molte cose debbano essere ripensate ed espresse in modo nuovo») e a proposito dell’eucarestia ai divorziati (con l’impegno ad analizzare più a fondo la questione della validità del matrimonio in una situazione in cui difetta la consapevolezza nelle coppie di cosa sia il matrimonio). Ma pur ammettendo l’importanza di questi passi in avanti, si doveva pur riconoscere che non si trattava che di tornare ad applicare l’antico criterio morale del «male minore», già invalso per autorizzare la pillola anticoncezionale alle suore nelle situazioni di guerra civile in cui si trovavano le religiose in Congo e in Bosnia o anche per giustificare l’aborto terapeutico nei casi di pericolo di vita per la madre. Da San Tommaso d’Aquino in avanti la Chiesa si era abbeverata per le sue aperture pastorali nelle situazioni complesse della vita reale delle coppie, alla sapienza del criterio per cui «chi troppo munge, schizza sangue», «qui nimis mungit, eiecit sanguinem». Questo riferimento storico nulla toglieva alla portata liberatoria dell’intervento pontificio, specialmente se contestualizzato in una fase storica di forte prevalenza delle forze tradizionaliste nella curia romana. Questo riferimento storico nulla toglieva alla portata liberatoria dell’intervento pontificio, specialmente se contestualizzato in una fase storica di forte prevalenza delle forze tradizionaliste nella curia romana. un questionario partigiano ROCCA 1 GENNAIO 2011 Nel dialogo si intrecciano linee di ricerca diverse, specialmente utili per spiegare i punti di vista di Benedetto XVI su alcuni passaggi controversi del suo quinquennio di governo, ad esempio sulla lezione di Ratisbona, sulla revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, sul caso Williamson, sulla restaurazione liturgica ecc... Più interessante, a nostro parere, il complesso delle risposte del papa sui nodi della crisi del cattolicesimo e sui suoi possibili esiti. Tanto più se si considera che, nello svolgere le sue valutazioni e nell’articolare le sue visioni sul futuro della fede cristiana, Benedetto XVI doveva misurarsi con un questionario di Seewald che, per quanto perspicace e universale, si lasciava impigliare non di rado in codici di lettura e stereotipi demonizzanti sulla modernità tipici della destra cattolica, nel presupposto (rivelatosi azzardato) di poter annettersi natural44 . mente il punto di vista del papa. Già autore di due altri libri-intervista con il cardinale Ratzinger, questo giornalista ex sessantottino ed ex comunista non si salvava dalla sorte dei rivoluzionari pentiti, di schierarsi in modo fanatico dalla parte opposta a quella in cui avevano militato. L’informazione religiosa aveva saputo imboccare durante il Concilio e dopo le strade dell’indipendenza rispetto alle prassi ancillari dei cortigiani, anche se molta strada restava da fare per realizzare pienamente la laicità cristiana in questo campo. Ma la facilità con cui Seewald aveva agitato il turibolo dinanzi al papa in questo colloquio faceva emergere che egli non aveva vissuto questa storia di emancipazione. Nella «Premessa» egli proclamava: «Mai prima d’ora nella storia della Chiesa un Romano Pontefice si era concesso ad una intervista personale e diretta». Evidentemente nessuno gli aveva ricordato che la parola «Mai» è molto rischiosa per un vaticanista minimamente al corrente del fatto che nella storia della Chiesa, a cercarlo, si trova sempre un precedente. Egli mostrava di ignorare l’intervista storica concessa da Benedetto XV al giornalista francese Louis Latapie, pubblicata da «La Liberté» di Parigi il 20 giugno 1915 e ripresa due giorni dopo dal «Corriere della Sera» di Milano. E non sembrava nemmeno ricordare che il 3 ottobre 1965 «Il Corriere della Sera» aveva pubblicato, nel corso della quarta e ultima sessione del Concilio, una grande intervista di Alberto Cavallari a Paolo VI. Il paradosso è che questo giornalista fortunato non si risparmiava dal diffamare di fronte al papa i giornalisti suoi colleghi, accusandoli in blocco di preordinate congiure contro la Chiesa. Paradosso nel paradosso: questa volta era il papa a correre in loro difesa e a smentire una rappresentazione così unilaterale, sostenendo il ruolo veritativo svolto dai media in questa crisi. Veramente questa era una novità nella storia delle relazioni, spesso conflittuali, tra il papato e i media. «Era evidente – diceva il Papa – che l’azione dei media non fosse guidata solamente dalla pura ricerca della verità, ma che vi fosse anche un compiacimento a mettere alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla. E tuttavia era necessario che fosse chiaro questo: sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti. La verità, unita all’amore inteso correttamente, è il valore numero uno. E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato. Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto ri- valore morale della modernità Come abbiamo detto, i contenuti principali del libro-intervista riguardano la rivalutazione dei valori morali della modernità e le proposte di «aggiornamento» delle forme della fede cristiana per favorirne l’intelligenza da parte dei contemporanei. In questo testo, Benedetto XVI sottolinea il dovere del papa di battersi ovunque per il rispetto dei diritti umani «come intima conseguenza della fede nel fatto che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio e che ha una vocazione divina». Questo dovere implica la lotta per la libertà, contro la violenza e contro le minacce della guerra, per la conservazione del creato e opporsi alla sua distruzione. Sono questi temi dai quali il papa vede emergere «la moralità della modernità». «La modernità non consiste solo di negatività. Se così fosse non potrebbe durare a lungo. Essa ha in sé grandi valori morali, che vengono anche dal Cristianesimo, che solo grazie al Cristianesimo, in quanto valori, sono entrati nella coscienza dell’umanità» (p. 40). Più avanti, il papa si distacca ulteriormente dalla prospettiva di una sovrapposizione estrinseca tra lo strato dell’appartenenza cristiana e un parallelo strato di cultura moderna. Egli aborre dalla riduzione del cristianesimo a sottocultura: «Dobbiamo fare in modo che i due aspetti per quanto possibile si compenetrino (...). L’essere cristiano è esso stesso qualcosa di vivo, di moderno, che attraversa, formandola e plasmandola, tutta la mia modernità e che quindi in certo senso veramente la abbraccia. È importante che cerchiamo di vivere e di pensare il Cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta, e quindi al contempo si allontani e si distingua da quella che sta diventando una contro-religione» (p. 87). Questo atteggiamento positivo fa giustizia di alcune annessioni integraliste e anti-moderniste delle posizioni pontificie. Il libro sembra segnare l’abbandono di un rigido Non possumus tipico della cultura cattolica intransigente. Anche Benedetto XVI mostra di apprezzare i bisogni dell’epoca e di stimare i tentativi che si elaborano per rinnovare i rapporti tra Chiesa e società in una fase di radicali trasformazioni cosmiche. Egli parla apertamente del dovere che incombe alla Chiesa di impegnarsi per adattare le proprie strutture storiche a queste esigenze e di contribuire alla grande alleanza necessaria per affrontare le sfide del futuro umano e salvaguardare la Terra dalla autodistruzione. Una dimostrazione di questo atteggiamen- to accogliente si trova anche nel passo in cui il papa dichiara il suo apprezzamento per l’uso del metodo scientifico nell’esegesi biblica, contrastando la tesi del suo interlocutore circa l’egemonia di «una pseudoscienza che ha operato in modo non cristiano, anticristiano fuorviando milioni di persone»: «Non giudicherei così duramente» gli risponde il papa: «Il metodo storico critico resterà sempre una dimensione dell’esegesi» (p. 236). la crisi della Chiesa e la prospettiva della riforma La lettura che Papa Benedetto svolge della crisi della Chiesa non cerca attenuanti apologetiche. L’indebolimento delle appartenenze tradizionali del regime di cristianità, così come l’irruzione degli scandali nel clero, dai quali il papa ammette di essere stato sorpreso per la loro dimensione inaspettata, sono recepiti come un bagno di realismo oltre che di umiltà. Riunendo i vari riferimenti di un testo, per sé abbastanza dispersivo, si vede emergere che è stata precisamente la durezza terribile della scoperta di «questa grossa nube di sporcizia» non solo ad aver aperto gli occhi al papa, ma anche a orientarlo verso una più chiara convinzione che un «grande lavacro» è necessario alla Chiesa e che a questa purificazione, a questa catarsi deve accompagnarsi una più coraggiosa risoluzione a favore della riapertura di una fase di riforme. Ciò a cui era arrivato nel 1959 Giovanni XXIII con il cuore, decidendo di convocare un Concilio, è arrivato anche Benedetto XVI con la testa, dopo circa 50 anni. In entrambi i casi ha agito la percezione della crisi storica della Chiesa. I riferimenti alla necessità di rinnovare le forme della fede, i linguaggi del dogma, per renderli comprensibili ai contemporanei, riproducono essenzialmente la piattaforma dell’allocuzione con cui Roncalli aveva aperto il Vaticano II l’11 ottobre 1962. Anzi rasenta la citazione letterale il richiamo alla distinzione fondativa di quel discorso fra la sostanza della verità intangibile e le forme storiche letterarie che la rivestono e che è necessario adattare, con la prudenza necessaria, perchè quelle verità siano intelligibili. «Affrontare con rinnovate forze la sfida dell’annuncio del Vangelo al mondo – dice il papa – impiegare tutte le nostre forze perché vi giunga, fa parte dei compiti programmatici che mi sono stati assegnati» (p. 185). Sebbene non escluda un altro Concilio, anche se «per il momento non ne vedo le condizioni», Ratzinger torna in vari punti sulla prospetti- ROCCA 1 GENNAIO 2011 volgerlo contro di lei» (p. 49). 45 va della ricerca di nuovi linguaggi: «Bisogna sempre chiedersi cosa, di quello che un tempo valeva come essenzialmente cristiano, sia stato in realtà solo espressione di una data epoca. Cosa, dunque, è veramente essenziale? Cosa appartiene al Vangelo? Cosa cambia col mutare dei tempi? Cosa non gli appartiene? Il punto decisivo in fin dei conti consiste sempre nel fare la giusta distinzione» (p. 200). Ancora (parlando del prevalente contesto scientifico della cultura odierna): «In questo grande contesto la religiosità deve rigenerarsi e trovare così nuove forme espressive e di comprensione. L’uomo d’oggi non capisce più immediatamente che il Sangue di Cristo sulla Croce è stato versato in espiazione dei nostri peccati. Sono formule grandi e vere, e che tuttavia non trovano più posto nella nostra forma mentis e nella nostra immagine del mondo, che devono essere per così dire tradotte e comprese in modo nuovo. Dobbiamo nuovamente capire, ad esempio, che il concetto di male ha davvero bisogno di essere riconcepito. Non lo si può mettere semplicemente da un canto o dimenticarlo. Deve essere riconcepito e trasformato dal suo interno» (p. 192). Di qui la «necessità di una nuova evangelizzazione» per un’epoca «nella quale l’unico Vangelo deve essere annunciato nella sua razionalità grande ed immutata, ed insieme in quella sua potenza che supera quella razionalità, in modo tale da giungere in modo nuovo al nostro pensare e alla nostra comprensione» (p. 194). Tanto più che le coscienze attraverso i media subiscono le conseguenze di una crisi culturale da secolarismo, che penetra in profondità: «Tanto più importante è perciò che la fede cattolica si presenti in modo nuovo e vivo e si mostri come forza di unità, di solidarietà e di apertura dello stesso Autore all’eterno di ciò che è nel tempo» (p. 164). LUCE DEL MONDO FEDI E POTERI nella società globale pp. 224 - i 25,00 ROCCA 1 GENNAIO 2011 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 18,00 anziché i 25,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 46 per un cristianesimo di scelta, non di massa Infine, questo libro propone o rilancia un nucleo di prospettive di riforma strutturale della Chiesa, in particolare sull’integrazione del primato con forme riequilibratici di collegialità episcopale e sinodale, sulla revisione di una figura solo burocratica della Chiesa, per farne rifiorire l’identità di fermento e di «opposizione a costellazioni potenti» ecc... Netta l’affermazione che il primato «non è una dittatura», ma si propone come un organo di unità necessario e persino atteso dall’ecumene cristiana. «È sbagliato» dice il papa, considerarlo un «sovrano assoluto». Richiamando la precisa portata del dogma dell’infallibilità, Ratzinger porta l’accento sui limiti della sua carica, negando che il papa «possa di continuo produrre infallibilità» (p. 23). Ancora una volta Joseph Ratzinger prende partito per un cristianesimo di convinzione, e ribadisce che la crisi cristiana particolarmente sensibile nelle aree dell’Occidente fa presagire la prospettiva che il cristianesimo non sarà un fenomeno di massa, anche se in Asia e in Africa le comunità cristiane di fede registrano vitalità e sviluppi rilevanti: «Del clima culturale in senso lato di molti paesi occidentali fa parte ancora la loro origine cristiana. Eppure ci orientiamo sempre più verso un Cristianesimo per scelta convinta. E da questo dipende in che misura sarà efficace un’impronta cristiana complessiva». Secondo il papa, «da un lato oggi è necessario rafforzare questo Cristianesimo che viene da una scelta, ravvivarlo e diffonderlo (...), dall’altro dobbiamo riconoscere che come cristiani non siamo identici con la cultura e la nazione come tali, ma che comunque abbiamo la forza di plasmarla e stabilire quei valori che la società assume, anche se la maggioranza di essa non è di cristiani credenti» (p. 223). In conclusione, il volume si poneva come una finestra sull’identità autentica di papa Ratzinger, una identità che non era facilmente leggibile o si trovava anzi esposta a fraintendimenti nelle rappresentazioni invalse. La sorpresa per alcuni aspetti inediti di questa storia dall’interno dava anche la misura di quanto la figura papale fosse stata travisata dalle mediazioni istituzionali se non malservita dal suo entourage. La mappa delle vie d’uscita dalla crisi cattolica non avrebbe potuto essere narrata in modo più convincente. Alcuni commentatori si spingevano fino a parlare di una «svolta di Ratzinger». Più prudentemente, altri preferivano ricordare che le conversioni nell’ordine spirituale, per quanto generose, non si esauriscono nell’intimità. Si coglieva nel libro l’assoluto abbandono del papa alla volontà divina ma anche la sua viva attenzione ai «Segni del Tempo». Fra questi due poli si svolge anche per il papa il dramma cristiano della responsabilità di assumere le decisioni adeguate e certamente costose di soglio che si impongono nell’ora dello Spirito per il bene delle anime. Solo le opzioni di governo possono infatti trasformare le belle intenzioni in fatti e operare quella «svolta» anche istituzionale nella Chiesa cattolica che è ritenuta storicamente necessaria e indifferibile perché il suo Annuncio possa raggiungere meglio un mondo in radicale trasformazione come l’attuale. Giancarlo Zizola NUOVA ANTOLOGIA Mario Luzi quella luce che illumina la parola P l’ermetismo, atto di accusa Poeta dell’ermetismo ‘spirituale’ fiorentino, saggista e critico letterario, dalla «prosa critica e d’invenzione» (Francesco Napoli) e dall’istinto irrefrenabile per il viaggio dantesco (Giulio Ferroni), Luzi si era laureato in Letteratura francese discutendo una tesi su François Mauriac. Dopo l’insegnamento nei licei, la docenza universitaria nella sua Firenze. L’esordio poetico è del 1935 quando compare La barca; e gli anni Trenta sono per lui anni di grande vivacità tra forti polemiche, la collaborazione con riviste d’avanguardia («Campo di Marte», «Frontespizio»...) e la frequentazione di ambienti ermetici, dove stringe amicizia – tra gli altri – con i giovani Carlo Bo, Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi. Non mancano peraltro, nella sua ampia produzione, intense pagine autobiografiche e volentieri, è evidente specie nell’ultimo periodo, la poesia si piega verso la prosa, adagiandosi su una narrazione che, proprio grazie all’aggiunta poetica che la arricchisce, apre sempre nuovi orizzonti e di osservazione e di ‘speculazione’. Né possono essere trascurate le sue eleganti e ricche traduzioni, specie dal francese di Rimbaud e Verlaine e dall’inglese di Shakespeare e di Coleridge, oltre che di altri classici. Accanto a questi nomi, vanno citate anche le opere di Paul Eluard e di Dino Campana e qualcosa (ma non tutto) di Arturo Onofri come voci nella voce di Mario Luzi, in un percorso assai originale di andate e di ritorni. Nel ’40 e nel ’46 si segnalano, rispettivamente, Avvento notturno («Correranno le intense vie d’Oriente/ventilate fanciulle e dai mercati/salmastri guarderanno ilari il mondo./ Ma dove attingerò io la mia vita/ora che il tremebondo amore è morto?») e Un brindisi. La scelta ermetica del primo Luzi, che poi si spinge in realtà sino alle rime d’amore di Quaderno gotico del 1947 è dettata da un’urgenza, quella di denunciare la falsa comunicazione in generale e le storture della retorica fascista in particolare. Ermetico è proprio l’atto di accusa mosso nei confronti di chi, per dare voce al proprio io, altera il circolo dire-ascoltare-ridire e soffoca per questo il tu, l’altro. la poesia ha un che di divino Ma la poesia e nello specifico la parola poetica ha in sé tutta la forza creatrice per riscattare l’uomo, tutti gli uomini, ogni giorno, ogni istante e in ogni angolo del mondo. Incontriamo così la cifra profondamente religiosa del lirismo luziano, dove peraltro estetica e letteratura riescono a dialogare mirabilmente con filosofia e teologia, ma 47 . ROCCA 1 GENNAIO 2011 Giuseppe Moscati er un attimo sembra di sentirlo presente. Poi scompare. Poi di nuovo ti si rifà vicino e lo senti compresente. È la dote dei grandi poeti e dei grandi scrittori: esserci anche nell’assenza, squarciare all’improvviso quell’ènorme tendone del tempo e dello spazio che ha sempre la stessa presunzione di poter coprire tutta la realtà e che invece, ogni volta che una penna d’eccezione si pronuncia, si scopre come una coperta troppo corta. È Mario Luzi (Firenze 1914 – 2005) che torna a farsi vicino, a cinque anni dalla scomparsa. Molto è stato scritto su di lui e uno dei passaggi che mi hanno colpito maggiormente è a firma di Adonis. Il quale, ricordando l’amico in poesia Mario prima ancora che l’intellettuale Luzi, si chiede che cosa aspetti ora al varco la poesia: essa, si risponde il poeta siriano, «non può spostare un sasso ma nonostante ciò, come la religione, riesce a dare un senso al mondo»; e Adonis chiude poi con un augurio: «che possa essere sempre una nascita-inizio». Tutto, mi pare, in perfetta sintonia con il sentire luziano. Tra le raccolte di Luzi che più hanno fatto scrivere ci sono Primizie del deserto (1952), Onore del vero (’57) e Dal fondo delle campagne (’65), ma forse un posto a parte lo meritano Su fondamenti invisibili uscito nel ’71 e Per il battesimo dei nostri frammenti dell’’85. NUOVA ANTOLOGIA anche con pittura, musica e altre arti. Se da una parte i versi del poeta fiorentino richiamano alcuni passaggi dell’agostinismo più verace, anche attraverso un aprirsi a se stesso nel cambiamento – e nell’evoluzione di una poetica che proprio Luzi ha voluto indicare come tripartibile in «Il giusto della vita» (1936-’60), «Nell’opera del mondo» (’60’80) e «Frasi nella luce nascente» (dal 1980 in poi) –, dall’altra essi riescono a cogliere anche l’essenza delle suggestioni di un maestro del colore come Simone Martini (Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994). Il pittore senese, secondo l’acuta interpretazione di Luzi, ci appare come lucido conoscitore del cromatismo fino al punto da far emergere anche il limite del colore: la sua naturale dipendenza dalla luce. Che rende ogni volta inedita l’era aurorale di ogni arte. È la luce che fa il colore. È la luce che permette di carpire la bellezza, di conoscere a fondo le relazioni, di assaporare la sensualità, di non perdersi la minima sfumatura dell’inquietudine che alimenta il nostro sentire. Come pure è la luce che fa la parola, dunque è la luce il vero componente materico della poesia. Poesia che, innalzando l’uomo al livello di una costante tensione verso il trascendente in virtù della scintilla primordiale che accomuna parola e vita, svela tutta la sua natura divina. Ma lo fa sempre come fosse un gioco a metà strada tra l’ultraterreno e il terreno, o meglio tra la natura divina dell’umanità e la ‘terrestrità’ di quest’ultima, fragilità e caducità comprese. l’ascolto, il dialogo teatrale e un felice paradosso dello stesso Autore Stefano Cazzato Giuseppe Moscati MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO pp. 240 - i 20,00 ROCCA 1 GENNAIO 2011 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 48 Una delle tracce che maggiormente sono in evidenza nella poetica luziana è senza dubbio quella dell’ascolto attento degli echi più brillanti della lirica moderna e contemporanea (qui dietro c’è Mallarmé), accompagnata a una forte passione per l’elemento dialogico-teatrale (qui c’è Eliot) che porta con sé l’impulso a scrivere anche versi per il teatro: Pietra oscura, Il libro di Ipazia, Ceneri e ardori, Felicità turbate, Il fiore del dolore... Ma il percorso poetico di questo autore – ha ragione Massimo Raffaelli che invita a superare gli stereotipi del Luzi mero poeta ermetico e del Luzi poeta naturaliter cattolico – si snoda anche attraverso tutta una serie di ripensamenti che da un iniziale interesse per la ricerca formale lo porta a ragionare poeticamente sul tempo e sull’eterno, sulla vita e sulla verità. Ecco le raccolte Nel magma (1963 e poi, in una versione accresciuta, ’66) e Al fuoco della controversia (’78): «Ridotto a me stesso?/Morto l’interlocutore?/O morto io,/l’altro su di me/[...]/o no,/niente di questo:/il silenzio raggiante/dell’amore pieno,/della piena incarnazione/anticipato da un lampo? –/penso/se è pensare questo/e non opera di sonno/nella pausa solare/del tumulto di adesso...». Ed ecco i già citati Su fondamenti invisibili e Per il battesimo dei nostri frammenti, che presentano chiaramente esiti di estremo lirismo. Un lirismo, cioè, molto prossimo al silenzio mistico e che tuttavia, per via paradossale, invita ancora una volta a dire e a scrivere oltre che, costantemente, ad ascoltare. Giuseppe Moscati per leggere Luzi M. Luzi, Autoritratto, a cura di P.A. Mettel e S. Verdino, Garzanti, Milano 2007. Id., Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, Milano 2004. Id., La barca, Le Balze Ed., Montepulciano (Si) 2005. Id., La ferita nell’essere. Un itinerario antologico, a cura di V. Nardoni, Passigli, Firenze 2004. Id., Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime, a cura di S. Verdino, Garzanti, Milano 2009. Id., L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998. Id., Opus florentinum, Passigli, Firenze 2000. Id., Pace e guerra, a cura di R. Poggi, Maschietto Editore, Firenze 2005. Id., Parlate, a cura di S. Verdino, Interlinea Edizioni, Novara 2003. Id., Tra poesia e vita. Antologia poetica, a cura di M. Zulberti, U.C.T. Edizioni, Trento 2006. Id., Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano, 1985. Id., Poesie ritrovate, Garzanti, Milano 2003. Id., Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1998. Id., Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Garzanti, Milano 1994. su Luzi Aa.Vv., Mario Luzi: gli inediti giovanili, «Poesia», n. 159 (marzo) 2002 e I novant’anni di Mario Luzi, «Poesia», n. 187 (ottobre) 2004. R. De Monticelli, Mario Luzi: novant’anni votati a incidere parole nella luce regina, Il Manifesto 20 ottobre 2004. G. Ferroni, Mario Luzi: il suo viaggio dantesco nel Novecento, L’Unità 1 marzo 2005. D. Iannaco, Luzi, un corpo a corpo con la storia, Corriere della Sera, 28 febbraio 2006. Aa.Vv., Quaderni del Centro Studi Mario Luzi «La barca», dal 1999: cfr. in particolare l’VIII Quaderno, a cura di U. Bindi e N.A. Petreni, Pienza (Si) 2007. F. Medici, Luzi oltre Leopardi. Dalla forma alla conoscenza per ardore, Prefaz. di D.M. Pegorari e Postfaz. di M. Beck, Stilo Editrice, Bari 2007. Adonis, Caro Mario, la tua poesia è vita, Corriere della Sera 27 febbraio 2010. E. Ventura, Mario Luzi: la poesia in teatro, Bardi Ed., Roma 2010. & V VIZI Filippo Gentiloni i si dimentica facilmente che fra le virtù più importanti si dovrebbe annoverare l’ospitare. Non è facile, non è di moda; soprattutto è passato dall’etica alla politica. Sembra riguardare non le persone ma i popoli, non le famiglie ma le migrazioni. Eppure non era così. Nella grande tradizione umana e cristiana l’ospite era importante, essenziale. Addirittura sacro. Per lui si apriva la porta e si preparava la tavola. Non era più lo straniero: o, meglio, era un tipo diverso di straniero, un tipo avvicinato, familiare, tale da modificare il rapporto, l’anagrafe. L’ospite non era più lo straniero, tanto meno il nemico, l’avversario. Anche se non era ancora il familiare. L’ospite modificava la società, che non risultava più composta di familiari e di estranei. E non era determinata soltanto dal denaro: ospitare non era un gesto C come è oggi, da persone ricche che hanno una camera in più. Si poteva ospitare anche in una povera tenda da campo. Nella quale l’ospite rimaneva tale, l’ospitalità non lo assorbiva. La società rimaneva ricca, differenziata, pluralista. Una lezione preziosa anche per l’oggi, quando le popolazioni si sono avvicinate, ma non omologate. Le differenze si sono mantenute e forse sottolineate. Lingue, costumi, religioni, abitudini. Porte aperte all’ospitalità ma anche alle chiusure. Tendenze che sottolineano l’identità a scapito dell’incontro ospitale. Come se per essere veramente se stessi fosse necessario allontanare l’altro, negargli l’ospitalità. Oggi nel mondo gli spostamenti, le migrazioni sono all’ordine del giorno. L’ospitalità è virtù difficile come molte vicende confermano; basti pensare agli zingari. Bisogna cercare di rivalutarla. 49 ROCCA 1 GENNAIO 2011 VIRTÙ AMORIZZARE IL MONDO amicizia nostra speranza Arturo Paoli ei primi tempi del mio sacerdozio la Chiesa cattolica dovette affrontare una domanda imbarazzante: declino o progresso della Chiesa? La domanda era assai inquietante (1) perché veniva dal cardinale arcivescovo di Parigi che acutamente coglieva nella Chiesa segni di progresso e segni di decadenza. Oggi seguendo il metodo statistico ampiamente usato, con la pretesa di dare dei giudizi su diverse realtà che ci coinvolgono, la nostra attenzione viene attirata a giudicare avvenimenti che ci inquietano assai. Le statistiche che si riferiscono alla pastorale della Chiesa cattolica, o in generale alla evangelizzazione, inclinano nell’indicare un calo piuttosto che una crescita nell’esercizio (solo nelle pratiche?) della Chiesa cattolica. N santi spiritualisti e santi storici ROCCA 1 GENNAIO 2011 Mi ha messo sulla strada per capire le cause profonde di questo allontanamento, una riflessione profonda sulla vita e sulle scelte del beato Carlo de Foucauld, di cui abbiamo celebrato il primo giorno di dicembre la morte violenta che lo ha colpito mentre vegliava nella preghiera, nel suo eremo di Tamanrasset. Fra i santi canonizzati esistono quelli che definirei spiritualisti e altri che classificherei come storici. Questa classificazione non è retorica ma a parer mio ha un’importanza capitale e urgente per chiarire il disagio di vivere nella società attuale. Per chiarire basta pensare a Gesù come Modello Unico definito così dal personaggio citato sopra. Non c’è alcun dubbio che il centro della missione di Gesù Figlio di Dio sia il Regno di Dio, cioè la riconciliazione degli esseri umani fra loro e l’armonia delle cose create prima dell’esistenza dell’uomo. La natura nella Lettera ai Romani appare come in preda a un gemito e a un’impazienza: «la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere ma per volere di Colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 19 – 22). 50 Su questo sfondo il giudizio sul tempo presente, la violenza che l’uomo manifesta nell’uso delle cose, l’individualismo generale dei credenti, che è il tradimento della virtù centrale del cristiano, la carità, ci dà delle piste per chiarire questo calo della pratica religiosa. Culturalmente il nostro tempo contiene la denunzia della morte della filosofia, il che significa che l’attenzione del pensatore sposta il suo centro dall’essere, e quindi dall’importanza dell’individuo, all’attenzione sui rapporti sociali e in generale sull’andamento delle relazioni fra le persone e le cose. Spesso dimentichiamo che le forme della religiosità fanno parte dell’evoluzione storica della società umana. Nel cristianesimo notiamo due aspetti fondamentali: l’esistenza di Gesù e il suo progetto di vita personale che deve essere imitato da tutti i suoi seguaci che lo considerano come Maestro. E questo aspetto caratteristico della nostra fede è in stato di evoluzione permanente. Quindi la morte della filosofia dell’essere ci porta all’attenzione sullo sviluppo delle relazioni umane e sulla storia della ricchezza che assume relazioni in movimento permanente. le relazioni La nostra religiosità è essenzialmente dinamica perché piuttosto che la storia dell’individuo religioso mette al primo posto la storia delle relazioni fra gli uomini e con le cose. E questo dà il primo posto ai santi che abbiamo definito storici, cioè a quelli che sono attenti ai movimenti sociali piuttosto che alle storie dell’anima. O per chiarire qualche dubbio, direi alla storia dell’anima coinvolta nella grande Storia dell’universo. Carlo de Foucauld ha ignorato per i primi anni della sua vita ogni tipo di trascendenza, e dalla luce della conversione ha colto il passaggio alla fede unicamente come seguimento di Gesù. E per arrivare ad assumere l’esercizio sacerdotale non è passato certamente attraverso profondi studi teologici. Semplicemente ha tenuto presente le scelte che nel tempo ha fatto il suo Maestro. E quindi il Regno di Dio cioè la riconciliazione degli esseri umani possibile soltanto con la scelta dei poveri e praticabile attraverso l’esempio piuttosto che con indifferenza religiosa Ci stiamo avvicinando a identificare le cause che oggi mettono in crisi la pratica religiosa organizzata della Chiesa cattolica. I segni dei tempi manifestano un allontanamento dall’amore che dovrebbe accomunare gli uomini indipendentemente dalle differenze politiche, religiose, e colmare le differenze nelle condizioni di vita che sono abissali. L’indifferenza religiosa non vuol dire chiudere il passaggio alla grazia di Dio che scende come luce nell’aridità dei cuori, colpiti dalle secche battute della tecnica, né insensibilità ai richiami di una religione eccessivamente attenta ai movimenti dell’anima invisibile e spesse volte assai distratta rispetto alle esigenze del Regno di Dio. Credo che sia questa la causa fondamentale del calo della pratica religiosa. Un’attenzione eccessiva al progresso della scienza, mettendo le sue scoperte sotto il giudizio di verità astratte, distoglie l’attenzione da questo fenomeno dell’impoverimento delle relazioni di prossimità fra gli uomini. L’allarme oggi ci richiama a difendere quella che Gesù ha definito amicizia: «non vi chiamo più servi ma amici». L’amico è colui che ci permette di raggiungere la regione del cuore, attraverso quell’itinerario di giustizia, di apertura ai veri valori umani e di rimozione di ogni forma di individualismo, basata su differenze di cultura, di religione e di condizione sociale, che sempre di più divide gli uomini e dissecca quella grande energia che Dio ha infuso nella persona che si chiama amore e più genericamente amicizia. Il quadro esistenziale della gioventù è molto simile a quella descritta dall’ufficiale francese: «una tristezza che ho provato solo allora piombava su di me ogni sera quando mi ritrovavo solo nel mio appartamento, mi ammutoliva e mi opprimeva durante le cosiddette feste; io le organizzavo ma venuta l’ora le trascorrevo in un mutismo, un disgusto, una noia smisurati» (3). Carlo de Foucauld rievoca retrospettivamente la sua esistenza sboccata nella luce. L’alternativa a questa noia doveva essere necessariamente un’alternativa religiosa? Ma il tempo prossimo che segue questo tempo di vita intensa nell’accogliere i piaceri immediati che si presentano alla sua portata, sono quelli dell’esplorazione del Marocco che lo portano ad un trionfo. Gli studi fatti durante questa esplorazione rischiosa gli meritano un apprezzamento generale e la speranza di una carriera abbastanza invidiabile. Ma questa noia e questo disgusto nel tempo del suo ritorno a Parigi si rendono più inquietanti e bisognosi di una soluzione. Proprio allora in mezzo alle approvazioni generali egli annota: «non ho mai sentito una simile tristezza, un malessere, un’inquietudine come in quel periodo. Un amore vero potrà colmarlo e spezzare la solitudine del suo cuore? Una donna, della quale non si sa nulla, riveste una certa importanza per alcuni mesi della sua vita» (4). Ma un pensiero sempre più acuto lo tormenta e aspetta da lui una soluzione. La gioventù attuale non potrà certamente aprire un tempo di rinascita generale della religiosità. Solo passando attraverso l’amicizia sarà possibile superare questa visione negativa dell’esistenza a cui sicuramente arriveranno la frequenza nelle discoteche e altri piaceri che cercano di risolvere una crisi che fatalmente si aprirà nei loro cuori. E questa è la nostra speranza. dello stesso Autore ANCORA CERCATE ANCORA pagg. 160 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) Arturo Paoli per i lettori di Rocca Note i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa (1) Card. Suhard, Décline ou issue de l’Eglise? (2) A. Chatelard, Charles de Foucauld, Edizioni Qiqajon, Magnano (Bi) 2002, p. 34. (3) Op. cit., p. 21. (4) Op. cit., p. 34. richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail [email protected] 51 ROCCA 1 GENNAIO 2011 le parole. «Come sei buono mio Dio! ... Mi sono spinto lontano da Te, dalla tua casa, sono andato in un paese lontano, il paese delle cose profane, delle creature, dell’incredulità, dell’indifferenza, delle passioni terrene. Vi sono rimasto a lungo... Non appena credetti che c’era un Dio compresi di non poter fare altro che vivere solo per Lui» (2). Le scelte che direttamente influiscono sul disegno Regno di Dio, come cammino verso la fraternità universale e quindi superamento degli ostacoli che la rendono sempre più difficile e sempre più lontana, sono quelle che accompagnano la sua vita. Il suo passato più vicino lo ha messo a contatto con le popolazioni musulmane. Lui non si sente mandato come missionario comune, ma coinvolto nel disegno universale del Cristo e così trascorre tutta la sua vita di convertito e di sacerdote in quella parte del mondo che non è della sua religione perché appartenente alla fede musulmana. Ma il Regno di Dio è universale, deve abbracciare la pacificazione delle diverse religioni del mondo. È questo il suo unico desiderio. E si oppone a tutti i tipi di nazionalismo che dividono gli uomini. È notevole che un ragazzo educato al nazionalismo più esasperato dal nonno, diventato militare e mandato per colonizzare una delle nazioni più evolute dell’Africa, l’Algeria, passi così radicalmente a una visione universale della situazione politica del mondo. TEOLOGIA l’offensiva culturale e filosofica dell’ateismo Carlo Molari Q uello di Dio non è più un problema esclusivamente teologico, ma è tornato ad essere anche un problema filosofico e culturale. I molti libri che escono in questi mesi sul tema mostrano che la ragione del molto interesse sta nel nuovo orizzonte culturale e nelle caratteristiche inedite che il dibattito su Dio ha acquisito negli ultimi tempi. Questo spiegherebbe anche «lo spettacolare ritorno di Dio in filosofia», di cui Jean Grondin (filosofo canadese docente a Montréal) esamina «le manifestazioni e i motivi» nella rivista Concilium (Atei: di quale Dio?, n. 4/2010, pp. 113123). Due caratteristiche emergono dai dibattiti attuali: la spiegazione ‘naturalistica’ di tutti i fenomeni compresi quelli religiosi e l’insistenza con cui gli atei attribuiscono ai credenti l’onere della prova. Può essere utile riflettere su questi aspetti del dibattito. naturalismo ROCCA 1 GENNAIO 2011 Mentre alcuni atei considerano la fede in Dio come un pericolo per l’umanità perché sarebbe fonte di violenza e costituirebbe un impedimento al dialogo, altri invece, sottolineano gli aspetti positivi della fede in Dio, in quanto espressione di alcune esigenze fondamentali dell’esistenza. Il programma ‘naturalistico’ intende, appunto, spiegare tutti i fenomeni della vita escludendo ogni ricorso a cause trascendenti o ‘soprannaturali’. Anche il contrasto che sorse tra Charles Darwin e A. R. Wallace dopo un lungo periodo di completa sintonia, riguardava precisamente questo punto, come appare con chiarezza dall’epistolario tradotto recentemente in italiano (MicroMega, 7/2010, pp. 104-117). Wallace, infatti, dopo alcuni esperimenti condotti in occasione di sedute spiritiche, si era convinto dell’esistenza di esseri trascendenti a cui attribuiva influs52 si sui processi della vita e sulla storia umana. Darwin, al contrario, restava fedele alla interpretazione della evoluzione della vita sulla terra per selezione naturale, senza alcun ricorso a nessun’altra causa esterna. Un passo ulteriore del programma ‘naturalistico’ consiste nel considerare la stessa religione come un fenomeno del processo evolutivo. «I programmi di naturalizzazione [infatti] riducono di norma la religione a sottoprodotto (di gran lunga superfluo) della evoluzione» (K. Müller, Concilium, p. 125). La fede in Dio, tradotta in simboli religiosi, sarebbe quindi l’espressione di un’esigenza naturale, che, almeno in alcune fasi dell’evoluzione umana, ha costituito un beneficio e in certi ambienti continuerà ad avere funzioni positive ancora per molto tempo. In questa prospettiva «Credere in Dio» può essere ritenuto «una emozione umana conveniente» come sostiene in prospettiva atea, il biochimico di Oxford Christopher Francis Higgins (Concilium, cit., pp. 133-142). Dio corrisponderebbe a un simbolo funzionale all’evoluzione vitale. «Credere in Dio… ha dovuto fornire un forte vantaggio competitivo alla nostra specie in particolare durante i primi tempi dell’evoluzione umana, come appare molto verosimile nella istituzione di comunità funzionanti. È un fatto che quasi ogni società, antica e moderna, ha costruito un ‘Dio’ o degli ‘Dei’ per soddisfare le proprie esigenze» (C. Higgins, ib. p. 135). La credenza in Dio è servita a spiegare l’origine dell’universo, il valore della legge, l’esercizio dell’autorità di alcuni su altri ecc. «Positivamente ciò ha senza dubbio aiutato a generare comunità di individui che collaboravano insieme, necessarie per prosperare in un mondo feroce. Il concetto di Dio è stato usato per regolare costumi e cultura» (C. Higgins, ib., p. 135). «Credere nello stesso Dio può bensì aver fornito il collante necessario a tribù e comunità per crescere a livello di culture e civiltà e per diffondersi nel mondo» (C. Higgins, ib., p. 136). «Altri sono poi in grado di trovare nel concetto di Dio un’autentica consolazione che infonde speranza, un’illusione di certezza» (C. Higgins, ib., p. 137), perché «fornisce un sistema di riferimento... che aiuta gli individui ad affrontare l’incertezza o che dà un senso di appartenenza ad una comunità che la pensa allo stesso modo, generando rituali e tradizioni che sono d’aiuto nel porre ordine all’esistenza umana» (Id., p. 141). «Se per questi individui la ‘fede’ funziona, questa è una prerogativa loro... Tuttavia ciò non significa che il loro ‘Dio’ abbia realtà al di fuori della loro mente e della loro coscienza» (C. Higgins, ib., p. 137). Il simbo- a chi le prove? L’ateo riconosce l’impossibilità di dimostrare che Dio non esiste dato che «ovviamente non si possono fornire prove di qualcosa di negativo» ( C. Higgins, ib., p. 137). Fino a non molto tempo fa l’esistenza di Dio era un dato quasi scontato. Chi negava Dio doveva portare le ragioni della propria convinzione. Oggi, al contrario, «per credere in Dio dobbiamo avere delle buone motivazioni. Ma se queste non vengono fornite non c’è nessuna ragione sufficiente per credere in Dio e l’unica posizione ragionevole è quella di ateo negativo o agnostico» (A. Flew, Esiste Dio. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alpha & Omega, Roma, p. 71). Flew nel 1985, ancora non credente era convinto che la presunzione della verità stesse dalla parte degli atei e sosteneva che l’onere della prova spettasse ai credenti, in base al «principio procedurale che seleziona la parte sulla quale doveva ricadere il peso della prova» (Flew, ib., p. 72) come nei tribunali inglesi. Anche dopo aver raggiunto la credenza in Dio Flew ha continuato a sostenere che «l’argomentazione a favore della presunzione di ateismo può essere accettata dai teisti in modo coerente» (ib., p. 73). Egli quindi considera l’ateismo «un punto di partenza metodologico, non una conclusione ontologica» (Id., ib.). Anche l’ateo Peter Atkins sostiene che «l’obbligo di fornire una prova deve riguardare quanti credono a una spiegazione più elaborata dell’esistente piuttosto che quanti ritengono che, col tempo, e alla luce dei suoi attuali successi, la scienza tirerà fuori una spiegazione semplice del fatto che l’universo con i suoi attributi e processi, che tutti gli aspetti del comportamento umano compresa la credenza che esista un Dio, e che l’emersione stessa dell’universo sono tutti il prodotto naturale di eventi causalmente correlati. Sono loro a dover dimostrare che la loro ipotesi più elaborata sia essenziale. Finora nulla in ambito scientifico ha richiesto l’intrusione di un qualsivoglia sentore di Dio» (P. Atkins, MicroMega, citato, p. 15). Mentre quindi nel passato i credenti ritenevano «che fosse naturale per gli esseri umani credere in Dio a causa dell’ordine, dell’organizzazione e delle leggi degli eventi naturali» ed anzi alcuni giungevano a dire che «l’idea di Dio è quasi innata» (Flew si riferisce al filosofo tomista Ralph McInerny,), oggi è diffusa invece la convinzione che l’ateismo sia la posizione più semplice e immediata (Flew, o. c. p. 73). La richiesta dell’ateo è giusta, ma non può esimerlo dal prendere in considerazione gli argomenti dei credenti senza pretendere che questi sappiano dire che cosa è Dio. Lo storico Frederick C. Copleston osservava già nel 1976 a Flew, che esigeva una precisa identificazione di Dio da parte del credente: «non credo che a ragione, si possa pretendere dalla mente di essere in grado di identificare Dio come una farfalla in una vetrinetta. Dio diventa una realtà per la mente umana, nel movimento personale della trascendenza. In questo Dio appare come l’obiettivo invisibile del movimento stesso. È nel contesto di questo movimento personale dello spirito umano che Dio diventa una realtà per l’uomo» (citato da Flew, o. c., p. 70). Tale richiamo alla esperienza della trascendenza è importante. Potrebbe essere tradotto in questo modo: la persona umana vivendo la fede in Dio scopre che nella sua vita è in azione una forza arcana, che può far fiorire forme nuove di umanità, espressioni inedite di misericordia, forme superiori di fraternità, progetti migliori di giustizia. La fede in Dio si mostra feconda nella storia. L’ateo dovrebbe indicare quale sia la ragione per cui la fede in Dio ha effetti positivi nella crescita della persona e nella organizzazione della società. Non può semplicemente rinviare a future scoperte della scienza come fa Peter Higgins come quando a proposito della coscienza scrive: «a tempo debito saremo quasi certamente in grado di spiegare più precisamente in termini fisici come si è generata la coscienza, in modo analogo a come Newton spiegò in termini semplici i movimenti all’apparenza ‘miracolosi’ delle stelle e dei pianeti che ora noi sappiamo applicare ovunque nell’universo» (P. Higgins, a. c., p. 141). In merito credo quindi sia legittima la domanda rivolta ora da Flew ai suoi «precedenti colleghi atei»: «Cosa dovrebbe accadere, o cosa sarebbe dovuto accadere, perché ci sia, a parer vostro, almeno una ragione per prendere in considerazione l’esistenza di una Mente superiore?» (A. Flew, o. c., p. 99). dello stesso Autore CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pp. 168 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail Carlo Molari [email protected] 53 ROCCA 1 GENNAIO 2011 lo funzionale che è Dio, quindi, «non possiede realtà al di fuori della coscienza umana» (C. Higgins, ib., p. 141). La natura stessa, infatti, suggerisce o impone di credere per superare più facilmente le difficoltà della vita come sostengono, pure in prospettiva atea, V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, in Nati per credere (Codice ed. 2008). Il fatto quindi, che la fede in Dio abbia funzione positiva non potrebbe essere addotto come argomento a favore dell’esistenza di Dio. INTRODUZIONE ALLA LETTURA DELLA BIBBIA una esegesi di scienza e cultura ROCCA 1 GENNAIO 2011 Rosanna Virgili 54 T ra i metodi più diffusi dell’esegesi sincronica è il metodo retorico. Si tratta di un metodo che viene inteso in due modi. Un primo modo è quello che si ispira ai principî della retorica classica greco-latina: esso si è sviluppato, soprattutto, negli Stati Uniti ed è stato sinora utilizzato maggiormente sui testi del Nuovo Testamento (1); il secondo si ispira ai principî della linguistica moderna e si interessa ai procedimenti di composizione biblici (2). Nella accezione classica la retorica è l’arte del persuadere e, quindi, la tecnica utilizzata per costruire un discorso persuasivo, secondo la teoria di Aristotele che per primo ne formulò una teoria (3). Negli studi biblici, oltre alla retorica aristotelica, è stata utilizzata anche quella latina, specialmente relativa a Quintiliano, grande teorico della retorica nel mondo romano. Il secondo tipo di analisi retorica che, comunemente, viene chiamata «biblica», viene applicato anche ai testi del Nuovo Testamento, ma specialmente a quelli del Primo (4). Esso segue, infatti, i criteri della lingua ebraica e del mondo letterario semitico, mentre la retorica classica – essendo greca – si applica più naturalmente ai libri biblici di lingua greca. All’interno degli studi della nuova critica letteraria è nata, poi, la narratologia. Questo approccio, di grande suggestione, si occupa esclusivamente dei testi narrativi ed ha ottenuto un grande consenso nel mondo degli studi biblici, tanto che i suoi criteri sono diventati assai diffusi. Cresciuta soprattutto in ambito anglofono (5) l’analisi narrativa ha trovato voce autorevole in studiosi come J.L. Ska (6), R. Alter (7) e J.P. Fokkelmann (8). Essa studia le forme del racconto: l’intreccio (il plot); l’interruzione dello stesso (il gap), i personaggi e il punto di vista del narratore. Ma l’aspetto più importante è il coinvolgimento del lettore nel mondo del racconto. Esso viene voluto ed ottenuto dal narratore stesso attraverso l’uso delle prolessi, delle anticipazioni o delle riflessioni e considerazioni che il narratore fa e che solo il lettore condivide. Nella analisi narrativa si parla di lettore reale, così come di autore reale, ma anche di autore implicito e lettore implicito. Quest’ul- timo si chiama anche lettore potenziale, ‘ideale’ di un racconto in quanto l’autore implicito lo ritiene in grado di comprendere quel racconto. Il lettore reale e l’autore reale sono fuori del testo quindi possono essere sconosciuti, ma l’autore e il lettore implicito sono dentro il testo e, almeno per l’analisi narratologica, sono più importanti dei precedenti. Circa il metodo strutturalista, infine, chiamato anche ‘semiotico’, esso trova il suo fondatore nel padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussurre (9). La semiotica si occupa di analizzare «la grammatica» del racconto, le strutture e le connessioni logicosemantiche che si attivano in un testo. L’interesse principale è per la relazione che lega le parti di un testo tra di loro, le «strutture» globali in cui i diversi elementi di un testo si interconnettono. Il limite di questo metodo è un tecnicismo troppo complesso, ciò nonostante esso ha goduto di un certo interesse presso gli studiosi. Gli autori cui si debbono i contributi più significativi sono A.J. Greimas (10) e R. Barthes (11) . l’importanza del canone Riteniamo che lo studio sincronico dei testi biblici debba essere la prima tappa dell’analisi esegetica. È evidente, infatti, che il testo finale sia stato composto con estrema ricercatezza e con il chiaro intento di dare un messaggio finale preciso ai lettori «ideali» dello stesso. Per questa ragione lo studio accurato delle forme e dei relativi contenuti merita la più grande attenzione. Inoltre, proprio dagli studi sincronici emerge la qualità letteraria e la bellezza degli scritti biblici. Tale che essa dà ragione a quanto già espresso da Nietzsche, il quale valutava i testi profetici come più pregiati di quelli della tragedia greca. Un giudizio che emerge dall’apprezzamento non solo per il valore formale, ma anche per la forza espressiva e le passioni coinvolte. Una precisa volontà teologica ha ispirato non solo i redattori finali di ogni singolo testo biblico, ma anche coloro che hanno composto i libri nell’elenco canonico. Ci sono studi importanti sui criteri canonici della composizione e del posizionamento dei testi al suo interno che risponde, per l’appunto, a dei l’importanza dei redattori finali Lo sviluppo che l’esegesi sincronica comporta rispetto a quella diacronica sta principalmente nella valorizzazione del testo finale. Vale a dire che l’approccio sincronico non potrà più considerare la «versione originaria» di un testo come quella da isolare e su cui basarsi – emendando il testo da tutto ciò che sarebbe posteriore ed aggiunto – per darne una lettura autentica. Definire, all’interno di un testo, quali parti siano ‘originali’ – quindi autentiche e da prendere in considerazione – è un’operazione che la sincronia reputa eterodossa, dato che il testo finale è un prodotto assolutamente e intenzionalmente artificiale, segno del modo tipicamente biblico di rileggere, che si manifesta anche attraverso il meccanismo della ripetizione. La sincronia ha indicato una via di uscita all’empasse in cui era caduta l’esegesi storica, irretita nelle contraddizioni, negli errori, nelle ripetizioni, che apparivano come autentiche brutture e indici di rozzezza letteraria, quando non facevano apparire i libri come semplici contenitori di diversi fogli di appunti slegati tra loro, alcuni di prima e altri di seconda mano. Molti dei rilievi fatti da Odifreddi, restano condizionati al metodo diacronico ed ai suoi vicoli ciechi; egli parla, infatti, scandalizzato, delle «innumerevoli ripetizioni in tutto l’Antico Testamento» o considera le pagine di Genesi 1-11: «contraddittorie logicamente, false storicamente (...) brutte letterariamente e raffazzonate stilisticamente», piuttosto che essere «un’opera corretta, consistente, vera, intelligente, giusta, bella, lineare» (13). Evidentemente ha ragione, ma dovrebbe provare a seguire con più cura ed attenzione il percorso esegetico e le sue nuove soluzioni. valutazioni Come i metodi storico-critici, anche i metodi sincronici sono condizionati dalle correnti filosofiche, culturali e letterarie dell’epoca in cui si manifestano. L’ermeneutica e la linguistica influiscono sul modo di dare autorevolezza al testo, per quello che è. Non si procede più alle espunzioni, né si accetta più un criterio genetico e selettivo della materia letteraria, ma tutto viene considerato di diritto sulla vasta superficie (sincronica) del Libro. Decisivo è stato l’influsso della filosofia ermeneutica che ha visto studiosi come Heidegger e Gadamer ispirare i criteri esegetici che hanno permesso di focalizzare l’importanza del soggetto che legge (oggi) la Bibbia e di quanto questi vi metta di suo nel comprenderla e nell’interpretarla. Un autore di spicco in questo ambito è, inoltre, Paul Ricoeur, il quale ha condotto numerosi studi proprio sul testo biblico elaborando preziosi criteri di metodo per la lettura e l’interpretazione biblica (14). Un certo pensiero relativista ha indotto, poi, ad uno studio centrato sulle diverse forme e attestazioni testuali, ciò che potremmo più semplicemente definire con l’ammissione della «pluralità» del testo biblico e quindi dei vari gruppi che ne sarebbero all’origine, fino a rilevare persino la soggettività di chi avrebbe impresso la fisionomia finale e canonica dell’intera collezione e dei motivi teologici, catechetici o ‘politici’ che l’avrebbero causato. Le scienze del linguaggio, fortemente incrementate in tutto il Novecento, hanno influito sulla ricerca linguistica biblica e moltissimo sui metodi sincronici quali la retorica del discorso, lo strutturalismo, la lessicografia e la scienza della traduzione in generale. Quanto alla temperie culturale che si è andata affermando in tutto il Novecento con la sua esaltazione della scienza e della tecnica, anch’essa non ha mancato di toccare il mondo dell’esegesi biblica: una vastissima conoscenza scientifica dei testi antichi relativi alle scritture, viene frequentata da studiosi soprattutto di area statunitense; mentre la ricostruzione dei testi raggiunge livelli di tecnicismo analitico, filologico e sintattico tali, da rischiare di soffocare l’anima stessa della Parola. Oltre a ciò i rivolgimenti sociali, politici, culturali del secolo scorso hanno ulteriormente plasmato l’esegesi: le scienze umane, come la psicologia e la pedagogia, le scienze sociali, le scienze politiche vengono ad investire intensamente l’interpretazione della Scrittura (il femminismo, la teologia della liberazione, ecc.). Il bilancio che facciamo sin qui sui metodi di lettura e conoscenza della Bibbia, sconfessa del tutto l’accusa di oscurantismo, visto che si tratta di metodi che non solo non ostacolano l’istruzione, lo sviluppo e l’evoluzione culturale, ma sono, da tutto ciò, affatto permeati ed ispirati, tanto da diventarne, a loro volta, dei promotori. Rosanna Virgili Note (1) Tra gli studi più utili per conoscere questa analisi applicata al Pentateuco cf.: J.W. Watts (1999); D.J.A. Clines, D.M. Gunn, A.J. Hauser (edd.) (1982); D. Patrick, A. Scult. (1990). (2) Cfr. R. Meynet, Lire la Bible. Un exposé pour comprendere. Un essai pour réfléchir, Paris 1996. (3) Per il modo in cui viene utilizzata la teoria di Aristotele sui testi biblici cf.: C. Pererlmam, L. Olbrechts-Tyteca (2001). (4) A fondamento sono gli studi di R. Lowth (1753), J. Jebb (1820) e T. Boys (1824). (5) Si vedano gli studi di A. Berlin (1983); M. Sternberg (1985). (6) Cfr. «Our Fathers Have Told Us». Introduction to the Analysis of Hebrew Narratives (AnBib 13), Roma 1990. Molti gli esempi dal Pentateuco. (7) Cfr. L’arte della narrativa biblica, Brescia 1990. Analisi sui testi del Pentateuco specialmente su Genesi. (8) Cfr. Narrative Art in Genesis, Sheffield 1991. (9) Lo strutturalismo trova le sue radici nel formalismo russo di Vladimir Propp. Per questo tipo di analisi applicata anche a testi del Pentateuco si veda: R. Lack (1978); T.J. Prewitt (1990); S. Jackson (2000). (10) Cfr. Del senso I, Milano 1974; Del senso II. Narrativa, modalità, passioni, Milano 1985. (11) Cfr. La lutte avec l’ange: anlyse textuelle de Genèse 32.23-33,in F. Bovon (ed.), Analyse structurale et exégèse biblique, Neauchâtel 1971, pp. 2739. (12) Cfr. B.S. Childs, Old Testament Theology in a Canonical Context, London 1985. Trad. it.: Teologia dell’Antico Testamento in un contesto canonico, Cinisello Balsamo 1989. (13) P. Odifreddi, Perché non possiamo, pp. 35; 2829. (14) Cfr. P. Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Brescia 1977; Ermeneutica biblica. Linguaggio e simbolo nelle parole di Gesù, Brescia 1978; La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio della Rivelazione, Milano 1981. 55 ROCCA 1 GENNAIO 2011 criteri teologici. Solo per far un nome ormai classico in questo tipo di studi citiamo B. Childs nel suo libro di Teologia biblica (12). Detto questo va ricordato che il testo finale non deve assumere in nessun caso un valore assoluto, per non correre il rischio di sfiorare un nuovo tipo di fondamentalismo. L’indagine diacronica della Bibbia resta imprescindibile per dare intelligenza, spessore, relatività storica, indispensabile alla comprensione obiettiva dei testi. FATTI E SEGNI pregi e difetti ROCCA 1 GENNAIO 2011 Enrico Peyretti A biti – Vergognarsi di vestire abiti vecchi è sciocchezza. È sentirsi consistere nel proprio abito, come un manichino delle vetrine. Madre – Una mamma protegge il bimbo dal morire, ma sa, senza pensarci, che il suo bimbo un giorno lontano morirà. Se quel giorno arriva ora, la notte piomba sul nuovo giorno, soffoca l’alba, è spada nel cuore della madre: «Stabat mater...». Dove la mortalità infantile era alta, e dove lo è ancora, le madri devono stringere il cuore per il dovere di sopravvivere. Ma, per lo più, almeno qui da noi, il loro cuore si divide tra il sollievo di vedere il bimbo crescere sano e bello, e, dall’altra parte, la pena inconsapevole di non essere là, quel giorno lontano, per rispondere all’invocazione ultima di tutti i morenti, che – sempre, tutti – chiamano la mamma. Lei è la vita. Quell’invocazione estrema è uguale alla prima del bimbo, espressa in gesti e aneliti, da subito, ben prima di diventare parola. I grandi momenti si congiungono. Una mamma, senza pensarci, soffre di dover morire prima e abbandonare il figlio, anche se saprà da tempo camminare da solo, e soprattutto ne è straziata quando il figlio cresce di età con qualche incapacità più o meno grave. Eppure sa anche che in qualche modo lei ci sarà, quando lui la chiamerà. Chi dà la vita non la toglie più (ma accade anche che una madre tolga la vita al figlio, quando il mondo le cade addosso sconvolgendola). Così vivrà lei, fino a che vive lui, e oltre, entrambi. I momenti rivelatori della vita sono tutti momenti di nascita. La nascita rivela che la vita è sorgente. Nascere è sapere che altri ci fa nascere. Far nascere è sapere che la vita passa oltre noi, oltre il tempo che ci è dato. Un padre sa queste stesse cose, ma in parole più che col cuore, e assai più confusamente di una madre. Mascalzoni – Se tutto il mondo fosse fatto di mascalzoni ma tu non fossi completamente mascalzone, il mondo non sarebbe fatto di mascalzoni. Le statistiche, anche quelle elettorali, non conoscono la verità. Persone – I difetti di una persona sono spesso il rovescio della medaglia dei suoi pre- 56 gi. Se vuoi questi, accetta quelli. Vecchi – Invecchiando, la vista morale non cala, si acuisce: si vedono di più il bene e il male. Il male, sia micro che macro, ferisce e offende come mai prima. Non l’avevi mai visto così profondo e vasto. Inocula disperazione, se non trovi difesa. Il bene non è più in superficie, come poteva sembrarti una volta, ma nel cuore vivo del mondo, sotto ogni ingombro di male o di semplice peso, e ti manda ogni tanto, dal suo nascondimento, qualche raggio nuovo, sufficiente a piangere di gioia e nutrirti per altre giornate di cammino. Questi due poli orientano tutto. Le cose di mezzo, la cosiddetta concretezza, lasciale alle età di mezzo. Le ringrazi per il loro lavoro, ma ti accorgi anche che – per lo più – guardano corto, credono di fare le cose più importanti, a volte non sanno del tutto dove vanno, li vedi sballottati tra forze polari che non riconoscono bene, mentre brillano come «esperti» nelle cose mediane. Politici, economisti: tu li vedi brancolare con finta sicurezza. Se lo dici ti canzonano come svanito, ma in questa tua nuova «in-fanzia» (un parlare diminuito, più imbarazzato e concentrato) sei più al margine, non comprendi tutte le novità sull’onda, ma ora vedi meglio tutto dall’alto e da dentro. Cerchi di aggiornarti, di seguire le analisi, ma le trovi sempre un passo indietro a ciò che intuisci. Niente è veramente nuovo. Sempre e ovunque, si ripropone lo stesso bivio. Ti diranno che pretendi di sapere che cosa è bene e che cosa è male, e che queste sono categorie astratte: è un argomento-mannaia che vince sempre. Allora parli sempre di meno (quando non perdi la pazienza...). In realtà, lo sappiamo tutti dove è bene e dove è male, lo sanno anche loro, ma ci pensano meno, e hanno meno materiale di conoscenza e di riflessione per distinguerli nelle zone di realtà dove si confondono. La vicinanza alle cose li disorienta. Tutti saprebbero riconoscere le due direzioni (è bene ciò che allontana dal male), cioè che cosa risponde alla vita e che cosa la tradisce, se rallentassero la corsa e ascoltassero la sapienza del tempo. A te lo insegna il tempo, senza tuo merito. ❑ CINEMA N oi credevamo, che prende spunto e titolo dal romanzo di Anna Banti uscito nel 1967, si articola in quattro movimenti, se vogliamo usare un termine musicale autorizzato dalla colonna sonora, che fa ampio uso di entusiasmanti pagine verdiane ma anche di Rossini e Bellini. I primi tre portano il nome di Angelo, Domenico e Salvatore, giovani patrioti mazziniani di origine campana e di differente estrazione sociale. L’ultimo, che con amarezza fa riferimento all’alba della nazione, trasferisce di nuovo la scena al sud martoriato dalla repressione piemontese e racconta gli orrori dello scontro fratricida di Aspromonte. Quello di Martone è dunque un film di complessa e tormentata coralità che, pur mettendo in scena alcuni personaggi dei quali si parla nei libri di storia (Mazzini, la Belgioioso, Poerio, Castromediano, tutti non a caso dei perdenti), lascia il primo piano ai comprimari, «gente comune» che seppe offrire alla causa il proprio contributo di entusiasmo e sangue. Ma il regista e il suo co-sceneggiatore Gianfranco De Cataldo, pur coscienti che il movimento mazziniano abbia rappresentato il punto più alto di elaborazione politica ed etica in ambito risorgimentale, scelgono piuttosto di porre l’accento sulle sue contraddizioni. Nucleo forte di Noi credevamo è dunque costituito, anche, dall’analisi dei metodi della cospirazione settaria e della psicologia dei suoi adepti, oltre che dal problema della tollerabilità etica dell’omicidio – del regicidio, e della strage, talvolta – come strumento di lotta politica. Qui Martone si appoggia a quell’insostituibile archetipo letterario rappresentato da I Demoni (alla vicenda personale di Noi credevamo Dostoevskij sembra d’altronde rimandare anche l’impressionante scena della fucilazione simulata, della quale il grande scrittore russo fu vittima dopo l’arresto per attività sovversive nel 1849), tanto approssimativi, foschi e in qualche modo caricaturali nel loro narcisismo ai limiti della psicopatologia appaiono gli «eroi» – o perlomeno alcuni di essi – a prescindere dalla necessità vitale dell’utopia come motore della Storia che li anima. Proprio per questo, in un’opera nella quale i cosiddetti grandi eventi sono collocati sullo sfondo, talvolta semplicemente nominati dai protagonisti, ampio spazio si dedica all’episodio dell’attentato di Felice Orsini a Napoleone III, esempio fra i più tragici di un estremismo in cui convergono diagnosi politiche frettolose, volontà di autoaffermazione eroica attraverso il gesto e frustrazioni individuali lungamente sopite. Fatte salve le differenze di contesto, un po’ come nel terrorismo delle Br, per intenderci. Se, come è ben presto chiaro, tutto il film appare calibrato sul doloroso rapporto passato-presente, è nel movimento conclusivo che si ha un’accelerazione verso l’attualità. Tornato nel natìo Cilento, Domenico ormai cinquantenne e disincantato per gli esiti della propria militanza, trova una terra messa a ferro e fuoco dai bersaglieri che trattano i contadini come le truppe dell’esercito delle Due Sicilie nell’incipit; scopre che il notaio, come in un romanzo di Balzac, è diventato il padrone del paese sfruttando la nuova situazione politica; si imbatte in Saverio, figlio di Salvatore, che ha disertato per unirsi a Garibaldi convinto che il padre, in realtà assassinato da Angelo, sia stato vittima della repressione borbonica. Intanto, la collina si imbruttisce di strutture in cemento armato mai terminate tra le quali si consuma l’avventura garibaldina. Tutto deve cambiare perché niente cambi, sentenziava Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, arrivava a constatare ben prima De Roberto nel fluviale corso del suo capolavoro, I Viceré. Oggi il napoletano Martone non può che essere ancora più drastico, certificando, nella simmetria tra le sequenze d’apertura e della con- clusione, la continuità di un potere che usa idealità generose come falsa coscienza per il proprio immutabile scopo. Se con la confusione di Saverio allude forse alla piaga nazionale della falsificazione della memoria storica, trascinando nel passato l’immagine decontestualizzata di quelle rovine ribadisce con elegante sfrontatezza come questo sia «un film sull’Italia che noi viviamo e sulle sue radici». E, nell’epilogo «metapolitico», mentre Domenico sale le scale di un Parlamento nel quale rimbombano le parole vuote di Crispi, forse il più emblematico interprete della vocazione nazionale al trasformismo, l’assunto si fa invettiva, dito e pistola puntati contro lo svuotamento delle istanze di un processo storico dal quale sarebbe stato lecito attendersi un salto di civiltà se non una vera e propria palingenesi. Noi credevamo. E, nonostante tutto, crediamo ancora, sembra dirci il regista con questa affresco, sontuoso anche per il livello dei contributi tecnici, tra i quali non possiamo non segnalare il magnifico nitore della fotografia del ticinese Renato Berta; vasto ma non magniloquente, colto ma non didattico, coinvolgente ma senza accensioni melodrammatiche; più che rosselliniano o viscontiano, dunque, memore della lezione del Blasetti di 1860 per l’idea – in questo caso ovviamente non conciliatoria – della complessità del Risorgimento, del Vancini di Bronte per quella della necessità di andare contro la storia ufficiale. Perché credere non significa esaltare imbalsamando ed eludendo. Vuol dire al contrario analizzare criticamente, e trarne gli auspici, per aprire altre strade alla speranza. ❑ 57 . ROCCA 1 GENNAIO 2011 Paolo Vecchi RF&TV TEATRO Roberto Carusi Renzo Salvi Una pedana di umanità ROCCA 1 GENNAIO 2011 M olti anni fa, il grande Vittorio De Sica, ospite in una puntata di Lascia o raddoppia dell’allor giovane Mike Bongiorno, manifestò il suo entusiasmo per quello storico telequiz definendolo «una pedana di umanità». Quella insolita ma efficace espressione mi è tornata alla mente in un locale di Sesto San Giovanni, sulla strada che porta a Monza, dove tutti i venerdì, sabato e domenica chi voglia, mangiando o anche solo bevendo, può partecipare al cosiddetto Karaòke. È – come si sa – una sorta di gioco/spettacolo dove chi vuole – intonato o stonato che sia – può cantare al microfono una canzone a suo piacere, accompagnato da una base musicale. Quando cantano gli altri, può ballare. Fin qui tutto potrebbe apparire scontato. Senonché questa rassegna vocale non competitiva è gestita da Antonio Popolillo, in arte Tony Popys (vincitore di un recente concorso della canzone dialettale). Il quale – conducendo questa sua settimanale attività da otto anni – si è creato una sorta di clientela fissa che forse è più appropriato chiamare compagnia stabile di avanspettacolo. «Noi non siamo cantanti» mi ripetono tutti. «Il fatto è che ci piace cantare e stiamo bene insieme». Il repertorio è tutto – o quasi – Anni Sessanta: da Paul Anka a Nino D’Angelo. Tony Popys li chiama con rigoroso ordine come fa il professore con gli alunni alla fine del trimestre scolastico. C’è chi si lascia scappare qualche stecca 58 che fa pensare al pick-up di una volta quando scivolava sul disco. Qualcun altro non stacca lo sguardo atterrito dal testo sul display e dal microfono. Infine – e sono i più – ci sono quelli che cantano con bella vocalità e senso del ritmo. Sicché gli avventori occasionali credono che i più bravi cantino in playback. E la voce invece è la loro: del signore ben messo, con i capelli bianchi e l’orecchino, che modula My way: della signora tutta in nero che scandisce New York, New York in modo travolgente. Girano in mezzo ai fans i due napoletani genuini, occhi socchiusi e gola spiegata. «Siamo lavoratori noialtri! Qui ci sfoghiamo di tutti i problemi quotidiani». Molti fanno lo stesso mestiere. Autisti. Infermiere. Guardie giurate. Operaie di grandi fabbriche oggi dismesse. «Il sabato sera è tutta la mia vita» dice con convinzione una signora di una certa età, mentre un’altra volteggia e ancheggia sia da sola sia in coppia, come una periferica Carrà. C’è chi, triste triste, aspetta il proprio turno e – quando arriva – fa schiattare l’ugola. Un invalido s’appoggia alla stampella. Ma davanti al microfono, la butta come un miracolato. Gli altri ne accompagnano il canto dischiudendo le labbra come in chiesa. Due giovani africani conversano tra loro. Un contributo, quello di Tony Popys, all’integrazione: tra Nord e Sud, italiani ed extracomunitari, uomini e donne, giovani e anziani. Una pedana socioculturale di umanità... ❑ Improvvido spot I l clima prenatalizio «si fa» sovente, in Tv, ricorrendo alla Disney Factory: ai classici, in particolare, del grande Walt che pensò alle origini le sue animazioni per il passatempo degli adulti e si vide consegnato al mercato come produttore archetipo dell’intrattenimento infantile. Ed all’infanzia ha pensato per una linea di serate dello scorso dicembre la programmazione di RaiUno proponendo la sequenza disneyana Cenerentola, Biancaneve, La bella addormentata. Serate definite «per tutti» appartengono, per altro, alla tradizione antica della Rai, per stagioni particolari dell’anno. Ma quella Rai è tanto remota e quel tentativo di ritorno così alieno dalla temperie televisiva attuale che l’incidente di percorso s’è manifestato nella prima serata di programmazione: il 7 dicembre scorso, dopo sessanta minuti dall’inizio del film e dopo che già uno spazio pubblicitario era stato inserito alla mezz’ora, sugli schermi, alle 22.31, è comparso Bruno Vespa. È appena passata la scena animata della zucca che torna zucca da carrozza che era e dei cavalli bianchi che tornan topini antropomorfi; le stelline del fine incantesimo si sono dissolte e l’altra scarpina è nelle mani di Cenerentola non facendo più paio con quella perduta. Un’intersigla ad immagine fissa legata al film dissolve sul conduttore di Porta a porta, in impeccabile blu. Testo: «Stiamo vedendo Cenerentola, un film che ha fatto sognare generazioni di bambini. Bene. Proprio ai bambini, ai loro genitori, alle nostre famiglie è dedicata la riflessione di questa sera. Possiamo difendere i nostri figli? Chi mai potrebbe immaginare che una bambina di 13 anni scompare in settecento metri di strada e che un’altra di 15 finisce in un garage (così sembra almeno) e non ne esce? Faremo una riflessione sugli ultimi aggiornamenti di questi drammatici casi di Bergamo e di Avetrana. A più tardi». Sul grande schermo di fondo/studio le immagini accostate delle due ragazze e la scritta «Yara e Sarah. Come difendere i nostri figli?». Al di là del mancato uso dei congiuntivi in una frase con ipotesi retorica retta da un condizionale, la domanda – non meno retorica – suona: ma era proprio il caso? È pur vero che in fasce quotidiane e diurne di ampia esposizione infantile alla Tv, i temi e casi come questi vengono trattati tra gossip, processi mediatici, ricerca dell’angoscia, della lacrima e del grido, ma perché lanciare questo quesito in forma di interrogativo minaccioso di fronte ad una platea composta (anche) dal 40% dei bambini italiani dai 4 ai 14 anni convocati allo schermo da Cenerentola in prima serata? È pur vero che dai primi anni Novanta le piccolissime generazioni sono segnate da un disincanto difensivo nei confronti della Tv e da un automatismo di discernimento sugli eventi comunicati per il tramite dei media e che anche su questi avvenimenti potrebbero risultare in qualche modo anestetizzate (ciò che non è completamente un bene...). E tuttavia questo accostarsi ad un’infanzia che sta scorrendo la trama di un film come Cenerentola per mormorarle – pro audience – parole di paura è stato scorretto. Così l’intenzione di ripescare un po’ del meglio dalla tv del passato è affondata nella peggior mediocrità della Tv del presente. ❑ FOTOGRAFIA ARTE Mariano Apa Alberto Pellegrino O ramai molti anni fa da Jaca Book uscì un libretto dal titolo «Sorbi tordi e nitidezze. Arte in Italia dopo la metafisica» in cui Zeno Birolli raccoglieva alcuni suoi interventi critici, di cui uno aveva significativamente titolo «L.» che sta per «Licini». Ad Osvaldo Licini ha dedicato moltissimo Birolli, a partire con la importante raccolta di scritti dell’artista marchigiano – Monte Vidon Corrado, 1894 / 1958 – voluta con partecipata passione dal figlio Paolo Licini, insieme a Baratta e Bartoli: «Errante erotico eretico» da Feltrinelli nel 1974 – ed erano una manciata di anni che aveva curato gli scritti di Boccioni – da cui il suo «Racconto critico» è del 1983, nella indimenticata collana «EinaudiLetteratura» – e che si preparava con Francesco Bartoli a curarne la mostra a Dortmund, dopo che nel 1968 – l’anno della monografia di Marchiori «I cieli segreti» – con Aldo Passoni curò l’antologica con 207 opere alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, in cui ritorna oggi con la regìa di Eccher per una bellissima mostra in cui si riuniscono le storie dei grandi collezionisti e delle famiglie di Licini, da Livorno ad Ascoli Piceno, da Milano a Torino – catalogo Electa –. Questa è una mostra importante come ogni mostra di Osvaldo Licini, ma lo è anche per la specificità del proprio «punto e a capo» nell’itinerario criti- co di cui vive questo artista, da posizionarsi tra i capisaldi del XX secolo europeo, come così l’amico d’Accademia, Giorgio Morandi – di cui alla Fondazione Ferrero di Alba fino a Gennaio, per la cura di Maria Cristina Bandera, occupa una intrigante mostra sul paesaggio, di cui si interessarono anni fa monograficamente Briganti e la Coen, con un catalogo-libro dell’editore Allemandi: e con cui espose nella aurorale mostra secessionista all’Hotel Baglioni di Bologna nel 1913 e quindi su proposta di Marchiori, a Bologna nel postumo 1976 alla galleria Due Torri –. Il figlio di Renato Birolli – Verona 1905 / Milano 1959 – è il protagonista di una metodologia critica che ci ha dato una rivisitazione del milanese «Mito nel Novecento» e dei francesi «Realismi», e che ci ha aiutato non poco a entrare nella cosmica interiorità di Licini. Dalla montaliana salsedine delle cinqueterre, ci ricorda gli intrecci delle colline leopardiane di Licini, come se mare e colli si dispongono per riconfermare di ciascuno la propria libertà dell’eremo. Questa mostra torinese deve essere vista come una riproposta della qualificazione linguistica del primordialismo liciniano, che tra la Como di Celiberti e la Recanati di Leopardi, invera l’avventura dei «segni/sogni», e del colore che pulsa come magnetico campo di un cuore trafitto. ❑ Come documentare il nostro tempo I l giornalista David Elliot Cohen ha curato il volume intitolato Quello che conta (Edizioni Nuovi Mondi, Modena, 2009), dove importanti fotografi e giornalisti hanno voluto mostrare, attraverso le immagini e le parole, le questioni essenziali che è necessario affrontare e risolvere nel nostro tempo. Qualunque mezzo di comunicazione possiede una propria forza espressiva e la fotografia, per la sua capacità di catturare il «momento decisivo», può congelare ogni istante per offrirlo come spunto di analisi e di riflessione allo sguardo dell’uomo. Il più antico dei mass media, a partire dalla metà dell’Ottocento, ha prodotto una serie di immagini fotografiche messe al servizio di cause sociali e politiche per produrre cambiamenti postivi nella società, portando alla luce verità scomode, difendendo importanti cause sociali, promuovendo un dibattito nell’opinione pubblica. Per circa un secolo e mezzo un schiera di fotoreporter ha documentato guerre e sciagure naturali, disastri ambientali e drammatiche forme di sfruttamento della povertà, per cui il curatore del volume si è legittimamente chiesto se fosse ancora possibile, in questo primo decennio del Duemila, proporre alcuni reportage con immagini capaci di «incendiare» gli uomini del nostro tempo come è accaduto per i grandi fotoreportage del passato. Il libro raccoglie pertanto 18 reportage di importanti fotografi, i quali hanno realizzato delle immagini che non sempre sono le loro migliori fotografie, ma che hanno in ogni caso il pregio di affrontare e documentare i grandi problemi del mo- mento: il riscaldamento globale e le minacce all’ambiente, la fame e la sete, l’Aids e le altre malattie infettive, il terrorismo e l’inquinamento nucleare, le guerre e i genocidi, l’ingiusta distribuzione della ricchezza e lo sfrenato consumismo che caratterizza il mondo occidentale, ma che sta inquinando anche i Paesi emergenti. A questa campagna di promozione civile hanno partecipato affermati giornalisti, due prestigiose agenzie come la Magnum e l’Associated Press, affermati fotoreporter come Stephen Voss, Gerd Ludwing, Marcus Belasdale, Shehzad Noorami, Ed Kashi, Stephanie Sinclai, Sebastião Salgado (sua la foto pubblicata), Tom Stoddard, Maggie Hallaham, James Nachtwey, il quale ha sintetizzato il pensiero di tutti i colleghi dicendo: «Non voglio mostrare la guerra in generale, né la Storia con la S maiuscola, ma piuttosto la tragedia delle singole persone». Questi reportages vogliono assolvere un preciso compito: contribuire a coinvolgere gli animi per cercare di riparare il mondo anche facendo piccole cose, nella convinzione che nessun cambiamento sociale deve apparire impossibile, soprattutto quando sembra inevitabile. ❑ 59 . ROCCA 1 GENNAIO 2011 L. MUSICA SITI INTERNET Enrico Romani Giovanni Ruggeri Il rock degli anni zero ROCCA 1 GENNAIO 2011 L a prima decade del nuovo secolo nell’ambito della musica popolare (e non solo) non è stata particolarmente esaltante: per certi versi, similmente agli anni ottanta del novecento, è stata foriera di molti buoni dischi, ma di nessun fenomeno nuovo lontanamente paragonabile al grunge di Nirvana e Pearl Jam, o all’ottimo e diversificato brit-pop di Radiohead, Oasis e Blur, negli anni ’90. Inoltre, in questi ultimi due, tre anni, la crisi economica si è fatta sentire notevolmente anche nel settore discografico, già messo a dura prova dal download «internettiano». Prova ne è il fatto che nel settore della musica di facile consumo, quella direttamente prodotta dalle quattro grandi case discografiche superstiti (Sony, Warner Bros., Universal e Virgin), quella che va in classifica, quella che è indefinibile per quanti sono gli ingredienti usati per comporla, siamo fermi al boom di Rihanna, anno 2008. Facciamo inoltre molta fatica a trovare buona musica negli ultimi due anni, segno che i badget si sono ridotti al lumicino. Ci sono state però tre grandi reunion, anche se concentrate in pochi concerti, quelle di Cream, Led Zeppelin e Police, (gli Zeppelin con Jason Bonham, figlio del defunto batterista originario John Bonham, ai tamburi), e vista la caratura dei personaggi coinvolti, le tre band hanno dato vita a performance straordinarie. E se i Coldplay finora sono stati i vincitori del pop targato Duemila, anche se i soli Parachutes (2000) e A Rush Of Blood To The Head (2002) sono dischi degni di nota, due soli nomi femminili, uno inglese e l’altro americano, ci sembrano le voci migliori tra la moltitudine 60 impressionante di cantanti sfornate in questo decennio: quelli di Amy Winehouse con i suoi Frank (2003) e Back To Black (2005), e di Norah Jones con Come Away With Me (2002) e Feels Like Home (2004), due cantanti che amano dare una impronta in qualche modo jazz alle loro canzoni. Il decennio zero degli anni duemila sembrava riservare un gran futuro al cosiddetto nu-metal, a gruppi come Limp Bizkit e Linkin Park, che hanno invece subito entusiasmato e celermente annoiato, mentre altri, dai White Stripes, agli Strokes, dai Libertines, al punk dei Green Day, non lo hanno proprio creato, almeno in noi, grande entusiasmo. Spiace dirlo ma c’è gente come gli Stones (e secondo noi anche gli U2) che sembra essere arrivata alla frutta ormai, e gente come lo stesso Bruce Spingsteen che deve rinnovare la sua line up e il modo stesso di proporsi, mentre i Muse e i System Of A Down (capolavori assoluti rispettivamente i loro Origin Of Symmetry (2001) e Mezmerize (2005), sono i nuovi gruppi dal vivo più coinvolgenti e di indubbia bravura. E mentre i giovani continuano a frequentare le discoteche anche in tempi di crisi, c’è da segnalare la loro tendenza, se devono proprio andare a un concerto rock, a scegliere i grandi nomi. Questo rinnovato interesse giovanile, unito alla crisi del disco che porta giocoforza anche i vecchi artisti a concentrarsi sull’aspetto live delle loro carriere, ha generato perle come il live firmato WinwoodClapton del 2008 al Madison Square Garden di New York, o quell’altra autentica gemma che è Live In London (2009) di Leonard Cohen. ❑ Mutazioni antropologiche S ul tema di Internet e delle nuove tecnologie c’è tutta una pubblicistica, anche nel mondo della carta stampata tradizionale, che segue e dà conto, passo passo, delle varie innovazioni e tendenze emergenti. Uno degli strumenti a nostro parere più intelligenti e meritevoli di segnalazione – per il mix felice di aspetti tecnologici, economici, ma anche sociali e culturali che si premura di considerare – è l’inserto settimanale «Nova» de Il Sole 24 Ore, appuntamento sempre interessante per chi vuol capire qualcosa di più sui processi in atto nel mondo delle nuove tecnologie. Ebbene, in un numero di qualche tempo fa, proprio «Nova» ha dedicato un forum alle implicazioni che Internet ha sulle condizioni culturali che fanno funzionare l’intelligenza collettiva, riprendendo ed estendendo un dibattito promosso dalla Fondazione Edge (www.edge.org). In quanto strumento dell’intelligenza collettiva e della cultura, si fa notare, Internet genera un contesto nuovo per lo sviluppo dei tratti antropologici sui quali si fondano le società. Creandosi una dimensione relazionale e informativa completamente inedita, percezioni e atteggiamenti di base sono sollecitati a ridefinirsi e ristrutturarsi, con conseguenze sul piano antropologico oggi difficilmente prevedibili. Il tema, come è facile osservare, è di enorme portata e di gran lunga al di là dei nostri mezzi e spazio. Troviamo però interessante riportare alcune citazioni letterali dei partecipanti a questo forum, a mo’ di efficaci spunti per ulteriori riflessioni. «Internet aumenta il ricorso a scorciatoie nei nostri ragionamenti, per il sommarsi di due fattori. Da un lato la rete fa crescere a livelli mai visti prima il numero di informazioni e stimoli a cui siamo sottoposti. Dall’altro, la nostra capacità di concentrarci mentalmente su un certo numero di informazioni (memoria a breve termine) rimane radicalmente limitata. Lo studio dei fattori umani nell’interazione con i computer ha mostrato che, in condizioni di sovraccarico cognitivo, le persone fanno maggior ricorso a scorciatoie euristiche per gestire in modo efficiente la complessità. (...) Chi prospererà nell’ecosistema della rete sarà chi ha sviluppato strategie di controllo dall’attenzione che permettono di immergersi a piacimento nel flusso informativo senza rimanerne travolti: discriminando, categorizzando, filtrando, stabilendo priorità, spendendo le proprie risorse attenzionali su ciò che è veramente importante» (Luca Chittaro). «L’abbondanza rovina più cose che la carenza. Quest’ultima implica che le cose di valore acquistino maggior valore, un cambiamento concettualmente facile. L’abbondanza invece porta a togliere valore alle cose in precedenza rilevanti» (Clay Shirky). «Le nuove tecnologie danno vita a nuove percezioni. La realtà è un processo creato dall’uomo. Creiamo degli strumenti e poi modelliamo noi stessi a loro immagine» (John Brockman). «La rete non ha la capacità di elaborazione della mente. Semmai assomiglia a una memoria, ma compilata da un folle, che ha mischiato pietre preziose e sassi senza valore» (Paolo Legrenzi). ❑ Il nuovo libro di Raniero La Valle «Paradiso e libertà» riassume e sviluppa in modo articolato due ideali fondamentali della sua esperienza di credente e di uomo pubblico: il coinvolgimento attivo nella politica come impegno per la libertà, distintivo essenziale della persona umana, e la tensione consapevole verso il traguardo del cammino comune: la divinizzazione dell’uomo o l’assunzione del «nome scritto nei cieli» (cfr. Lc. 10,20), il nome di figli di Dio. I due aspetti sono collegati perché l’identità di figli di Dio è scritta nel cielo ma lo si costruisce solo sulla terra camminando insieme ai fratelli e vivendo consapevolmente la responsabilità per gli altri. «Non si salva l’anima se non si grida per gli oppressi». Ora «la politica altro non è che il consapevole vivere degli uomini insieme» (p. 164). Il titolo «Paradiso e libertà» rievoca una curiosa terminologia della Bologna medioevale. Un decreto del 1257, che riscattava le 5856 persone ancora soggette a qualche forma di schiavitù venne chiamato «Libro Paradiso», «perché la conquista della libertà era percepita come un ritorno al Paradiso; il Paradiso è la libertà; data da Dio a lei si ritorna» (p. 116). Il termine ‘Paradiso’, come è noto, può designare sia la condizione originaria dell’uomo secondo il mito della perfezione iniziale (Paradiso terrestre), sia il traguardo al quale ogni uomo è chiamato: «l’identità definitiva dei figli di Dio», secondo le parole di Gesù sulla croce «Oggi sarai con me in Paradiso» (Lc. 23, 43). Tra i due poli dell’inizio e della fine si intreccia l’esistenza storica dell’uomo che può svolgersi in un paradiso anticipato. Perché «ogni volta che sono stati liberati dei prigionieri, che è stata abolita la schiavitù, che sono state chiuse le Inquisizioni, che sono stati cacciati gli invasori, che sono stati arrestati gli usurai, che sono stati sconfitti i mafio- Raniero La Valle Paradiso e libertà Ponte alle Grazie, Milano 2010, pp. 240 si, che hanno acquistato diritti gli operai, che sono uscite le donne dalle mani di padri e padroni, che si sono poste garanzie per i delitti e per le pene, e ogni volta che si sono scritte le Costituzioni, e si è dato mano ad attuarle, e le si sono difese contro i loro eversori, e quando il costituzionalismo ha fatto concepire anche altre, ulteriori conquiste, allora si è stabilito un pezzo di paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si accorciano le distanze tra i due paradisi» (p. 29). L’ideale quando è vissuto inserisce una tensione nella storia e affida molte responsabilità agli uomini. «Forse un giorno questo paradiso, senza manicomi, senza carceri, senza ghetti, senza esclusioni, sarà possibile, qui in questo mondo. Forse le istituzioni, tutte le istituzioni, potranno assicurare la libertà, invece che toglierla… per costruire piuttosto un nuovo ordine di rapporti umani e vivere in un libero Paradiso in libera terra» (p. 120). Il sottotitolo, «L’uomo quel Dio peccatore», riassume l’antropologia soggiacente alle scelte storiche e alle riflessioni proposte. L’uomo è l’unica creatura fatta «a immagine e a somiglianza di Dio» (cfr. Gen. 1,26 s) e lo è in virtù della libertà. La libertà dell’uomo, tuttavia, implica la possibilità di peccare, a differenza della libertà di Dio «che non può dissociarsi dalla propria immagine, non può non somigliare a se stesso, non può sdivinizzarsi» (p. 121). «Come la divinità è ciò che distingue l’uomo dagli animali, così il peccato è ciò che distingue l’uomo dagli animali e da Dio; e se Dio è l’essere divino che non pecca, l’uomo è l’essere divino che, peccando, viene meno alla sua divinità» (p. 121). È possibile però uscire dal peccato per entrare nell’ambito della gra- zia riconciliatrice. Questo è un aspetto essenziale del «buon annuncio» che è il Vangelo di Gesù: il peccato può essere redento, l’amore di Dio si esprime come misericordia per i peccatori. Dio entra nella terra sterminata del peccato, «vi entra per farsi uomo, l’uomo ne esce per farsi Dio» (p. 122). Tutto ciò è possibile non in virtù della buona volontà dell’uomo o delle sue attuali capacità, bensì perché «nell’uomo c’è una misteriosa energia divina; misteriosa non perché sia magica, ma perché è divina. E se Dio è amore… questa energia è l’amore. Come la libertà è nell’uomo l’immagine di Dio, così l’amore è Dio che ama attraverso l’uomo; di questo amore l’uomo è il vaso e il ministro, ne è la trasparenza e il filtro» (p. 175). D’altra parte lo stesso Concilio nel «Decreto sulle religioni non cristiane» aveva parlato «di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana» (Nostra Aetate n. 2). Questa forza creatrice nell’uomo è giunta a fiorire come amore e conduce avanti la storia. Per questo: «l’antidoto al male e al peccato non è mai il Dio degli eserciti, del giudizio, della condanna, del potere, ma solo e sempre» (p. 186) il Dio dell’Amore misericordioso rivelato da Gesù. È la forza che consente di portare il male, di attraversare la sofferenza espressioni provvisorie della condizione imperfetta delle creature, per il momento ineliminabile. «C’è troppo dolore nel mondo, per pensare che esso non trovi né consolazione né fine» (p. 200). Questa stessa forza dell’amore spinge il mondo verso il compimento, perché il Bene che la suscita e la muove è già esistente in forma piena e può far fiorire mo- dalità inedite di fraternità e di giustizia. Questa tensione verso il Bene è essenziale alla prospettiva cristiana, ma è anche una leva di sconvolgimenti storici per cui «il cristianesimo che perda l’escatologia perde la sua anima, ma il mondo perde la rivoluzione» (p. 200). La missione della Chiesa in questa prospettiva è proclamare e difendere l’eccelsa dignità della persona umana; diffondere dinamiche di attesa, suscitare la tensione verso il compimento attraverso le sue anticipazioni. La Chiesa, in quanto struttura, non è l’unico ambito di salvezza nel mondo, ma è lo strumento perché tutta l’umanità diventi popolo di Dio. «Questo popolo di Dio, che sta nella Chiesa visibile ma non finisce nella Chiesa visibile, che sta in tutti i luoghi e in tutti i punti della storia, che è il soggetto in cui si gioca la salvezza, esistenzialmente, sociologicamente, politicamente è l’umanità tutta intera. È lei il corpo di cui Cristo è il capo: come dice la Mystici corporis, Cristo morendo in croce offrì al Padre ‘se stesso quale capo di tutto il genere umano’ (p. 217). Ciò che importa, in ogni caso, è mantenere alta la tensione verso il compimento, alimentare la speranza, perché solo questa consente di camminare anche quando tutto intorno è tenebroso. La città degli uomini può acquisire caratteristiche che anticipano e fanno presagire la città di Dio «e l’uomo, se è divino può trovarsi a suo agio in ambedue le città» (p. 29). Questi messaggi riassumono la intensa e ampia riflessione di Raniero La Valle, che ha indicato i criteri con cui riconoscere nella storia umana la sottile trama della salvezza offerta da Dio a tutti gli uomini. La conclusione è molto chiara: «il mondo non è da buttare. È il mondo di Dio, abitato da creature chiamate ad essere come Dei. E i demoni sempre infesti e sconfitti» (p. 220). Carlo Molari 61 ROCCA 1 GENNAIO 2011 LIBRI organizzazioni in primo piano Carlo Timio Ocse ROCCA 1 GENNAIO 2011 L ’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) è un’organizzazione internazionale di studi economici costituita da paesi industrializzati che condividono un sistema di governo democratico e una economia di mercato. Nacque nel 1948 con la denominazione Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece) cui aderirono, in un primo momento, diciotto stati membri e successivamente anche la Turchia. Lo scopo primario dell’Organizzazione era la volontà di avviare un nuovo modello di cooperazione economica tra le nazioni europee appena uscite dalla seconda guerra mondiale e di utilizzare al meglio gli aiuti statunitensi (Piano Marshall) per la ricostruzione postbellica dell’Europa. La cooperazione economica tra gli stati membri si basava essenzialmente sulla liberalizzazione degli scambi commerciali e sui movimenti di capitali. Agli inizi degli anni Sessanta cominciò però a prendere forma l’idea che un vero processo di integrazione europea poteva avvenire soltanto successivamente ad una revisione dell’Oece fondata su una vera e propria unione economica tra stati aderenti. Ma tale ipotesi risultò impossibile in prima battuta, a causa della nascita nel 1957 delle Comunità europee (Cee, Euratom che facevano seguito alla fondazione della Ceca nel 1951) ad opera dell’Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Francia e Germania Ovest. Tuttavia nel dicembre 1961, con la firma a Pa62 rigi di una nuova convenzione, prese forma l’Ocse che andò a sostituire l’Oece. Oggi sono trentatre i paesi membri. Oltre a quelli che già facevano parte dell’Oece (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Repubblica Federale Tedesca, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Regno Unito) i paesi che vi aderirono successivamente furono il Canada, gli Stati Uniti, il Giappone, la Finlandia, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Messico, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia, la Corea del sud, la Slovacchia, il Cile, la Slovenia e Israele. Mentre l’Estonia, è stata ufficialmente invitata ad entrare nell’organizzazione ma deve ancora formalizzare la sua adesione. La Federazione russa è invece ancora formalmente in via di adesione. L’Ocse mantiene anche rapporti con oltre settanta paesi non membri, paesi in via di sviluppo e con altre organizzazioni internazionali, che possono partecipare come osservatori ai lavori o a programmi specifici. Nel maggio 2007 è stato lanciato il programma Enhanced Engagement rivolto a cinque grandi economie emergenti quali Brasile, Cina, India, Indonesia e Sud Africa, con lo scopo di creare un partneriato più strutturato. In generale, l’azione di cooperazione dell’Ocse con gli stati terzi non membri si realizza attraverso una serie di strumenti come ad esempio il Global Forum e i Programmi Regionali. Anche la commissione europea è in qualche nodo coinvolta nelle attività dell’Ocse, prendendo parte ai la- vori a fianco dei paesi Ue. Complessivamente i paesi che aderiscono all’Ocse rappresentano il 72 per cento del reddito nazionale lordo del mondo, il 61 per cento del commercio mondiale, il 18 per cento della popolazione mondiale, il 95 per cento degli aiuti pubblici ai paesi in via di sviluppo e il 46 per cento delle emissioni Co2 nel mondo. Struttura: da un punto di vista istituzionale l’Ocse, che ha sede a Parigi, è composta da un consiglio formato da un rappresentante per ogni paese membro, da un comitato esecutivo costituito dai rappresentanti di delegazioni permanenti dei paesi membri sotto forma di missioni diplomatiche dirette dagli ambasciatori, da comitati e gruppi di lavoro specializzati e dal segretariato internazionale, strutturato in direzioni generali, che è a disposizione dei comitati e degli altri organi. Dal giugno 2006 il nuovo segretario generale dell’Ocse è il messicano José Ángel Gurría. L’organo politico e strategico più importante è il Consiglio, che si riunisce periodicamente con i rappresentanti permanenti e una volta l’anno a livello ministeriale. Il Consiglio può adottare decisioni vincolanti o raccomandazioni e approva il programma di lavoro dei Comitati settoriali, composti da esperti delle amministrazioni dei paesi membri. L’organizzazione è finanziata da tutti gli stati membri, i cui contributi sono calcolati sulla base dei rispettivi Pil. Gli Stati Uniti sono il più grande finanziatore dell’organizzazione, contribuendo con circa il 25 per cento alla for- rocca schede mazione del budget totale, seguiti dal Giappone. L’Italia con circa il 5 per cento figura il sesto contribuente. Missione e finalità: l’organizzazione svolge prevalentemente un ruolo di assemblea consultativa, sviluppando un confronto delle esperienze politiche per la risoluzione di problemi comuni, l’identificazione di pratiche commerciali e il coordinamento delle politiche regionali e internazionali. La missione dell’Ocse è cioè quella di aiutare gli stati membri a favorire una crescita economica sostenibile, aumentare l’occupazione, innalzare il tenore di vita, mantenere la stabilità finanziaria, aiutare gli altri stati a sviluppare le loro economie e contribuire alla crescita del commercio mondiale. Grazie alle attività dell’Ocse, i paesi membri possono comparare le differenti esperienze, cercare risposte ai problemi comuni, scambiarsi buone pratiche e coordinare le politiche nazionali ed internazionali. Questo tipo di attività viene svolta attraverso l’elaborazione di statistiche, analisi e pronostici sociali e economici. L’Ocse è così andata oltre il ruolo di organizzazione europea, riuscendo ad estendere la sua azione verso obiettivi di integrazione e cooperazione economica e finanziaria tra i maggiori paesi occidentali. Sistema Ocse: intorno all’organizzazione ruotano anche organi autonomi e semi-autonomi. Tra questi i principali sono l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), l’Agenzia per l’energia nucleare (Aen) e la Conferenza europea dei ministri dei trasporti (Cemt). E ancora, il Centro di Sviluppo, con il compito di raccogliere le conoscenze disponibili nei paesi membri e nell’Organizzazione in materia di sviluppo economico al fine di adattarle alle necessità concrete dei paesi in via di sviluppo. ❑ Fraternità raccontare proporre chiedere Perù: cucire e ricamare nei vivaci colori andini valorizza le capacità pratiche e quelle abilità che le ragazze hanno dimostrato di possedere nei cosiddetti «lavori femminili» artigianali. Molto scrupolose e dotate di buona manualità, che hanno affinato anche frequentando un corso di taglio e cucito, esse si esercitano da tempo nel cucire e nel ricamare, eseguendo apprezzati lavori sia a mano sia usando le vecchie macchine per cucire del piccolo laboratorio esistente. Per una migliore versatilità dei lavori ci sarebbe bisogno di altre due macchine più accessoriate: una ricamatrice e una impunturatrice. Cari amici di Fraternità, possiamo dare una mano a Suor Dora ed alle ragazze un futuro lavorativo? Luigina Morsolin dre Provinciale interpellata da suor Dora, autorizzi, temporaneamente ed in via eccezionale, la ragazza a continuare a vivere all’Hogar, dove potrebbe aiutare le suore ad accudire i bimbi più piccoli, ora che uno di essi, per una grave forma di bronchite asmatica, ha bisogno di cure assidue e di controllo continuativo, ma... tra sei mesi e poi tra un anno analogo problema si ripresenterà per altre ragazze ospiti, che si stanno avvicinando alla maggiore età. Per esse si intende avviare un progetto che ha come obiettivi l’autonomia personale e la capacità di lavorare in gruppo e che possa garantire un sostentamento economico. Esso Per aiutare e sostenere il Progetto Perù e/o il Progetto Haiti si possono inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o tramite il ccp 10635068 – Coordinate: codice IBAN: IT 76J 0760103 0000 0001 0635 068 intestato a Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi. Per comunicazioni, indirizzo e-mail: fraternita @cittadella.org 63 . ROCCA 1 GENNAIO 2011 Nel modo di parlare di Suor Dora Chavez si mescolano le tradizioni della sua terra (è nata ed ha vissuto fino all’adolescenza a Chimbote, sulla costa peruviana a nord di Lima) con l’insegnamento di San Vincenzo de’ Paoli (che ispira la Congregazione delle Suore Ministre della Carità a cui lei appartiene) e con il «comandamento andino» che fa proprio lo spirito dello scambio e della condivisione con generosità (che la religiosa ha imparato a conoscere tra la gente di Chiquian tra la quale vive da parecchi anni). «A poco a poco uno cammina lontano» ricorda con un antico proverbio peruviano Suor Dora e con tono preoccupato aggiunge, pensando alle «sue» ragazze ospitate nella Casa Hogar di Chiquian, «e le bambine diventano ragazze e maggiorenni». Una preoccupazione che condivide con le giovani consorelle che operano al suo fianco nella Casa-famiglia, perché il regolamento della struttura prevede che al raggiungimento del 18° anno le ragazze la debbano lasciare. E per una di loro questa scadenza è ormai prossima, alla fine di gennaio. È molto probabile che Suor Alicia Cordova, la Ma- Indice Introduzione Parte Prima: Politica e valori 1. ALLA RICERCA DEL FONDAMENTO Politeismo dei valori e ricerca del fondamento Dalle etiche all’ethos condiviso Laicità e valori di riferimento La fede tra utopia e mediazione etica Chiesa e modernità 2. LE CATEGORIE COSTITUTIVE Bene comune: un concetto da ripensare La crisi attuale della partecipazione Sussidiarietà e solidarietà 3. I PRINCIPALI NODI CRITICI Democrazia e valori Dalla democrazia formale alla democrazia sociale La democrazia e le sue regole Ambivalenza del potere Povertà e ricchezza dell’ideologia Mutazione antropologica di politica e informazione 3. LE NUOVE PROSPETTIVE Democrazia economica La reciprocità relazionale La felicità in economia Parte Terza: L’ordine internazionale 1. VALORI E DIRITTI UNIVERSALI La ricerca dei valori comuni universali La persona fondamento dei diritti Dai diritti di libertà ai diritti sociali I diritti delle culture 2. LA PACE BENE SUPREMO La questione della pace Dalla «guerra giusta» alla «irragionevolezza» della guerra Alternative agli attuali conflitti Per una cultura della pace richiedere a Rocca conto corrente postale 15157068 e-mail: [email protected] Omologato in omaggio a chi procura un nuovo abbonamento 2011 2. I PRESUPPOSTI DEL CAMBIAMENTO Lo sviluppo tra quantità e qualità Centralità del lavoro Profitto aziendale e profitto sociale Economia e ambiente Stato sociale: sussidiarietà e responsabilità no profit per i lettori di Rocca € 15,00 anziché € 20.00 1. I LIMITI DELLA SITUAZIONE ATTUALE Economia e globalizzazione I guai del sistema finanza Il dialogo tra economia e etica DCOER0874 xxxxxxxxxx raccolta in volume degli articoli pubblicati su Rocca pagg. 184 - € 20,00 Parte Seconda: Verso un nuovo modello economico pubblicazione informativa Giannino Piana politica etica economia logiche della convivenza