Protesta studenti: Contro il taglio del futuro

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Protesta studenti: Contro il taglio del futuro
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
70
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
€ 2.70
01
1 gennaio 2011
i cavalieri
della libera
informazione
volontariato
una luce
nella catastrofe
sociale
protesta studenti
contro
il taglio del futuro
la conoscenza
come bene comune
crisi economica
Keynes ha di nuovo qualcosa da dire l’offensiva
culturale e filosofica
dell’ateismo
dall’intervista una
finestra sull’identità
di Benedetto XVI
Rocca 2010
Indice
per tematiche
principali
Luce del mondo
licenza di preservativo?
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
nel duemilaundici con Rocca
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farla conoscere e proporre per nuovi abbonamenti
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grazie a te
un 2011 di + con Rocca
Rocca
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sommario
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1 gennaio
2011
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Ci scrivono i lettori
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Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
50
Giovanni Sabato
Notizie dalla scienza
52
Vignette
Il meglio della quindicina
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Una legislatura di tregua
Maurizio Salvi
Afghanistan
Pochi passi e tante verità occultate
Ritanna Armeni
Protesta studenti
Contro il taglio del futuro
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
I cavalieri della libera informazione
Fiorella Farinelli
Volontariato
Una luce nella catastrofe sociale
Tonio Dell’Olio
Camineiro
Per recuperare i beni perduti
Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca
Quale legge elettorale?/2
54
56
57
58
58
59
59
Roberta Carlini
Crisi economica
Keynes ha di nuovo qualcosa da dire
60
Rocca 2010
Indice per tematiche principali
60
Pietro Greco
La conoscenza come bene comune
Il fornaio e Bill Gates
Giannino Piana
L’intervista di Benedetto XVI
Licenza di preservativo?
Giancarlo Zizola
Luce del mondo
Dall’intervista una finestra sull’identità di Benedetto XVI
Giuseppe Moscati
Nuova Antologia
Mario Luzi
Quella luce che illumina la parola
61
62
63
Filippo Gentiloni
Vizi & virtù
Arturo Paoli
Amorizzare il mondo
Amicizia nostra speranza
Carlo Molari
Teologia
L’offensiva culturale e filosofica dell’ateismo
Rosanna Virgili
Introduzione alla lettura della Bibbia
Una esegesi di scienza e cultura
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Pregi e difetti
Paolo Vecchi
Cinema
Noi credevamo
Roberto Carusi
Teatro
Una pedana di umanità
Renzo Salvi
Rf&Tv
Improvvido spot
Mariano Apa
Arte
L.
Alberto Pellegrino
Fotografia
Come documentare il nostro tempo
Enrico Romani
Musica
Il rock degli anni zero
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Mutazioni antropologiche
Libri
Carlo Timio
Rocca Schede
Organizzazioni in primo piano
Ocse
Luigina Morsolin
Fraternità
Perù: cucire e ricamare nei vivaci colori andini
Numero 1 – 1 gennaio 2011
70
ANNO
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ROCCA 1 GENNAIO 2011
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4
ci scrivonoi lettori
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Panikkar
fiducia nella vita
Mi è piaciuto molto l’articolo di Carlo Molari su Panikkar. Con il suo stile sempre limpido ed efficace Molari, con le sue parole, invita a conoscere questo
grande uomo anche chi
non ha potuto incontrarlo.
Io ho ascoltato Panikkar
qualche anno fa, quando è
venuto a Bergamo a tenere una conferenza, bellissima. E ho letto qualcosa dei
suoi scritti, non sempre facili per me. Ma continuerò
a leggere altre cose, perché
Panikkar aiuta davvero ad
avere una visione più ampia della realtà. E poi perché trasmette sempre tanta fiducia nella vita e un
grande ottimismo.
Grazie a quanto «Rocca»,
con i nuovi collaboratori,
continua a pubblicare.
Un saluto affettuoso.
Elena Berlanda
Bergamo
L’umanità della coppia
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
La lettera di Giovanni Marucci (Rocca n. 22, 15 novembre)
mi ha spinto a scrivere sui corsi prematrimoniali. Premetto che a Potenza ci sono il
10% di matrimoni civili con
il 20% di divorzi. Mentre i matrimoni religiosi hanno il 10%
di fallimento.
In questo contesto cittadino
su 500 coppie che hanno
partecipato ai corsi prematrimoniali nella mia Parrocchia abbiamo avuto il 2% di
fallimento. Una o due coppie all’anno si lasciano durante i corsi.
A cosa è dovuta questa differenza? Ritengo semplicemente dal fatto che viene usato un
metodo che tiene conto della
psicologia delle persone, della storia familiare, dell’antropologia, insomma, su cui va
ad inserirsi il discorso della famiglia cristiana.
Non basta fare catechesi sulla famiglia. Bisogna aiutare
i fidanzati a conoscersi nel
proprio intimo ed a conoscere bene l’altro/a. Su questa
base umana si può bene in-
serire la vocazione cristiana
al matrimonio.
Troppo spesso ci si preoccupa di catechizzare i fidanzati prescindendo dalla loro
concreta umanità.
Un altro elemento importante, per me, è che nei corsi prematrimoniali le coppie
debbono confrontarsi tra di
loro e con alcune coppie
mature per fare emergere il
profondo del loro vissuto,
della loro cultura, del loro
modo di immaginare la coppia e la famiglia. Spesso
queste cose vengono fuori
solo dopo il matrimonio con
relative sorprese e crisi.
Penso, dunque, che bisognerebbe affrontare bene queste
problematiche per fare
emergere le contraddizioni
che ognuno si porta dentro,
le differenze culturali, i diversi modi di vedere i ruoli all’interno della coppia, ecc.
Un buon percorso potrebbe essere il seguente:
1°. Nessuna persona è
un’isola (Chi sono? Chi è il
mio partner?).
2°. Il matrimonio cristiano:
Perché? Quale è la mia situazione di fede?
3°. Costruire insieme il nostro matrimonio – Sociologia della famiglia e dei ruoli
(Divenire coppia – Divenire
coppia cristiana).
4°. Matrimonio e comunicazione (Rapporti interpersonali nella coppia e con Dio).
5°. La conflittualità nella
coppia (Come prepararsi
per la conflittualità); Dio e
le difficoltà della coppia.
6°. Amore e sessualità (La
comunicazione sessuale):
Sessualità e corporeità;
Dio è amore.
7°. Il servizio alla vita (Maternità e paternità responsabili). I metodi naturali e i
mezzi per la regolazione
delle nascite.
8°. Il matrimonio aperto
(Una comunità di vita e di
amore).
9°. Gli aspetti giuridici del
matrimonio civile e canonico.
10°. Essere genitori-educatori (Genitori si diventa, non
si nasce). Educazione cristiana dei figli.
11°. Il sacramento del Matrimonio.
12°. La Celebrazione del
matrimonio; La verifica pre-
matrimoniale; La liturgia
Matrimoniale.
Naturalmente il tutto va diretto dal sacerdote con la
collaborazione di esperti.
Riguardo ai risposati che
formano belle famiglie, si
pone il problema.
La Chiesa ortodossa ammette una solenne benedizione delle seconde nozze.
Non ripete il sacramento
ma non esclude dall’eucaristia. Bisognerebbe riflettere
molto su questa ipotesi.
Don Franco Corbo
Potenza
Diritti dei bambini
ma quali?
Vi scrive un gruppo di insegnanti che, con molti altri
volontari della Comunità di
S. Egidio, si sta occupando
da qualche mese della terribile emergenza umanitaria
creata dagli sgomberi del
popolo rom a Milano. Possiamo garantirvi che da allora abbiamo aperto una finestra sull’abisso di composta disperazione di questi
forzati del nomadismo. Ormai vivono quotidianamente braccati come criminali
nella nostra città, sostenuti
soltanto dalla silenziosa ma
concreta solidarietà di molti anonimi cittadini, come la
gente del quartiere Rubattino. Da settembre abbiamo
cercato di rendere più sopportabile la vita dei bambini rom cacciati da quel quartiere. Li abbiamo così raggiunti nel dormitorio di via
Ortles, dove sono stati temporaneamente accampati,
per fare doposcuola o giocare con loro. Oggi sono
nuovamente dispersi. Ma
vogliamo parlarle di Marius, sorridente quindicenne rom analfabeta che stiamo seguendo da tre mesi
come insegnanti, al circolo
Acli di via Conte Rosso.
Marius, sgomberato cinque
volte da settembre. Marius,
che viene puntuale con i
suoi quaderni asciutti per
fare scuola con noi, nonostante dorma sotto le stelle
e la pioggia. Marius, che
vuole imparare in fretta a
capire, a parlare, a leggere
e a scrivere in italiano per
trovare lavoro, per far parte
della nostra comunità. Marius, che è venuto a fare
scuola all’Acli, venerdì 19
novembre, alle 14,30, puntuale come sempre anche se
alle 6 del mattino stesso ha
subìto l’ultimo sgombero.
Fino a quando potrà sopportare? Certo è che negli
occhi e nei gesti di tutti questi ragazzi e bambini abbiamo visto un tratto comune:
il desiderio disperato di andare a scuola e di avere una
casa come tutti gli altri, anche se vengono respinti da
una città che non ha più
cuore né testa.
Il 20 novembre si è celebrata la «Giornata mondiale dei
diritti dei bambini», sì, ma
quali? Non certo di Marius,
della sua sorellina e dei bambini rom della nostra città.
Ce ne vergogniamo terribilmente come insegnanti,
come madri e padri, e come
cittadini.
Un gruppo di insegnanti
dell’Itcs
Schiaparelli Gramsci
Milano
Conferenza nazionale
sulla famiglia
A Milano si è chiusa la conferenza nazionale sulla famiglia con un nulla di fatto,
secondo la mia opinione,
perché ancora una volta
non si è voluto affrontare
strutturalmente l’aspetto
economico. È stato detto
che il quoziente familiare
non rende giustizia e si prova ad introdurre il fattore
famiglia: ma il quoziente
familiare non era un cavallo da battaglia? Come mai è
stato abbandonato senza un
minimo di sperimentazione? Allora avevano ragione
coloro che alcuni anni fa
sostenevano che tale strumento creava disparità. E
fra una proposta e un’altra
si sono decurtate le finanze
ai servizi sociali, alle associazioni ed alle famiglie, di
modo che la prossima discussione sulle politiche familiari inizierà con un’asticella molto più bassa.
È stato detto che la famiglia
è tutelata attraverso gli ammortizzatori sociali, quali
cassa integrazione, sistema
pensionistico... Tutto falso,
perché tali ammortizzatori
distruggono la famiglia oggi.
Queste soluzioni potevano
andar bene 30/40 anni fa (ed
infatti la famiglia era tutelata), ma oggi sono solo un aiuto per chi ha una pensione od
un lavoro, ma non per i figli,
che pagheranno in futuro
queste scelte fatte per i genitori o per i nonni. Se vogliamo tutelare la famiglia, occorre pensare ai nostri figli.
Un figlio maggiorenne, che è
costretto ad essere ancora
mantenuto dal genitore, non
potrà garantire un serio futuro. Allora occorrono strumenti che aiutino la famiglia
pensando ai figli, cioè al futuro. In Europa lo fanno:
Francia, Germania, Paesi
Scandinavi... hanno pensato
alla famiglia sostenendo i figli. L’Italia no! Strano che in
un Paese cattolico la famiglia
sia il fanalino di coda; in Europa in buona compagnia
con altri Paesi ‘cattolici’ come
Polonia e Malta.
In Francia per esempio hanno puntato tutto sui figli ed
hanno avuto ragione. Anche
in Italia il Trentino ha fatto
questa scelta che ha ottenuto un buon risultato. Non si
tratta di penalizzare nessuno; si tratta di stabilire pesi
e misure giuste. Invece andiamo avanti ancora con
uno strumento chiamato
Isee, oppure stiamo introducendo una nuova tassa
sui rifiuti, Tia, che sarà anche buona perché tende a
ridurre i rifiuti, ma penalizza le famiglie, perché è calibrata sul nucleo e non sui
singoli componenti.
La soluzione ci sarebbe: pesare complessivamente la
famiglia e dividere tale peso
equamente secondo la composizione. In questo modo
si attuerebbe anche una giustizia redistributiva, in cui
ogni cittadino è chiamato a
contribuire secondo le proprie disponibilità. Ma siamo
pronti a pensare per il futuro dei figli, che in questo
caso coincide con il futuro
della nostra Italia?
Simone Baroncia
Tolentino (Mc)
5
ROCCA 1 GENNAIO 2011
CI SCRIVONO I LETTORI
ROCCA 1 GENNAIO 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
6
Cancun
lucide analisi
però... il clima
non aspetta
Vaticano
l’inverno
ecumenico
è passato?
194 Paesi hanno adottato l’11
dicembre alla Conferenza di
Cancun (Messico) un «pacchetto» sui cambiamenti climatici.
Si tratta di una «visione condivisa», che rilancia gli accordi
dopo il fallimento della precedente conferenza di Copenaghen. Ha guidato i negoziati,
con riconosciuta e agguerrita
fermezza, Patricia Espinosa,
ministra degli Esteri del Messico e presidente della «Conferenza delle parti». Il pacchetto è
composto da 32 pagine e sette
capitoli con premessa e annessi. Oltre alla creazione di un fondo verde, ancora non contabilizzato, da gestire attraverso un
comitato di 40 membri, 15 dei
paesi industrializzati e 25 dei
paesi in via di sviluppo, il pacchetto prevede azioni di adattamento, mitigazione (tagli di
Co2), finanza (subito 30 miliardi di dollari per il periodo 20102013 e successivamente la necessità di mobilitare 100miliardi di dollari l’anno fino al 2020
in favore dei paesi poveri colpiti dai cambiamenti), il trasferimento di tecnologie e un fondo
a favore dei progetti di blocco
della deforestazione. Entro il
2012 bisognerà comunque trovare la strada «per andare avanti», data la scadenza del Protocollo di Kyoto, e cioè il modo
di concertare e concretizzare la
diminuzione delle emissioni.
L’appuntamento è per il prossimo anno a Durban (Sudafrica).
Da Cancun si ricomincia Nonostante la visione condivisa sulla necessità di drastici tagli alle
emissioni, la conclusione di
Cancun non ha portato a impegni vincolanti, ma a «che ognuno faccia quello che può». Positiva la posizione di accettare
una verifica indipendente e trasparente sul territorio, una volta costituito un Protocollo vincolante delle emissioni. Finora
si erano opposti la Cina e gli
Stati Uniti. Ma Pechino ha ora
accettato e, data la quantità delle sue emissioni, questo è un risultato importante.
Papa Benedetto XVI ha ricevuto il 4 dicembre il segretario generale del Consiglio ecumenico
delle Chiese (Cec) il pastore norvegese Olav Fykse Tveit, in «un
incontro aperto e caloroso»,
come ha dichiarato l’ospite all’uscita, ai giornalisti. Il pastore
luterano e la delegazione da lui
guidata sono stati pure ricevuti
dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio
per l’unità dei cristiani. L’unione visibile delle Chiese, il sostegno alle comunità cristiane in
Medio Oriente e un rinnovato
impegno ecumenico per
un’azione comune nel mondo
sono stati i temi sul tappeto.
Riguardo alla ricerca ecumenica, «condivisa da molti come
una priorità – ha detto Tveit –
so che è la causa di Papa Benedetto XVI». «È importante – ha
proseguito – che si parli onestamente delle sfide che abbiamo.
Ci sono aspettative per il movimento ecumenico che non sono
state soddisfatte, e ci sono tensioni che provengono da e tra
le Chiese. È quindi necessario
più che mai ribadire questo nostro impegno e riflettere su ciò
che questo comporta nella nostra vita quotidiana», concentrandosi su «ciò che è possibile
fare insieme». Ha richiamando
l’attenzione sulle «questioni ecclesiologiche di fondo che sono
ancora un ostacolo per l’unità
visibile, come quelle dell’Eucaristia e del ministero ordinato»,
e ha ricordato poi la questione
mediorientale. Alla fine il pastore ha offerto al Papa un paio di
guanti di lana norvegese «perché in inverno proteggono bene
dal freddo», ha detto. «E poiché
alcuni considerano questo periodo un inverno ecumenico,
sono simbolo della possibilità di
andare avanti a dispetto delle
difficoltà». Il Cec – che il rev.
Tveit guida – è una partnership
di 349 Chiese (protestanti, anglicane e ortodosse) per una
rappresentanza di 560 milioni
di cristiani di 110 Paesi del mondo. La chiesa cattolica è presente in alcune commissioni.
Costa d’Avorio
l’incognita
post
elettorale
La notizia dei risultati elettorali riguardanti il ballottaggio delle presidenziali
ivoriane del 28 novembre
definite «storiche», si è trasformata in uno scontro che
fa temere il ritorno dell’instabilità governativa, che ha
caratterizzato questi ultimi
anni la Costa d’Avorio.
I due candidati, il presidente Laurent Gbagbo e l’ex premier Alassane Quattara si
trovano davanti un paese diviso, il nord controllato dai
ribelli delle Forze nuove, vicini a Quattara, il sud dal governo di Gbaho. Gli ivoriani
all’estero hanno votato Quattara, l’Onu lo ha riconosciuto vincitore, ma Gbagho ha
tentato ed è riuscito a invertire la tendenza facendo dichiarare nullo il voto di otto
regioni che avevano votato
Quattara. Situazione molto
grave, mentre Quattara, protetto dai caschi blu, giurava
nell’Hotel du Golfe fuori Abidjan, il leader uscente Gbagbo si proclamava presidente nel palazzo presidenziale.
Coprifuoco, scontri nelle
strade si susseguono tuttora.
ATTUALITÀ
Kosovo
Hashim Thaçi
vincitore
alle elezioni
Haiti
il colera,
gli stregoni,
il Nepal
2011
è l’anima
del
volontariato
Alle elezioni del 12 dicembre, prime elezioni politiche
del Kosovo indipendente, il
partito democratico del primo ministro Hashim Thaçi
si conferma nettamente vincitore, ma il paese è sempre
sotto una «calma tesa»,
anormalità stabile sotto la
supervisione internazionale.
Ricordiamo che il Kosovo
ha proclamato unilateralmente l’indipendenza il 17
febbraio 2008. E fino ad
oggi è stato riconosciuto da
72 dei 192 Stati membri delle Nazioni Unite. Tra questi,
22 Paesi dell’Ue. Per le prime legislative del dopo indipendenza dalla Serbia, la
delegazione di osservatori
del Parlamento europeo si è
detta sostanzialmente soddisfatta, affermando che un
paio di episodi in cui si sono
registrate «gravi irregolarità» non possono mettere in
discussione il risultato positivo. Ma la vittoria non facilita il dialogo con Belgrado, mentre sale al 12% il
movimento che vuole collegarsi con Tirana.
In un documento confidenziale reso noto dal quotidiano «Le Monde» del 6 dicembre, il medico francese Renaud Piarroux ha dichiarato
che l’origine dell’ infezione
colerica ad Haiti è un campo di caschi blu nepalesi della missione Onu situata a Mirebalais, regione del centro.
Ha analizzato dal 7 al 22 novembre il vibrione sul territorio e non ha dubbi in merito alle conclusioni. I volontari di «Medici senza frontiere» hanno confermato l’analisi e dibattuto sull’opportunità di dire o no la verità alla
popolazione per timore di
rappresaglie. Si sono infatti
verificate accuse di stregoneria a persone, associate a
questa epidemia finora dalla
violenza sconosciuta, e purtroppo 14 di esse sono state
linciate. Il responsabile sanitario a Grand Anse, Duvelson
Augello, confermando il bilancio di 2000 morti e di
90mila casi di contagio, non
ha potuto nascondere la
drammatica situazione. Non
ci sono davvero parole adeguate per dirla.
Demmo notizia sul numero
scorso della rivista dei tagli
al cinque per mille alle associazioni di volontariato da
parte della Legge sulla stabilità dello Stato italiano (ex
Finanziaria). Per la precisione, i fondi statali di carattere sociale (politiche della famiglia, pari opportunità, politiche giovanili, servizi infanzia, non autosufficienza,
servizio civile...) nei bilanci
di previsione in questi anni
sono andati sempre più assottigliandosi. Da un totale
dell’anno 2000 (in milioni di
euro) di 2.526, 70 si è arrivati per il 2011 a prevederne
349,40. Colpito il Volontariato, al quale però il capo dello Stato Giorgio Napolitano
non ha mancato – in occasione dell’anno internazionale
del Volontariato – di far
giungere un messaggio di
«profondo apprezzamento»
per il suo protagonismo attivo. «Il suo ruolo, scrive, è
la linfa vitale della nostra
convivenza civile. Va sostenuto anche garantendo le risorse necessarie».
Milano
alla Scala Valchiria e Costituzione
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Il 7 dicembre 2010, inaugurazione della stagione lirica alla
Scala, passerà alla storia non solo per i 14 minuti di applausi
alla Valchiria diretta dal maestro Daniel Barenboim (nella foto),
ma per il messaggio che prima dell’inizio dell’opera il maestro
ha rivolto al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
presente in teatro, messaggio misurato e calibrato nei toni,
ma forte nel suo significato simbolico. «Sono molto felice di
dirigere ancora una volta alla Scala. Sono onorato di essere
stato dichiarato maestro scaligero, ma a nome dei miei colleghi sono molto preoccupato per il futuro della cultura in Italia
e in Europa». E aggiunge la lettura dell’art. 9 della nostra Costituzione che così recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Gli fa
eco Umberto Veronesi per aver ricordato an la scienza. Stona
l’assenza del ministro dei Beni Culturali.
7
ROCCA 1 GENNAIO 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
Assisi
Capitanucci
poeta
liberato dall’arte
Eritrei
incatenati
nel
deserto
Scultore, pittore, poeta, Capitanucci vive, non certo per sua
vocazione, una vita difficile,
irta di problemi non solo, e non
tanto, di concreta, quotidiana
sopravvivenza, sa fondere, col
sigillo di una memoria non turbata da risentimenti, nell’esercizio liberatorio dell’Arte. Col
pennello, col bulino, col verso,
esprime la sua sete di giustizia
e di uguaglianza tra gli uomini; rincorre la bellezza come
messaggera unica di serenità e
di pace; dichiara la consapevolezza del suo destino di artista
e l’ansia insopprimibile dell’Eterno che lo protegge e l’ispira.
In un epigramma dedicato all’amico e protettore, senatore e
console Sterminio Avito, Marziale esprime un giudizio valido per ogni opera d’inchiostro
(Epigr. I, 16).
Giudizio valido anche per l’intera poetica di Giuseppe Caputanucci. A dispetto di tutte le
grammatiche normative, la sua
parola poetica si sostanzia
esclusivamente, e con mirabile
costanza, di profonda e rara
risonanza interiore, incapace,
per indole, di offendere il buon
gusto e il buon senso. Nel 1994,
a conclusione di un contributo
sulla sua opera poetica, scrivevo: «Nelle varie modulazioni
della sua reinvenzione del reale, e nel suo stesso saperla vivere, egli aiuta ad affrontare la
vita con coraggio, a non lasciarsi vincere. Così con la pittura,
con la scultura, con la poesia,
con l’Arte, Capitanucci si riappropria di quella dignità, di
quel rispetto, soprattutto del refrigerio spirituale della pacificazione interiore, che la stoltezza di alcuni comportamenti di
questa società ‘civile’ si era illusa di avergli negato». Giudizio che, a distanza di oltre un
quindicennio, ritengo tuttora
valido, perfettamente aderente
agli esiti recenti delle sue opere artistiche, sempre sorprendenti, lievitate di quella suggestiva, calamitante semplicità
che è il segreto di ognia utentica opera d’arte.
«Siamo incatenati, in condizioni gravissime, da tre giorni non
mangiamo. Salvateci». È l’appello lanciato alla Radio Vaticana da un ragazzo eritreo, uno
dei 74 profughi da più di un
mese nelle mani dei predoni nel
deserto del Sinai, tra Egitto e
Israele. Ha raccolto l’allarme
Mussie Zerai, missionario eritreo in Italia, che dice dei connazionali: «Già da un mese vengono tenuti legati con le catene
ai piedi come schiavi. Non hanno acqua per lavarsi, vengono
picchiati e minacciati di morte
se non pagano ottomila dollari
ciascuno. I trafficanti d’uomini
chiedono questo riscatto a testa
per liberarli e per questo gli permettono di comunicare via telefono con l’esterno». Don Mussie ha parlato con i famigliari
che hanno ricevuto telefonate
disperate da un punto indefinito del monte Sinai, deserto egiziano attraversato da predoni.
Sono profughi che forse avrebbero voluto arrivare in Europa
attraverso la Libia. Forse facevano parte del gruppo dei 255
(tra loro anche donne incinte)
che nell’estate del 2009 aveva
cercato invano il passaggio via
mare verso l’Italia.
Approfittando di un’amnistia i
255 profughi escono dalla segregazione libica del campo di
Al praq e si disperdono. Un
gruppo di 80 paga ciascuno
2000 dollari ai passatori che
promettono di farli arrivare al
Sinai e di lì attraversare la frontiera con Israele. In realtà finiscono nelle mani dei trafficanti. Seguendo le sorti degli eritrei don Mussie scopre altri
migranti finiti nel campo di detenzione fino a quando non
sono in grado di pagare. Sarebbero seicento tra somali, etiopici e sudanesi. Sull’urgenza
della situazione ha lanciato un
appello il Papa mentre ripetiamo anche l’appello pressante
della comunità di sant’Egidio
al governo italiano e ai media,
nell’inerzia del governo egiziano e nell’immobilismo della
comunità internazionale.
Pasquale Tuscano
8
L’Aquila
un’inchiesta
tra
le macerie
Un’inchiesta a tutto campo su
quel che è successo nel dopo
terremoto a L’Aquila è stata
condotta da «Libera», l’associazione contro tutte le mafie
fondata da don Ciotti. Una
cinquantina di pagine firmate da Angelo Venti dal titolo
«L’isola felice» rivelano i molteplici ‘buoni affari’ per la criminalità organizzata, denunciano gli interessi dei clan e
delle cricche mafiose, nell’intrico del sottobosco della ricostruzione. Il dossier, distribuito a L’Aquila in 40mila copie,
lo ha presentato don Ciotti, dicendo: «È un lavoro che abbiamo voluto tutti noi di Libera
perché, oggi più che mai, abbiamo il dovere di rompere il
silenzio». Un silenzio che dura
da quella notte fra il 5 e il 6
aprile 2009 quando, a poche
ore dalla tragedia, con i soccorsi «il rischio delle infiltrazioni non ha dovuto attendere l’inizio della ricostruzione,
ma è arrivato nelle prime ore
insieme con la Protezione Civile e con un appalto sul modello di gestione dei Grandi
Eventi». E il dossier coraggioso continua con puntuale documentazione.
notizie
seminari
&
convegni
Per la pubblicazione in questa rubrica
occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando
a: a.portoghese@
cittadella.org
Novara. Nel corso di una solenne celebrazione, il 29 novembre il vescovo monsignor
Renato Corti, parlando della
pace ha evocato per contrasto
«quel fiume di danaro che nel
mondo si spende per armi e
per guerre. La questione – ha
sottolineato – riguarda anche
l’Italia, che pure costruisce e
vende armi. Da tempo suscita
discussione la costruzione di
un aereo da guerra (F35) che
verrà assemblato sul nostro
territorio e che farà spendere
diversi milioni di euro... Desideriamo riaffermare come comunità cristiana la necessità di
opporsi alla produzione e alla
commercializzazione degli armamenti costruiti per la guerra».
Parigi. Il premio annuale per
la Pace di Pax Christi International 2010 è andato a monsignor Louis Sako, arcivescovo di
Kirkut in Iraq. È uno dei più
strenui difensori delle minoranze e dei sostenitori del pro-
cesso di democratizzazione e di
riconciliazione del Paese. La
premiazione è avvenuta nella
sede della Conferenza episcopale francese l’8 dicembre.
Monsignor Saki ha sottolineato la «praticità» del messaggio
cristiano e citato in siriano il
canto egli angeli che recita:
«pace agli uomini che sperano».
Bruxelles. «La letteratura crea
visioni per l’Europa di domani» Così il presidente Jerzy Buzek ha aperto la cerimonia del
Premio del Libro europeo, che
si è tenuta l’8 dicembre in un’affollatissima sala del Parlamento. I due vincitori sono stati il
romanzo «Purga» della finlandese Sofi Oksanen, e il saggio
dell’italiano Roberto Saviano
«La bellezza e l’inferno». Buzek
li ha definiti «testimoni della
lotta per l’emancipazione che è
parte integrante dell’identità
europea».
Perugia. La scuola quadriennale di Psicoterapia psicoana-
litica esistenziale «Gaetano Benedetti» ha aperto i suoi corsi
specialistici (sede didattica anche ad Assisi, Cittadella cristiana) con due fine-settimana al
mese. Si rivolge a medici o psicologi abilitati. Informazioni:
sito e-mail:
[email protected]
cell. 3939022836.
Mantova. L’Editore Negretto
bandisce, dal novembre al 15
aprile 2011, il premio «Odorisuonicolori. Ho un quadro
per la testa», dedicato agli utilizzatori del kit per non vedenti e ipovedenti, messo a
punto da Lidia Beduschi, per
insegnare l’alfabeto dei colori. Il libro (che è un vero e
proprio kit) è formato da 22
schede mobili collegati al sito
«odorisuonicolori.it», dove è
possibile ascoltare i suoni e le
musiche corrispondenti a ciascuno dei colori-base. Informazioni: Andrea Sartori, Negretto
Editore, via Bertani 33, 46100
Mantova, tel. 3405241726.
2-4 gennaio. Assisi (Pg). Stage
«Ascoltare la vita. Decidersi a scegliere», due giornate di riflessione sui propri orientamenti di
vita, in risposta alle domande
fondamentali di oggi, per conoscere il Volontariato della Pro Civitate Christiana. Lo stage è rivolto ai Pre-Volontari e anche a
celibi o giovani coppie che vogliano conoscere la vita e le attività
dell’Associazione. Preghiera, riflessioni, confronti, testimonianze. Informazioni: Cittadella Stage, via Ancajani 3, 06081 Assisi
tel. 075 812308, e-mail:
[email protected].
4 gennaio. Toscana. Avvio di
corsi per rappresentanti di classe in teleconferenza, organizzati
dall’Associazione Genitori Age
Toscana. Ogni mercoledì dalle 18
alle 19 piccoli gruppi di genitori
potranno imparare strategia e
normative in diretta con la presidente dell’Age Rita Mangani Di
Goro. Informazioni:
[email protected], cell. 328
8424375.
22 gennaio. Aci Sant’Antonio
(Ct). Nell’ambito degli incontri
«Semplicemente amare... La sessualità umana» incontro sul
tema: «Gesù, l’umanità esemplare». Relatore Carmelo Raspa, biblista. Sede: Casa del Giovane,
via Umberto 72, Aci Sant’Antonio, ore 18-21, tel. 095 7891 350.
4-6 febbraio. Ravenna. Convegno di Biblia, associazione laica
di cultura biblica, sul tema «Li disseminò sulla faccia della terra»
(Genesi 11,8): «Incontro o scontro di culture?». Relatori: rav. Luciano Caro, Paolo De Benedetti,
Stefano Levi della Torre, Luca
Mazzinghi, Massimo Bubboli,
Piero Stefani, Giancarla Codrignani, Mauro Perani, Nuria Calduch
Beneges, moderatore Gioacchino
Pistone. Visite alla città. Ravenna,
Sala Cavalcali, Camera Commercio, viale Farini 14. Informazioni:
Biblia, Via A. da Settimello 129,
50040 Settimello (Fi).
14 febbraio. Bari. Per il ciclo degli incontri interreligiosi, Simona
Dobrescu, ortodossa rumena, e
Bernard Keltz, ebreo, interverranno sul tema: «Interazione tra le
varie comunità etniche: difficoltà
e speranze». Sede: ore 20.00, Aula
magna Chiesa san Marcello, largo
Franco Ricci, tel. 080 5575519-340
8429649 (don Gianni De Robertis).
21-23 febbraio. Roma. 52° Convegno liturgico-pastorale sul sacramento della Riconciliazione
«Convertitevi e credete al Vangelo». Relatori: Antonio Donghi,
Luca Benedini, Bruno Maggioni,
Pietro Sorci, Ernesto Preziosi, Felice Di Molfetta. Dibattiti e Tavola
rotonda con Barbara Pandolfi, Antonella Perugini, Athos Righi.
Sede: Casa «Tra noi» via Monte
del Gallo 113, Roma, tel. 06
39387355.
14-18 febbraio. Varazze (Sv).
Esercizi spirituali guidati dal Vescovo di Asti mons. Francesco
Ravinale sul tema: «Salvi nella
speranza». Casa di ospitalità Fatebenefratelli, Via Genova 11, Varazze, tel. 019 93511. E-mail:
r e p o r t @ n e w s l e t t e r. m d c comunicazione.net.
18-20 febbraio. Assisi (Pg). «La
dimensione interiore della corporeità» è il tema del 7° Seminario
di Arteterapia articolato in lezioni e laboratori, questi ultimi condotti dagli esperti arteterapeuti
Paola Luzzatto, Tiziana Luciani,
Rosella De Leonibus, Carlo Coppelli, Luigi Bovo, Lucia Russo,
Lorella Natalizi, Loredana Alcino,
Simone Donnari, Maurizio Peciccia. Il seminario è rivolto a docenti e allievi di ogni ordine di
scuola, Accademie, Facoltà universitarie, Operatori sociali e sanitari, Psicologi, Psichiatri, Sociologi, Educatori.
Possibilità di terapia amniotica a
Ponte Felcino (Pg). Riconoscimento della Regione Umbria e del
Miur. Informazioni: Cittadella cristiana, via Ancajani 3 - 06081 Assisi, tel. 075 812308, 813231, email:
[email protected];
[email protected].
ROCCA 1 GENNAIO 2011
ATTUALITÀ
9
ATTUALITÀ
Il gene che fa ringiovanire
notizie
dalla
scienza
I danni dell’invecchiamento non sono irreversibili: riattivando un enzima deficitario, si
possono far regredire. Questo perlomeno in
topi privi dell’enzima stesso, e perciò geneticamente predisposti a un invecchiamento prematuro. Lo mostra uno studio su «Nature».
L’enzima è la telomerasi, scoperta una ventina d’anni fa e considerata come una fontana
di giovinezza, perché ripara le estremità dei
cromosomi – i telomeri – che con l’età si consumano portando alla morte della cellula.
Nelle cellule che non muoiono ma continuano a replicarsi indefinitamente, come le staminali, la telomerasi mantiene stabile la lunghezza dei telomeri, mentre le sue mutazioni causano malattie rare caratterizzate da invecchiamento prematuro. Studi più approfonditi tuttavia hanno mostrato che il nesso
tra telomerasi e senescenza è più sfumato, e
che la sua sovrattivazione contribuisce spesso a rendere cancerosa una cellula.
Un team guidato da Ronald DePinho, di
Harvard, ha reintrodotto l’enzima in topi che
ne sono privi, e perciò invecchiano precocemente con gravi danni agli organi, e sono
quasi sterili. L’enzima era attivabile a comando somministrando un composto chimico. I topi sono quindi cresciuti in sua assenza, sviluppando i consueti danni. Quando l’enzima è stato attivato, molti danni sono
regrediti in misura così drastica da stupire i
ricercatori: milza, fegato, intestino, testicoli, cervello sono tornati quasi normali, e si è
ripristinata la fertilità. In linea di principio,
secondo DePinho, ciò prova che l’invecchiamento è reversibile, e farmaci mirati ai meccanismi biologici che lo promuovono potrebbero farlo regredire.
Restano però molti dubbi: se il risultato valga per organismi normali, non predisposti
all’invecchiamento anomalo; come gestire,
nel caso, i rischi di cancro dati da una telomerasi più attiva; e quanto pesi davvero la
telomerasi tra i tanti meccanismi biologici
che contribuiscono all’invecchiamento.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
L’albero della plastica
Giovanni
Sabato
10
Plastiche di ogni genere ricavate in modo
rinnovabile dalle piante, anziché dal petrolio. È quanto promette la ricerca pubblicata su «Plant Physiology» da ricercatori del
Dipartimento dell’energia statunitense a
Brookhaven e dalla società Dow Agrosciences, guidati da John Shanklin.
Le piante producono normalmente le molecole, dette acidi grassi, che assemblate fra
loro formano gli olii vegetali. Alcuni acidi
grassi «insoliti» prodotti da particolari piante, detti omega 7, sarebbero adatti come
materia prima per la produzione di plastiche. Ma le piante che nei loro semi producono questi acidi sono disagevoli da coltivare e ne accumulano troppo pochi per l’uso
commerciale.
Perciò Shanklin ha trasferito i geni necessari a produrre gli omega 7 in specie più
adatte all’uso agricolo. Gli acidi grassi prodotti restavano però ancora troppo pochi.
Shanklin, sfruttando le approfondite conoscenze del metabolismo vegetale accumulatesi negli ultimi decenni, ha allora iniziato a manipolare il metabolismo delle
piante, lavorando in una specie-modello
usata di norma per esperimenti di questo
tipo, Arabidopsis. Dapprima ha modificato
l’enzima che produce gli omega 7, ottenendo una versione più efficiente di quella naturale che ha aumentato le rese dal 2% del
contenuto del seme al 14%. Poiché non bastava ancora, ha modificato anche altre vie
metaboliche, per esempio riducendo le
quantità di un altro enzima, che consuma
il precursore degli omega 7 per sintetizzare altre sostanze. Così, a furia di prove, è
arrivato a un rendimento del 71%. L’Arabidopsis modificata non risente delle manipolazioni e cresce come la controparte naturale.
Resta ora da trasferire il sistema in colture
di uso agricolo, e realizzare processi industriali più efficienti per ricavare la plastica
dagli omega 7, ma la prova di principio intanto è riuscita, e indica una via generale
che si potrà applicare alla sintesi vegetale
di altri precursori industriali.
Luce solare e carattere
La stagione in cui si nasce influenza drasticamente l’orologio biologico interno che
controlla i ritmi veglia-sonno e molti altri
ritmi circadiani. Lo mostra uno studio sui
topi pubblicato su «Nature Neuroscience»
da Douglas McMahon della Vanderbilt University.
I topi cresciuti fino allo svezzamento con
un ciclo estivo di 16 ore di luce e 8 di buio, e
poi mantenuti allo stesso ciclo o passati a
quello opposto invernale, mostravano un
bioritmo con 10 ore di attività, a partire dal
crepuscolo, e 14 di riposo. Il bioritmo dunque non era influenzato dalla luce successiva allo svezzamento.
Per i topi cresciuti sotto un ciclo luminoso
invernale, viceversa, il bioritmo dipendeva
dalla luce successiva: chi restava sotto un
ciclo invernale si comportava allo stesso
modo dei consimili «estivi», mentre chi passava a un ciclo estivo restava attivo un’ora
e mezzo in più. L’esame dei neuroni che
controllano i bioritmi mostrava cicli di attivazione e spegnimento analoghi a quelli
osservati nei comportamenti. Poiché questi topi sono più sensibili al variare delle
ore di luce, e i ritmi circadiani hanno un
profondo effetto anche sull’umore, McMahon ipotizza che ciò spieghi la maggiore suscettibilità di chi nasce in inverno a
vari disturbi psicologici, inclusa la depressione stagionale.
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da LA REPUBBLICA, 2 dicembre
da L’UNITÀ, 3 dicembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 dicembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 10 dicembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 11 dicembre
da LA REPUBBLICA, 15 dicembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 16 dicembre
ROCCA 1 GENNAIO 2011
da IL CORRIERE DELLA SERA, 1 dicembre
11
ROCCA 1 GENNAIO 2011
incontri e convegni
CITTADELLA 2011
GENNAIO
14 – 16
Forum delle Associazioni Familiari (osp.)
FEBBRAIO
18 – 20
7° Seminario di Arteterapia
MARZO
05 – 09
Centro Pastorale Accoglienza S. Luigi di Francia (osp.)
APRILE
01 – 03
21 – 25
25 - 30
Convegno Nazionale della Federazione Italiana di Yoga (osp.)
Pasqua in Cittadella
Giornate di spiritualità Giovani della Diocesi di Rouen (osp.)
MAGGIO
06 – 08
13 – 15
20 – 22
26 – 29
9° Corso Terza Età
19° Congr. Spiritualità Antropologica ed Ecologia Sociale (osp.)
Congr. Internaz. della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (osp.)
Convegno Nazionale Società Teosofica Italiana (osp.)
GIUGNO
02 – 05
10 – 12
25 – 28
33° Seminario Coppia
10° Convegno dell’Associazione Culturale «Pietro Ubaldi» (osp.)
11° Seminario «Bibbia e Psicologia»
LUGLIO
9 – 23
Corso Quadriennale di Musicoterapia
AGOSTO
13 – 16
17 – 19
20 – 25
35° Seminario «Bibbia e Spiritualità»
25° Seminario «Lettere di San Paolo»
69° Corso Internazionale di Studi Cristiani
SETTEMBRE
02 – 04
19° Incontro Biblico con padre Alberto Maggi
OTTOBRE
07 – 09
13 – 16
Incontro amici della Banca d’Italia (osp.)
Conv. Nazionale della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (osp.)
NOVEMBRE
07 – 11
24 – 26
Esercizi spirituali per presbiteri, diaconi, suore e laici
51° Seminario di Filosofia in collaborazione con Università di PG
DICEMBRE
23 – 26
29 – 31
31 – 1° gen./2012
Natale in Amicizia
2° Generazioni in Dialogo
Incontro al Nuovo Anno: giornata di confronto e preghiera
informazioni iscrizioni soggiorno
Cittadella Convegni – via Ancajani 3 – 06081 ASSISI/Pg
e-mail: [email protected]; [email protected]
tel. 075/812308; 075/813231; fax 075/812445; http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
12
RESISTENZA E PACE
Raniero
La Valle
dolori non finiscono mai, così Berlusconi è ancora lì col suo governo,
dopo la «due giorni» parlamentare
giunta talmente in ritardo, dopo un
mese dalla presentazione della mozione di sfiducia, e di favori fatti al
presidente del Consiglio, da ribaltare il previsto risultato del voto.
Quello che è avvenuto tra il 13 e il 14 dicembre in Parlamento dimostra che ormai il problema della salvezza della nostra Repubblica non è riducibile al superamento di Berlusconi, ma è legato al superamento del berlusconismo; la corruzione delle persone e delle idee infatti è scesa per i rami, e dai vertici
del potere attraversando il Parlamento si diffonde nel Paese penetrando, in cerca di legittimazione, nel senso comune.
Lo sfondo è uno sfondo di violenza, che a
Roma è venuta alla superficie nella guerriglia urbana provocata dai black bloc in coincidenza con il voto parlamentare.
Ma almeno due volte gli attori principali della
scena politica hanno sprigionato una violenza non meno pericolosa di quella dei black
bloc.
La prima si annidava nel discorso antiparlamentare del presidente del Consiglio, laddove egli sosteneva che un capo del governo
eletto dal popolo non può che essere rimosso dal popolo: «se un governo non ha bene
operato e deve lasciare», deve essere il popolo infatti a deciderlo (a tempo debito, con
le elezioni), mentre non avrebbero questa
facoltà i Parlamenti che sono chiamati a «interpretare e rappresentare» la volontà popolare (espressasi nella nomina del capo del
governo), non a «sostituirvisi»; il che vuol
dire che per cinque anni il governo dovrebbe essere immune da qualsiasi interferenza
parlamentare, con la conseguenza che la
protesta contro un governo che «non opera
bene» e che perciò dovrebbe «lasciare», non
potrebbe manifestarsi che attraverso gli operai che salgono sulle gru, i disoccupati che
salgono sui tetti, gli studenti che occupano
aeroporti e ferrovie, e black bloc che spaccano tutto.
In tal modo l’insindacabilità e imperturbabilità dei governi sarebbe pagata con la collera e la violenza sociale.
La seconda violenza si è avuta quando, dopo
l’esito favorevole del voto, la gioia incontenibile dei deputati della maggioranza si è
manifestata con lo sventolio dei tricolori, che
hanno pavesato di bianco rosso e verde metà
dell’aula di Montecitorio. Qui la violenza sta-
I
va nell’interpretare la propria vittoria come
una vittoria dell’Italia, come se l’altra non
fosse Italia, e anzi nel presentare la propria
parte come l’unica qualificata a dirsi italiana. Ciò voleva dire mettere fuori l’altra metà
(e anzi più) dell’Italia, radiarla dalla comunità nazionale, considerarla indegna di appartenervi; che se poi quest’altra Italia dovesse governare sarebbe, come aveva detto
il premier, un «orrore». Dunque la spaccatura radicale e violenta che questa politica infligge alla società italiana è di dividerla tra
un’Italia che fa meraviglie e un’Italia che fa
orrore. E come possono stare insieme sullo
stesso territorio?
A questo punto è meglio che, al più presto,
si vada alle elezioni, pensando però alla prossima legislatura non come la ripetizione e lo
sviluppo dei mali passati, ma come una legislatura ricostruttiva e ricostituente, in cui si
ricomponga l’unità del Paese, si ripristini
l’idea del bene comune, si ristabilisca la stima fra le parti contrapposte e si facciano
quelle riforme che possano dare uno sbocco
efficace e mite alla ormai troppo lunga transizione italiana.
Per avere una legislatura così, non ci si può
arrivare né con la riduzione della battaglia a
due soli contendenti né con quella forzatura
rappresentata dal premio di maggioranza
previsto dalla legge Calderoli. Senonché la
stessa legge Calderoli prevede e permette che
un adeguato collegamento tecnico-istituzionale tra forze politiche diverse produca un
risultato elettorale tale che vada al di là di
quello per il quale è destinato a scattare il
premio di maggioranza. In tal caso non si
avrebbe alcuna manipolazione del voto in
sede di attribuzione dei seggi, i quali sarebbero distribuiti tra tutti i partiti, dell’uno e
dell’altro schieramento, secondo la reale forza di ciascuno in modo proporzionale. Ciò
permetterebbe un momento di tregua nella
durezza della contrapposizione politica, e la
formazione di un Parlamento più capace di
dialogo e più sereno, sia per fare una nuova
legge elettorale, sia per decidere con più vasti e articolati consensi la strada che deve
prendere il Paese. Quanto al governo esso
sarebbe formato dalle forze che abbiano ricevuto i maggiori consensi, che siano più
affini tra loro e abbiano la maggiore capacità di aggregazione.
È questa la proposta che i Comitati Dossetti
per la Costituzione faranno a tutti i partiti
in un convegno che si terrà a Bologna il 28
gennaio prossimo.
❑
13
ROCCA 1 GENNAIO 2011
una legislatura di tregua
AFGHANISTAN
pochi passi e tante
verità occultate
Maurizio
Salvi
rmai è deciso: la crisi in Afghanistan non è risolvibile con le maniere forti, per cui da quest’anno,
e fino alla fine del 2014, la Coalizione internazionale denominata
Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf) eseguirà un elegante
dietrofront cominciando a ritirare il contingente militare multinazionale, che nell’ultima
fase ha raggiunto quasi 150.000 uomini. E lo
farà affidando gradualmente lo sforzo di contrasto dell’opposizione armata interna (soprattutto talebani) ad esercito e polizia afghani che,
ovviamente, «saranno opportunamente addestrati». I governi occidentali e gli alti vertici
della Nato, hanno comunque ripetutamente
assicurato che «non si tratta di una fuga» e
che, anche dopo la data fissata lo scorso novembre al Vertice di Lisbona per la fase di trasferimento delle responsabilità, l’Alleanza atlantica manterrà un presidio militare per tutelare sia la stabilità del governo del presidente Hamid Karzai, sia gli importanti interessi
strategici occidentali in un paese che è crocevia di vitali flussi economici ed energetici fra
Asia ed Europa.
O
il viaggio lampo di Obama
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Nonostante che l’Operazione Enduring Freedom sia entrata ormai nel suo decimo anno,
si deve notare che i progressi sul terreno non
sono stati commisurati alle risorse impiegate.
E dopo 2.250 soldati stranieri morti (al 7 dicembre 2010), la realtà è che ben poche zone
dell’Afghanistan sono veramente sicure e praticabili. L’ultimo incredibile esempio? Il viaggio lampo realizzato dal presidente americano Barack Obama all’inizio di dicembre con
l’obiettivo di discutere a quattr’occhi con Karzai sugli strascichi della pubblicazione da parte
di Wikileaks di documenti segreti della diplomazia Usa. Arrivato nella base militare di Bagram dopo 13 ore di volo con l’Air Force One,
Obama avrebbe dovuto prendere un elicottero per coprire i 50 chilometri che lo dividevano da Kabul. Ma non lo ha potuto fare. Ragione? I forti venti che avrebbero reso precaria la
14
stabilità del velivolo. Allora i collaboratori del
capo della Casa Bianca hanno pensato di affidare il confronto fra i due statisti ad una videoconferenza che, però, non è stato possibile
realizzare per «motivi tecnici». A questo punto Obama ha preso il telefono ed ha chiamato
il suo interlocutore, come avrebbe potuto però
fare da casa sua. Poi, dopo un saluto alle truppe a cui ha assicurato che «stiamo vincendo»,
ed una permanenza di appena quattro ore nel
paese, è risalito sul suo aereo per rientrare a
Washington. Anche questo è l’Afghanistan
quindi, dopo la decennale cura internazionale.
l’unica opzione il negoziato?
Ora discretamente, ma di fatto come unica
opzione rimasta, la crisi è entrata nella fase
del negoziato. E non solo Karzai, ma anche i
vertici militari della Nato hanno manifestato
volontà (gli uni) e disponibilità (gli altri) ad
aprire un processo di pace, riconciliazione e
reintegrazione con «quegli oppositori che accetteranno la Costituzione afghana e abbandoneranno le armi». Ma esiste già davvero
questo negoziato? Vi sono interlocutori credibili fra i talebani e fra gli altri gruppi clandestini (Gulbuddin Hekmatyar e Rete Haqqani)?
È possibile che una trattativa possa andare felicemente in porto con la presenza militare
straniera sul suolo afghano? O senza un serio
impegno da parte dei paesi della regione?
Ognuno di questi interrogativi rappresenta allo
stadio attuale della crisi, una autentica classica «domanda da un milione» per la quale la
risposta non può che essere complessa ed articolata.
Per poter comunque cercare di avvicinarci ad
essa dobbiamo prendere atto di alcune verità
che spesso sono state volutamente occultate.
L’Afghanistan è un paese dalla profonda tradizione islamica, alieno alla cultura occidentale, con leggi e comportamenti che non hanno mai avuto agganci con la tradizione democratica che ha pervaso i paesi europei e gli Stati
Uniti. L’amministrazione della giustizia è ancora ampiamente influenzata dal Corano e a
livello locale è imprescindibile immaginare
Karzai convitato di pietra
Valutando le prospettive di un possibile negoziato fra il governo afghano e i talebani, si deve
tenere presente che la figura di Karzai è imprescindibile, anche se i giudizi su di lui, come
hanno dimostrato i documenti pubblicati da
Wikileaks, sono praticamente quasi solo negativi. Ma ormai tutti si sono convinti allo stesso tempo che in questi anni non è emerso nessuna alternativa seria di leader politico che
possa prenderne il posto. E nemmeno potrebbe farlo l’ex ministro degli Esteri ed ex candidato presidenziale Abdullah Abdullah, che ha
una fetta importante di consensi ma è profondamente inviso ai talebani che non possono
essere assolutamente ignorati nello sforzo di
raggiungere un compromesso politico.
Ma c’è margine per tale compromesso? Sono
già cominciati i negoziati (diretti o indiretti)
con gli insorti? Data la complessità del problema e l’ambiguità di molti dei personaggi
che ne fanno parte, una risposta certa non è
possibile. Incontri, riunioni, perfino seminari, per trattare la questione con personaggi di
seconda e terza fila talebani e non, vi sono sicuramente stati negli ultimi tre anni. Da quando cioè è emersa lentamente la convinzione
che non c’era soluzione unicamente militare
alla crisi afghana.
Un’accelerazione c’è stata quest’anno, poi, con
la riunione a Kabul di una Jirga (Assemblea)
di pace afghana e dalla successiva costituzione di un Alto Consiglio per la pace di 70 mem-
bri, incaricato formalmente di individuare la
strada che possa portare ad un tavolo delle
trattative. A questo attivismo del governo di
Karzai appoggiato dalla comunità internazionale una risposta c’è stata, ma è di difficile lettura. Da una parte l’Emirato islamico dell’Afghanistan – questo il nome che attribuiscono
al paese i talebani – ha liquidato le avances,
sostenendo che nessun negoziato «è possibile
con il governo ‘fantoccio’ fino a quando gli ‘invasori’ avranno truppe nel paese». Come dire,
nessuna trattattiva nell’immediato. Ma proprio
così non deve essere se è vero, come è vero,
che il «numero due» dei talebani, il Mullah
Abdul Ghani Baradar, è stato arrestato all’inizio di quest’anno a Quetta, in Pakistan, mentre per ammissione generale esplorava una
possibile soluzione politica alla crisi. Gli analisti hanno visto dietro all’inatteso stop la mano
del Pakistan, che non vuole essere scavalcato
sulle vicende afghane, e dell’ala dura del governo e delle Forze armate americane, per la
quale il dialogo deve materializzarsi solo con
i talebani del Mullah Omar debilitati.
Ma con il passare dei mesi, e delle difficoltà
economiche e finanziarie dell’Occidente, le fila
dei trattativisti si sono infoltite e di esse sono
entrati a far parte molti paesi dell’Isaf che vogliono riportare i loro uomini a casa, senza
ovviamente dare troppo nell’occhio. Sarà dunque per questo che quando all’inizio del 2010
è entrato in scena un «autorevole» membro
dei talebani «disposto a verificare gli spazi ed
il contenuto del progetto di riconciliazione e
reintegrazione del governo», molti si sono sfregati le mani di soddisfazione. Prima nel più
completo riserbo, poi con nome e cognome
(Mullah Akhtar Muhammad Mansour) «l’inviato» nel corso delle settimane è stato trattato con il massimo rispetto. Lo si è trasportato
su elicotteri britannici, finanziato con svariate decine di migliaia di dollari, portato perfino al cospetto del comandante delle forze internazionali, generale David Petraeus e, pare,
dello stesso Karzai.
il bidone
Tutto bene, si dirà. Fino a quando si è scoperto che il vero mestiere dell’autorevole religioso era quello di droghiere a Quetta, la città
pachistana al confine con l’Afghanistan. È difficile poter credere che sofisticati servizi segreti, fra cui il blasonatissimo M16 britannico, possano essere caduti o aver accreditato
una simile storia, rivelatasi poi un «bidone».
Ma così è stato e questo lascia capire che sul
piano della soluzione di pace per l’Afghanistan,
le parole sono molte, ma la carne al fuoco è
pochissima. Per cui per vedere frutti maturare sull’albero ci vorrà sicuramente molto altro
tempo.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
decisioni riguardanti la vita quotidiana che
possano essere prese a prescindere dai Consigli degli anziani e dalle autorità tribali. È anche un fatto che nelle zone rurali sono ancora
in vigore molte delle leggi imposte sotto il governo dei talebani (1996-2001). Nel decennio
appena trascorso una profonda riforma del sistema giudiziario è stata avviata (anche con
l’aiuto dell’Italia), ma si tratta di un processo
lungo che richiederà ancora molto tempo. Insomma l’esistenza di un Afghanistan «democratico» come lo immaginiamo noi è per il momento un mero auspicio e onestamente non
sappiamo se una tale condizione sarà mai raggiunta.
Questo aiuta anche a capire il fallimento delle
elezioni presidenziali e legislative degli ultimi
due anni, macchiate da brogli colossali e da
scarsa affluenza alle urne dovuta a disinteresse, o alle minacce dei talebani. E a comprendere perché alla fine il potere del presidente
Karzai non si basi tanto sull’autorità che gli
proviene dall’aver vinto le elezioni, ma dalla
capacità di gestire il potere attraverso il compromesso con i vari gruppi etnici e con gli ex
comandanti della vecchia Alleanza del Nord
del defunto Ahmad Shah Massoud e, come
quotidianamente ha ricordato la stampa, da
tanta, tanta corruzione.
Maurizio Salvi
15
PROTESTA STUDENTI
contro il taglio
del futuro
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Ritanna
Armeni
eriodicamente gli studenti pongono delle domande. Scendono in
piazza, protestano, manifestano,
chiedono di essere ascoltati. Questa volta è avvenuto pressoché simultaneamente in Italia in Francia e in Gran Bretagna. In Italia contro la
riforma Gelmini e la politica dei tagli all’istruzione del governo Berlusconi, in
Francia contro la riforma delle pensioni
voluta dal governo Sarkozy, in Inghilterra
contro l’aumento spropositato delle tasse
che di fatto impedirà ai meno abbienti di
accedere agli studi universitari.
Si tratta di movimenti impetuosi, spesso
fortemente politicizzati, che usano forme
di lotta creative e radicali. Spesso – negli
anni scorsi è accaduto – vengono sopportati e tollerati in attesa che, come le malattie esantematiche, passino. Questa volta
sono stati più fortunati: hanno avuto l’appoggio delle forze di opposizione impegnate nella lotta contro le politiche del governo di quei paesi. E qualche comprensione
anche da un’opinione pubblica non più
convinta che le cose vadano per il verso
giusto.
P
ma che cosa davvero vogliono?
Ma torniamo a loro, agli studenti e poniamoci a nostra volta qualche domanda. Che
16
cosa davvero vogliono? Che cosa esprimono? E poi il quesito più importante: ci troviamo di fronte ad un movimento che vuole
cambiare ed è in grado di cambiare la scuola e l’università? Naturalmente quando diciamo «in grado» non pensiamo che lo
debbano fare da soli e domani. Ma ci chiediamo se abbiano idee, proposte e forza
politica per smuovere qualcosa di più profondo che riguarda loro stessi, la condizione dei giovani nella società e, di conseguenza, la società nel suo complesso.
Intanto diciamo subito che la riforma delle pensioni in Francia, l’aumento delle tasse universitarie in Gran Bretagna e la riforma Gelmini in Italia costituiscono sicuramente la spinta alla protesta, l’occasione più evidente ma non la ragione più
profonda. Del resto questa è stata sempre
una caratteristica del movimento degli studenti. Anche nel mitico 68 si scese in piazza contro la riforma Gui, ma la maggior
parte degli studenti imparò solo strada facendo di che cosa si trattava. La sua adesione alle manifestazioni e alle assemblee
avvenne su qualcosa di più forte e non detto: la lotta contro una società italiana classista e autoritaria. Insomma per una utiopia di libertà e di giustizia in un paese che
era in pieno e impetuoso sviluppo, che
puntava alla piena occupazione e all’aumento dei consumi. Fu una lotta vincente
disagio malessere infelicità
Ma la protesta è un fenomeno necessariamente confuso. Può esprimere malessere,
disagio, infelicità. Oppure difficoltà e conseguente decisione a superarla. O, ancora, la necessità di un mondo migliore e diverso che superi quello attuale. Può, in-
somma, contenere un’utopia e – perché no
– un sogno. E può esprimere in un mix diverso tutte queste cose insieme. Credo che
l’attuale movimento esprima essenzialmente malessere, disagio e infelicità. Che
non abbia chiaro fino in fondo il genere di
difficoltà che ha di fronte. E che abbia scarse idee – il sogno, l’utopia – sul mondo che
vorrebbe.
A scanso di equivoci è bene chiarire che
ritengo l’espressione di disagio e di malessere e di infelicità un fatto importante. E
che ritengo altrettanto importante che questo avvenga in modo collettivo. Non solo.
Sono convinta che qualunque classe dirigente al governo e all’opposizione di quel
malessere e di quella infelicità dovrebbe
tenere massimamente conto. Ma che questa non basta, per quanto si diffonda e per
quanto possa essere radicale, a restituire a
quei giovani il futuro che è stato loro tolto.
Per restituire un futuro occorre innanzitutto che si abbia qualche idea su ciò che
vorremmo che fosse. E poi andare alle radici del motivo per cui questo futuro è stato così drammaticamente e così drasticamente cancellato.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
perché l’antiautoritarismo, cioè l’istanza di
libertà, produsse velocemente una trasformazione dei costumi, nella famiglia, nella
sessualità, nei rapporti fra le persone. E la
lotta contro la scuola di classe, cioè l’istanza egualitaria e di giustizia, consentì quel
rapporto fecondo con il movimento operaio che produsse un prolungamento del
68 italiano fino metà degli anni 70 e che si
tradusse in riforme importanti e radicali
ancora oggi fastidiose per i sostenitori del
mercato, della inutilità di ogni solidarietà
sociale e di un intervento dello Stato
Anche gli studenti che oggi scendono in
piazza, come quelli di 40 anni fa, non apprezzano questo sistema sociale. Non lo
apprezzano perché è loro chiaro – le misure dei governi o le cosiddette riforme ne
sono la dimostrazione – che taglia il loro
futuro. Non è che lo peggiori o lo renda
più difficile. Impedisce la loro formazione o la rende carissima e quindi lo cancella. Di qui la protesta.
quale futuro?
Ora è chiaro che sul futuro non c’è prati17
PROTESTA
STUDENTI
camente nessuna idea. Non c’è per dirla in
parole povere nessuna idea su quale scuola e università si vorrebbe per costruirlo e
garantirlo. E non per responsabilità dei
giovani che scendono in piazza, ma per una
responsabilità più diffusa e collettiva che
investe coloro che vogliono cambiare lo
stato di cose esistente, la sinistra e chi in
questi anni si è trovato all’opposizione dei
governi di destra in Europa. Un esempio
per tutti. Ed Miliband, rosso avversario del
governo Cameron, ha appoggiato ovviamente la rivolta degli studenti, ha definito
Cameron e Clegg «vandali culturali» ma
alla proposta governativa di triplicare le
tasse universitarie ha controproposto un
graduale aumento di alcune centinaia di
sterline l’anno. In sostanza la stessa ricetta solo ammorbidita. E con essa la riconferma che il futuro non può che essere
quello che prevede un’istruzione selettiva
e di classe.
E in Italia? Gli esponenti dell’opposizione
salgono sul tetti con gli studenti in lotta,
mostrano solidarietà, ma quale idea di futuro offrono loro? Quale scuola e quale
università vorrebbero? Su quali contenuti
vorrebbero si formassero le giovani generazioni? Non si può sfuggire alla sensazione di un appoggio strumentale alla sempre più aspra battaglia per cacciare via il
governo Berlusconi. Anch’essa ovviamente legittima e giusta, ma con quali proposte per il dopo?
le conseguenze della politica rigorista
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Il punto è – e dovrebbe essere chiaro a tutti – che quel che si sta profilando per le
giovani generazioni e non solo per l’università, ma per il lavoro, per il loro domani familiare, per i loro equilibri affettivi e
sentimentali (perché tutto si tiene e i discorsi economi cistici lasciano il tempo che
trovano) non è che la conseguenza estrema delle politiche rigoriste adottate dalla
maggior parte dei governi con la spinta
convinta della Commissione europea.
E queste politiche rigoriste sono, a loro volta, l’unica risposta che i governi di destra
sono in grado di dare alla crisi economica
globale. Alla mancanza di risorse si risponde con i tagli e questi si rivolgono soprattutto ai più deboli e svantaggiati. In questa logica, nella logica del rigore per salvare il sistema, la risposta non può essere che
quella che vediamo. Tant’è ch essa è uguale anche dove come in Spagna c’è un governo di sinistra che persegue la stessa linea del rigore e dei tagli. Per darne una
diversa occorre uscirne e rovesciarla.
18
Non basta dire, per rimanere alla scuola e
all’università, «state cancellando il futuro
dei giovani» impedendo loro l’accesso all’istruzione, condannandoli al precariato
e, quindi chiedere che i vecchi equilibri
rimangano tali, l’università continui a sfornare disoccupati e che, al massimo, qualche risorsa in più venga convogliata verso
l’istruzione per rendere meno traumatica
una situazione oggettiva e necessaria. Occorre criticare il modello di istruzione che
è compatibile col modello economico proposto e che, quindi, di fronte alla mancanza di risorse va semplicemente tagliato o
reso ancora più selettivo. Ora, sbaglierò,
ma non ho sentito alcuna critica nel merito, a quello che si studia e al modo in cui si
studia. Non ho sentito da nessuna parte le
osservazioni che, ad esempio, Martha Nussbaum, filosofa statunitense e docente di
Legge ed etica all’Università di Chicago fa
nel suo libro Not for profit. Why democracy
needs the humanities. Già il titolo parla
chiaro. La filosofa americana mette in
guardia contro i test e gli esami, i metodi
di studio che nella maggior parte dei paesi
democratici stanno preparando, a suo parere, una generazione mentalmente chiusa e non in grado di affrontare i problemi
del suo tempo. Secondo la Nussbaum oggi
c’è in questi paesi «un piano preciso» che
tende a trascurare le scienze umane perché in nome del profitto economico punta
sull’accumulo delle capacità piuttosto che
sulla cultura.
Non è detto che abbia ragione. Ma è certo
che questo è l’ambito, il livello in cui muoversi. In cui fare proposte alternative per
uscire dalla mancanza di futuro a cui sembrano condannati i giovani.
Se non ci si pone in questo orizzonte la
protesta non potrà che essere segnale di
disagio e di malessere, ma non sarà mai in
grado di minare i pilastri di un sistema che
invece, proprio perché in crisi, proprio
perché incapace di proporre sviluppo e
crescita, colpisce duramente.
Naturalmente una discussione a questo livello non spetta agli studenti. E quindi una
risposta non può venire solo da loro. Il problema oggi è quello di riprendere una ricerca culturale che sia capace di andare
oltre gli orizzonti e le ricette fin qui proposto dall’establishment economico europeo. La solidarietà con loro non può esprimersi solo in un assenso acritico alle loro
lotte, ma in una ricerca comune che tenga
conto della loro protesta, ma non si fermi
a essa.
Ritanna Armeni
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
dello stesso Autore
LE IDEE
CHE DIVENTANO
POLITICA
linee di storia
dalla polis
alla democrazia
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U
n anticipo della valle di Giosafat,
il luogo nel quale alla fine dei
tempi saremo convocati per sentirci elencare da Domineddio tutte le nostre magagne nascoste,
l’ha in parte prefigurato l’australiano Julian Assange, direttore del sito Wikileaks (wiki in lingua hawaiana significa rapido, e leaks in inglese significa falla, crepa, fuga di notizie). Egli, infatti, ha messo
in rete notizie riservate di fonte statunitense che hanno fatto luce su politiche, misfatti,
crimini che dovevano restare segreti, custoditi nelle stanze più riparate delle ambasciate e delle cancellerie, inaccessibili all’opinione pubblica mondiale.
Ora, che Assange abbia fatto centro lo dimostra il panico che ha determinato nelle
diplomazie Usa, europee e mediorientali, al
punto che è stato accusato in Svezia di crimini improbabili e di terrorismo.
A noi qui non interessano i contenuti delle
notizie (ma mi viene in mente Andrey Sinjavskij: «Quando sarà svelato ogni mistero,
bella figura faremo», da Pensieri improvvisi). Mi preme invece considerare gli effetti
nei rapporti tra gli Stati e tra i vari centri di
potere quando il sistema informativo viene
a trovarsi senza copertura, a causa di informazioni offerte alla portata di tutti.
Intanto va in frantumi l’immagine romantica e felpata della diplomazia intesa come
«l’arte patriottica di mentire per il bene
del proprio paese». La diplomazia non
potrà più fare affidamento sul segreto, e
su di esso non potrà più fondare la raccolta di notizie e le scelte strategiche. Tutto ciò, però, a mio parere non è male in
quanto – volenti o nolenti – spinge i governanti a stabilire rapporti più trasparenti, e a far convergere quel che dicono ufficialmente con quel che pensano. Si va
verso l’evangelico: sia il vostro linguaggio
sì o no. Il che non è poco.
Insomma, Wikileaks ha aperto una pagina
di grande trasparenza politica nelle relazioni internazionali, da sempre dominate da
interessi occulti. E, agli occhi di molti, ha
trasformato gli hackers, da criminali informatici dediti alla clonazione di carte di credito e a infettare programmi, in «cavalieri
della libera informazione».
«L’informazione deve essere libera» è, infatti, il primo comandamento degli hackers
scesi in difesa di Julian Assange, coagulati
attorno a Anonymous, il network che ha lanciato attacchi contro i siti anti-Wikileaks,
avente come parole d’ordine: «Verità, informazione, propagazione delle idee». Tale raggruppamento, che ha trovato nella difesa
di Wikileaks il primo campo di battaglia, si
definisce una comunità telematica di «cittadini di Internet, stanchi delle ingiustizie
grandi e piccole» che vedono «ogni giorno».
Questa comunità è una potenza in crescita, in grado ormai di resistere alle offensive degli Stati. Ciò è dimostrato dal fatto
che ha creato una serie di mirrow (specchi) che hanno permesso alle informazioni di continuare a viaggiare nella rete, nonostante l’oscuramento di Wikileaks. Inoltre sono riusciti a far capitolare i siti Visa,
Mastercard e Paypal, colpevoli di aver bloccato i conti di Wikileaks. Ancora, hanno
messo nel mirino i siti istituzionali del governo svedese, nonché quelli della Procura e della polizia olandese, a seguito dell’arresto di un hacker dei Paesi Bassi. E il
fenomeno prolifica: da Bruxelles arriva la
notizia della nascita del sito
Brusselsleaks.com, che promette di mettere a nudo l’Unione Europea «per rendere
più trasparenti le decisioni prese dietro le
porte chiuse» della Commissione Europea,
del Consiglio e dell’Europarlamento. Anche la Russia di Putin ha il suo Assange. Si
chiama Alexei Navalny (Rospil.info) e si
propone di intaccare il potere del neocapitalismo russo.
Insomma, gli Anonimi coordinati dimostrano di poter contrastare qualsiasi sito. Sono
quindi una potenza emergente. Tra essi Assange è ormai un’icona. La hanno messo
pure nei presepi di Napoli.
Certo, questa nuova potente realtà, questa
rete ombra comporta anche dei grossi pericoli, nel caso venga gestita non tanto per
difendere la libertà d’informazione, ma per
creare ad arte incidenti e caos, magari in
vista dell’instaurazione di uno Stato di polizia, o addirittura per far scoppiare conflitti tra nazioni.
Per una nuova Sarajevo non sarà più necessario un colpo di pistola. Potrebbe bastare un clik sulla tastiera di un computer.
❑
19
ROCCA 1 GENNAIO 2011
i cavalieri della libera informazione
VOLONTARIATO
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Fiorella
Farinelli
20
una luce
nella catastrofe
sociale
S
consolato come non mai, il 44esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese. La crisi di
cui si parla non è solo economica.
Con parole dure e pesanti, il Rapporto descrive una società piatta
che appiattisce ogni slancio collettivo. Afflitta da una sorta di perdita di spessore,
di consistenza anche morale e psichica.
Corrosa dall’insicurezza e delusa dalla politica. Rassegnata alla corruzione, alla criminalità organizzata, alla violazione continua e alla deformazione delle regole del
vivere civile. Schiacciata su un presente
senza memoria e senza futuro. Sotto il fuoco di un’analisi spietata, risaltano gli ingredienti di un contesto scoraggiante, i
comportamenti individuali spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi o arrampicatori, prigionieri delle influenze
mediatiche.
Una società in crisi, dunque. E una crisi
che non è fatta solo di disoccupazione,
difficoltà economiche, debolezze produttive, calo delle esportazioni, vincoli ai consumi. Che è profonda e maligna perché
impatta su un contesto invecchiato e poco
reattivo, in cui sembrano venute meno, o
trasfigurate in peggio, le doti tradizionali
della popolazione italiana, la voglia di fare
e di inventare, la passione politica, il coraggio pragmatico, gli sforzi collettivi per
un migliore futuro di tante altre stagioni,
pure agre e difficili, pure dolorose e faticose.
Fa impressione – ma era stato anticipato
dalla società metaforizzata in «mucillagine» del 43esimo Rapporto – un ritratto così
desolante. Tanto più che in altri tempi, non
troppo lontani, i ricercatori del Censis si
erano invece dedicati con entusiasmo ta-
lora anche eccessivo a riconoscere e dare
valore a molte delle caratteristiche della
realtà italiana – le microaziende familiari
e i distretti industriali, la centralità del
made in Italy, l’attaccamento ai paesi e alle
piccole realtà urbane, la propensione al far
da sé, perfino il familismo – offrendone
versioni interpretative in cui venivano alla
luce più i pregi che i difetti, più le risorse
che i rischi.
Che cosa sia successo in pochi anni, i ricercatori non lo dicono. Lo sguardo, attento ai fenomeni, è esclusivamente sociologico. Come sempre, non storico e neppure
esplicitamente politico, anche se il quadro
offerto è una pugnalata a un ceto politico
– e a un governo – che raccontano, di se
stessi, e della realtà italiana tutta un’altra
favola.
il pilastro della comunità
Emergono tuttavia, nelle parti che il Rapporto dedica all’una o all’altra faccia del
prisma utilizzando i risultati delle indagini svolte nel corso dell’anno, elementi divergenti rispetto alla rappresentazione
complessiva. Che non autorizzano interpretazioni più ottimistiche sulla possibilità di invertire la tendenza al declino e al
ripiegamento della società italiana né rivelano promettenti percorsi di uscita dalla crisi, ma neanche confermano la diagnosi di una società ormai solo indifferente,
solipsistica, cinica.
Tiene la famiglia, intanto, che supporta fin
dove e quando può le fragilità e i problemi
dei suoi membri meno fortunati, cellula
immancabile di solidarietà, luogo di legami e di scambi che contrastano le solitudini individuali.
21
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Ma la famiglia, pur sempre valorizzata dal
guru cattolico del Censis Giuseppe De Rita,
non fa di per sé comunità. Non può farlo,
neppure quando riesce a recuperare qualche tratto di quella fisionomia di gruppo
aperto ed esposto a possibili integrazioni
di altre epoche storiche, perché il senso di
comunità è qualcosa di molto più ampio e
generoso di quello che possono essere e
fare i legami di sangue e di parentela. Perché il sentimento di comunità ha a che
fare, e strettamente, con la cittadinanza,
ovvero col riconoscersi tutti, nessuno
escluso, come appartenenti a una comunità, e titolari degli stessi diritti. Anche se
non si è figli, nonni, cognati, genitori. Anche se si viene da altri paesi, storie, culture. Anche se si è in qualche misura responsabili delle proprie disgrazie, detenuti, tossicodipendenti, divenuti marginali o esclusi per non avere avuto abbastanza control-
lo di sé e rispetto degli altri. No, non è questo il «mestiere» della famiglia, cellula forse della comunità, ma non comunità essa
stessa.
«Pilastro della comunità», in una fase in
cui il welfare si impoverisce e si raggrinzisce, lo Stato e gli Enti Locali sono più burocrazia e politica che regole e progetto del
vivere insieme, e quando diventano sempre più numerosi i bisogni essenziali nudi
e scoperti, è piuttosto, secondo il Censis, il
volontariato. I dati che offre quest’anno il
Rapporto sono molto interessanti, e coincidono sostanzialmente con i risultati di
un’altra indagine, promossa da Focsiv – la
federazione di 64 ong cristiane di servizio
internazionale volontario – e condotta da
Doxa.
I numeri, intanto, che sono molto alti. Oltre il 26% degli italiani, infatti, dichiara di
svolgere attività di volontariato, all’interno di realtà organizzate o in modo spontaneo, informale. Altri – dice Doxa-Focsiv –
pur non volontari attivi, danno fiducia alle
associazioni di volontariato, per la prima
volta più a quelle nazionali che a quelle
internazionali, e le supportano con donazioni. Negli ultimi 12 mesi, nonostante la
crisi, hanno fatto donazioni almeno una
volta il 44% degli italiani, più di una volta
ROCCA 1 GENNAIO 2011
VOLONTARIATO
22
il 33%. Una frequenza che si spiega certamente con il terremoto dell’Aquila, ma che
riguarda anche altre catastrofi naturali, il
Cile e Haiti.
Quanto alle motivazioni, oltre il 38% dei
volontari intervistati da Censis dichiara
di esserlo perché vuole fare qualcosa per
gli altri, mentre il 27,3% richiama ragioni etiche e ideali. Ma c’è anche una quota tutt’altro che modesta (19,5%) che dice
di aver cominciato a fare volontariato per
caso, forse a seguito di qualche incontro
speciale o per qualche altro motivo. Per
alcuni, l’incontro dev’essere stato con se
stessi, quasi il 15% parla di
un’«esperienza di sofferenza»: una malattia grave propria o di persone care, storie difficili da cui si è usciti con l’aiuto di
un’associazione. Sono esperienze frequenti, come sanno le persone che, assistendo fino all’ultimo un malato terminale non ospedalizzato, hanno trovato
sulla loro strada volontari capaci, oltre
che di assistenza medica, anche di accudimento fisico e psicologico. E non lo dimenticano.
Sono del resto questi settori – e questi bisogni – quelli in cui, sempre secondo Censis, i cittadini constatano una maggiore
presenza di volontari nelle comunità in cui
vivono: strutture sanitarie in generale
(69%), case di riposo, comunità alloggio,
presidi socio-assistenziali di vario tipo
(54,3%), poi le varie forme di assistenza a
domicilio per malati, anziani, persone non
autosufficienti.
Ma c’è anche un volontariato che si occupa di altri bisogni. Il Censis ne fa solo pochi cenni, ma sono un’enormità i siti che
danno conto di biblioteche scolastiche che
vengono aperte anche al quartiere per il
lavoro volontario di studenti, insegnanti,
pensionati; di circoli di lettura e di consegna a casa di libri per chi non si può più
muovere; di corsi di italiano per stranieri;
di lettura collettiva di libri e giornali nei
luoghi di detenzione; di studenti che insegnano l’uso del personal computer agli anziani. Poi c’è il volontariato della protezione civile, quello internazionale nei paesi
della povertà, della fame, delle guerre, quello medico nei luoghi della malaria e delle
malattie endemiche, quello che si occupa
di tratta e di prostituzione coatta, quello
che offre sostegni psicologici e legali alle
vittime di violenza. Fino al volontariato
leggero, quello delle «banche del tempo»,
in cui si scambiano servizi, assistenza,
compagnia, cucina, aiuti reciproci di ogni
tipo. Sempre gratis, sempre fuori dalle logiche di mercato.
ma chi sono i volontari?
Sono smentite, intanto, le interpretazioni
per cui il volontariato sarebbe un’attività
prevalentemente di pensionati liberati dal
lavoro quotidiano e con molto tempo libero. I 65enni e oltre sono solo il 19,4%, la
fascia d’età più coinvolta è quella tra i 45 e
i 64 anni (28,5%), il 52,3% è fatto di giovani e meno giovani dai 18 ai 44 anni. Molta
gente attiva, dunque, e molta che nel volontariato porta la risorsa delle sue capacità ed esperienze professionali, medici,
infermieri, elettricisti, avvocati, cuochi,
informatici. O dei suoi interessi, vocazioni, aspettative professionali. Soprattutto
fra i più giovani, quelli sotto i 29 anni, sono
presenti motivazioni come «è un’opportunità per acquisire competenze ed esperienze», «è un’occasione per accedere a opportunità di lavoro», e anche «è un’opportunità per mettere a disposizione le mie competenze».
Ma c’è dell’altro. Che segnala convinzioni
e spinte diverse. C’è chi dice, per esempio
– e sono il 10%, ma il 26% nelle fasce più
giovani fino ai 44 anni – «per essere parte
di una realtà collettiva» o «per avere maggiori opportunità di relazioni con altre
persone». Il bisogno di non essere soli, il
bisogno di essere insieme. Una via alternativa a una politica che non c’è più come
dimensione collettiva, scambio di idee,
progetti comuni? Una via di fuga dal cinismo e dall’egoismo che sembrano prevalere? La ricerca di qualcosa che la crisi degli
organismi intermedi della società – sindacato incluso – oggi non danno più?
Certamente una risorsa importante. Non
solo di buoni sentimenti, ma di energie e
di impegno civile, in cui l’appartenenza
religiosa può avere un peso ma non così
importante come talora si ritiene. Comunque sia, c’è del buono in questa realtà del
volontariato. Non solo per i vantaggi che
possono venirne ai «beneficati» o agli «assistiti», ma per tenere viva l’idea e la pratica di una comunità civile.
Eppure le istituzioni non fanno granché
per supportarla. Poco le Regioni, un po’ di
più le Province e i Comuni. Sempre meno
lo Stato, che taglia i fondi del 5 per mille.
La copertura finanziaria, che lo scorso
anno era di 400 milioni, è stata ridotta con
la legge di stabilità a soli 100 milioni. Una
catastrofe per tante associazioni che vivono sostanzialmente di questo. Che realtà
descriverà, il prossimo anno, il Rapporto
del Censis?
Fiorella Farinelli
CAMINEIRO
per recuperare i beni perduti
U
la cifra nera
«La corruzione è un reato con una cifra
nera molto elevata. Si definisce cifra nera
la differenza fra il numero di reati commessi e quelli risultanti dalle statistiche
giudiziarie. La cifra nera varia a seconda di molti fattori, tra i quali il tipo di
reato e il contesto in cui viene commesso. La cifra nera della corruzione dipende dal fatto che è un reato a vittima diffusa (nel quale nessuno percepisce di essere stato danneggiato direttamente); dal
fatto che, normalmente, viene commesso in assenza di testimoni (...); e che corrotti e corruttori hanno un convergente
interesse al silenzio» (Pier Camillo Davigo). È la cifra nera della coscienza. Tanto scura da non riuscire più ad essere
distinta, percepita come danno reale arrecato a ciascuno di noi. È una tossina
che penetra tra i globuli sociali. Per questo può essere contrastata solo dagli antidoti efficaci delle leggi giuste, della
pena certa, della cultura e dell’educazione. Un’azione concentrica che richiede
il contributo di ciascuno.
il Global Corruption Barometer
Lo ha reso noto Transparency International il 9 dicembre scorso, Giornata
mondiale contro la corruzione. Preoccupanti sono i dati riferiti all’Italia. Il 17,8%
afferma che l’operato del governo nella
lotta alla corruzione è molto/abbastanza
efficace e il 58,9% che è abbastanza/molto inefficace. Alla domanda: Chi è più
attivo nel tuo Paese nella lotta alla corruzione? Ben il 40,1% risponde: nessuno. La corruzione non scava soltanto
voragini nei bilanci pubblici. Produce un
costo politico enorme perché insidia profondamente il vincolo di fiducia tra cittadini e istituzioni, tra la comunità e chi
la rappresenta. Compromette la democrazia.
sull’esempio di Zaccheo
Nel 1995 Libera raccolse un milione di firme e chiese l’approvazione di una legge
che prevedesse l’uso sociale dei beni confiscati a mafiosi e corrotti. Il Parlamento
licenziò una legge che prevedeva solo la
prima parte lasciando intoccabili i beni
dei corrotti. Oggi si ritorna su quella richiesta. I beni che sono stati acquisiti sottraendo risorse ai cittadini, devono essere restituiti. E non solo la cifra della corruzione ma il capitale accumulato grazie
a quell’atto illecito. Non solo la mazzetta,
ma ciò che la mazzetta ha permesso di
guadagnare. Riconvertire il maltolto in
politiche sociali, la frode in bene comune, il malcostume in un ricostituente per
la democrazia.
23
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Tonio
Dell’Olio
na campagna di informazione e
di pressione perché si giunga a
una legge che punisca veramente il reato di corruzione. Alla luce
dei trattati che l’Europa e le Nazioni Unite hanno promosso in
questi anni e che l’Italia ha sottoscritto, ma
non ha mai ratificato. Ovvero siamo teoricamente d’accordo, ma la realtà è un’altra
cosa. Libera – associazioni nomi e numeri
contro le mafie – e Avviso Pubblico (la rete
degli enti locali contro le mafie), chiedono
di firmare l’appello al Presidente della Repubblica (www.libera.it) perché il malcostume diffuso della mazzetta trovi una
diga; la complicità tra malaffare e apparati dello Stato venga diluita nella legalità;
venga restituito alla comunità il sovrapprezzo che ci tocca pagare ogni giorno. Le
statistiche della Corte dei Conti arrivano a
calcolare in mille euro a testa per ogni cittadino, la ricchezza che defluisce nel fiume della corruzione nel nostro Paese. Un
peso che è urgente scrollarsi di dosso. Dalla coscienza collettiva e dalla mentalità
diffusa. Per molti, infatti, sembra una prassi normale, un costo dovuto, una consuetudine che diventa diritto. E rischia di
ammaccare irrimediabilmente persino le
coscienze più giovani e di compromettere
qualunque messaggio educativo. Un tumore sociale che merita una diagnosi certa e
una chemioterapia che apra alla speranza.
un confronto
tra Autori
e Lettori di Rocca
quale legge elettorale?
Consapevolezza e partecipazione: è quanto vorremmo promuovere con questa iniziativa tra gli Autori e i Lettori di Rocca.
Sono intervenuti (n. 22/2009) Roberta Carlini, Giancarlo Ferrero,
Filippo Gentiloni, Pietro Greco, Raniero La Valle, Romolo Menighetti. Pubblichiamo ora i primi nuovi interventi pervenuti.
Attendiamo altre vostre proposte di uno schema di legge elettorale
secondo le vostre preferenze, presentata nelle sue linee essenziali e
motivandone praticabilità, pregi e difetti, precisando in particolare
se nell’ambito della stessa si tratta nella vostra ipotesi di liste monopartiche o di coalizioni di alleati (non più di 2000 battute).
Diamo per scontato che tale legge dovrebbe produrre un Parlamento di eletti e non di nominati, che assicuri al meglio rappresentanza
e governabilità.
Giannino Piana
M
ROCCA 1 GENNAIO 2011
i limito ad alcune osservazioni di carattere generale,
che riguardano, rispettivamente, ciò che è necessario
fare nell’immediato e ciò che,
invece, andrebbe fatto in prospettiva nel futuro.
Credo che la cosa che nell’immediato occorre anzitutto mettere in atto è la modifica della legge attualmente vigente almeno su due
punti fondamentali, che rappresentano altrettante gravissime anomalie: la sottrazione agli
elettori della possibilità di scegliere i candidati da mandare in parlamento e l’assegnazione del premio di maggioranza del 55% dei
seggi alla coalizione che ha raggiunto la percentuale relativamente più alta (anche se soltanto del 30%). Nel primo caso siamo infatti
di fronte a un comportamento apertamente
antidemocratico; nel secondo a una forma di
palese ingiustizia che contraddice il criterio
della rappresentanza. Sottrarre ai partiti il potere di decidere le liste bloccate e restituire ai
cittadini la possibilità della preferenza e ristabilire un giusto equilibrio nell’assegnazione del premio di maggioranza (attorno almeno al 45%) sono due correttivi essenziali che
24
andrebbero immediatamente introdotti.
Quanto alle prospettive per il futuro personalmente sono sempre stato contrario al
maggioritario – lo sono stato fin dal momento del famoso referendum che ha sancito con
una maggioranza bulgara il cambiamento –
e ho sempre caldeggiato un proporzionale con
sbarramento (attorno al 3-4%) per una serie
di ragioni, che sarebbe lungo analizzare e
che sono legate in particolare alla situazione
storico-politica del nostro paese che non è
quella dei paesi anglosassoni. D’altronde, il
bipolarismo maggioritario, oltre a non aver
risolta la questione della governabilità per cui
era nato, ha provocato danni enormi alla vita
democratica: dal costituirsi di poli disomogenei con un alto livello di litigiosità interna
che si sono puntualmente disgregati, alla cancellazione di partiti con una grande tradizione storico-ideologica e allo sviluppo di nuove
aggregazioni partitiche con anime diverse
non facilmente conciliabili o nelle quali a fare
da collante è il carisma del capo (con l’esito
di una pericolosa personalizzazione della politica), fino all’imposizione alla destra e alla
sinistra di stemperare la propria identità in
vista della ricerca di un consenso allargato.
Credo, dunque, che si debba abbandonare
questa strada, e tornare al sistema propor-
Ennio Seghetti
Cinisello Balsamo (Mi)
L
a nostra Costituzione dice che siamo
ancora in una repubblica parlamentare nella quale il parlamento, eletto
dal popolo, esprime il governo del Paese; ne deriva che:
a) ritengo che nessun candidato debba essere predesignato come primo ministro; sarà la
maggioranza che si riconosce in un comune
programma a proporre al Capo dello Stato il
nominativo dello stesso.
Diverso discorso è la compilazione della lista
dei candidati che ogni partito presenta; personalmente sostengo quei partiti che hanno
il coraggio politico di rimettersi al giudizio
dei propri elettori, facendo elezioni primarie.
b) Il parlamento deve essere il più possibile
lo specchio delle diverse culture politiche presenti, quindi considero il proporzionale come
il più congruo alla realtà italiana.
Nessun premio di maggioranza, ma certamente uno sbarramento al 4% (sacrificio necessario per facilitare la governabilità).
c) Ogni partito si presenta solo, ma può preventivamente impegnarsi di fronte agli elettori nel riconoscersi in una coalizione con
comune programma di governo (si può studiare come), senza con questo nulla togliere
alla caratterizzazione specifica della forza
politica in questione all'interno del programma e quindi al risultato proporzionale della
medesima.
d) Concordo con Romolo Menighetti nel preferire l’uso di una crocetta a fianco dei nomi
prestampati dei candidati; al tetto di spese
elettorali dei singoli; al libero ed uguale accesso alle tv pubbliche e private.
e) Se poi dovesse prevalere l'orientamento
verso il maggioritario, spero che sia studiato
in modo da prevedere il doppio turno.
❑
Giovanni Pigozzo
Salzano (Ve)
D
ato un mio particolare interesse
per il tema, ho deciso con entusiasmo di rispondere all’invito rivolto ai lettori del numero 22, e inviarmi qualche mia riflessione su
una nuova legge elettorale.
Confesso fin da subito il mio debole invece per
un sistema maggioritario come quello inglese.
Il funzionamento è semplice: suddividere il
paese in 630 collegi per la Camera dei Deputati, 315 per il Senato della Repubblica. Ciascun
collegio, formato naturalmente in maniera
omogenea quanto a consistenza demografica,
elegge uno e un solo Parlamentare tra quelli
che ciascun partito propone.
Un sistema simile ha i pregi di un contatto diretto elettore-eletto, senza i rischi di lotte intestine ai partiti; senza contare che la sfida tra
quattro o cinque candidati contrapposti è
senz’altro (lo insegna la storia delle primarie)
più appassionante rispetto a una contesa tra
una serie di liste in cui pescare. Ciascun candidato, poi, metterà la propria faccia, per quello
che ha fatto e promette di fare sarà giudicato e
scelto o meno dai suoi elettori: avendo un territorio ben delimitato, sarà ancora più incentivato, se vuole essere eletto, a incontrare persone, stringere mani e ascoltare le esigenze dei
suoi (pochi, rispetto alle dimensioni regionali
di adesso) elettori.
Il fatto che sia eletto solo chi prende più voti,
da un lato premia le grandi formazioni, dall’altro non lascia necessariamente indietro i piccoli movimenti.
Non esistono naturalmente meccanismi automatici, ma azzardo la scommessa che aiuterebbe a ridurre la frammentazione, non con la
mannaia dello sbarramento ma con l’abbraccio delle liste unitarie: logicamente, se per esempio Sinistra Ecologia Libertà, il Partito Democratico e l’Italia dei Valori sanno che attingono
in parte da uno stesso elettorato, potrebbero
trovare conveniente mettersi insieme anziché
ostacolarsi, per portare a casa il risultato, scegliendo accuratamente i candidati più credibili per i singoli collegi.
La nostra cultura costituzionale ci insegna a
guardare con sospetto un sistema di questo tipo,
ritenendo che favorisca troppo le grandi formazioni, preferendo un sistema proporzionale
in cui anche le più piccole abbiano voce. La
sfida, a mio modo di vedere, è in realtà cambiare logica e punto di vista. Prendendo atto
dell’evoluzione del quadro sociale e politico, e
dei progressi della stessa cultura costituzionale, vediamo sempre più esaltare le singole componenti della Repubblica, che ci appare come
mosaico di culture e esigenze differenti.
Scacciate le grida separazioniste, credo che un
sistema del genere dia rappresentatività a tutto
il territorio, a tutte le singole peculiarità, culture, bisogni dei vari tasselli che compongono il
nostro Stato.
Ciascuno con un suo rappresentante, tutto il
Paese si ritroverebbe tra le mura della nostra
Assemblea legislativa.
Vi saluto e colgo l’occasione per complimentarmi per l’ottimo lavoro che svolgete.
❑
ROCCA 1 GENNAIO 2011
zionale che, non solo favorisce la presenza
di una rappresentanza allargata (anche di
minoranze significative), ma crea soprattutto le condizioni perché si fronteggino le diverse forze politiche, sollecitandole a presentarsi con chiarezza ai cittadini con i loro programmi e a dichiarare apertamente quali
saranno le loro future alleanze.
❑
25
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Roberta
Carlini
olti banchieri conservatori ritengono più consono al loro
abito, nonché atto a risparmiare la fatica del pensare, lo spostamento del dibattito pubblico sulle questioni finanziarie
dal piano logico a un presunto piano ‘morale’, ovvero a un ambito di pensiero in cui
gli stessi interessi costituti possono trionfare sul bene comune senza ulteriore discussione». Così scriveva John M. Keynes
nel 1923, nel Trattato sulla riforma monetaria. Se la frase può all’improvviso saltare agli occhi oggi, per andare ad adattarsi
perfettamente alla situazione finanziaria
e politica mondiale, lo si deve anche a una
ripubblicazione di tipo divulgativo di brevi estratti degli scritti del grande economista, intitolata «Risparmio e investimento», appena comparsa in libreria per i tipi
di Donzelli (1). Come si capisce fin dalle
prime righe citate, è una lettura di strettissima attualità, in questa fine del 2010 nel
pieno della crisi italiana e europea.
M
la finanza che detta legge
Il prevalere di pochi interessi forti sul bene
comune; il loro farlo in nome non dell’in26
teresse egoistico ma di una presunta superiorità morale; la diffusa tendenza in
certi ambienti a ‘risparmiare la fatica del
pensare’: sono tutte caratteristiche che non
è difficile rintracciare oggi, nelle alte sfere
di quell’élite finanziaria e politica che prima ha causato la crisi, poi ha messo in salvo le sue penne, e adesso sta inguaiando
gli stati sovrani.
Prosegue Keynes: «Ma questo atteggiamento rende costoro (i banchieri, ndr) una
guida inaffidabile in una pericolosa epoca
di transizione come la nostra». Lì si parlava della transizione dal primo dopoguerra
alla ricostruzione, da un’egemonia mondiale a un’altra; ma anche oggi, in presenza di un altro passaggio d’epoca e di egemonia economico-politica, valgono le frasi successive dell’economista di Cambridge: «Lo Stato non deve mai trascurare l’importanza di operare nell’amministrazione
ordinaria in maniera tale da promuovere
la certezza e la sicurezza degli affari. Ma
quando bisogna prendere decisioni capitali, lo Stato è un organismo sovrano che
ha il compito di promuovere il più grande
bene possibile per la collettività nella sua
interezza».
Oltre che lo stile semplice e diretto – assai
CRISI ECONOMICA
Keynes ha di nuovo
qualcosa da dire
più strutturale, che prende le mosse dalla
sparizione dello stesso orizzonte fisico keynesiano: lo Stato come titolare dell’azione
politica, trovatosi con strumenti via via
spuntati tra le mani con l’allargamento
delle zone di libero scambio, la globalizzazione e la finanziarizzazione. Le due
spiegazioni vanno insieme, si intrecciano
e si rafforzano: per dirla con le parole di
Keynes, sembra che gli interessi costituiti
(quelli della grande finanza) abbiano trovato un assetto istituzionale tale da mettersi in condizione di vincere tutte le partite, quella politica e anche quella delle
idee. Il quadro europeo della seconda metà
del 2010 ce ne dà uno spaccato: con i governi che devono piazzare titoli del debito
pubblico e che – siano di destra o di sinistra, si chiamino Sarkozy o Zapatero – corrono a fare quel che «i mercati» chiedono,
ossia tagliare gli alimenti all’economia affamata, pur sapendo benissimo che questa ricetta sarà peggiore della malattia.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
lontano dal lessico che man mano poi si è
costruito nei testi degli economisti – colpisce un concetto al limite della banalità:
lo Stato deve fare gli interessi collettivi, i
banchieri (o la finanza, diremmo meglio
oggi) sono solo una parte. Vanno ascoltati, così come gli altri, e poi si decide. Ogni
decisione inevitabilmente prevederà sacrifici per qualcuno e vantaggi per qualcun
altro: sta alla politica farsi carico di questa scelta, tenendo presente l’esito finale e
complessivo di ciascuna delle decisioni.
Perché oggi, nell’anno 2010, tale visione è
sparita e pare anzi improponibile?
Perché la finanza – ossia una parte della
società, numericamente minoritaria – continua a dettar legge per il tutto? Per molto
tempo, e a ragione, si è data risposta a queste domande rileggendo l’evoluzione del
pensiero economico dell’ultimo trentennio,
a partire dagli anni ’80 a oggi, e la progressiva affermazione di quello che via via è
stato chiamato liberismo, neoliberismo,
pensiero unico, Washington consensus.
Una stratificazione culturale così forte da
resistere anche di fronte all’evidenza del
fallimento delle ricette che in suo nome
sono state prescritte e realizzate.
A questa spiegazione si è aggiunta quella
sfiducia nella politica
Però colpisce, nella rilettura di Keynes,
un’altra lontananza. Leggendo quelle pagine si capisce che in fondo, anche allora,
27
CRISI
ECONOMICA
non è che fosse così facile pensare di governare la finanza, far prevalere un interesse generale su quello particolare, mettere insieme delle forze per riformare uno
stato di fatto nonostante il parere contrario dei più potenti dei suoi protagonisti. E
questo, nonostante il fatto che a lungo andare il perseverare nella difesa dell’esistente avrebbe condotto alla rovina gli stessi
interessi rappresentati dai «conservatori».
La lontananza che si avverte, più ancora
che nei mutati confini dell’economia e della finanza, e nei limiti alla crescita che
l’emergenza ambientale impone, sta proprio nella fiducia nelle capacità della politica di agire in vista del bene comune. Una
fiducia che induce l’economista a mettersi al servizio, per trovare «tecnicamente»
le risorse per fare: «qualsiasi cosa possiamo fare, ce la possiamo anche permettere», risponde Keynes a chi gli chiede se i
favolosi piani di ricostruzione di Londra
possono essere portati avanti, se non costano troppo.
È forse questo, a ben guardare, il tarlo che
rode ogni proposta alternativa, ogni visione riformista – non diciamo rivoluzionaria
– del sistema politico ed economico: un’implicita e diffusa sfiducia nelle capacità della politica. Sfiducia che i politici sembrano
aver talmente introiettato da essere tutto
sommato rassegnati (se non contenti) quando un’emergenza esterna detta l’agenda, e
induce a scelte anche tragiche e impopolari, come quelle che stanno attraversando
tutti i governi europei, di destra e (l’ultimo,
quello di Zapatero) di sinistra.
l’aggravante europea
ROCCA 1 GENNAIO 2011
In questo l’Europa ha un’aggravante, e
l’Italia una vera e propria pietra al collo.
L’aggravante europea è nell’aver messo
quella sfiducia nella politica nella sua Costituzione: prevedendo come unica entità
sovranazionale per lo spazio della moneta
comune europea la Banca, e vincolando
la Banca a fare una sola politica, quella di
deflazione. Come se deflazione e inflazione non fossero due malattie di pari gravità, entrambe causate dall’intrinseca instabilità del sistema capitalistico. Manca
quindi la possibilità di una politica economica comune, e anche di una compensazione tra debiti e crediti tra uno stato e
l’altro.
Stanti così le cose, è evidente che nessun governo da solo, né in Spagna né in
Francia e neanche nella potente Germania, potrà mai pretendere di sfuggire ai
ricatti speculativi della finanza: in un
28
recente articolo sul Sole 24 Ore, si faceva notare con dovizia di numeri come
alcuni stati degli Usa siano messi peggio di alcuni stati europei dal punto di
vista del debito, ma come a nessuno
speculatore sia venuto in mente di attaccare la California o l’Illinois perché,
al contrario della Grecia o dell’Irlanda,
hanno dietro un governo federale.
Quanto ci vorrà perché nasca in Europa una leadership capace di riprendere
in mano la bandiera del federalismo?
Italia monopolizzata
Per l’Italia c’è qualcosa di più. Usciamo
(forse) da un quindicennio nel quale l’economia ha ristagnato, le diseguaglianze
sono aumentate, la crepa tra giovani e
vecchi si è aperta violentemente, le differenze tra nord e sud si sono accentuate,
alcuni baluardi del welfare (a cominciare da sanità e scuola) sono stati messi in
discussione. Ma soprattutto un quindicennio nel quale la crisi della politica,
aperta dal crollo dei grandi partiti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, non
si è rimarginata ma anzi è peggiorata.
Nella contrapposizione tra interessi di
parte e interesse generale, a pochi italiani verrebbe in mente che la politica è
chiamata a rappresentare l’interesse generale: essendo vissuta invece come una
prosecuzione dell’interesse personale con
altri mezzi. Il marchio berlusconiano è il
segno più evidente di questa tendenza,
ma non l’unico. Tra il gigantesco interesse individuale che entra in campo e porta il suo peso dal mercato (monopolistico) alla politica (monopolizzata) e i piccoli interessi particolari del sottobosco
delle amministrazioni, che hanno dato
mostra di sé a destra e a sinistra, c’è una
differenza quantitativa, ma per i singoli
cittadini che la vedono da fuori e la subiscono la differenza non è poi decisiva.
Per questo l’azione collettiva, quando c’è
(e c’è molto più spesso di quanto i media
prevalenti non vedano) avviene fuori dai
circuiti della politica tradizionale. Prima
ancora che sui programmi e sulle alchimie delle coalizioni, è su questa capacità
di ritrovare la fiducia persa che si gioca
il cambiamento nella politica italiana.
Roberta Carlini
Nota
(1) J. M. Keynes, Risparmio e investimento,
Donzelli, Milano 2010, pp. 106.
indice
2010 per
tematiche
principali
Armeni Ritanna
Violenza alle donne: La crisi del maschio
(21/24)
Pallottole pasquali (9/17)
Chi supporta le cosche (10/17)
Caro amico ti sparo (19/17)
La morte come pena (20/17)
Maroni vs Saviano (24/17)
Arpaia Bruno
Le paure del secolo: Le radici ancestrali (24/34)
Piana Giannino
L’uso della forza (8/32)
Bertozzi Luciano
Esportazioni di armi italiane: Se i soldi
dettano ancora legge (10/18)
Diritto di asilo: La deportazione dalla Libia in Eritrea (15/22)
Sabato Giovanni
Rifugiati: La difficile documentazione
della tortura (15/24)
Dell’Olio Tonio
Quanto vale la legalità (5/23)
La pace degli altri è la nostra pace (7/21)
Chiese strumento di pace? (11/21)
Finalmente cattivi (14/21)
Litania del potere occulto (24/21)
vedi anche
Internazionale
e le rubriche
La Valle Raniero
Resistenza e pace
Dell’Olio Tonio
Camineiro
Ferrero Giancarlo
Diritti umani: Violenza nelle carceri (1/38)
Festa Francesco Saverio
Mezzogiorno: Immigrati preda della mafia (9/30)
Greco Pietro
Immigrazione, legalità, violenza: La lezione di Rosarno (3/16)
Salvi Maurizio
Yemen: La guerra di domani (2/14)
Ecologia – Salute – Ambiente
Andruccioli Paolo
Emergenze: Protezione civile Spa?
(7/32)
Cagnazzo Claudio
C’era una volta la periferia (21/38)
La Valle Raniero
Dove nasce la corruzione (5/13)
Nonviolenza (24/13)
Carlini Roberta
Edilizia scolastica: Storie di ordinaria insicurezza (19/22)
Leone Ugo
Rifiuti: Ma è vera emergenza? (20/22)
Documenti
Dichiarazione di Assisi (2/56)
Menighetti Romolo
Pentiti addio? (4/17)
Festa Francesco Saverio
Della sanità al Sud (16-17/43)
All’interno di ogni voce
gli articoli sono indicati
in ordine alfabetico per
autore e, per ogni
autore, in ordine di
numero di Rocca
Alcuni articoli sono
ripetuti sotto più voci
in quanto pertinenti
a ciascuna di esse
Galli Maria Giovanna
Psichiatria: C’era una volta la città dei
matti (6/36)
Gianoli Romualdo
Il contrasto tra patrimonio archeologico
e opere pubbliche (2/34)
Biodiversità: Una risorsa ad alto rischio
(14/40)
Greco Pietro
Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16)
Emergenze: La gestione autoritaria della politica ambientale (6/18)
Biotecnologie verdi: La patata della discordia (7/18)
Risorse energetiche: La fine del petrolio (15/31)
Economia verde: Una doppia opportunità (20/18)
Le paure del secolo: Rischio ambientale tra catastrofismo e negazione (21/32)
Economia ecologica: Nuove ipotesi di
sopravvivenza umana (24/28)
Leone Ugo
Inquinamento: Ri-progettare la città
(3/20)
Dissesto idrogeologico: La macchina del
rattoppo (7/26)
Eco-servizi: Quanto vale il «lavoro» della
natura (16-17/22)
Catastrofi: Come convivere con il rischio
(19/30)
Rifiuti: Ma è vera emergenza? (20/22)
Menighetti Romolo
Un virus per ogni autunno (2/19)
Frane (5/19)
29
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Violenza – Legalità – Mafie
Le due cifre
riportate
dopo ciascun titolo
indicano
rispettivamente
il numero
della rivista
e la pagina in cui
l’articolo compare
Rocca 2010 - indice per tematiche principali
Piana Giannino
Posso donare un rene? (7/46)
Cagnazzo Claudio
L’era della libera solitudine (2/38)
Immigrazione
Capone Sabina
Donne africane: Milioni di volti, una sola
speranza (5/36)
Bertozzi Luciano
Diritto di asilo: La deportazione dalla Libia in Eritrea (15/22)
Cagnazzo Claudio
Tempo di crisi: Alla ricerca del capro
espiatorio (16-17/38)
Dell’Olio Tonio
La croce della Lega (1/27)
Una situazione annunciata (3/25)
Finalmente cattivi (14/21)
Farinelli Fiorella
Cittadinanza agli stranieri: Non esistono neri italiani! (2/24)
Scuole per migranti: L’esperienza di una
insegnante di italiano (8/20)
Quando la cultura diventa polenta (9/26)
Diritto e rovescio del permesso a punti
(10/22)
Chance: Le scuole della seconda opportunità (16-17/40)
L’italiano e il permesso a punti (20/28)
L’italiano agli stranieri: Un volontariato
inedito (21/28)
Ferrero Giancarlo
Immigrazione irregolare: Tre sentenze,
una su 3 non funziona (18/30)
Carra Aldo Eduardo
La Befana dei giovani: Una valigia per
espatriare (2/20)
Farinelli Fiorella
Il silenzio delle donne (7/36)
Ritratto di una generazione in bilico (15/29)
Giochi della Gioventù: Lo sport non è
un premio (22/22)
Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26)
Scuola e lavoro: Ragazze poco tecnologiche (24/24)
Gallizioli Marco
Cybercultura: Ho un amico virtuale (13/40)
Nuovi scenari: Precarietà del mutamento (15/43)
La rete: ImMEDIAtamente… giovani
(19/42)
Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei (21/40)
Menighetti Romolo
Pensioni, riforma continua (13/17)
Greco Pietro
L’università cambia, come cambiare
l’università (19/18)
Lodi Mario
Come nasce il bambino cittadino (4/26)
Novara Daniele
Una questione di apprendimento (2/40)
Bambini: Il conflitto come strategia interculturale (4/36)
Bulimia tecnologica: Verso la fast education? (10/38)
Festa Francesco Saverio
Mezzogiorno: Immigrati preda della mafia (9/30)
Novara Daniele
Bulimia tecnologica: Verso la fast education? (10/38)
Protopapa Ilenia Beatrice
Marco Lodoli: Scuola da dentro (3/43)
Greco Pietro
Immigrazione, legalità, violenza: La lezione di Rosarno (3/16)
Migrazioni: La frenesia del viaggio, motore
del progresso. Il contagio delle idee (23/33)
Piana Giannino
Indagine: Gli italiani e la sessualità (11/22)
Rolandi Luca
Giovani musulmani (3/30)
Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34)
Magnani Sabrina
Esperienza di aiuto: Perdi il lavoro, come
ti senti? (12/22)
Menighetti Romolo
Stagionali e caporali (11/17)
Prattico Franco
Migrazioni: Alla ricerca di un Altrove (23/29)
Rolandi Luca
Giovani musulmani (3/30)
Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34)
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Carlini Roberta
Diseguaglianza: Quando i vecchi sono
più ricchi dei giovani (18/42)
Il mito del quoziente familiare (21/18)
Quando la cultura diventa polenta (9/26)
Diritto e rovescio del permesso a punti
(10/22)
Carosello insegnanti (11/26)
Che cosa ci aspetta (12/26)
Il trionfo dei licei (13/22)
Ritratto di una generazione in bilico (15/29)
Chance: Le scuole della seconda opportunità (16-17/40)
A confronto con il mitico e ben pagato
insegnante tedesco (19/26)
L’italiano e il permesso a punti (20/28)
L’italiano agli stranieri: Un volontariato
inedito (21/28)
Giochi della Gioventù: Lo sport non è
un premio (22/22)
Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26)
Scuola e lavoro: Ragazze poco tecnologiche (24/24)
Sabato Giovanni
Rifugiati: La difficile documentazione
della tortura (15/24)
Donna – Giovani – Famiglia
Armeni Ritanna
Violenza alle donne: La crisi del maschio
(21/24)
Televisione: La vita nella scatola (22/26)
Donne in carriera: Susanna e Emma (23/18)
30
Protopapa Ilenia Beatrice
Marco Lodoli: Scuola da dentro (3/43)
Saraceno Chiara
Famiglia famiglie (18/36)
Diritto
Internazionale
Zizola Giancarlo
Il Bambino, il Prete, il Papa (10/46)
Allegretti Umberto
L’Europa degli Stati (5/16)
Istruzione
Bertozzi Luciano
Esportazioni di armi italiane: Se i soldi
dettano ancora legge (10/18)
Carlini Roberta
Edilizia scolastica: Storie di ordinaria insicurezza (19/22)
Castellucci Paola
Università: 3+2=zero? (2/28)
Atenei come aziende (4/32)
Ricercatori sui tetti (6/26)
Valutazione qualità ricerca (20/31)
Farinelli Fiorella
Circolare Gelmini: Il drappo rosso delle
quote (3/26)
Scuole della seconda generazione (4/18)
Riforma delle superiori: Un topolino cieco e senza gambe (5/24)
Scuole per migranti: L’esperienza di una
insegnante di italiano (8/20)
Capone Sabina
Donne africane: Milioni di volti, una sola
speranza (5/36)
Carlini Roberta
Telefoni e banche: I grandi scandali economici (7/29)
Documenti
Dichiarazione di Assisi (2/56)
Filograna Emanuele (a cura di)
Basilea 3: Intervista a Paola Musile Tanzi
(23/40)
Fuschetto Cristian
Internet: Tra libertà e responsabilità (6/42)
Rocca 2010 - indice per tematiche principali
Menighetti Romolo
La morte come pena (20/17)
Pocar Valerio
Anche gli animali sono titolari di diritto?
(22/35)
vedi anche
Internazionale
e la rubrica
Dell’Olio Tonio
Camineiro
Italia
Aa.Vv.
Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca: Quale legge elettorale? (22/18)
Andruccioli Paolo
Emergenze: Protezione civile Spa? (7/32)
Carlini Roberta
Regionali: Un voto con i piedi (4/28)
Federalismo (5/20)
Dell’Olio Tonio
E no, l’acqua no! (4/21)
Quanto vale la legalità (5/23)
I balilla e il crocifisso (20/21)
Farinelli Fiorella
Cittadinanza agli stranieri: Non esistono neri italiani! (2/24)
Il silenzio delle donne (7/36)
Diritto e rovescio del permesso a punti
(10/22)
Pomigliano: La breccia (14/22)
Patto sociale: L’offensiva Marchionne
(18/22)
L’italiano e il permesso a punti (20/28)
Ferrero Giancarlo
Diritti umani: Violenza nelle carceri (1/38)
Si troveranno tre giusti? (6/30)
Il bavaglio alle indagini e alle informazioni (13/30)
Immigrazione irregolare: Tre sentenze,
una su 3 non funziona (18/30)
Aggressione alle istituzioni: Un attentato allo Stato democratico (21/22)
Filograna Emanuele (a cura di)
Etica pubblica: Le regole dell’onestà: Intervista al prof. Giorgio Bernardo Mattarella (14/34)
Laicità: Tra tradizione e Costituzione. Intervista a Stefano Rodotà (18/26)
Greco Pietro
Piano Nazionale della Ricerca: Analisi
seria, proposte interessanti, soldi zero
(1/20)
Immigrazione, legalità, violenza: La lezione di Rosarno (3/16)
La Valle Raniero
Dove nasce la corruzione (5/13)
L’Italia negata (6/13)
Menighetti Romolo
Delle pene alternative (3/19)
Pentiti addio? (4/17)
La trappola dell’arbitrato (7/17)
Chi supporta le cosche (10/17)
Stagionali e caporali (11/17)
Pensioni, riforma continua (13/17)
Sabato Giovanni
Rifugiati: La difficile documentazione
della tortura (15/24)
vedi anche la rubrica
Andraous Vincenzo
Sbarre e dintorni
Politica internazionale
Allegretti Umberto
L’Europa degli Stati (5/16)
Bertozzi Luciano
Esportazioni di armi italiane: Se i soldi
dettano ancora legge (10/18)
Diritto di asilo: La deportazione dalla Libia in Eritrea (15/22)
Capone Sabina
Donne africane: Milioni di volti, una sola
speranza (5/36)
Greco Pietro
Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16)
Nucleare: La revisione del Trattato di non
proliferazione (14/18)
Ricerca scientifica: I quindici anni che
sconvolsero il mondo (16-17/14)
La Valle Raniero
Non ha visto il muro (4/13)
L’altro Israele (13/13)
Se ritornano le caravelle (14/13)
La vendetta afghana (21/13)
Kairòs Palestina (22/13)
Magnani Sabrina
Rapporto Medici senza frontiere: Quelle
guerre troppo dimenticate dai tg (16-17/24)
Menighetti Romolo
La grazia di Gheddafi (18/17)
La morte come pena (20/17)
Cile, dalla solidarietà la vita (21/17)
Piana Giannino
I poteri forti (20/38)
Pulcinelli Cristiana
Esperienza brasiliana: Reciprocità contro miseria (19/32)
Salvi Maurizio
2010: L’anno dell’Africa? (1/14)
Yemen: La guerra di domani (2/14)
Haiti: Storia di una lunga devastazione
(3/14)
Stati Uniti: Obama un anno dopo (4/14)
Asia Meridionale: L’espansione dei fondamentalisti islamici (5/14)
America Latina: Primi vagiti d’autonomia (6/14)
Afghanistan e dintorni: Un processo di
riconciliazione nazionale (7/14)
Medio Oriente: Gerusalemme nella tormenta (8/14)
Continente nero: Mal d’Africa (9/14)
Afghanistan: Tra battaglie e proposte di
pace (10/14)
Russia: I conti con il proprio passato (11/14)
Gran Bretagna: Un paese in bilico (12/14)
Israele: Là dove non c’è pietà per i deboli (13/14)
Asia orientale: Pericolosi segnali di instabilità (14/14)
America Latina: Tendenze e controtendenze (15/14)
Birmania: I generali lasciano, ma forse
no (18/14)
Medioriente: Conflitti ancora aperti (19/14)
America Latina: Il cortile di nessuno (20/14)
Europa: Derive populiste (21/14)
Afghanistan: Verso una soluzione politica? (22/14)
Obama: Dopo la bastonata (23/14)
Salvi Maurizio-Bulla Gino
Yemen: Un popolo in lento cammino
(16-17/29)
Europa
Allegretti Umberto
L’Europa degli Stati (5/16)
Carlini Roberta
Tragedia greca (11/18)
L’Europa ai corsi di recupero (12/18)
Nuove regole anticrisi (22/16)
La crisi del debito pubblico (24/22)
Farinelli Fiorella
A confronto con il mitico e ben pagato
insegnante tedesco (19/26)
Greco Pietro
Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16)
L’Europa della conoscenza: Obiettivi
mancati e promesse non mantenute
(11/30)
L’università cambia, come cambiare
l’università (19/18)
Salvi Maurizio
Europa: Derive populiste (21/14)
31
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Greco Pietro
Democrazia: Di secolo in secolo la conquista dei diritti (4/22)
Democrazia: I nuovi diritti di cittadinanza scientifica (5/28)
Nucleare: La revisione del Trattato di non
proliferazione (14/18)
Rocca 2010 - indice per tematiche principali
Politica italiana
Aa.Vv.
Un confronto tra Autori e Lettori di Rocca: Quale legge elettorale? (22/18)
Andruccioli Paolo
Emergenze: Protezione civile Spa? (7/32)
Sindacato: La strada che parte da Rimini (12/37)
Armeni Ritanna
Vendola, Renzi, Pisapia… che bolle in
pentola? (24/18)
Bertozzi Luciano
Esportazioni di armi italiane: Se i soldi
dettano ancora legge (10/18)
Carlini Roberta
Dati sulla disoccupazione: Balletti poco
innocenti (3/22)
Regionali: Un voto con i piedi (4/28)
Federalismo (5/20)
I guadagni delle élites (14/26)
L’oracolo Tremonti (16-17/18)
I giganti senza teste (20/24)
Alitalia: Il bluff (23/22)
La crisi del debito pubblico (24/22)
Cingari Salvatore
L’equivoco meritocratico (12/42)
Dell’Olio Tonio
La croce della Lega (1/27)
Farinelli Fiorella
Cittadinanza agli stranieri: Non esistono neri italiani! (2/24)
Il popolo viola: La novità c’è (6/22)
Che cosa ci aspetta (12/26)
Pomigliano: La breccia (14/22)
Piana Giannino
Economia, la scienza della pubblica felicità (3/32)
I poteri forti (20/38)
Piana Giannino
I poteri forti (20/38)
Pulcinelli Cristiana
Esperienza brasiliana: Reciprocità contro miseria (19/32)
Rolandi Luca
Giovani musulmani (3/30)
Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34)
vedi anche
Internazionale
Rusconi Gian Enrico
Post-democrazia e classe dirigente (19/36)
Zizola Giancarlo
La Chiesa in Italia: Nell’ora del dio padano (1/48)
Filoleghismo vaticano: Il nuovo Patto
Costantiniano (9/18)
vedi anche la rubrica
La Valle Raniero
Resistenza e pace
Economia e lavoro
Internazionali
Bertozzi Luciano
Esportazioni di armi italiane: Se i soldi
dettano ancora legge (10/18)
Carlini Roberta
Telefoni e banche: I grandi scandali economici (7/29)
Tragedia greca (11/18)
L’Europa ai corsi di recupero (12/18)
Europa: Nuove regole anticrisi (22/16)
Europa e Italia: La crisi del debito pubblico (24/22)
Ferrero Giancarlo
Si troveranno tre giusti? (6/30)
Il bavaglio alle indagini e alle informazioni (13/30)
Aggressione alle istituzioni: Un attentato allo Stato democratico (21/22)
Filograna Emanuele (a cura di)
Basilea 3: Intervista a Paola Musile Tanzi
(23/40)
Festa Francesco Saverio
Questione meridionale: Un nodo politico e non solo (5/34)
Greco Pietro
Copenaghen: Tra l’essere e il non essere (2/16)
Biotecnologie verdi: La patata della discordia (7/18)
L’Europa della conoscenza: Obiettivi
mancati e promesse non mantenute
(11/30)
Risorse energetiche: La fine del petrolio (15/31)
Ricerca scientifica: I quindici anni che
sconvolsero il mondo (16-17/14)
Economia verde: Una doppia opportunità (20/18)
Economia ecologica: Nuove ipotesi di
sopravvivenza umana (24/28)
Greco Pietro
Piano Nazionale della Ricerca: Analisi
seria, proposte interessanti, soldi zero
(1/20)
Emergenze: La gestione autoritaria della politica ambientale (6/18)
Declino italiano: La strategia perdente
(18/18)
ROCCA 1 GENNAIO 2011
La grazia di Gheddafi (18/17)
Caro amico ti sparo (19/17)
Le istanze dei rottamatori (23/17)
Maroni vs Saviano (24/17)
Menighetti Romolo
Lo scippo (1/23)
Primo marzo giallo (6/17)
Pane acqua e vergogna (8/19)
Chi supporta le cosche (10/17)
Piccole imprese grande Rete (12/17)
Brancher, ministero ad personam (14/17)
La tenaglia (15/17)
32
Fornaro Giuseppe
Il nuovo obiettivo dell’economia: La felicità sociale (7/22)
Leone Ugo
Eco-servizi: Quanto vale il «lavoro» della
natura (16-17/22)
Italia
Andruccioli Paolo
Emergenze: Protezione civile Spa?
(7/32)
Sindacato: La strada che parte da Rimini (12/37)
Armeni Ritanna
Donne in carriera: Susanna e Emma
(23/18)
Bertozzi Luciano
Esportazioni di armi italiane: Se i soldi
dettano ancora legge (10/18)
Carlini Roberta
Dati sulla disoccupazione: Balletti poco
innocenti (3/22)
Telefoni e banche: I grandi scandali economici (7/29)
Stipendi d’oro: Come prima, più di prima (9/22)
Tasse: Ma perché, tu le paghi? (13/18)
I guadagni delle élites (14/26)
Crisi economica: Ne usciremo vivi? (15/18)
L’oracolo Tremonti (16-17/18)
Diseguaglianza: Quando i vecchi sono
più ricchi dei giovani (18/42)
Edilizia scolastica: Storie di ordinaria insicurezza (19/22)
I giganti senza teste (20/24)
Il mito del quoziente familiare (21/18)
Alitalia: Il bluff (23/22)
Europa e Italia: La crisi del debito pubblico (24/22)
Dell’Olio Tonio
Sei uomini tra terra e cielo (23/21)
Farinelli Fiorella
Circolare Gelmini: Il drappo rosso delle
quote (3/26)
Il silenzio delle donne (7/36)
Carosello insegnanti (11/26)
Che cosa ci aspetta (12/26)
Pomigliano: La breccia (14/22)
Ritratto di una generazione in bilico (15/29)
Patto sociale: L’offensiva Marchionne
(18/22)
A confronto con il mitico e ben pagato
insegnante tedesco (19/26)
L’italiano e il permesso a punti (20/28)
L’italiano agli stranieri: Un volontariato
inedito (21/28)
Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26)
Scuola e lavoro: Ragazze poco tecno-
Rocca 2010 - indice per tematiche principali
sopravvivenza umana (24/28)
Greco Pietro
Piano Nazionale della Ricerca: Analisi
seria, proposte interessanti, soldi zero
(1/20)
Emergenze: La gestione autoritaria della politica ambientale (6/18)
L’Europa della conoscenza: Obiettivi
mancati e promesse non mantenute
(11/30)
Declino italiano: La strategia perdente
(18/18)
Piana Giannino
Confronti: Etica africana e cultura occidentale (1/16)
Economia, la scienza della pubblica felicità (3/32)
Si può parlare di legge naturale? (5/46)
Posso donare un rene? (7/46)
Tecnoscienza: L’uomo artificiale: Né
apocalittici né integrati (8/37)
L’uso della forza (9/32)
Indagine: Gli italiani e la sessualità
(11/22)
Neuroetica: Rapporto tra scienza e etica (12/33)
Etica e sindacato: Tra valori e bene possibile (13/26)
Le vie alla pace (14/30)
I poteri forti (20/38)
Leone Ugo
Catastrofi: Come convivere con il rischio
(19/30)
Rifiuti: Ma è vera emergenza? (20/22)
Magnani Sabrina
Microcredito: Yunus è anche a Bologna
(8/16)
Esperienza di aiuto: Perdi il lavoro, come
ti senti? (12/22)
Piana Giannino
Etica e sindacato: Tra valori e bene possibile (13/26)
I poteri forti (20/38)
Etica – Bioetica – Scienze
Filograna Emanuele (a cura di)
Etica pubblica: Le regole dell’onestà. Intervista al prof. Giorgio Bernardo Mattarella (14/34)
Fuschetto Cristian
Transessuali: Niente è come sembra (1/45)
Internet: Tra libertà e responsabilità (6/42)
Galli Maria Giovanna
Psichiatria: C’era una volta la città dei
matti (6/36)
Gianoli Romualdo
Il contrasto tra patrimonio archeologico
e opere pubbliche (2/34)
Biodiversità: Una risorsa ad alto rischio
(14/40)
Greco Pietro
Piano Nazionale della Ricerca: Analisi
seria, proposte interessanti, soldi zero
(1/20)
Biotecnologie verdi: La patata della discordia (7/18)
Genetica umana: La gallina non ha prodotto le uova d’oro (9/35)
L’Europa della conoscenza: Obiettivi mancati e promesse non mantenute (11/30)
Biotecnologie: Vita sì, ma non (ancora)
artificiale (13/33)
Nucleare: La revisione del Trattato di non
proliferazione (14/18)
Ricerca scientifica: I quindici anni che
sconvolsero il mondo (16-17/14)
Economia ecologica: Nuove ipotesi di
Pisani Stefano
Quel vasto oceano di matematica su cui
galleggiamo (20/44)
Neuroscienze
Fuschetto Cristian
La mente animale non è più un’eresia
(11/38)
Molari Carlo
Prospettive evolutive (11/42)
L’uomo e le menti altre
Alleva Enrico-Vitale Augusto
Menti animali (10/30)
Greco Pietro
Se anche il delfino è persona (10/33)
Neuroetica
Greco Pietro
La teoria delle menti (12/30)
Piana Giannino
Rapporto tra scienza e etica (12/33)
Dolore animale
Greco Pietro
Dolore fisico e sofferenza emotiva negli
animali (22/30)
Alleva Enrico-Vitale Augusto
Gioia e dolore psicologici negli animali
(22/32)
Pocar Valerio
Anche gli animali sono titolari di diritto?
(22/35)
Tecnoscienze
Gianoli Romualdo
Nanoscienze, nanotecnologie, corpo
umano: Tra paura e aspettative (4/42)
L’uomo artificiale
Greco Pietro
Macchine che pensano (8/26)
Longo Giuseppe O.
L’ibridazione uomo-macchina (8/34)
Piana Giannino
Né apocalittici né integrati (8/37)
vedi anche la rubrica
Sabato Giovanni
Notizie dalla scienza
Società - Costume - Mass media
Armeni Ritanna
Televisione: La vita nella scatola (22/26)
Donne in carriera: Susanna e Emma
(23/18)
Vendola, Renzi, Pisapia… che bolle in
pentola? (24/18)
Arpaia Bruno
Le paure del secolo: Le radici ancestrali (24/34)
Carlini Roberta
Dati sulla disoccupazione: Balletti poco
innocenti (3/22)
Stipendi d’oro: Come prima, più di prima (9/22)
Tasse: Ma perché, tu le paghi? (13/18)
Diseguaglianza: Quando i vecchi sono
più ricchi dei giovani (18/42)
Il mito del quoziente familiare (21/18)
Dell’Olio Tonio
I balilla e il crocifisso (20/21)
Farinelli Fiorella
Rapporto Censis: La leva principale del
consenso politico (1/24)
Il popolo viola: La novità c’è (6/22)
Quando la cultura diventa polenta (9/26)
Pomigliano: La breccia (14/22)
Ritratto di una generazione in bilico
(15/29)
Voce ai giovani: La scuola che vorrei (23/26)
Gallizioli Marco
Cybercultura: Ho un amico virtuale (13/40)
Nuovi scenari: Precarietà del mutamento (15/43)
La rete: ImMEDIAtamente… giovani
(19/42)
Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei (21/40)
Verso il fondamentalismo? (23/42)
Lodi Mario
Come nasce il bambino cittadino (4/26)
Longo Giuseppe O.
2010: Fuga nella rete (21/35)
Magnani Sabrina
Esperienza di aiuto: Perdi il lavoro, come
ti senti? (12/22)
Muzzi Nino
La regressione iconica (9/38)
Novara Daniele
Bulimia tecnologica: Verso la fast education? (10/38)
Piana Giannino
Indagine: Gli italiani e la sessualità (11/22)
Etica e sindacato: Tra valori e bene possibile (13/26)
33
ROCCA 1 GENNAIO 2011
logiche (24/24)
Rocca 2010 - indice per tematiche principali
Portoghese Anna
68° Corso di studi cristiani: Passione laica e profezia nella famiglia, nella politica, nella fede (18/33)
Pulcinelli Cristiana
Esperienza brasiliana: Reciprocità contro miseria (19/32)
Rolandi Luca
Giovani musulmani (3/30)
Immigrati: Chi sono i giovani musulmani di seconda generazione (6/34)
Rossetti Livio
Giornalismo incivile (18/45)
Rusconi Gian Enrico
Post-democrazia e classe dirigente (19/36)
Saraceno Chiara
Famiglia famiglie (18/36)
vedi anche
Cagnazzo Claudio
Società
Cultura – Religioni – Storia
Cingari Salvatore
L’equivoco meritocratico (12/42)
Farinelli Fiorella
Quando la cultura diventa polenta (9/26)
Gallizioli Marco
Cybercultura: Ho un amico virtuale (13/40)
Nuovi scenari: Precarietà del mutamento (15/43)
La rete: ImMEDIAtamente… giovani
(19/42)
Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei (21/40)
Religioni: Verso il fondamentalismo?
(23/42)
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Culture e religioni raccontate
Quale Dio nella società contemporanea
(3/40)
Le ferite del passato (5/50)
Ansie e nevrosi sulla libertà religiosa (7/49)
Orfani del futuro (9/48)
L’avventura del dialogo intrareligioso
(11/50)
Greco Pietro
Ricerca scientifica: I quindici anni che
sconvolsero il mondo (16-17/14)
Le paure del secolo: Rischio ambientale tra catastrofismo e negazione (21/32)
Migrazioni: La frenesia del viaggio, motore
del progresso. Il contagio delle idee (23/33)
La Valle Raniero
I materiali dell’unità (11/13)
Muzzi Nino
La regressione iconica (9/38)
34
Novara Daniele
Bambini: Il conflitto come strategia interculturale (4/36)
Portoghese Anna
68° Corso di studi cristiani: Passione
laica e profezia nella famiglia, nella politica, nella fede (18/33)
Prattico Franco
Migrazioni: Alla ricerca di un Altrove (23/29)
Salvi Maurizio
Russia: I conti con il proprio passato (11/14)
Zizola Giancarlo
La Chiesa in Italia: Nell’ora del dio padano (1/48)
Il Papa in sinagoga: Un dialogo confermato (3/49)
Pluralità di espressioni cristiane (14/48)
La notte del cattolicesimo italiano (21/45)
Il regime e le inquietudini dei cattolici
(22/48)
vedi anche le rubriche
Cazzato Stefano – Moscati Giuseppe
Maestri del nostro tempo
Moscati Giuseppe – Protopapa Ilenia
Beatrice
Nuova Antologia
Maestri del nostro tempo
Cazzato Stefano
Saul Kripke: Nel nome della comunità
(2/43)
Edmund Husserl: Quel che resta del
mondo (9/43)
Henri Grouès: L’esperimento del bene
(11/45)
Silvio Ceccato: L’ingegnere della felicità (13/43)
Emil L. Fackenheim: La storia, il male,
la redenzione (15/39)
Francesco Adorno: Platone nostro contemporaneo (20/47)
Karl-Otto Apel: Comunicazione, comunità, bene comune (22/43)
Pensatori contro
Marshall Sahlins: Una via zen allo sviluppo (4/45)
Roger Garaudy: Reti di resistenza al non
senso (6/45)
Jacques T. Godbout: Dono dunque siamo (18/49)
Louis Dumont: Genesi e trasformazione dell’individualismo (24/39)
Moscati Giuseppe
La questione della razza: Le risposte del
pensiero contemporaneo (3/45)
Antonio Corsano: Interprete di una nuova storiografia filosofica (5/43)
Franz Boas: Pioniere dell’etno-antropologia (7/43)
Rodolfo Mondolfo: Linee programmatiche per un nuovo umanesimo (8/45)
Danilo Dolci: La maieutica di una rivoluzione nonviolenta (10/43)
Franz Jägerstätter: La coscienza prima
di tutto (12/47)
Luce Irigaray: Tutto passa attraverso la
differenza (14/43)
Pierre Hadot: La filosofia come ‘esercizio spirituale’ (16-17/47)
John Holloway: Come trasformare il
mondo senza possederlo (19/47)
André Glucksmann: Il totem del pensiero militante (21/43)
Eric Voegelin: Quell’esperienza del trascendente che è la filosofia (23/47)
Nuova Antologia
Moscati Giuseppe
Charles Baudelaire: Quei fiori del male
che non appassiscono mai (2/45)
José de Sousa Saramago: Il vangelo secondo un grande scrittore (4/47)
Jack London: La letteratura sprofondata nell’avventura (6/47)
Nanni Balestrini: Le mille rivoluzioni di
un dadaista d’assalto (9/46)
Michalis Pierìs: Viaggiando tra le impennate di fantasia e gli ancoraggi alla realtà (11/47)
Grigore Vieru: Tutto l’universo nel tremolio di una foglia (13/45)
Ohran Pamuk: Colorando gli oggetti e
per tavolozza il Bosforo (15/41)
Derek Walcott: Tra natura e storia lo
squarcio della parola (18/51)
Juan Ramón Jiménez: Quella religione
profonda che anima la poesia (20/49)
Sigrid Undset: Il fondo religioso di
un’estetica del sogno (22/45)
Protopapa Ilenia Beatrice
Marco Lodoli: Scuola da dentro (3/43)
Andrea De Carlo: Se scavando in se
stesso un narratore (8/47)
Paulo Coelho: Anche i sogni richiedono
fatica (10/41)
Alessandro Baricco: Se per ogni mare
che ci aspetta… (12/45)
Erri De Luca: Quello zig-zag dove scorre la vita (14/45)
Nick Hornby: La vita è ironica… e non
complichiamoci le cose (16-17/45)
Banana Yoshimoto: Se i romanzi sono
finestre (19/45)
Anne Carson: Non in tutte le acque si
annega (23/45)
Rocca 2010 - indice per tematiche principali
Teologia – Bibbia – Spiritualità
Inserti e dibattiti
vedi in Indice per Autore (n. 24/2010) le
rubriche
Rocca
Indice perTematiche principali 2009 (1/29)
Indice per Autore 2010 (24/57)
Alberto Maggi
Gesù samaritano - Il Cristo di Giovanni
Lidia Maggi
Ai bordi del testo
Carlo Molari
Teologia
Arturo Paoli
Amorizzare il mondo
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Giannino Piana
Etica scienza economia politica società
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Rosanna Virgili
Introduzione alla lettura della Bibbia
Adriana Zarri
Controcorrente
Vita ecclesiale
Bianchi Giovanni
La chiesa ambrosiana: Dentro il cuore
e fuor dai denti (3/47)
Dell’Olio Tonio
Il pensiero meridiano dei vescovi italiani (6/21)
Chiese strumento di pace? (11/21)
I balilla e il crocifisso (20/21)
La Valle Raniero
Cantare il gregoriano (9/13)
I materiali dell’unità (11/13)
Concilio e libertà (15/13)
Il Concilio mancato (19/13)
Portoghese Anna
68° Corso di studi cristiani: Passione laica e profezia nella famiglia, nella politica, nella fede (18/33)
Sebastiani Lilia
Indissolubilità: Per legge, per grazia?
(18/39)
Zizola Giancarlo
La Chiesa in Italia: Nell’ora del dio padano (1/48)
Il Papa in sinagoga: Un dialogo confermato (3/49)
Filoleghismo vaticano: Il nuovo Patto
Costantiniano (9/18)
Il Bambino, il Prete, il Papa (10/46)
Che cosa cambiare (13/48)
Pluralità di espressioni cristiane (14/48)
Giorni tempestosi (15/46)
La notte del cattolicesimo italiano (21/45)
Adriana Zarri: L’eremita scomoda e il
suo Dio al femminile (24/43)
Zizola Giancarlo
La notte del cattolicesimo italiano (21/45)
2010
Tecnoscienza: L’uomo artificiale (8/25)
Greco Pietro
Macchine che pensano (8/26)
Longo Giuseppe O.
L’ibridazione uomo-macchina (8/34)
Piana Giannino
Né apocalittici né integrati (8/37)
Migrazioni: La frenesia del viaggio,
motore del progresso (23/29)
Prattico Franco
Alla ricerca di un Altrove (23/29)
Greco Pietro
Il contagio delle idee (23/33)
L’uomo e gli animali non umani
1. Cervelli in gioco: L’uomo e le menti altre (10/29)
Alleva Enrico-Vitale Augusto
Menti animali (10/30)
Greco Pietro
Se anche il delfino è persona (10/33)
2. Neurocultura
Fuschetto Cristian
La mente animale non è più un’eresia
(11/38)
Molari Carlo
Prospettive evolutive (11/42)
3. Dolore animale: Quando una scimmia muore le altre piangono? (22/29)
Greco Pietro
Dolore fisico e sofferenza emotiva negli
animali non umani (22/30)
Alleva Enrico-Vitale Augusto
Gioia e dolore psicologici negli animali
(22/32)
Pocar Valerio
Anche gli animali sono titolari di diritto?
(22/35)
4. Neuroetica: Le possibili ricadute
etiche, legali, sociali delle nuove conoscenze sul funzionamento del cervello (12/29)
Greco Pietro
La teoria delle menti (12/30)
Piana Giannino
Rapporto tra scienza e etica (12/33)
Yemen: Un popolo in lento cammino
(16-17/29)
Salvi Maurizio-Bulla Gino
Un confronto tra Autori e Lettori di
Rocca: Quale legge elettorale? (22/18)
Carlini Roberta – Ferrero Giancarlo –
Gentiloni Filippo – Greco Pietro – La Valle Raniero – Menighetti Romolo
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LA CONOSCENZA COME BENE COMUNE
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Pietro
Greco
36
il fornaio
e Bill Gates
V
iviamo nella società e nell’economia della conoscenza. La nostra
vita, il nostro lavoro, il nostro
tempo libero, il mercato degli
oggetti e dei servizi che compriamo e vendiamo si fondano sempre più sull’uso di nuove conoscenze. Proprio come la vecchia società industriale si
fondava sull’uso delle macchine.
La conoscenza ha sostituito le macchine
come mezzo primario di produzione. Ma
delle macchine su cui si fondava la società
industriale avevamo (e tuttora abbiamo)
un’idea precisa di cosa siano. A chi appartengono. E a chi vorremmo che appartenessero. Karl Marx, per esempio, sosteneva che il passaggio dal capitalismo al socialismo consisteva nel passaggio del controllo delle macchine (i mezzi di produzione) dalla borghesia al proletariato.
Molto più difficile è definire – anche solo
da un punto di vista sociale ed economico
– cosa sia esattamente la conoscenza. A chi
appartenga, ammesso che possa appartenere a qualcuno. A chi vorremmo che appartenesse. Ma è una difficoltà che dobbiamo superare, perché definire cos’è la
conoscenza è essenziale, proprio come
nell’Ottocento era essenziale definire cosa
fossero le macchine.
È certo, tuttavia, che la conoscenza non è
come una macchina. E neppure come un
pezzo di pane. Non solo e non tanto perché, a differenza delle macchine e del pane,
la conoscenza è immateriale. Ma anche e
soprattutto perché, mentre le macchine e
il pane sono facilmente appropriabili e
possono diventare altrettanto facilmente
«beni privati», la conoscenza non è facilmente appropriabile ed è per sua natura
un «bene comune». Anzi, è un «bene comune» molto particolare. Infatti a differenza di altri beni comuni con l’uso non si
consuma. È dunque una «risorsa infinita»
che, a differenza di tanti altri «beni comu-
ni», non va incontro alla «tragedia dei commons» (beni privati) ma produce naturalmente una continua «commedia dei commons».
il mercato del pane
Cerchiamo di spiegare cosa intendiamo.
La storia può tornarci utile. L’industria nasce, come abbiamo detto, con lo sviluppo
delle macchine a vapore e la realizzazione, in apposite fabbriche, di oggetti materiali il cui valore d’uso era essenzialmente determinato dal costo delle materie
prime e dal costo del lavoro. Quando acquistiamo il pane da quel fornaio un po’
autistico che Adam Smith ha eletto a portatore emblematico degli animal spirits
capitalistici, non paghiamo un prezzo arbitrario, dettato dai capricci del padrone
del forno, ma un prezzo di equilibrio: correlato alla domanda del mercato, ma anche ai costi sopportati dal panettiere sia
per reperire le materie prime (la farina,
l’acqua e il sale, ma anche l’energia per
far andare il forno) sia per remunerare il
lavoro, suo e dei suoi eventuali operai,
necessario a trasformare la farina, il sale
e l’acqua in pane fragrante con sapiente
impasto e giusta cottura.
Noi tutti apprezziamo il pane perché soddisfa un nostro bisogno primario, quello
di alimentarci. Ma agli occhi dell’economista il pane ha altre caratteristiche interessanti. Quello che ci vende il fornaio è,
come abbiamo detto, un bene materiale
appropriabile, perché noi possiamo comprarne un pezzo e sottrarlo all’uso di tutti
gli altri uomini. Ma è anche un bene rivale, perché se noi lo usiamo, lo degradiamo
irreversibilmente: dopo che lo abbiamo
mangiato, il nostro pezzo di pane non è
più utilizzabile da nessuno in assoluto (neanche da noi). Ed è inoltre un bene confinabile: posso impedire che esca dalla bot-
un imprenditore del tutto diverso
Che dire, invece, della conoscenza? Per
esempio della conoscenza informatica che
mi ha consentito di pubblicare questo articolo? Come il fornaio di Adam Smith,
neppure Bill Gates ha messo a nostra disposizione il sistema operativo Word per
scrivere queste pagine al computer in virtù del suo buon cuore, bensì per un preciso tornaconto. Ma, a parte il comune animal spirit che spinge entrambi a realizzare un profitto dalla propria attività, Bill
Gates è un imprenditore affatto diverso dal
nostro amico fornaio. Per molte ragioni.
Perché ha fissato il lucroso prezzo del bene
che ci ha venduto in maniera sostanzialmente indipendente sia dal costo delle
materie prime (la poca plastica del cd o
addirittura nessuna materia prima nel caso
avessimo «scaricato» il sistema operativo
via internet), sia dal costo del lavoro (suo,
degli operai, ma anche degli ingegneri elettronici e degli informatici delle sue aziende).
Bill Gates ha potuto proporre un prezzo
(ahinoi, piuttosto esoso) del tutto scorrelato dal costo delle materie prime e dal
costo del lavoro perché quello che ci ha
venduto è un bene immateriale che richiede, per essere prodotto, una bassa intensità di forza muscolare e un’alta intensità di
conoscenza.
conoscenza: un bene non rivale,
non escludibile, cumulativo
Inoltre Bill Gates, a differenza del fornaio,
ci ha venduto un bene che è non rivale.
Perché, anche se noi lo abbiamo comprato, non lo abbiamo sottratto a nessuno.
Tutti possono utilizzare il nostro medesimo sistema operativo per scrivere al computer: e infatti la Microsoft fondata a Seattle da Bill Gates, senza praticamente lavoro aggiuntivo rispetto alla realizzazione
del prototipo, ha venduto centinaia di milioni di copie identiche dell’ultima versione di Word. Inoltre il sistema operativo con
l’uso non si degrada. Può essere utilizzato
da milioni di persone senza costi aggiuntivi e senza che nessuno perda qualcosa. In
definitiva è un bene non rivale perché ne
possiede i tre requisiti fondamentali:
a) vendendo la conoscenza insita nel suo
sistema operativo, la Microsoft non perde
nulla. La conoscenza necessaria a sviluppare il sistema è stata acquisita in maniera definitiva e non viene perduta quando è
venduta o condivisa;
b) noi che compriamo il sistema operativo
non abbiamo bisogno di acquistare la conoscenza (la conoscenza necessaria per
utilizzarlo) più di una volta, anche se poi
usiamo il sistema operativo ripetutamente per molto tempo;
c) noi compratori non siamo in grado di
farci un’idea precisa del valore della conoscenza connesso al sistema operativo prima di averlo acquistato.
Una volta acquistato, il sistema potrebbe
girare sui computer di tutto il mondo per
sempre. È, per certi versi, un bene eterno.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
tega del fornaio; posso persino assediare
una città e impedire che sia approvvigionata di pane (o della farina necessaria per
produrlo).
Tutto ciò rende possibile (non necessaria)
la creazione di un «mercato del pane». E a
determinare il «giusto» prezzo che, nel
mondo di un’economia ideale capitalistica che in realtà non esiste né mai è esistita, è il miglior punto di equilibrio tra la
domanda e l’offerta.
crescita all’infinito
La conoscenza si distingue dal pezzo di
pane anche perché è un bene (quasi) non
escludibile: posso facilmente impedire a
37
LA
CONOSCENZA
COME BENE
COMUNE
una persona di mangiare pane, non posso
impedire – non facilmente almeno – a una
persona di conoscere.
Grazie alla sua non rivalità e non escludibilità la conoscenza è dunque un «bene
naturalmente comune». Grazie alle sue
proprietà di cumulatività la produzione
di conoscenza ha la capacità di generare
un’«esplosione combinatoria»: ovvero di
crescita all’infinito del bene. Prendiamo il
caso della matematica. Ebbene la conoscenza della matematica favorisce l’elaborazione di nuovi teoremi che, a loro volta
godono delle tre caratteristiche e che, quindi, diventano occasioni per produrre nuovi teoremi in un processo di crescita senza
limiti.
la tragedia del common
ROCCA 1 GENNAIO 2011
È per questo che, a proposito del bene pubblico conoscenza, parlano di (possibile)
commedia dei commons, ovvero di un processo di segno opposto alla tragedia cui
vanno inesorabilmente incontro i beni
pubblici escludibili, rivali e non cumulativi come rilevato in un famoso articolo pubblicato nel 1968 su Science dal biologo Garrett Hardin.
Se in un paesino di montagna esiste un
pascolo libero cui possono brucare le pecore di tutti i cento pastori del villaggio,
ebbene quel bene pubblico (common, in
inglese) rischia rapidamente di esaurirsi in
caso di improvvisa crescita dell’economia
pastorale. L’erba del pascolo è un bene
escludibile e rivale, se la bruca una pecora
non è più disponibile – non immediatamente, almeno – per un’altra. Ogni pastore ha un grande vantaggio nell’aggiungere
una pecora al suo gregge che consuma quel
common (quando cresce la domanda di
mercato della lana, del latte o della carne
di pecora) e un piccolo svantaggio, perché
l’erosione del bene comune si ripartisce tra
tanti. Quel grande vantaggio individuale,
tuttavia, si risolve ben presto in una tragedia per il common. I pastori, stimolati dal
mercato, tenderanno ad aggiungere pecore e pecore ai loro greggi e ben presto il
pascolo non avrà più erba sufficiente e si
esaurirà. I vantaggi individuali si traducono in un danno collettivo, la perdita del
bene pubblico comune esauribile, rivale e
non cumulativo. È questa la tragedia dei
commons.
La conoscenza non è come il foraggio, che
si esaurisce con il consumo: non si rischia
di brucarne in eccesso. La conoscenza,
come l’aria (in un ambiente non confinato), è un bene non rivale: il suo uso da par38
te di una persona non ne impedisce l’uso
da parte di un’altra. Anzi, è qualcosa di più
di un bene non rivale: se uso la conoscenza di tutti per elaborare un nuovo teorema, non solo non sottraggo ma, addirittura, aggiungo erba al pascolo comune della
matematica. Possiamo dire quindi che la
conoscenza viene arricchita e resa più accurata se aumenta il numero di ricercatori, ingegneri, artigiani e più in generale di
persone che vi hanno accesso e la possono
utilizzare. Nel caso di un bene pubblico
non escludibile, non rivale e cumulativo
possiamo, dunque, parlare non più di tragedia, ma di commedia dei commons.
Cos’è Wikipedia l’enciclopedia che si è autorganizzata su Internet, se non la prova
tangibile di questa caratteristica della conoscenza? Anche Wikipedia, naturalmente, ha le sue regole che tendono a preservarne la natura di common o di bene pubblico. Regole (non tutte ancora scritte) che
sono diverse sia da quelle che tutelano i
beni privati, sia da quelle che regolano i
pascoli e tutti i beni comuni esauribili, rivali e non cumulativi.
l’informazione congelata nella nuova
economia della conoscenza
Potremmo proseguire la ricerca dei caratteri peculiari della conoscenza. Ma conviene fermarsi a quelli essenziali. Non rivalità, (quasi) non escludibilità, e cumulatività: sono queste le differenze sostanziali tra
i beni materiali proposti dalla vecchia economia industriale e i beni immateriali proposti dalla nuova economia della conoscenza. Con qualcosa in più.
Si potrebbe obiettare che non tutto ciò che
viene spacciato per conoscenza, nella nuova economia, lo è. Che Wikipedia è un caso
particolare, non la regola. Che per poter
consultare Wikipedia abbiamo bisogno di
un sistema operativo. Per esempio il sistema operativo che abbiamo acquistato dalla Microsoft. Sono i dollari passati di mano
con la vendita di questo sistema operativo
che, a differenza della generosità gratuita
degli estensori di Wikipedia, fanno l’economia della conoscenza. Ebbene, si potrebbe sostenere che quello che ci vende Bill
Gates e che costituisce il fatturato su cui
si regge una parte decisiva dell’economia
della conoscenza in realtà non è conoscenza. Siamo un po’ tutti analfabeti informatici. E usiamo la gran parte dei sistemi
operativi del nostro computer, compresi
quelli Microsoft, senza avere la minima
idea di come siano fatti. Quella che Bill
Gates ci ha venduto è una merce partico-
.
questione brevetti
E qui nasce una prima serie di problemi.
La Microsoft ha brevettato l’informazione
congelata contenuta nel suo sistema operativo, ma non distribuisce la sue royalties
agli eredi di Alan Turing e a tutti coloro
che hanno dato un contributo, piccolo o
grande, allo sviluppo dell’informatica. Men
che meno agli eredi di coloro che hanno
inventato l’alfabeto e il linguaggio simbolico o sviluppato la logica e la matematica, su cui si fonda l’informatica. La verità
è che – a differenza del fornaio che non ci
fa pagare un costo per la ricetta del pane,
un bene intellettuale comune elaborato nel
corso di secoli dalla saggezza popolare, ma
solo per la trasformazione delle materie
prime in prodotto finale – l’azienda di Seattle fattura per la gran parte un bene comune, la conoscenza informatica, che non
le appartiene certo in esclusiva. Né può
sostenere che le royalties le sono dovute,
perché necessarie a remunerare il lavoro
dei suoi tecnici che hanno tradotto quella
conoscenza in un pacchetto di informazioni congelate molto funzionali. Il prezzo
unitario di Word è largamente indipendente dagli stipendi degli ingegneri della Microsoft.
Il caso delle aziende biotech che, per esempio, brevettano alcuni beni comuni, come
i geni contenuti nel Dna dell’uomo o di altri esseri viventi e le conoscenze molecolari diffuse intorno a questi geni, e pretendendo royalties da chiunque e in qualsiasi
modo li utilizzi a prescindere dalla metodologia che usa, è ancora più eclatante.
In definitiva nell’economia di mercato reale alcuni (i monopolisti) cercano di limitare il carattere non escludibile e non rivale della conoscenza. Cercano in maniera
artificiosa di trasformare la conoscenza da
«bene comune» a «bene privato». I costi
culturali, sociali e anche economici di questa operazione artificiosa sono molto alti.
Il brevetto per la protezione intellettuale
dell’informazione congelata è uno dei sistemi adottati per promuovere il mercato
delle idee immateriali nell’era dell’economia fondata (sull’informazione e) sulla
conoscenza.
il prezzo più alto
Di qui la domanda: fino a che punto è giusto concedere a imprese private il brevetto
per la protezione intellettuale di «pacchetti
di informazione» congelati grazie soprattutto all’uso di un bene comune, come la
conoscenza pubblica? Tanto più che spesso queste imprese utilizzano in maniera
piuttosto aggressiva il sistema di protezione intellettuale sia per costituire monopoli o cartelli, sia per imporre un prezzo così
alto da impedire l’accesso al bene prodotto a larga parte dell’umanità. Può il bene
comune conoscenza diventare, attraverso
i pacchetti discreti di informazione congelata confezionati dalle imprese, un fattore di esclusione sociale?
La faccenda è ancor più inaccettabile e
diventa addirittura odiosa quando la protezione intellettuale su un bene comune
in linea di principio non rivale, non escludibile, non appropriabile, non confinabile e
cumulabile concorre a impedire a milioni
di persone di accedere a farmaci salvavita,
come succede con i cocktails anti-aids, il
cui costo taglia fuori decine di milioni di
ammalati soprattutto in Africa.
In definitiva, se restituiamo alla conoscenza la sua natura di «bene comune» la società che l’ha assunta a fondamento può
diventare molto più democratica e anche
molto più ricca. Se continuiamo a cercare
di forzarne la natura e la riduciamo a un
«bene privato», continueremo a pagare all’economia della conoscenza il prezzo più
alto: quella della disuguaglianza crescente.
dello stesso Autore
BIOTECNOLOGIE
scienza
e nuove tecniche
biomediche
verso
quale umanità?
pp. 124 - i 15,00
(vedi Indice
in RoccaLibri
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ROCCA 1 GENNAIO 2011
lare, è un pacchetto ben definito di informazione congelata. Anche per questo può
quantificare un prezzo per il sistema operativo Word senza correlarlo né al costo
delle materie prime e né al costo del lavoro.
Tuttavia, per poter realizzare il suo prototipo, la Microsoft ha avuto bisogno di molta conoscenza. L’informazione congelata
contenuta nel suo sistema operativo non
la si trova già disponibile in natura. Deve
essere creata dall’uomo e organizzata in
forma digitale. L’enorme conoscenza necessaria per produrre il sistema operativo
Word non è posseduta tutta e neppure in
parte preponderante dalla Microsoft. È per
larga parte una conoscenza sofisticata e
diffusa, conoscenza pubblica, ottenuta per
lento accumulo di azioni creative, di innovazioni scientifiche e di scambi culturali
di un numero imprecisato, ma enorme di
persone sparse per il mondo in un periodo
di tempo lungo e indefinito. Dietro il sistema operativo Word della Microsoft c’è, almeno, tutta la storia dell’informatica, almeno da Alan Turing in poi. E una parte
rilevante della storia delle comunicazioni
tra gli uomini.
per i lettori di Rocca
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39
Giannino
Piana
e recenti affermazioni di Benedetto XVI circa l’uso dei preservativi,
contenute nell’intervista rilasciata
al giornalista tedesco Peter Seewald
e pubblicate nel volume Luce del
mondo, hanno suscitato vivo scalpore nell’opinione pubblica. Da più parti si
è infatti rilevato come per la prima volta il
Papa giustificasse, sia pure in «singoli casi»
di carattere eccezionale, il ricorso al preservativo, giungendo persino ad affermare
che esso può rappresentare il «il primo passo verso la moralizzazione, un primo atto
di responsabilità».
Al di là del caso specifico richiamato dal
Pontefice, quello della prostituzione (con il
rischio del contagio da Aids) – non è mancato, in proposito, anche un piccolo «giallo» dovuto alla diversa traduzione fornita
da L’Osservatore Romano, che alludeva alla
prostituzione femminile anziché a quella
maschile come nella versione originaria tedesca – la novità consisterebbe, secondo
molti commentatori, nell’ammissione, sia
pure in casi straordinari, della legittimità
dell’uso del preservativo, dunque, in qualche modo, nella sconfessione del principio
affermato con forza dall’enciclica Humanae
vitae di Paolo VI (n. 14) secondo il quale la
contraccezione, sia meccanica che chimica, è un mezzo «intrinsecamente cattivo»,
al quale non si deve pertanto mai ricorrere
in nessuna situazione e per nessun motivo.
L
ROCCA 1 GENNAIO 2011
le ragioni del magistero tradizionale
Per sostenere questa posizione l’Humanae
vitae chiama in causa – come è risaputo – il
concetto di «legge naturale», sottolineando
come la contraccezione implichi una diretta violazione dell’ordine della natura, in
quanto determina la separazione tra il significato unitivo dell’atto sessuale (che viene direttamente perseguito) e quello pro40
creativo (che è deliberatamente escluso):
significati strettamente connessi, secondo
l’enciclica, alla natura dell’atto sessuale e
pertanto non disgiungibili.
A chi obietta che anche attraverso i «metodi
naturali» si persegue la medesima finalità, il
documento di Paolo VI risponde che la differenza sta nel fatto che, mentre il ricorso a questi ultimi consente semplicemente di conoscere ciò che si verifica in natura – l’esistenza
nell’ambito del ciclo femminile di tempi biologicamente infecondi – nel caso della contraccezione l’infecondità è invece provocata
dall’iniziativa dell’uomo (sua sponte) che stravolge artificialmente il corso della natura.
Avvertendo il limite di questa impostazione
eccessivamente «naturalistica» – la «legge
naturale» è qui fatta coincidere con il rispetto del dato biologico – Giovanni Paolo II, che
ha peraltro sempre ribadito, in termini rigidissimi, la bontà della norma dell’Humanae
vitae, adduce a suo sostegno nel documento
conclusivo del Sinodo sulla famiglia Familiaris consortio una motivazione di ordine più
propriamente antropologico. La ragione del
rifiuto della contraccezione andrebbe ricercata secondo il Pontefice nella violazione dello statuto dell’amore coniugale, il quale comporta che l’atto sessuale (che ne è l’espressione più profonda e più autentica) rimanga
aperto a tutta la gamma dei significati che
ad esso si riferiscono, in particolare tanto al
significato unitivo che a quello procreativo.
La contraccezione finirebbe dunque per
mutilare l’amore coniugale, impedendo che
esso sia vissuto in pienezza, poiché lo decurta deliberatamente di un significato che costitutivamente gli appartiene.
la legge della gradualità
La rigidità della norma e la debolezza delle
motivazioni addotte per sostenerla hanno
spinto, fin dall’inizio, un numero consisten-
L’INTERVISTA DI BENEDETTO XVI
licenza
di preservativo?
profetiche», come le grandi indicazioni contenute nel discorso della montagna, che hanno anch’esse un carattere normativo – non
si tratta soltanto di pii consigli per una schiera di eletti, come talora si è affermato, bensì
di indicazioni obbliganti per ogni cristiano
– ma sono tuttavia norme aperte che, orientando la condotta verso un’ideale di perfezione, sono di loro natura destinate ad essere applicate gradualmente e mai passibili di
essere totalmente esaurite.
Il fatto che il rifiuto della contraccezione
contenuto nella Humanae vitae venga ascritto a questa ultima tipologia di norme implica che la gradualità della sua attuazione
non sia legata soltanto a un dato soggettivo
– la situazione propria della persona o della coppia in causa – ma appartenga originariamente alla natura della norma stessa,
sia cioè un connotato essenziale della sua
identità, e che si possa perciò parlare di una
vera e propria «gradualità della legge».
Questa interpretazione costituisce un effettivo salto di qualità: l’ammissione che non si
tratta di norma-precetto, ma di norma-ideale ha come conseguenza l’impossibilità di
affermare l’intrinseca immoralità della contraccezione (intrinsice mala). A questa impostazione ha in verità reagito Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, sottolineando che il riconoscimento della «legge della
gradualità» non implica l’ammissione della
«gradualità della legge». Ma la posizione assunta dagli episcopati non è stata finora ufficialmente sconfessata; anzi alcuni dei documenti cui si è accennato hanno ricevuto il
plauso dello stesso Paolo VI.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
te di rappresentanti autorevoli dell’episcopato mondiale e intere Conferenze episcopali, ad intervenire con la pubblicazione di
una serie di commenti di natura prevalentemente pastorale – si era negli anni dell’immediato postconcilio ed è stato questo
uno dei momenti più significativi di esercizio della collegialità, esplicitamente approvato da Paolo VI – che avevano lo scopo di
mediare l’insegnamento papale in rapporto alla varietà e alla complessità delle situazioni esistenziali in cui le coppie si trovano
a vivere. La via che è stata, a tale proposito,
privilegiata dalla maggior parte degli interventi – via suggerita peraltro nell’ultima
parte dalla stessa enciclica – è quella della
«legge della gradualità», la quale consiste
nel tenere in considerazione la condizione
della singola coppia – la percezione che essa
ha del significato della norma e della concreta possibilità di metterla in pratica – per
spingerla progressivamente a dare il proprio assenso alla dottrina della chiesa. L’educazione morale, per essere efficace, deve infatti fare i conti con la diversità delle situazioni di partenza e graduare la proposta
secondo la logica di un cammino in cui viene definita con chiarezza la successione
delle tappe da percorrere.
Ma l’argomento più significativo, che è stato talora invocato dalle Conferenze episcopali (tra queste va inclusa anche quella italiana), è rappresentato dall’interpretazione
del «no» alla contraccezione come «norma
escatologico-profetica», cioè come norma
ideale di perfezione. L’etica neotestamentaria conosce infatti due ordini di norme: le
norme-precetto, come i comandamenti, le
quali sono norme chiuse e nettamente circoscritte – non è casuale che il decalogo appartenga al diritto apodittico, che abbia cioè
una formulazione imperativo-negativa – che
esigono come tali di essere messe radicalmente in pratica; e le norme «escatologico-
la novità di Benedetto XVI
L’intervento di Benedetto XVI fa propria
quest’ultima interpretazione, mettendo in tal
modo in discussione la possibilità di definire la contraccezione come «intrinsecamen41
LA
CONOSCENZA
COME BENE
COMUNE
te cattiva» o si limita a riaffermare la «legge
della gradualità» mai rinnegata dal magistero papale precedente? Il testo dell’intervista,
per quanto un po’ sibillino, non sembra prestarsi ad equivoci. Il Papa si muove nell’alveo della posizione tradizionale del magistero papale precedente, non solo perché asserisce di voler confermare la dottrina dell’Humanae vitae, ma soprattutto perché nel caso
cui si riferisce, legato peraltro a un comportamento di per sé moralmente inaccettabile
– l’esercizio della prostituzione – l’uso del preservativo è considerato sul piano soggettivo
– come è detto chiaramente nel testo – un
atto di responsabilità, che è il primo passo
verso la moralizzazione. Non si tratta dunque di «una svolta rivoluzionaria» – come
ha giustamente osservato il direttore della
Sala stampa vaticana padre Lombardi – ma
più semplicemente dell’applicazione della
«legge della gradualità», che lascia pertanto
impregiudicato – anche questo viene detto
chiaramente nel testo – il giudizio negativo
sulla contraccezione come male morale in
sé. La «novità» consiste semmai nell’aver richiamato un principio – quello della «legge
della gradualità» – che appartiene da sempre alla tradizione morale della chiesa come
un irrinunciabile criterio pedagogico, ma che
rischia talora di essere sottaciuto o dato per
scontato.
come uscire dalla attuale impasse?
dello stesso Autore
ETICA
SCIENZA E SOCIETÀ
i nodi critici
emergenti
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ROCCA 1 GENNAIO 2011
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42
Al di là dell’interpretazione dell’intervista
di Benedetto XVI, la questione della contraccezione costituisce, in ogni caso, un
nodo critico che merita seria considerazione. Il criterio prioritario, al quale la coppia
deve fare anzitutto riferimento nella formulazione del giudizio etico è la verifica del
fine che persegue: essa deve cioè in primo
luogo interrogarsi sulla disponibilità ad
esercitare in modo generoso e responsabile
la propria fecondità procreativa, inserendola peraltro in una visione più ampia (e specificamente umana) della fecondità che include altre forme espressive – si pensi all’adozione e all’affidamento o alle varie
modalità di impegno verso gli altri – le quali rivestono un alto significato sociale. Da
questo punto di vista, che è quello che più
conta, si può essere generosi e responsabili
ricorrendo alla contraccezione e non esserlo usando i metodi naturali.
La questione del mezzo è dunque subordinata a quella del fine, pur rivestendo il mezzo un proprio spessore morale, che non può
essere eluso: si incorrerebbe altrimenti in
una visione machiavellica per la quale il fine
buono rende automaticamente legittima
l’adozione di qualsiasi mezzo.
Il limite delle posizioni espresse dal magistero papale nei confronti dei cosiddetti
«metodi artificiali» o «non naturali» sta tuttavia nella radicalità della loro condanna
(«intrinsecamente cattivi») e nell’insufficienza delle motivazioni addotte per giustificarla. Se infatti la motivazione etica, che è alla
base dell’Humanae vitae, pecca – come già
si è ricordato – di «naturalismo» nel senso
che identifica la «legge naturale umana» con
il rispetto del dato fisico-biologico, dimenticando che la natura umana è una natura
complessa e pluristratificata e che perciò l’intervento nei confronti del dato biologico,
quando in gioco vi è il bene della persona e
della relazione interpersonale, non può essere considerato innaturale; la motivazione
antropologica di Giovanni Paolo II pecca di
un eccesso di idealizzazione dell’amore coniugale che si risolve nella penalizzazione
di tutto ciò che non è ad esso conforme: il
«no» senza riserve alla contraccezione nasce qui da una forma di purismo idealistico,
che non tiene in considerazione il limite e la
complessità delle situazioni umane.
il bene possibile
L’interpretazione fornita dagli episcopati
nazionali, che definiscono – come si è detto – la norma relativa alla contraccezione
come norma escatologico-profetica ha
senz’altro il merito di farci uscire dalla rigidità di queste posizioni. Partendo dalla convinzione che il credente è chiamato a tendere alla perfezione del Padre (Mt 5, 48) e
deve pertanto caratterizzare la sua esistenza come un cammino di permanente conversione, i vescovi invitano a considerare la
norma della chiesa come una meta che va
costantemente tenuta in considerazione e
perseguita, senza che questo significhi rifiuto delle mediazioni che vanno messe in
atto nella concretezza dei contesti in cui
l’esistenza umana si svolge.
Non è questo, del resto, il compito dell’etica? Ad essa non spetta infatti soltanto l’individuazione del Bene assoluto, ma anche (e
soprattutto) la ricerca del «bene possibile».
Di quel bene che è frutto di una mediazione
tra i valori e la realtà; che è, in altre parole,
la risultante di un «compromesso» che, lungi dal rinnegare i principi, si sforza di renderli efficacemente presenti nel vivo delle
situazioni, impedendo che si incorra in stati
di colpevolezza ingiustificata e sollecitando
costantemente la tensione verso ciò che più
si avvicina alla perfezione evangelica.
Giannino Piana
LUCE DEL MONDO
dall’intervista una finestra
sull’identità di Benedetto XVI
A
ti, dei sacramenti ai divorziati e della liceità del preservativo per la lotta all’Aids. In
questo modo il papa si distanziava dalla rigida intransigenza di una scuola di teologia morale al potere a Roma dai primi anni
di Wojtyla che aveva messo sotto scacco nella Chiesa cattolica le aperture pastorali del
Concilio Vaticano II.
grancassa mediatica sul condom
Sfortunatamente la grancassa mediatica
rimbombava quasi esclusivamente per la
dozzina di righe in cui Benedetto XVI dichiarava che «in singoli casi giustificati»
il ricorso al preservativo «può essere il primo passo verso una moralizzazione, un
primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che
non tutto è permesso e che non si può far
tutto ciò che si vuole». Il papa ammetteva
che «nell’uno o nell’altro caso, con l’intenzione di diminuire il pericolo di contagio,
(il profilattico) può rappresentare tuttavia
un primo passo sulla strada che porta ad
una sessualità diversamente vissuta, più
umana» (p. 170-171).
Era questo il passaggio che catalizzava il
maggiore interesse del testo, con un effetto fuorviante rispetto ad altri contenuti,
non meno pregnanti. Indiscutibilmente
l’ammissione della moralità in certi casi del
ricorso al profilattico iscriveva il nome di
Benedetto XVI nella storia moderna del
progresso della dottrina morale della Chiesa cattolica verso la comprensione del linguaggio della sessualità umana, al di là dei
pesanti conflitti di coscienza determinati
dal pessimismo sessuale e dal rigorismo
dogmatico in questo campo. Era incontestabile che il principio materiale difeso in
passato secondo cui ogni contraccettivo
sarebbe da considerare «intrinsecamente
perverso» doveva ora fare i conti con le
nuove eccezioni ammesse dal papa.
Comunque alcuni pastori responsabili di
diocesi in Italia non esitavano a confidare
che l’intervento del papa avrebbe ottenuto
immediatamente l’effetto di diminuire il
43
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Giancarlo
Zizola
ccompagnato da un imponente
clamore mediatico, veniva presentato il 23 novembre 2010, in
una Sala Stampa della Santa Sede
gremita, «Luce del mondo», il libro-intervista registrato l’ultima
settimana di luglio nel palazzo di Castelgandolfo dal giornalista bavarese Peter Seewald
al conterraneo Benedetto XVI. Duecentocinquantatre pagine pubblicate in italiano dalla Libreria Editrice Vaticana e nell’originale
tedesco e altre lingue da dozzine di altri editori. Un testo che offriva nuove chiavi di lettura sulla storia e il futuro del pontificato
attuale, e forse anche utili per migliorare le
condizioni di partenza del prossimo.
Oltrepassando lo stereotipo di «pastore tedesco», le risposte narravano di un Ratzinger aperto alle evoluzioni e disposto a saper fare tesoro dei propri errori. In questo
bilancio del pontificato, a oltre cinque anni
dall’elezione, egli si presentava non solo
come un papa a suo agio nei laboratori accademici, ma anzitutto nella sua umanità
semplice, quotidiana e colloquiale. Il papa
ritrovava i contorni dei propri limiti umani e anche dei limiti della suprema funzione petrina. Egli si dichiarava disposto a
considerare seriamente la prospettiva delle dimissioni «quando un papa giunge alla
chiara consapevolezza di non essere più in
grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico
affidatogli». Ciò allargava la previsione canonica delle giuste cause ammesse per la rinuncia anche alle condizioni spirituali del soggetto papale.
Egli dimostrava di non
essere prigioniero dei
propri schemi astratti e,
al contrario, di saper
mettere in valore il principio di realtà, per trattare la ricerca di soluzioni di compromesso a
problemi, come quello
del matrimonio dei pre-
LUCE
DEL
MONDO
grado di ipocrisia nella pastorale matrimoniale. E non solo per la questione del preservativo, ma anche (e logicamente) per
l’altra apertura sul controllo chimico della fecondità («è giusto che in questo campo molte cose debbano essere ripensate ed
espresse in modo nuovo») e a proposito
dell’eucarestia ai divorziati (con l’impegno
ad analizzare più a fondo la questione della validità del matrimonio in una situazione in cui difetta la consapevolezza nelle
coppie di cosa sia il matrimonio).
Ma pur ammettendo l’importanza di questi passi in avanti, si doveva pur riconoscere che non si trattava che di tornare ad
applicare l’antico criterio morale del «male
minore», già invalso per autorizzare la pillola anticoncezionale alle suore nelle situazioni di guerra civile in cui si trovavano le
religiose in Congo e in Bosnia o anche per
giustificare l’aborto terapeutico nei casi di
pericolo di vita per la madre. Da San Tommaso d’Aquino in avanti la Chiesa si era
abbeverata per le sue aperture pastorali
nelle situazioni complesse della vita reale
delle coppie, alla sapienza del criterio per
cui «chi troppo munge, schizza sangue»,
«qui nimis mungit, eiecit sanguinem».
Questo riferimento storico nulla toglieva
alla portata liberatoria dell’intervento pontificio, specialmente se contestualizzato in
una fase storica di forte prevalenza delle
forze tradizionaliste nella curia romana.
Questo riferimento storico nulla toglieva
alla portata liberatoria dell’intervento pontificio, specialmente se contestualizzato in
una fase storica di forte prevalenza delle
forze tradizionaliste nella curia romana.
un questionario partigiano
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Nel dialogo si intrecciano linee di ricerca
diverse, specialmente utili per spiegare i
punti di vista di Benedetto XVI su alcuni
passaggi controversi del suo quinquennio
di governo, ad esempio sulla lezione di Ratisbona, sulla revoca della scomunica ai
vescovi lefebvriani, sul caso Williamson,
sulla restaurazione liturgica ecc...
Più interessante, a nostro parere, il complesso delle risposte del papa sui nodi della
crisi del cattolicesimo e sui suoi possibili
esiti. Tanto più se si considera che, nello
svolgere le sue valutazioni e nell’articolare
le sue visioni sul futuro della fede cristiana,
Benedetto XVI doveva misurarsi con un
questionario di Seewald che, per quanto
perspicace e universale, si lasciava impigliare non di rado in codici di lettura e stereotipi demonizzanti sulla modernità tipici della destra cattolica, nel presupposto (rivelatosi azzardato) di poter annettersi natural44
.
mente il punto di vista del papa.
Già autore di due altri libri-intervista con
il cardinale Ratzinger, questo giornalista
ex sessantottino ed ex comunista non si salvava dalla sorte dei rivoluzionari pentiti,
di schierarsi in modo fanatico dalla parte
opposta a quella in cui avevano militato.
L’informazione religiosa aveva saputo imboccare durante il Concilio e dopo le strade dell’indipendenza rispetto alle prassi ancillari dei cortigiani, anche se molta strada restava da fare per realizzare pienamente la laicità cristiana in questo campo. Ma
la facilità con cui Seewald aveva agitato il
turibolo dinanzi al papa in questo colloquio faceva emergere che egli non aveva
vissuto questa storia di emancipazione.
Nella «Premessa» egli proclamava: «Mai
prima d’ora nella storia della Chiesa un
Romano Pontefice si era concesso ad una
intervista personale e diretta». Evidentemente nessuno gli aveva ricordato che la
parola «Mai» è molto rischiosa per un vaticanista minimamente al corrente del fatto
che nella storia della Chiesa, a cercarlo, si
trova sempre un precedente. Egli mostrava
di ignorare l’intervista storica concessa da
Benedetto XV al giornalista francese Louis
Latapie, pubblicata da «La Liberté» di Parigi il 20 giugno 1915 e ripresa due giorni
dopo dal «Corriere della Sera» di Milano. E
non sembrava nemmeno ricordare che il 3
ottobre 1965 «Il Corriere della Sera» aveva
pubblicato, nel corso della quarta e ultima
sessione del Concilio, una grande intervista di Alberto Cavallari a Paolo VI.
Il paradosso è che questo giornalista fortunato non si risparmiava dal diffamare di
fronte al papa i giornalisti suoi colleghi,
accusandoli in blocco di preordinate congiure contro la Chiesa. Paradosso nel paradosso: questa volta era il papa a correre
in loro difesa e a smentire una rappresentazione così unilaterale, sostenendo il ruolo veritativo svolto dai media in questa crisi. Veramente questa era una novità nella
storia delle relazioni, spesso conflittuali,
tra il papato e i media.
«Era evidente – diceva il Papa – che l’azione dei media non fosse guidata solamente
dalla pura ricerca della verità, ma che vi
fosse anche un compiacimento a mettere
alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla. E tuttavia era necessario che fosse
chiaro questo: sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti. La verità, unita all’amore inteso correttamente, è il valore numero uno.
E poi i media non avrebbero potuto dare
quei resoconti se nella Chiesa stessa il male
non ci fosse stato. Solo perché il male era
dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto ri-
valore morale della modernità
Come abbiamo detto, i contenuti principali del libro-intervista riguardano la rivalutazione dei valori morali della modernità e
le proposte di «aggiornamento» delle forme della fede cristiana per favorirne l’intelligenza da parte dei contemporanei.
In questo testo, Benedetto XVI sottolinea il
dovere del papa di battersi ovunque per il rispetto dei diritti umani «come intima conseguenza della fede nel fatto che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio e che ha
una vocazione divina». Questo dovere implica la lotta per la libertà, contro la violenza e
contro le minacce della guerra, per la conservazione del creato e opporsi alla sua distruzione. Sono questi temi dai quali il papa vede
emergere «la moralità della modernità».
«La modernità non consiste solo di negatività. Se così fosse non potrebbe durare a
lungo. Essa ha in sé grandi valori morali,
che vengono anche dal Cristianesimo, che
solo grazie al Cristianesimo, in quanto valori, sono entrati nella coscienza dell’umanità» (p. 40).
Più avanti, il papa si distacca ulteriormente
dalla prospettiva di una sovrapposizione
estrinseca tra lo strato dell’appartenenza cristiana e un parallelo strato di cultura moderna. Egli aborre dalla riduzione del cristianesimo a sottocultura: «Dobbiamo fare in
modo che i due aspetti per quanto possibile
si compenetrino (...). L’essere cristiano è esso
stesso qualcosa di vivo, di moderno, che attraversa, formandola e plasmandola, tutta
la mia modernità e che quindi in certo senso veramente la abbraccia. È importante che
cerchiamo di vivere e di pensare il Cristianesimo in modo tale che assuma la modernità buona e giusta, e quindi al contempo si
allontani e si distingua da quella che sta diventando una contro-religione» (p. 87).
Questo atteggiamento positivo fa giustizia
di alcune annessioni integraliste e anti-moderniste delle posizioni pontificie. Il libro
sembra segnare l’abbandono di un rigido
Non possumus tipico della cultura cattolica
intransigente. Anche Benedetto XVI mostra
di apprezzare i bisogni dell’epoca e di stimare i tentativi che si elaborano per rinnovare i
rapporti tra Chiesa e società in una fase di
radicali trasformazioni cosmiche. Egli parla apertamente del dovere che incombe alla
Chiesa di impegnarsi per adattare le proprie
strutture storiche a queste esigenze e di contribuire alla grande alleanza necessaria per
affrontare le sfide del futuro umano e salvaguardare la Terra dalla autodistruzione.
Una dimostrazione di questo atteggiamen-
to accogliente si trova anche nel passo in
cui il papa dichiara il suo apprezzamento
per l’uso del metodo scientifico nell’esegesi
biblica, contrastando la tesi del suo interlocutore circa l’egemonia di «una pseudoscienza che ha operato in modo non cristiano, anticristiano fuorviando milioni di
persone»: «Non giudicherei così duramente» gli risponde il papa: «Il metodo storico
critico resterà sempre una dimensione dell’esegesi» (p. 236).
la crisi della Chiesa
e la prospettiva della riforma
La lettura che Papa Benedetto svolge della
crisi della Chiesa non cerca attenuanti apologetiche. L’indebolimento delle appartenenze tradizionali del regime di cristianità,
così come l’irruzione degli scandali nel clero, dai quali il papa ammette di essere stato
sorpreso per la loro dimensione inaspettata, sono recepiti come un bagno di realismo oltre che di umiltà.
Riunendo i vari riferimenti di un testo, per
sé abbastanza dispersivo, si vede emergere
che è stata precisamente la durezza terribile
della scoperta di «questa grossa nube di sporcizia» non solo ad aver aperto gli occhi al
papa, ma anche a orientarlo verso una più
chiara convinzione che un «grande lavacro»
è necessario alla Chiesa e che a questa purificazione, a questa catarsi deve accompagnarsi una più coraggiosa risoluzione a favore della riapertura di una fase di riforme.
Ciò a cui era arrivato nel 1959 Giovanni
XXIII con il cuore, decidendo di convocare
un Concilio, è arrivato anche Benedetto XVI
con la testa, dopo circa 50 anni. In entrambi i casi ha agito la percezione della crisi
storica della Chiesa. I riferimenti alla necessità di rinnovare le forme della fede, i
linguaggi del dogma, per renderli comprensibili ai contemporanei, riproducono essenzialmente la piattaforma dell’allocuzione
con cui Roncalli aveva aperto il Vaticano II
l’11 ottobre 1962. Anzi rasenta la citazione
letterale il richiamo alla distinzione fondativa di quel discorso fra la sostanza della
verità intangibile e le forme storiche letterarie che la rivestono e che è necessario
adattare, con la prudenza necessaria, perchè quelle verità siano intelligibili.
«Affrontare con rinnovate forze la sfida dell’annuncio del Vangelo al mondo – dice il papa
– impiegare tutte le nostre forze perché vi
giunga, fa parte dei compiti programmatici
che mi sono stati assegnati» (p. 185). Sebbene non escluda un altro Concilio, anche se
«per il momento non ne vedo le condizioni»,
Ratzinger torna in vari punti sulla prospetti-
ROCCA 1 GENNAIO 2011
volgerlo contro di lei» (p. 49).
45
va della ricerca di nuovi linguaggi: «Bisogna
sempre chiedersi cosa, di quello che un tempo valeva come essenzialmente cristiano, sia
stato in realtà solo espressione di una data
epoca. Cosa, dunque, è veramente essenziale? Cosa appartiene al Vangelo? Cosa cambia
col mutare dei tempi? Cosa non gli appartiene? Il punto decisivo in fin dei conti consiste
sempre nel fare la giusta distinzione» (p. 200).
Ancora (parlando del prevalente contesto
scientifico della cultura odierna): «In questo grande contesto la religiosità deve rigenerarsi e trovare così nuove forme espressive e di comprensione. L’uomo d’oggi non
capisce più immediatamente che il Sangue
di Cristo sulla Croce è stato versato in espiazione dei nostri peccati. Sono formule grandi e vere, e che tuttavia non trovano più posto nella nostra forma mentis e nella nostra
immagine del mondo, che devono essere per
così dire tradotte e comprese in modo nuovo. Dobbiamo nuovamente capire, ad esempio, che il concetto di male ha davvero bisogno di essere riconcepito. Non lo si può
mettere semplicemente da un canto o dimenticarlo. Deve essere riconcepito e trasformato dal suo interno» (p. 192).
Di qui la «necessità di una nuova evangelizzazione» per un’epoca «nella quale l’unico
Vangelo deve essere annunciato nella sua
razionalità grande ed immutata, ed insieme
in quella sua potenza che supera quella razionalità, in modo tale da giungere in modo
nuovo al nostro pensare e alla nostra comprensione» (p. 194). Tanto più che le coscienze attraverso i media subiscono le conseguenze di una crisi culturale da secolarismo,
che penetra in profondità: «Tanto più importante è perciò che la fede cattolica si presenti in modo nuovo e vivo e si mostri come
forza di unità, di solidarietà e di apertura
dello stesso Autore all’eterno di ciò che è nel tempo» (p. 164).
LUCE
DEL
MONDO
FEDI
E POTERI
nella società
globale
pp. 224 - i 25,00
ROCCA 1 GENNAIO 2011
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per un cristianesimo di scelta,
non di massa
Infine, questo libro propone o rilancia un
nucleo di prospettive di riforma strutturale
della Chiesa, in particolare sull’integrazione del primato con forme riequilibratici di
collegialità episcopale e sinodale, sulla revisione di una figura solo burocratica della
Chiesa, per farne rifiorire l’identità di fermento e di «opposizione a costellazioni potenti» ecc... Netta l’affermazione che il primato «non è una dittatura», ma si propone
come un organo di unità necessario e persino atteso dall’ecumene cristiana. «È sbagliato» dice il papa, considerarlo un «sovrano assoluto». Richiamando la precisa portata del dogma dell’infallibilità, Ratzinger
porta l’accento sui limiti della sua carica,
negando che il papa «possa di continuo produrre infallibilità» (p. 23).
Ancora una volta Joseph Ratzinger prende
partito per un cristianesimo di convinzione,
e ribadisce che la crisi cristiana particolarmente sensibile nelle aree dell’Occidente fa
presagire la prospettiva che il cristianesimo
non sarà un fenomeno di massa, anche se in
Asia e in Africa le comunità cristiane di fede
registrano vitalità e sviluppi rilevanti: «Del
clima culturale in senso lato di molti paesi
occidentali fa parte ancora la loro origine cristiana. Eppure ci orientiamo sempre più verso un Cristianesimo per scelta convinta. E da
questo dipende in che misura sarà efficace
un’impronta cristiana complessiva». Secondo il papa, «da un lato oggi è necessario rafforzare questo Cristianesimo che viene da una
scelta, ravvivarlo e diffonderlo (...), dall’altro
dobbiamo riconoscere che come cristiani non
siamo identici con la cultura e la nazione
come tali, ma che comunque abbiamo la forza di plasmarla e stabilire quei valori che la
società assume, anche se la maggioranza di
essa non è di cristiani credenti» (p. 223).
In conclusione, il volume si poneva come
una finestra sull’identità autentica di papa
Ratzinger, una identità che non era facilmente leggibile o si trovava anzi esposta a
fraintendimenti nelle rappresentazioni invalse. La sorpresa per alcuni aspetti inediti
di questa storia dall’interno dava anche la
misura di quanto la figura papale fosse stata travisata dalle mediazioni istituzionali se
non malservita dal suo entourage.
La mappa delle vie d’uscita dalla crisi cattolica non avrebbe potuto essere narrata in
modo più convincente. Alcuni commentatori si spingevano fino a parlare di una
«svolta di Ratzinger». Più prudentemente,
altri preferivano ricordare che le conversioni nell’ordine spirituale, per quanto generose, non si esauriscono nell’intimità. Si
coglieva nel libro l’assoluto abbandono del
papa alla volontà divina ma anche la sua
viva attenzione ai «Segni del Tempo». Fra
questi due poli si svolge anche per il papa il
dramma cristiano della responsabilità di
assumere le decisioni adeguate e certamente costose di soglio che si impongono nell’ora dello Spirito per il bene delle anime.
Solo le opzioni di governo possono infatti trasformare le belle intenzioni in fatti e operare
quella «svolta» anche istituzionale nella Chiesa cattolica che è ritenuta storicamente necessaria e indifferibile perché il suo Annuncio possa raggiungere meglio un mondo in
radicale trasformazione come l’attuale.
Giancarlo Zizola
NUOVA
ANTOLOGIA
Mario Luzi
quella luce che illumina la parola
P
l’ermetismo, atto di accusa
Poeta dell’ermetismo ‘spirituale’ fiorentino,
saggista e critico letterario,
dalla «prosa critica e d’invenzione» (Francesco Napoli) e dall’istinto irrefrenabile per il viaggio dantesco
(Giulio Ferroni), Luzi si era
laureato in Letteratura francese discutendo una tesi su
François Mauriac. Dopo l’insegnamento nei licei, la docenza universitaria nella sua
Firenze. L’esordio poetico è
del 1935 quando compare
La barca; e gli anni Trenta
sono per lui anni di grande
vivacità tra forti polemiche, la collaborazione con riviste d’avanguardia («Campo di
Marte», «Frontespizio»...) e la frequentazione di ambienti ermetici, dove stringe amicizia – tra gli altri – con i giovani Carlo Bo,
Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi.
Non mancano peraltro, nella sua ampia produzione, intense pagine autobiografiche e
volentieri, è evidente specie nell’ultimo periodo, la poesia si piega verso la prosa, adagiandosi su una narrazione che, proprio grazie all’aggiunta poetica che la arricchisce,
apre sempre nuovi orizzonti e di osservazione e di ‘speculazione’. Né possono essere trascurate le sue eleganti e ricche traduzioni,
specie dal francese di Rimbaud e Verlaine e
dall’inglese di Shakespeare e di Coleridge,
oltre che di altri classici. Accanto a questi
nomi, vanno citate anche le opere di Paul
Eluard e di Dino Campana e qualcosa (ma
non tutto) di Arturo Onofri come voci nella
voce di Mario Luzi, in un percorso assai originale di andate e di ritorni.
Nel ’40 e nel ’46 si segnalano, rispettivamente, Avvento notturno («Correranno le intense vie d’Oriente/ventilate fanciulle e dai mercati/salmastri guarderanno ilari il mondo./
Ma dove attingerò io la mia vita/ora che il
tremebondo amore è morto?») e Un brindisi. La scelta ermetica del primo Luzi, che poi
si spinge in realtà sino alle rime d’amore di
Quaderno gotico del 1947 è dettata da un’urgenza, quella di denunciare la falsa comunicazione in generale e le storture della retorica fascista in particolare. Ermetico è proprio
l’atto di accusa mosso nei confronti di chi,
per dare voce al proprio io, altera il circolo
dire-ascoltare-ridire e soffoca per questo il
tu, l’altro.
la poesia ha un che di divino
Ma la poesia e nello specifico la parola poetica ha in sé tutta la forza creatrice per riscattare l’uomo, tutti gli uomini, ogni giorno, ogni istante e in ogni angolo del mondo.
Incontriamo così la cifra profondamente
religiosa del lirismo luziano, dove peraltro
estetica e letteratura riescono a dialogare
mirabilmente con filosofia e teologia, ma
47
.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Giuseppe
Moscati
er un attimo sembra di sentirlo presente. Poi scompare. Poi di nuovo ti
si rifà vicino e lo senti compresente.
È la dote dei grandi poeti e dei grandi scrittori: esserci anche nell’assenza, squarciare all’improvviso quell’ènorme tendone del tempo e dello spazio che
ha sempre la stessa presunzione di poter
coprire tutta la realtà e che invece, ogni volta che una penna d’eccezione si pronuncia,
si scopre come una coperta troppo corta.
È Mario Luzi (Firenze 1914 – 2005) che torna a farsi vicino, a cinque anni dalla scomparsa. Molto è stato scritto su di lui e uno
dei passaggi che mi hanno colpito maggiormente è a firma di Adonis. Il quale, ricordando l’amico in poesia Mario prima ancora
che l’intellettuale Luzi, si chiede che cosa
aspetti ora al varco la poesia: essa, si risponde il poeta siriano, «non può spostare un
sasso ma nonostante ciò, come la religione,
riesce a dare un senso al mondo»; e Adonis
chiude poi con un augurio: «che possa essere sempre una nascita-inizio». Tutto, mi pare,
in perfetta sintonia con il sentire luziano.
Tra le raccolte di Luzi che più hanno fatto
scrivere ci sono Primizie del deserto (1952),
Onore del vero (’57) e Dal fondo delle campagne (’65), ma forse un posto a parte lo meritano Su fondamenti invisibili uscito nel ’71
e Per il battesimo dei nostri frammenti dell’’85.
NUOVA
ANTOLOGIA
anche con pittura, musica e altre arti.
Se da una parte i versi del poeta fiorentino
richiamano alcuni passaggi dell’agostinismo
più verace, anche attraverso un aprirsi a se
stesso nel cambiamento – e nell’evoluzione
di una poetica che proprio Luzi ha voluto
indicare come tripartibile in «Il giusto della
vita» (1936-’60), «Nell’opera del mondo» (’60’80) e «Frasi nella luce nascente» (dal 1980
in poi) –, dall’altra essi riescono a cogliere
anche l’essenza delle suggestioni di un maestro del colore come Simone Martini (Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994).
Il pittore senese, secondo l’acuta interpretazione di Luzi, ci appare come lucido conoscitore del cromatismo fino al punto da far
emergere anche il limite del colore: la sua
naturale dipendenza dalla luce. Che rende
ogni volta inedita l’era aurorale di ogni arte.
È la luce che fa il colore. È la luce che permette di carpire la bellezza, di conoscere a
fondo le relazioni, di assaporare la sensualità, di non perdersi la minima sfumatura dell’inquietudine che alimenta il nostro sentire. Come pure è la luce che fa la parola, dunque è la luce il vero componente materico
della poesia. Poesia che, innalzando l’uomo
al livello di una costante tensione verso il trascendente in virtù della scintilla primordiale che accomuna parola e vita, svela tutta la
sua natura divina. Ma lo fa sempre come
fosse un gioco a metà strada tra l’ultraterreno e il terreno, o meglio tra la natura divina
dell’umanità e la ‘terrestrità’ di quest’ultima,
fragilità e caducità comprese.
l’ascolto, il dialogo teatrale
e un felice paradosso
dello stesso Autore
Stefano Cazzato
Giuseppe Moscati
MAESTRI
DEL NOSTRO
TEMPO
pp. 240 - i 20,00
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48
Una delle tracce che maggiormente sono in
evidenza nella poetica luziana è senza dubbio quella dell’ascolto attento degli echi più
brillanti della lirica moderna e contemporanea (qui dietro c’è Mallarmé), accompagnata a una forte passione per l’elemento dialogico-teatrale (qui c’è Eliot) che porta con sé
l’impulso a scrivere anche versi per il teatro:
Pietra oscura, Il libro di Ipazia, Ceneri e ardori, Felicità turbate, Il fiore del dolore...
Ma il percorso poetico di questo autore – ha
ragione Massimo Raffaelli che invita a superare gli stereotipi del Luzi mero poeta ermetico e del Luzi poeta naturaliter cattolico
– si snoda anche attraverso tutta una serie
di ripensamenti che da un iniziale interesse
per la ricerca formale lo porta a ragionare
poeticamente sul tempo e sull’eterno, sulla
vita e sulla verità. Ecco le raccolte Nel magma (1963 e poi, in una versione accresciuta,
’66) e Al fuoco della controversia (’78): «Ridotto a me stesso?/Morto l’interlocutore?/O
morto io,/l’altro su di me/[...]/o no,/niente di
questo:/il silenzio raggiante/dell’amore pieno,/della piena incarnazione/anticipato da un
lampo? –/penso/se è pensare questo/e non
opera di sonno/nella pausa solare/del tumulto di adesso...». Ed ecco i già citati Su fondamenti invisibili e Per il battesimo dei nostri
frammenti, che presentano chiaramente esiti di estremo lirismo. Un lirismo, cioè, molto prossimo al silenzio mistico e che tuttavia, per via paradossale, invita ancora una
volta a dire e a scrivere oltre che, costantemente, ad ascoltare.
Giuseppe Moscati
per leggere Luzi
M. Luzi, Autoritratto, a cura di P.A. Mettel e S.
Verdino, Garzanti, Milano 2007.
Id., Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti,
Milano 2004.
Id., La barca, Le Balze Ed., Montepulciano (Si)
2005.
Id., La ferita nell’essere. Un itinerario antologico,
a cura di V. Nardoni, Passigli, Firenze 2004.
Id., Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime, a
cura di S. Verdino, Garzanti, Milano 2009.
Id., L’opera poetica, a cura di S. Verdino, Mondadori, Milano 1998.
Id., Opus florentinum, Passigli, Firenze 2000.
Id., Pace e guerra, a cura di R. Poggi, Maschietto
Editore, Firenze 2005.
Id., Parlate, a cura di S. Verdino, Interlinea Edizioni, Novara 2003.
Id., Tra poesia e vita. Antologia poetica, a cura di
M. Zulberti, U.C.T. Edizioni, Trento 2006.
Id., Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano, 1985.
Id., Poesie ritrovate, Garzanti, Milano 2003.
Id., Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1998.
Id., Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini,
Garzanti, Milano 1994.
su Luzi
Aa.Vv., Mario Luzi: gli inediti giovanili, «Poesia»,
n. 159 (marzo) 2002 e I novant’anni di Mario Luzi,
«Poesia», n. 187 (ottobre) 2004.
R. De Monticelli, Mario Luzi: novant’anni votati
a incidere parole nella luce regina, Il Manifesto 20
ottobre 2004.
G. Ferroni, Mario Luzi: il suo viaggio dantesco nel
Novecento, L’Unità 1 marzo 2005.
D. Iannaco, Luzi, un corpo a corpo con la storia,
Corriere della Sera, 28 febbraio 2006.
Aa.Vv., Quaderni del Centro Studi Mario Luzi «La
barca», dal 1999: cfr. in particolare l’VIII Quaderno, a cura di U. Bindi e N.A. Petreni, Pienza (Si)
2007.
F. Medici, Luzi oltre Leopardi. Dalla forma alla
conoscenza per ardore, Prefaz. di D.M. Pegorari
e Postfaz. di M. Beck, Stilo Editrice, Bari 2007.
Adonis, Caro Mario, la tua poesia è vita, Corriere
della Sera 27 febbraio 2010.
E. Ventura, Mario Luzi: la poesia in teatro, Bardi
Ed., Roma 2010.
&
V
VIZI
Filippo
Gentiloni
i si dimentica facilmente che fra
le virtù più importanti si dovrebbe annoverare l’ospitare. Non è
facile, non è di moda; soprattutto
è passato dall’etica alla politica.
Sembra riguardare non le persone ma i popoli, non le famiglie ma le migrazioni.
Eppure non era così. Nella grande tradizione umana e cristiana l’ospite era importante, essenziale. Addirittura sacro.
Per lui si apriva la porta e si preparava la
tavola. Non era più lo straniero: o, meglio, era un tipo diverso di straniero, un
tipo avvicinato, familiare, tale da modificare il rapporto, l’anagrafe. L’ospite non
era più lo straniero, tanto meno il nemico, l’avversario. Anche se non era ancora
il familiare.
L’ospite modificava la società, che non
risultava più composta di familiari e di
estranei. E non era determinata soltanto
dal denaro: ospitare non era un gesto
C
come è oggi, da persone ricche che hanno una camera in più. Si poteva ospitare
anche in una povera tenda da campo.
Nella quale l’ospite rimaneva tale, l’ospitalità non lo assorbiva. La società rimaneva ricca, differenziata, pluralista.
Una lezione preziosa anche per l’oggi,
quando le popolazioni si sono avvicinate, ma non omologate. Le differenze si
sono mantenute e forse sottolineate. Lingue, costumi, religioni, abitudini. Porte
aperte all’ospitalità ma anche alle chiusure. Tendenze che sottolineano l’identità a scapito dell’incontro ospitale. Come
se per essere veramente se stessi fosse necessario allontanare l’altro, negargli
l’ospitalità.
Oggi nel mondo gli spostamenti, le migrazioni sono all’ordine del giorno.
L’ospitalità è virtù difficile come molte
vicende confermano; basti pensare agli
zingari.
Bisogna cercare di rivalutarla.
49
ROCCA 1 GENNAIO 2011
VIRTÙ
AMORIZZARE IL MONDO
amicizia nostra speranza
Arturo
Paoli
ei primi tempi del mio sacerdozio
la Chiesa cattolica dovette affrontare una domanda imbarazzante:
declino o progresso della Chiesa? La
domanda era assai inquietante (1)
perché veniva dal cardinale arcivescovo di Parigi che acutamente coglieva
nella Chiesa segni di progresso e segni di
decadenza.
Oggi seguendo il metodo statistico ampiamente usato, con la pretesa di dare dei giudizi su diverse realtà che ci coinvolgono, la
nostra attenzione viene attirata a giudicare
avvenimenti che ci inquietano assai. Le statistiche che si riferiscono alla pastorale della Chiesa cattolica, o in generale alla evangelizzazione, inclinano nell’indicare un calo
piuttosto che una crescita nell’esercizio (solo
nelle pratiche?) della Chiesa cattolica.
N
santi spiritualisti e santi storici
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Mi ha messo sulla strada per capire le cause
profonde di questo allontanamento, una riflessione profonda sulla vita e sulle scelte del
beato Carlo de Foucauld, di cui abbiamo
celebrato il primo giorno di dicembre la
morte violenta che lo ha colpito mentre vegliava nella preghiera, nel suo eremo di Tamanrasset.
Fra i santi canonizzati esistono quelli che
definirei spiritualisti e altri che classificherei come storici. Questa classificazione non
è retorica ma a parer mio ha un’importanza
capitale e urgente per chiarire il disagio di
vivere nella società attuale. Per chiarire basta pensare a Gesù come Modello Unico definito così dal personaggio citato sopra. Non
c’è alcun dubbio che il centro della missione
di Gesù Figlio di Dio sia il Regno di Dio, cioè
la riconciliazione degli esseri umani fra loro
e l’armonia delle cose create prima dell’esistenza dell’uomo. La natura nella Lettera ai
Romani appare come in preda a un gemito
e a un’impazienza: «la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli
di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla
caducità non per suo volere ma per volere di
Colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù
della corruzione per entrare nella libertà
della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 19 – 22).
50
Su questo sfondo il giudizio sul tempo presente, la violenza che l’uomo manifesta nell’uso delle cose, l’individualismo generale
dei credenti, che è il tradimento della virtù centrale del cristiano, la carità, ci dà
delle piste per chiarire questo calo della
pratica religiosa.
Culturalmente il nostro tempo contiene la
denunzia della morte della filosofia, il che significa che l’attenzione del pensatore sposta
il suo centro dall’essere, e quindi dall’importanza dell’individuo, all’attenzione sui rapporti sociali e in generale sull’andamento
delle relazioni fra le persone e le cose. Spesso dimentichiamo che le forme della religiosità fanno parte dell’evoluzione storica della
società umana. Nel cristianesimo notiamo
due aspetti fondamentali: l’esistenza di Gesù
e il suo progetto di vita personale che deve
essere imitato da tutti i suoi seguaci che lo
considerano come Maestro. E questo aspetto caratteristico della nostra fede è in stato
di evoluzione permanente. Quindi la morte
della filosofia dell’essere ci porta all’attenzione sullo sviluppo delle relazioni umane e
sulla storia della ricchezza che assume relazioni in movimento permanente.
le relazioni
La nostra religiosità è essenzialmente dinamica perché piuttosto che la storia dell’individuo religioso mette al primo posto la storia delle relazioni fra gli uomini e con le cose.
E questo dà il primo posto ai santi che abbiamo definito storici, cioè a quelli che sono
attenti ai movimenti sociali piuttosto che alle
storie dell’anima. O per chiarire qualche
dubbio, direi alla storia dell’anima coinvolta nella grande Storia dell’universo.
Carlo de Foucauld ha ignorato per i primi anni
della sua vita ogni tipo di trascendenza, e dalla luce della conversione ha colto il passaggio
alla fede unicamente come seguimento di
Gesù. E per arrivare ad assumere l’esercizio
sacerdotale non è passato certamente attraverso profondi studi teologici. Semplicemente
ha tenuto presente le scelte che nel tempo ha
fatto il suo Maestro. E quindi il Regno di Dio
cioè la riconciliazione degli esseri umani possibile soltanto con la scelta dei poveri e praticabile attraverso l’esempio piuttosto che con
indifferenza religiosa
Ci stiamo avvicinando a identificare le cause che oggi mettono in crisi la pratica religiosa organizzata della Chiesa cattolica. I
segni dei tempi manifestano un allontanamento dall’amore che dovrebbe accomunare gli uomini indipendentemente dalle differenze politiche, religiose, e colmare le differenze nelle condizioni di vita che sono abissali. L’indifferenza religiosa non vuol dire
chiudere il passaggio alla grazia di Dio che
scende come luce nell’aridità dei cuori, colpiti dalle secche battute della tecnica, né insensibilità ai richiami di una religione eccessivamente attenta ai movimenti dell’anima invisibile e spesse volte assai distratta
rispetto alle esigenze del Regno di Dio. Credo che sia questa la causa fondamentale del
calo della pratica religiosa. Un’attenzione
eccessiva al progresso della scienza, mettendo le sue scoperte sotto il giudizio di verità
astratte, distoglie l’attenzione da questo fenomeno dell’impoverimento delle relazioni
di prossimità fra gli uomini.
L’allarme oggi ci richiama a difendere quella che Gesù ha definito amicizia: «non vi
chiamo più servi ma amici». L’amico è colui
che ci permette di raggiungere la regione del
cuore, attraverso quell’itinerario di giustizia,
di apertura ai veri valori umani e di rimozione di ogni forma di individualismo, basata su differenze di cultura, di religione e di
condizione sociale, che sempre di più divide
gli uomini e dissecca quella grande energia
che Dio ha infuso nella persona che si chiama amore e più genericamente amicizia.
Il quadro esistenziale della gioventù è molto
simile a quella descritta dall’ufficiale francese: «una tristezza che ho provato solo allora piombava su di me ogni sera quando
mi ritrovavo solo nel mio appartamento, mi
ammutoliva e mi opprimeva durante le cosiddette feste; io le organizzavo ma venuta
l’ora le trascorrevo in un mutismo, un disgusto, una noia smisurati» (3). Carlo de
Foucauld rievoca retrospettivamente la sua
esistenza sboccata nella luce. L’alternativa a
questa noia doveva essere necessariamente
un’alternativa religiosa? Ma il tempo prossimo che segue questo tempo di vita intensa
nell’accogliere i piaceri immediati che si presentano alla sua portata, sono quelli dell’esplorazione del Marocco che lo portano
ad un trionfo. Gli studi fatti durante questa
esplorazione rischiosa gli meritano un apprezzamento generale e la speranza di una
carriera abbastanza invidiabile. Ma questa
noia e questo disgusto nel tempo del suo ritorno a Parigi si rendono più inquietanti e
bisognosi di una soluzione. Proprio allora
in mezzo alle approvazioni generali egli annota: «non ho mai sentito una simile tristezza, un malessere, un’inquietudine come in
quel periodo. Un amore vero potrà colmarlo
e spezzare la solitudine del suo cuore? Una
donna, della quale non si sa nulla, riveste
una certa importanza per alcuni mesi della
sua vita» (4).
Ma un pensiero sempre più acuto lo tormenta e aspetta da lui una soluzione. La gioventù attuale non potrà certamente aprire un
tempo di rinascita generale della religiosità.
Solo passando attraverso l’amicizia sarà possibile superare questa visione negativa dell’esistenza a cui sicuramente arriveranno la
frequenza nelle discoteche e altri piaceri che
cercano di risolvere una crisi che fatalmente si aprirà nei loro cuori. E questa è la nostra speranza.
dello stesso Autore
ANCORA CERCATE
ANCORA
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Arturo Paoli per i lettori di Rocca
Note
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(1) Card. Suhard, Décline ou issue de l’Eglise?
(2) A. Chatelard, Charles de Foucauld, Edizioni
Qiqajon, Magnano (Bi) 2002, p. 34.
(3) Op. cit., p. 21.
(4) Op. cit., p. 34.
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ROCCA 1 GENNAIO 2011
le parole. «Come sei buono mio Dio! ... Mi
sono spinto lontano da Te, dalla tua casa, sono
andato in un paese lontano, il paese delle cose
profane, delle creature, dell’incredulità, dell’indifferenza, delle passioni terrene. Vi sono
rimasto a lungo... Non appena credetti che
c’era un Dio compresi di non poter fare altro
che vivere solo per Lui» (2).
Le scelte che direttamente influiscono sul disegno Regno di Dio, come cammino verso la
fraternità universale e quindi superamento
degli ostacoli che la rendono sempre più difficile e sempre più lontana, sono quelle che
accompagnano la sua vita. Il suo passato più
vicino lo ha messo a contatto con le popolazioni musulmane. Lui non si sente mandato
come missionario comune, ma coinvolto nel
disegno universale del Cristo e così trascorre
tutta la sua vita di convertito e di sacerdote in
quella parte del mondo che non è della sua
religione perché appartenente alla fede musulmana. Ma il Regno di Dio è universale, deve
abbracciare la pacificazione delle diverse religioni del mondo. È questo il suo unico desiderio. E si oppone a tutti i tipi di nazionalismo che dividono gli uomini. È notevole che
un ragazzo educato al nazionalismo più esasperato dal nonno, diventato militare e mandato per colonizzare una delle nazioni più
evolute dell’Africa, l’Algeria, passi così radicalmente a una visione universale della situazione politica del mondo.
TEOLOGIA
l’offensiva
culturale e filosofica
dell’ateismo
Carlo
Molari
Q
uello di Dio non è più un problema esclusivamente teologico, ma
è tornato ad essere anche un problema filosofico e culturale. I
molti libri che escono in questi
mesi sul tema mostrano che la
ragione del molto interesse sta nel
nuovo orizzonte culturale e nelle caratteristiche inedite che il dibattito su Dio ha acquisito negli ultimi tempi. Questo spiegherebbe anche «lo spettacolare ritorno di Dio
in filosofia», di cui Jean Grondin (filosofo
canadese docente a Montréal) esamina «le
manifestazioni e i motivi» nella rivista Concilium (Atei: di quale Dio?, n. 4/2010, pp. 113123).
Due caratteristiche emergono dai dibattiti
attuali: la spiegazione ‘naturalistica’ di tutti i fenomeni compresi quelli religiosi e l’insistenza con cui gli atei attribuiscono ai credenti l’onere della prova. Può essere utile
riflettere su questi aspetti del dibattito.
naturalismo
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Mentre alcuni atei considerano la fede in
Dio come un pericolo per l’umanità perché
sarebbe fonte di violenza e costituirebbe un
impedimento al dialogo, altri invece, sottolineano gli aspetti positivi della fede in Dio,
in quanto espressione di alcune esigenze
fondamentali dell’esistenza. Il programma
‘naturalistico’ intende, appunto, spiegare
tutti i fenomeni della vita escludendo ogni
ricorso a cause trascendenti o ‘soprannaturali’. Anche il contrasto che sorse tra Charles Darwin e A. R. Wallace dopo un lungo
periodo di completa sintonia, riguardava
precisamente questo punto, come appare
con chiarezza dall’epistolario tradotto recentemente in italiano (MicroMega, 7/2010,
pp. 104-117). Wallace, infatti, dopo alcuni
esperimenti condotti in occasione di sedute spiritiche, si era convinto dell’esistenza
di esseri trascendenti a cui attribuiva influs52
si sui processi della vita e sulla storia umana. Darwin, al contrario, restava fedele alla
interpretazione della evoluzione della vita
sulla terra per selezione naturale, senza alcun ricorso a nessun’altra causa esterna.
Un passo ulteriore del programma ‘naturalistico’ consiste nel considerare la stessa religione come un fenomeno del processo evolutivo. «I programmi di naturalizzazione [infatti] riducono di norma la religione a sottoprodotto (di gran lunga superfluo) della evoluzione» (K. Müller, Concilium, p. 125). La
fede in Dio, tradotta in simboli religiosi, sarebbe quindi l’espressione di un’esigenza
naturale, che, almeno in alcune fasi dell’evoluzione umana, ha costituito un beneficio e
in certi ambienti continuerà ad avere funzioni positive ancora per molto tempo. In
questa prospettiva «Credere in Dio» può essere ritenuto «una emozione umana conveniente» come sostiene in prospettiva atea, il
biochimico di Oxford Christopher Francis
Higgins (Concilium, cit., pp. 133-142). Dio
corrisponderebbe a un simbolo funzionale
all’evoluzione vitale. «Credere in Dio… ha
dovuto fornire un forte vantaggio competitivo alla nostra specie in particolare durante
i primi tempi dell’evoluzione umana, come
appare molto verosimile nella istituzione di
comunità funzionanti. È un fatto che quasi
ogni società, antica e moderna, ha costruito
un ‘Dio’ o degli ‘Dei’ per soddisfare le proprie esigenze» (C. Higgins, ib. p. 135). La credenza in Dio è servita a spiegare l’origine dell’universo, il valore della legge, l’esercizio dell’autorità di alcuni su altri ecc. «Positivamente ciò ha senza dubbio aiutato a generare
comunità di individui che collaboravano insieme, necessarie per prosperare in un mondo feroce.
Il concetto di Dio è stato usato per regolare
costumi e cultura» (C. Higgins, ib., p. 135).
«Credere nello stesso Dio può bensì aver fornito il collante necessario a tribù e comunità per crescere a livello di culture e civiltà e
per diffondersi nel mondo» (C. Higgins, ib.,
p. 136). «Altri sono poi in grado di trovare
nel concetto di Dio un’autentica consolazione che infonde speranza, un’illusione di certezza» (C. Higgins, ib., p. 137), perché «fornisce un sistema di riferimento... che aiuta
gli individui ad affrontare l’incertezza o che
dà un senso di appartenenza ad una comunità che la pensa allo stesso modo, generando rituali e tradizioni che sono d’aiuto nel
porre ordine all’esistenza umana» (Id., p.
141). «Se per questi individui la ‘fede’ funziona, questa è una prerogativa loro... Tuttavia ciò non significa che il loro ‘Dio’ abbia
realtà al di fuori della loro mente e della loro
coscienza» (C. Higgins, ib., p. 137). Il simbo-
a chi le prove?
L’ateo riconosce l’impossibilità di dimostrare che Dio non esiste dato che «ovviamente
non si possono fornire prove di qualcosa di
negativo» ( C. Higgins, ib., p. 137). Fino a
non molto tempo fa l’esistenza di Dio era un
dato quasi scontato. Chi negava Dio doveva
portare le ragioni della propria convinzione. Oggi, al contrario, «per credere in Dio
dobbiamo avere delle buone motivazioni. Ma
se queste non vengono fornite non c’è nessuna ragione sufficiente per credere in Dio e
l’unica posizione ragionevole è quella di ateo
negativo o agnostico» (A. Flew, Esiste Dio.
Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alpha & Omega, Roma, p. 71).
Flew nel 1985, ancora non credente era convinto che la presunzione della verità stesse
dalla parte degli atei e sosteneva che l’onere della prova spettasse ai credenti, in base
al «principio procedurale che seleziona la
parte sulla quale doveva ricadere il peso
della prova» (Flew, ib., p. 72) come nei tribunali inglesi. Anche dopo aver raggiunto
la credenza in Dio Flew ha continuato a sostenere che «l’argomentazione a favore della
presunzione di ateismo può essere accettata dai teisti in modo coerente» (ib., p. 73).
Egli quindi considera l’ateismo «un punto
di partenza metodologico, non una conclusione ontologica» (Id., ib.).
Anche l’ateo Peter Atkins sostiene che «l’obbligo di fornire una prova deve riguardare
quanti credono a una spiegazione più elaborata dell’esistente piuttosto che quanti ritengono che, col tempo, e alla luce dei suoi
attuali successi, la scienza tirerà fuori una
spiegazione semplice del fatto che l’universo con i suoi attributi e processi, che tutti
gli aspetti del comportamento umano compresa la credenza che esista un Dio, e che
l’emersione stessa dell’universo sono tutti
il prodotto naturale di eventi causalmente
correlati. Sono loro a dover dimostrare che
la loro ipotesi più elaborata sia essenziale.
Finora nulla in ambito scientifico ha richiesto l’intrusione di un qualsivoglia sentore
di Dio» (P. Atkins, MicroMega, citato, p. 15).
Mentre quindi nel passato i credenti ritenevano «che fosse naturale per gli esseri
umani credere in Dio a causa dell’ordine,
dell’organizzazione e delle leggi degli eventi naturali» ed anzi alcuni giungevano a dire
che «l’idea di Dio è quasi innata» (Flew si
riferisce al filosofo tomista Ralph McInerny,), oggi è diffusa invece la convinzione che
l’ateismo sia la posizione più semplice e
immediata (Flew, o. c. p. 73).
La richiesta dell’ateo è giusta, ma non può
esimerlo dal prendere in considerazione gli
argomenti dei credenti senza pretendere che
questi sappiano dire che cosa è Dio. Lo storico Frederick C. Copleston osservava già nel
1976 a Flew, che esigeva una precisa identificazione di Dio da parte del credente: «non
credo che a ragione, si possa pretendere dalla mente di essere in grado di identificare
Dio come una farfalla in una vetrinetta. Dio
diventa una realtà per la mente umana, nel
movimento personale della trascendenza. In
questo Dio appare come l’obiettivo invisibile del movimento stesso. È nel contesto di
questo movimento personale dello spirito
umano che Dio diventa una realtà per l’uomo» (citato da Flew, o. c., p. 70).
Tale richiamo alla esperienza della trascendenza è importante. Potrebbe essere tradotto in questo modo: la persona umana vivendo la fede in Dio scopre che nella sua
vita è in azione una forza arcana, che può
far fiorire forme nuove di umanità, espressioni inedite di misericordia, forme superiori di fraternità, progetti migliori di giustizia. La fede in Dio si mostra feconda nella storia. L’ateo dovrebbe indicare quale sia
la ragione per cui la fede in Dio ha effetti
positivi nella crescita della persona e nella
organizzazione della società. Non può semplicemente rinviare a future scoperte della
scienza come fa Peter Higgins come quando a proposito della coscienza scrive: «a
tempo debito saremo quasi certamente in
grado di spiegare più precisamente in termini fisici come si è generata la coscienza, in
modo analogo a come Newton spiegò in
termini semplici i movimenti all’apparenza ‘miracolosi’ delle stelle e dei pianeti che
ora noi sappiamo applicare ovunque nell’universo» (P. Higgins, a. c., p. 141).
In merito credo quindi sia legittima la domanda rivolta ora da Flew ai suoi «precedenti colleghi atei»: «Cosa dovrebbe accadere, o cosa sarebbe dovuto accadere, perché
ci sia, a parer vostro, almeno una ragione
per prendere in considerazione l’esistenza di
una Mente superiore?» (A. Flew, o. c., p. 99).
dello stesso Autore
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
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53
ROCCA 1 GENNAIO 2011
lo funzionale che è Dio, quindi, «non possiede realtà al di fuori della coscienza umana»
(C. Higgins, ib., p. 141).
La natura stessa, infatti, suggerisce o impone di credere per superare più facilmente le difficoltà della vita come sostengono,
pure in prospettiva atea, V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, in Nati per credere (Codice ed. 2008). Il fatto quindi, che la fede in
Dio abbia funzione positiva non potrebbe
essere addotto come argomento a favore
dell’esistenza di Dio.
INTRODUZIONE ALLA LETTURA DELLA BIBBIA
una esegesi di scienza e cultura
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Rosanna
Virgili
54
T
ra i metodi più diffusi dell’esegesi
sincronica è il metodo retorico.
Si tratta di un metodo che viene
inteso in due modi.
Un primo modo è quello che si ispira ai principî della retorica classica
greco-latina: esso si è sviluppato, soprattutto, negli Stati Uniti ed è stato sinora utilizzato maggiormente sui testi del Nuovo Testamento (1); il secondo si ispira ai principî
della linguistica moderna e si interessa ai
procedimenti di composizione biblici (2).
Nella accezione classica la retorica è l’arte
del persuadere e, quindi, la tecnica utilizzata per costruire un discorso persuasivo, secondo la teoria di Aristotele che per primo
ne formulò una teoria (3). Negli studi biblici, oltre alla retorica aristotelica, è stata utilizzata anche quella latina, specialmente relativa a Quintiliano, grande teorico della retorica nel mondo romano.
Il secondo tipo di analisi retorica che, comunemente, viene chiamata «biblica», viene applicato anche ai testi del Nuovo Testamento, ma specialmente a quelli del Primo
(4). Esso segue, infatti, i criteri della lingua
ebraica e del mondo letterario semitico,
mentre la retorica classica – essendo greca –
si applica più naturalmente ai libri biblici di
lingua greca.
All’interno degli studi della nuova critica letteraria è nata, poi, la narratologia. Questo
approccio, di grande suggestione, si occupa
esclusivamente dei testi narrativi ed ha ottenuto un grande consenso nel mondo degli
studi biblici, tanto che i suoi criteri sono diventati assai diffusi. Cresciuta soprattutto in
ambito anglofono (5) l’analisi narrativa ha
trovato voce autorevole in studiosi come J.L.
Ska (6), R. Alter (7) e J.P. Fokkelmann (8).
Essa studia le forme del racconto: l’intreccio (il plot); l’interruzione dello stesso (il gap),
i personaggi e il punto di vista del narratore.
Ma l’aspetto più importante è il coinvolgimento del lettore nel mondo del racconto.
Esso viene voluto ed ottenuto dal narratore
stesso attraverso l’uso delle prolessi, delle
anticipazioni o delle riflessioni e considerazioni che il narratore fa e che solo il lettore
condivide.
Nella analisi narrativa si parla di lettore reale, così come di autore reale, ma anche di
autore implicito e lettore implicito. Quest’ul-
timo si chiama anche lettore potenziale, ‘ideale’ di un racconto in quanto l’autore implicito lo ritiene in grado di comprendere quel
racconto.
Il lettore reale e l’autore reale sono fuori del
testo quindi possono essere sconosciuti, ma
l’autore e il lettore implicito sono dentro il
testo e, almeno per l’analisi narratologica,
sono più importanti dei precedenti.
Circa il metodo strutturalista, infine, chiamato anche ‘semiotico’, esso trova il suo fondatore nel padre della linguistica moderna Ferdinand de Saussurre (9). La semiotica si occupa di analizzare «la grammatica» del racconto, le strutture e le connessioni logicosemantiche che si attivano in un testo. L’interesse principale è per la relazione che lega
le parti di un testo tra di loro, le «strutture»
globali in cui i diversi elementi di un testo si
interconnettono.
Il limite di questo metodo è un tecnicismo
troppo complesso, ciò nonostante esso ha
goduto di un certo interesse presso gli studiosi. Gli autori cui si debbono i contributi
più significativi sono A.J. Greimas (10) e R.
Barthes (11) .
l’importanza del canone
Riteniamo che lo studio sincronico dei testi
biblici debba essere la prima tappa dell’analisi esegetica. È evidente, infatti, che il testo
finale sia stato composto con estrema ricercatezza e con il chiaro intento di dare un
messaggio finale preciso ai lettori «ideali»
dello stesso. Per questa ragione lo studio
accurato delle forme e dei relativi contenuti
merita la più grande attenzione. Inoltre, proprio dagli studi sincronici emerge la qualità
letteraria e la bellezza degli scritti biblici. Tale
che essa dà ragione a quanto già espresso da
Nietzsche, il quale valutava i testi profetici
come più pregiati di quelli della tragedia greca. Un giudizio che emerge dall’apprezzamento non solo per il valore formale, ma anche
per la forza espressiva e le passioni coinvolte.
Una precisa volontà teologica ha ispirato non
solo i redattori finali di ogni singolo testo
biblico, ma anche coloro che hanno composto i libri nell’elenco canonico. Ci sono studi
importanti sui criteri canonici della composizione e del posizionamento dei testi al suo
interno che risponde, per l’appunto, a dei
l’importanza dei redattori finali
Lo sviluppo che l’esegesi sincronica comporta rispetto a quella diacronica sta principalmente nella valorizzazione del testo finale.
Vale a dire che l’approccio sincronico non
potrà più considerare la «versione originaria» di un testo come quella da isolare e su
cui basarsi – emendando il testo da tutto ciò
che sarebbe posteriore ed aggiunto – per darne una lettura autentica. Definire, all’interno
di un testo, quali parti siano ‘originali’ – quindi autentiche e da prendere in considerazione – è un’operazione che la sincronia reputa
eterodossa, dato che il testo finale è un prodotto assolutamente e intenzionalmente artificiale, segno del modo tipicamente biblico
di rileggere, che si manifesta anche attraverso il meccanismo della ripetizione.
La sincronia ha indicato una via di uscita
all’empasse in cui era caduta l’esegesi storica, irretita nelle contraddizioni, negli errori,
nelle ripetizioni, che apparivano come autentiche brutture e indici di rozzezza letteraria, quando non facevano apparire i libri
come semplici contenitori di diversi fogli di
appunti slegati tra loro, alcuni di prima e
altri di seconda mano.
Molti dei rilievi fatti da Odifreddi, restano
condizionati al metodo diacronico ed ai suoi
vicoli ciechi; egli parla, infatti, scandalizzato, delle «innumerevoli ripetizioni in tutto
l’Antico Testamento» o considera le pagine
di Genesi 1-11: «contraddittorie logicamente,
false storicamente (...) brutte letterariamente
e raffazzonate stilisticamente», piuttosto che
essere «un’opera corretta, consistente, vera,
intelligente, giusta, bella, lineare» (13). Evidentemente ha ragione, ma dovrebbe provare a
seguire con più cura ed attenzione il percorso esegetico e le sue nuove soluzioni.
valutazioni
Come i metodi storico-critici, anche i metodi sincronici sono condizionati dalle correnti
filosofiche, culturali e letterarie dell’epoca in
cui si manifestano. L’ermeneutica e la linguistica influiscono sul modo di dare autorevolezza al testo, per quello che è. Non si
procede più alle espunzioni, né si accetta più
un criterio genetico e selettivo della materia
letteraria, ma tutto viene considerato di diritto sulla vasta superficie (sincronica) del
Libro. Decisivo è stato l’influsso della filosofia ermeneutica che ha visto studiosi come
Heidegger e Gadamer ispirare i criteri esegetici che hanno permesso di focalizzare l’importanza del soggetto che legge (oggi) la Bibbia e di quanto questi vi metta di suo nel
comprenderla e nell’interpretarla. Un autore di spicco in questo ambito è, inoltre, Paul
Ricoeur, il quale ha condotto numerosi studi proprio sul testo biblico elaborando preziosi criteri di metodo per la lettura e l’interpretazione biblica (14).
Un certo pensiero relativista ha indotto, poi,
ad uno studio centrato sulle diverse forme e
attestazioni testuali, ciò che potremmo più
semplicemente definire con l’ammissione
della «pluralità» del testo biblico e quindi dei
vari gruppi che ne sarebbero all’origine, fino
a rilevare persino la soggettività di chi avrebbe impresso la fisionomia finale e canonica
dell’intera collezione e dei motivi teologici, catechetici o ‘politici’ che l’avrebbero causato.
Le scienze del linguaggio, fortemente incrementate in tutto il Novecento, hanno influito sulla ricerca linguistica biblica e moltissimo sui metodi sincronici quali la retorica
del discorso, lo strutturalismo, la lessicografia e la scienza della traduzione in generale.
Quanto alla temperie culturale che si è andata affermando in tutto il Novecento con
la sua esaltazione della scienza e della tecnica, anch’essa non ha mancato di toccare il
mondo dell’esegesi biblica: una vastissima
conoscenza scientifica dei testi antichi relativi alle scritture, viene frequentata da studiosi soprattutto di area statunitense; mentre la ricostruzione dei testi raggiunge livelli
di tecnicismo analitico, filologico e sintattico tali, da rischiare di soffocare l’anima stessa della Parola.
Oltre a ciò i rivolgimenti sociali, politici, culturali del secolo scorso hanno ulteriormente plasmato l’esegesi: le scienze umane, come
la psicologia e la pedagogia, le scienze sociali, le scienze politiche vengono ad investire intensamente l’interpretazione della Scrittura (il femminismo, la teologia della liberazione, ecc.).
Il bilancio che facciamo sin qui sui metodi
di lettura e conoscenza della Bibbia, sconfessa del tutto l’accusa di oscurantismo, visto che si tratta di metodi che non solo non
ostacolano l’istruzione, lo sviluppo e l’evoluzione culturale, ma sono, da tutto ciò, affatto permeati ed ispirati, tanto da diventarne,
a loro volta, dei promotori.
Rosanna Virgili
Note
(1) Tra gli studi più utili
per conoscere questa
analisi applicata al Pentateuco cf.: J.W. Watts
(1999); D.J.A. Clines,
D.M. Gunn, A.J. Hauser
(edd.) (1982); D. Patrick,
A. Scult. (1990).
(2) Cfr. R. Meynet, Lire la
Bible. Un exposé pour
comprendere. Un essai
pour réfléchir, Paris 1996.
(3) Per il modo in cui viene utilizzata la teoria di
Aristotele sui testi biblici
cf.: C. Pererlmam, L. Olbrechts-Tyteca (2001).
(4) A fondamento sono
gli studi di R. Lowth
(1753), J. Jebb (1820) e T.
Boys (1824).
(5) Si vedano gli studi di
A. Berlin (1983); M. Sternberg (1985).
(6) Cfr. «Our Fathers
Have Told Us». Introduction to the Analysis of
Hebrew Narratives (AnBib 13), Roma 1990.
Molti gli esempi dal Pentateuco.
(7) Cfr. L’arte della narrativa biblica, Brescia 1990.
Analisi sui testi del Pentateuco specialmente su
Genesi.
(8) Cfr. Narrative Art in
Genesis, Sheffield 1991.
(9) Lo strutturalismo trova le sue radici nel formalismo russo di Vladimir
Propp. Per questo tipo di
analisi applicata anche a
testi del Pentateuco si
veda: R. Lack (1978); T.J.
Prewitt (1990); S. Jackson (2000).
(10) Cfr. Del senso I, Milano 1974; Del senso II.
Narrativa, modalità, passioni, Milano 1985.
(11) Cfr. La lutte avec l’ange: anlyse textuelle de
Genèse 32.23-33,in F. Bovon (ed.), Analyse structurale et exégèse biblique,
Neauchâtel 1971, pp. 2739.
(12) Cfr. B.S. Childs, Old
Testament Theology in a
Canonical Context, London 1985. Trad. it.: Teologia dell’Antico Testamento in un contesto canonico, Cinisello Balsamo 1989.
(13) P. Odifreddi, Perché
non possiamo, pp. 35; 2829.
(14) Cfr. P. Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Brescia
1977; Ermeneutica biblica.
Linguaggio e simbolo nelle
parole di Gesù, Brescia
1978; La metafora viva.
Dalla retorica alla poetica:
per un linguaggio della Rivelazione, Milano 1981.
55
ROCCA 1 GENNAIO 2011
criteri teologici. Solo per far un nome ormai
classico in questo tipo di studi citiamo B.
Childs nel suo libro di Teologia biblica (12).
Detto questo va ricordato che il testo finale
non deve assumere in nessun caso un valore
assoluto, per non correre il rischio di sfiorare un nuovo tipo di fondamentalismo. L’indagine diacronica della Bibbia resta imprescindibile per dare intelligenza, spessore,
relatività storica, indispensabile alla comprensione obiettiva dei testi.
FATTI E SEGNI
pregi e difetti
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Enrico
Peyretti
A
biti – Vergognarsi di vestire abiti
vecchi è sciocchezza. È sentirsi
consistere nel proprio abito, come
un manichino delle vetrine.
Madre – Una mamma protegge il
bimbo dal morire, ma sa, senza pensarci,
che il suo bimbo un giorno lontano morirà.
Se quel giorno arriva ora, la notte piomba
sul nuovo giorno, soffoca l’alba, è spada nel
cuore della madre: «Stabat mater...». Dove
la mortalità infantile era alta, e dove lo è
ancora, le madri devono stringere il cuore
per il dovere di sopravvivere. Ma, per lo più,
almeno qui da noi, il loro cuore si divide
tra il sollievo di vedere il bimbo crescere
sano e bello, e, dall’altra parte, la pena inconsapevole di non essere là, quel giorno
lontano, per rispondere all’invocazione ultima di tutti i morenti, che – sempre, tutti –
chiamano la mamma. Lei è la vita. Quell’invocazione estrema è uguale alla prima
del bimbo, espressa in gesti e aneliti, da subito, ben prima di diventare parola. I grandi momenti si congiungono. Una mamma,
senza pensarci, soffre di dover morire prima e abbandonare il figlio, anche se saprà
da tempo camminare da solo, e soprattutto
ne è straziata quando il figlio cresce di età
con qualche incapacità più o meno grave.
Eppure sa anche che in qualche modo lei ci
sarà, quando lui la chiamerà. Chi dà la vita
non la toglie più (ma accade anche che una
madre tolga la vita al figlio, quando il mondo le cade addosso sconvolgendola). Così
vivrà lei, fino a che vive lui, e oltre, entrambi. I momenti rivelatori della vita sono tutti
momenti di nascita. La nascita rivela che la
vita è sorgente. Nascere è sapere che altri ci
fa nascere. Far nascere è sapere che la vita
passa oltre noi, oltre il tempo che ci è dato.
Un padre sa queste stesse cose, ma in parole più che col cuore, e assai più confusamente di una madre.
Mascalzoni – Se tutto il mondo fosse fatto
di mascalzoni ma tu non fossi completamente mascalzone, il mondo non sarebbe
fatto di mascalzoni. Le statistiche, anche
quelle elettorali, non conoscono la verità.
Persone – I difetti di una persona sono spesso il rovescio della medaglia dei suoi pre-
56
gi. Se vuoi questi, accetta quelli.
Vecchi – Invecchiando, la vista morale non
cala, si acuisce: si vedono di più il bene e il
male. Il male, sia micro che macro, ferisce
e offende come mai prima. Non l’avevi mai
visto così profondo e vasto. Inocula disperazione, se non trovi difesa. Il bene non è
più in superficie, come poteva sembrarti
una volta, ma nel cuore vivo del mondo,
sotto ogni ingombro di male o di semplice
peso, e ti manda ogni tanto, dal suo
nascondimento, qualche raggio nuovo, sufficiente a piangere di gioia e nutrirti per
altre giornate di cammino. Questi due poli
orientano tutto. Le cose di mezzo, la cosiddetta concretezza, lasciale alle età di mezzo. Le ringrazi per il loro lavoro, ma ti accorgi anche che – per lo più – guardano corto, credono di fare le cose più importanti, a
volte non sanno del tutto dove vanno, li vedi
sballottati tra forze polari che non riconoscono bene, mentre brillano come «esperti» nelle cose mediane. Politici, economisti: tu li vedi brancolare con finta sicurezza. Se lo dici ti canzonano come svanito,
ma in questa tua nuova «in-fanzia» (un parlare diminuito, più imbarazzato e concentrato) sei più al margine, non comprendi
tutte le novità sull’onda, ma ora vedi meglio tutto dall’alto e da dentro. Cerchi di
aggiornarti, di seguire le analisi, ma le trovi sempre un passo indietro a ciò che intuisci. Niente è veramente nuovo. Sempre e
ovunque, si ripropone lo stesso bivio. Ti diranno che pretendi di sapere che cosa è bene
e che cosa è male, e che queste sono categorie astratte: è un argomento-mannaia che
vince sempre. Allora parli sempre di meno
(quando non perdi la pazienza...). In realtà,
lo sappiamo tutti dove è bene e dove è male,
lo sanno anche loro, ma ci pensano meno,
e hanno meno materiale di conoscenza e di
riflessione per distinguerli nelle zone di realtà dove si confondono. La vicinanza alle
cose li disorienta. Tutti saprebbero riconoscere le due direzioni (è bene ciò che allontana dal male), cioè che cosa risponde alla
vita e che cosa la tradisce, se rallentassero
la corsa e ascoltassero la sapienza del tempo. A te lo insegna il tempo, senza tuo merito.
❑
CINEMA
N
oi credevamo, che
prende spunto e titolo dal romanzo di
Anna Banti uscito nel 1967,
si articola in quattro movimenti, se vogliamo usare
un termine musicale autorizzato dalla colonna sonora, che fa ampio uso di entusiasmanti pagine verdiane ma anche di Rossini e
Bellini. I primi tre portano
il nome di Angelo, Domenico e Salvatore, giovani
patrioti mazziniani di origine campana e di differente estrazione sociale. L’ultimo, che con amarezza fa riferimento all’alba della nazione, trasferisce di nuovo
la scena al sud martoriato
dalla repressione piemontese e racconta gli orrori
dello scontro fratricida di
Aspromonte.
Quello di Martone è dunque un film di complessa
e tormentata coralità che,
pur mettendo in scena alcuni personaggi dei quali
si parla nei libri di storia
(Mazzini, la Belgioioso,
Poerio, Castromediano,
tutti non a caso dei perdenti), lascia il primo piano ai
comprimari, «gente comune» che seppe offrire alla
causa il proprio contributo di entusiasmo e sangue.
Ma il regista e il suo co-sceneggiatore Gianfranco De
Cataldo, pur coscienti che
il movimento mazziniano
abbia rappresentato il punto più alto di elaborazione
politica ed etica in ambito
risorgimentale, scelgono
piuttosto di porre l’accento
sulle sue contraddizioni.
Nucleo forte di Noi credevamo è dunque costituito,
anche, dall’analisi dei metodi della cospirazione settaria e della psicologia dei
suoi adepti, oltre che dal
problema della tollerabilità etica dell’omicidio – del
regicidio, e della strage, talvolta – come strumento di
lotta politica. Qui Martone
si appoggia a quell’insostituibile archetipo letterario
rappresentato da I Demoni
(alla vicenda personale di
Noi credevamo
Dostoevskij sembra d’altronde rimandare anche
l’impressionante scena della fucilazione simulata, della quale il grande scrittore
russo fu vittima dopo l’arresto per attività sovversive nel 1849), tanto approssimativi, foschi e in qualche
modo caricaturali nel loro
narcisismo ai limiti della
psicopatologia appaiono gli
«eroi» – o perlomeno alcuni di essi – a prescindere
dalla necessità vitale dell’utopia come motore della
Storia che li anima.
Proprio per questo, in
un’opera nella quale i cosiddetti grandi eventi sono
collocati sullo sfondo, talvolta semplicemente nominati dai protagonisti, ampio spazio si dedica all’episodio dell’attentato di Felice Orsini a Napoleone III,
esempio fra i più tragici di
un estremismo in cui convergono diagnosi politiche
frettolose, volontà di autoaffermazione eroica attraverso il gesto e frustrazioni
individuali lungamente sopite. Fatte salve le differenze di contesto, un po’ come
nel terrorismo delle Br, per
intenderci.
Se, come è ben presto chiaro, tutto il film appare calibrato sul doloroso rapporto passato-presente, è nel
movimento conclusivo che
si ha un’accelerazione verso l’attualità. Tornato nel
natìo Cilento, Domenico
ormai cinquantenne e disincantato per gli esiti della propria militanza, trova
una terra messa a ferro e
fuoco dai bersaglieri che
trattano i contadini come le
truppe dell’esercito delle
Due Sicilie nell’incipit; scopre che il notaio, come in
un romanzo di Balzac, è
diventato il padrone del
paese sfruttando la nuova
situazione politica; si imbatte in Saverio, figlio di
Salvatore, che ha disertato
per unirsi a Garibaldi convinto che il padre, in realtà
assassinato da Angelo, sia
stato vittima della repressione borbonica. Intanto, la
collina si imbruttisce di
strutture in cemento armato mai terminate tra le quali si consuma l’avventura
garibaldina. Tutto deve
cambiare perché niente
cambi, sentenziava Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, arrivava a constatare ben prima De Roberto
nel fluviale corso del suo
capolavoro, I Viceré. Oggi il
napoletano Martone non
può che essere ancora più
drastico, certificando, nella simmetria tra le sequenze d’apertura e della con-
clusione, la continuità di
un potere che usa idealità
generose come falsa coscienza per il proprio immutabile scopo. Se con la
confusione di Saverio allude forse alla piaga nazionale della falsificazione della
memoria storica, trascinando nel passato l’immagine decontestualizzata di
quelle rovine ribadisce con
elegante sfrontatezza come
questo sia «un film sull’Italia che noi viviamo e sulle
sue radici».
E, nell’epilogo «metapolitico», mentre Domenico sale
le scale di un Parlamento
nel quale rimbombano le
parole vuote di Crispi, forse il più emblematico interprete della vocazione nazionale al trasformismo, l’assunto si fa invettiva, dito e
pistola puntati contro lo
svuotamento delle istanze
di un processo storico dal
quale sarebbe stato lecito
attendersi un salto di civiltà se non una vera e propria palingenesi.
Noi credevamo. E, nonostante tutto, crediamo ancora, sembra dirci il regista con questa affresco,
sontuoso anche per il livello dei contributi tecnici,
tra i quali non possiamo
non segnalare il magnifico
nitore della fotografia del
ticinese Renato Berta; vasto ma non magniloquente, colto ma non didattico,
coinvolgente ma senza accensioni melodrammatiche; più che rosselliniano
o viscontiano, dunque, memore della lezione del Blasetti di 1860 per l’idea – in
questo caso ovviamente
non conciliatoria – della
complessità del Risorgimento, del Vancini di
Bronte per quella della necessità di andare contro la
storia ufficiale. Perché credere non significa esaltare
imbalsamando ed eludendo. Vuol dire al contrario
analizzare criticamente, e
trarne gli auspici, per aprire altre strade alla speranza.
❑
57
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ROCCA 1 GENNAIO 2011
Paolo Vecchi
RF&TV
TEATRO
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Una pedana di umanità
ROCCA 1 GENNAIO 2011
M
olti anni fa, il
grande Vittorio
De Sica, ospite in
una puntata di Lascia o
raddoppia dell’allor giovane Mike Bongiorno, manifestò il suo entusiasmo per
quello storico telequiz definendolo «una pedana di
umanità».
Quella insolita ma efficace espressione mi è tornata alla mente in un locale
di Sesto San Giovanni, sulla strada che porta a Monza, dove tutti i venerdì, sabato e domenica chi voglia,
mangiando o anche solo
bevendo, può partecipare
al cosiddetto Karaòke. È –
come si sa – una sorta di
gioco/spettacolo dove chi
vuole – intonato o stonato
che sia – può cantare al
microfono una canzone a
suo piacere, accompagnato da una base musicale.
Quando cantano gli altri,
può ballare.
Fin qui tutto potrebbe apparire scontato. Senonché
questa rassegna vocale non
competitiva è gestita da
Antonio Popolillo, in arte
Tony Popys (vincitore di
un recente concorso della
canzone dialettale). Il quale – conducendo questa
sua settimanale attività da
otto anni – si è creato una
sorta di clientela fissa che
forse è più appropriato
chiamare compagnia stabile di avanspettacolo.
«Noi non siamo cantanti»
mi ripetono tutti. «Il fatto
è che ci piace cantare e
stiamo bene insieme».
Il repertorio è tutto – o
quasi – Anni Sessanta: da
Paul Anka a Nino D’Angelo.
Tony Popys li chiama con
rigoroso ordine come fa il
professore con gli alunni
alla fine del trimestre scolastico. C’è chi si lascia
scappare qualche stecca
58
che fa pensare al pick-up
di una volta quando scivolava sul disco. Qualcun altro non stacca lo sguardo
atterrito dal testo sul display e dal microfono. Infine – e sono i più – ci sono
quelli che cantano con bella vocalità e senso del ritmo. Sicché gli avventori
occasionali credono che i
più bravi cantino in playback. E la voce invece è la
loro: del signore ben messo, con i capelli bianchi e
l’orecchino, che modula
My way: della signora tutta in nero che scandisce
New York, New York in
modo travolgente.
Girano in mezzo ai fans i
due napoletani genuini,
occhi socchiusi e gola spiegata. «Siamo lavoratori
noialtri! Qui ci sfoghiamo
di tutti i problemi quotidiani». Molti fanno lo stesso mestiere. Autisti. Infermiere. Guardie giurate.
Operaie di grandi fabbriche oggi dismesse.
«Il sabato sera è tutta la
mia vita» dice con convinzione una signora di una
certa età, mentre un’altra
volteggia e ancheggia sia
da sola sia in coppia, come
una periferica Carrà.
C’è chi, triste triste, aspetta il proprio turno e –
quando arriva – fa schiattare l’ugola. Un invalido
s’appoggia alla stampella.
Ma davanti al microfono,
la butta come un miracolato. Gli altri ne accompagnano il canto dischiudendo le labbra come in chiesa. Due giovani africani
conversano tra loro.
Un contributo, quello di
Tony Popys, all’integrazione: tra Nord e Sud, italiani
ed extracomunitari, uomini e donne, giovani e anziani. Una pedana socioculturale di umanità...
❑
Improvvido spot
I
l clima prenatalizio «si
fa» sovente, in Tv, ricorrendo alla Disney
Factory: ai classici, in particolare, del grande Walt che
pensò alle origini le sue animazioni per il passatempo
degli adulti e si vide consegnato al mercato come produttore archetipo dell’intrattenimento infantile.
Ed all’infanzia ha pensato
per una linea di serate dello
scorso dicembre la programmazione di RaiUno
proponendo la sequenza disneyana Cenerentola, Biancaneve, La bella addormentata. Serate definite «per tutti» appartengono, per altro,
alla tradizione antica della
Rai, per stagioni particolari
dell’anno.
Ma quella Rai è tanto remota e quel tentativo di ritorno
così alieno dalla temperie
televisiva attuale che l’incidente di percorso s’è manifestato nella prima serata di
programmazione: il 7 dicembre scorso, dopo sessanta minuti dall’inizio del film
e dopo che già uno spazio
pubblicitario era stato inserito alla mezz’ora, sugli
schermi, alle 22.31, è comparso Bruno Vespa.
È appena passata la scena
animata della zucca che torna zucca da carrozza che era
e dei cavalli bianchi che tornan topini antropomorfi; le
stelline del fine incantesimo
si sono dissolte e l’altra scarpina è nelle mani di Cenerentola non facendo più
paio con quella perduta.
Un’intersigla ad immagine
fissa legata al film dissolve
sul conduttore di Porta a
porta, in impeccabile blu.
Testo: «Stiamo vedendo Cenerentola, un film che ha
fatto sognare generazioni di
bambini. Bene. Proprio ai
bambini, ai loro genitori,
alle nostre famiglie è dedicata la riflessione di questa
sera. Possiamo difendere i
nostri figli? Chi mai potrebbe immaginare che una
bambina di 13 anni scompare in settecento metri di
strada e che un’altra di 15
finisce in un garage (così
sembra almeno) e non ne
esce? Faremo una riflessione sugli ultimi aggiornamenti di questi drammatici
casi di Bergamo e di Avetrana. A più tardi».
Sul grande schermo di fondo/studio le immagini accostate delle due ragazze e la
scritta «Yara e Sarah. Come
difendere i nostri figli?».
Al di là del mancato uso dei
congiuntivi in una frase con
ipotesi retorica retta da un
condizionale, la domanda –
non meno retorica – suona:
ma era proprio il caso? È
pur vero che in fasce quotidiane e diurne di ampia
esposizione infantile alla Tv,
i temi e casi come questi vengono trattati tra gossip, processi mediatici, ricerca dell’angoscia, della lacrima e
del grido, ma perché lanciare questo quesito in forma
di interrogativo minaccioso
di fronte ad una platea composta (anche) dal 40% dei
bambini italiani dai 4 ai 14
anni convocati allo schermo
da Cenerentola in prima serata?
È pur vero che dai primi
anni Novanta le piccolissime generazioni sono segnate da un disincanto difensivo nei confronti della Tv e
da un automatismo di discernimento sugli eventi comunicati per il tramite dei
media e che anche su questi
avvenimenti potrebbero risultare in qualche modo
anestetizzate (ciò che non è
completamente un bene...).
E tuttavia questo accostarsi
ad un’infanzia che sta scorrendo la trama di un film
come Cenerentola per mormorarle – pro audience –
parole di paura è stato scorretto. Così l’intenzione di ripescare un po’ del meglio
dalla tv del passato è affondata nella peggior mediocrità della Tv del presente. ❑
FOTOGRAFIA
ARTE
Mariano Apa
Alberto Pellegrino
O
ramai molti anni fa
da Jaca Book uscì
un libretto dal titolo «Sorbi tordi e nitidezze. Arte in Italia dopo la
metafisica» in cui Zeno
Birolli raccoglieva alcuni
suoi interventi critici, di
cui uno aveva significativamente titolo «L.» che sta
per «Licini».
Ad Osvaldo Licini ha dedicato moltissimo Birolli,
a partire con la importante raccolta di scritti dell’artista marchigiano – Monte Vidon Corrado, 1894 /
1958 – voluta con partecipata passione dal figlio
Paolo Licini, insieme a
Baratta e Bartoli: «Errante erotico eretico» da Feltrinelli nel 1974 – ed erano una manciata di anni
che aveva curato gli scritti di Boccioni – da cui il
suo «Racconto critico» è
del 1983, nella indimenticata collana «EinaudiLetteratura» – e che si preparava con Francesco Bartoli a curarne la mostra a
Dortmund, dopo che nel
1968 – l’anno della monografia di Marchiori «I cieli segreti» – con Aldo Passoni curò l’antologica con
207 opere alla Galleria
d’Arte Moderna di Torino,
in cui ritorna oggi con la
regìa di Eccher per una
bellissima mostra in cui si
riuniscono le storie dei
grandi collezionisti e delle famiglie di Licini, da Livorno ad Ascoli Piceno, da
Milano a Torino – catalogo Electa –.
Questa è una mostra importante come ogni mostra di Osvaldo Licini, ma
lo è anche per la specificità del proprio «punto e a
capo» nell’itinerario criti-
co di cui vive questo artista, da posizionarsi tra i
capisaldi del XX secolo
europeo, come così l’amico d’Accademia, Giorgio
Morandi – di cui alla Fondazione Ferrero di Alba
fino a Gennaio, per la cura
di Maria Cristina Bandera, occupa una intrigante
mostra sul paesaggio, di
cui si interessarono anni
fa monograficamente Briganti e la Coen, con un catalogo-libro dell’editore
Allemandi: e con cui espose nella aurorale mostra
secessionista all’Hotel Baglioni di Bologna nel 1913
e quindi su proposta di
Marchiori, a Bologna nel
postumo 1976 alla galleria
Due Torri –.
Il figlio di Renato Birolli
– Verona 1905 / Milano
1959 – è il protagonista di
una metodologia critica
che ci ha dato una rivisitazione del milanese
«Mito nel Novecento» e
dei francesi «Realismi», e
che ci ha aiutato non poco
a entrare nella cosmica
interiorità di Licini. Dalla
montaliana salsedine delle cinqueterre, ci ricorda
gli intrecci delle colline
leopardiane di Licini,
come se mare e colli si dispongono per riconfermare di ciascuno la propria
libertà dell’eremo. Questa
mostra torinese deve essere vista come una riproposta della qualificazione
linguistica del primordialismo liciniano, che tra la
Como di Celiberti e la Recanati di Leopardi, invera
l’avventura dei «segni/sogni», e del colore che pulsa come magnetico campo di un cuore trafitto.
❑
Come documentare il nostro tempo
I
l giornalista David Elliot
Cohen ha curato il volume intitolato Quello
che conta (Edizioni Nuovi
Mondi, Modena, 2009), dove
importanti fotografi e giornalisti hanno voluto mostrare, attraverso le immagini e
le parole, le questioni essenziali che è necessario affrontare e risolvere nel nostro
tempo. Qualunque mezzo di
comunicazione possiede
una propria forza espressiva e la fotografia, per la sua
capacità di catturare il «momento decisivo», può congelare ogni istante per offrirlo
come spunto di analisi e di
riflessione allo sguardo dell’uomo. Il più antico dei
mass media, a partire dalla
metà dell’Ottocento, ha prodotto una serie di immagini
fotografiche messe al servizio di cause sociali e politiche per produrre cambiamenti postivi nella società,
portando alla luce verità scomode, difendendo importanti cause sociali, promuovendo un dibattito nell’opinione pubblica. Per circa un
secolo e mezzo un schiera di
fotoreporter ha documentato guerre e sciagure naturali, disastri ambientali e
drammatiche forme di sfruttamento della povertà, per
cui il curatore del volume si
è legittimamente chiesto se
fosse ancora possibile, in
questo primo decennio del
Duemila, proporre alcuni
reportage con immagini capaci di «incendiare» gli uomini del nostro tempo come
è accaduto per i grandi fotoreportage del passato. Il libro raccoglie pertanto 18 reportage di importanti fotografi, i quali hanno realizzato delle immagini che non
sempre sono le loro migliori fotografie, ma che hanno
in ogni caso il pregio di affrontare e documentare i
grandi problemi del mo-
mento: il riscaldamento globale e le minacce all’ambiente, la fame e la sete, l’Aids e le altre malattie infettive, il terrorismo e l’inquinamento nucleare, le guerre e
i genocidi, l’ingiusta distribuzione della ricchezza e lo
sfrenato consumismo che
caratterizza il mondo occidentale, ma che sta inquinando anche i Paesi emergenti. A questa campagna di
promozione civile hanno
partecipato affermati giornalisti, due prestigiose agenzie come la Magnum e l’Associated Press, affermati fotoreporter come Stephen
Voss, Gerd Ludwing, Marcus Belasdale, Shehzad Noorami, Ed Kashi, Stephanie
Sinclai, Sebastião Salgado
(sua la foto pubblicata),
Tom Stoddard, Maggie Hallaham, James Nachtwey, il
quale ha sintetizzato il pensiero di tutti i colleghi dicendo: «Non voglio mostrare la
guerra in generale, né la Storia con la S maiuscola, ma
piuttosto la tragedia delle
singole persone». Questi reportages vogliono assolvere
un preciso compito: contribuire a coinvolgere gli animi per cercare di riparare il
mondo anche facendo piccole cose, nella convinzione
che nessun cambiamento
sociale deve apparire impossibile, soprattutto quando sembra inevitabile. ❑
59
.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
L.
MUSICA
SITI INTERNET
Enrico Romani
Giovanni Ruggeri
Il rock degli anni zero
ROCCA 1 GENNAIO 2011
L
a prima decade del
nuovo secolo nell’ambito della musica
popolare (e non solo) non è
stata particolarmente esaltante: per certi versi, similmente agli anni ottanta del
novecento, è stata foriera di
molti buoni dischi, ma di
nessun fenomeno nuovo lontanamente paragonabile al
grunge di Nirvana e Pearl
Jam, o all’ottimo e diversificato brit-pop di Radiohead,
Oasis e Blur, negli anni ’90.
Inoltre, in questi ultimi due,
tre anni, la crisi economica
si è fatta sentire notevolmente anche nel settore discografico, già messo a dura prova
dal download «internettiano». Prova ne è il fatto che
nel settore della musica di facile consumo, quella direttamente prodotta dalle quattro
grandi case discografiche
superstiti (Sony, Warner
Bros., Universal e Virgin),
quella che va in classifica,
quella che è indefinibile per
quanti sono gli ingredienti
usati per comporla, siamo
fermi al boom di Rihanna,
anno 2008. Facciamo inoltre
molta fatica a trovare buona
musica negli ultimi due anni,
segno che i badget si sono
ridotti al lumicino. Ci sono
state però tre grandi reunion,
anche se concentrate in pochi concerti, quelle di Cream,
Led Zeppelin e Police, (gli
Zeppelin
con
Jason
Bonham, figlio del defunto
batterista originario John
Bonham, ai tamburi), e vista
la caratura dei personaggi
coinvolti, le tre band hanno
dato vita a performance straordinarie. E se i Coldplay finora sono stati i vincitori del
pop targato Duemila, anche
se i soli Parachutes (2000) e
A Rush Of Blood To The Head
(2002) sono dischi degni di
nota, due soli nomi femminili, uno inglese e l’altro americano, ci sembrano le voci
migliori tra la moltitudine
60
impressionante di cantanti
sfornate in questo decennio:
quelli di Amy Winehouse
con i suoi Frank (2003) e
Back To Black (2005), e di
Norah Jones con Come Away
With Me (2002) e Feels Like
Home (2004), due cantanti
che amano dare una impronta in qualche modo jazz
alle loro canzoni. Il decennio
zero degli anni duemila sembrava riservare un gran futuro al cosiddetto nu-metal,
a gruppi come Limp Bizkit
e Linkin Park, che hanno invece subito entusiasmato e
celermente annoiato, mentre altri, dai White Stripes,
agli Strokes, dai Libertines,
al punk dei Green Day, non
lo hanno proprio creato, almeno in noi, grande entusiasmo. Spiace dirlo ma c’è gente come gli Stones (e secondo noi anche gli U2) che
sembra essere arrivata alla
frutta ormai, e gente come
lo stesso Bruce Spingsteen
che deve rinnovare la sua
line up e il modo stesso di
proporsi, mentre i Muse e i
System Of A Down (capolavori assoluti rispettivamente i loro Origin Of Symmetry
(2001) e Mezmerize (2005),
sono i nuovi gruppi dal vivo
più coinvolgenti e di indubbia bravura. E mentre i giovani continuano a frequentare le discoteche anche in
tempi di crisi, c’è da segnalare la loro tendenza, se devono proprio andare a un
concerto rock, a scegliere i
grandi nomi. Questo rinnovato interesse giovanile, unito alla crisi del disco che porta giocoforza anche i vecchi
artisti a concentrarsi sull’aspetto live delle loro carriere, ha generato perle come
il live firmato WinwoodClapton del 2008 al Madison
Square Garden di New York,
o quell’altra autentica gemma che è Live In London
(2009) di Leonard Cohen.
❑
Mutazioni antropologiche
S
ul tema di Internet e
delle nuove tecnologie c’è tutta una pubblicistica, anche nel mondo
della carta stampata tradizionale, che segue e dà conto, passo passo, delle varie
innovazioni e tendenze
emergenti. Uno degli strumenti a nostro parere più
intelligenti e meritevoli di
segnalazione – per il mix
felice di aspetti tecnologici,
economici, ma anche sociali
e culturali che si premura di
considerare – è l’inserto settimanale «Nova» de Il Sole
24 Ore, appuntamento sempre interessante per chi vuol
capire qualcosa di più sui
processi in atto nel mondo
delle nuove tecnologie. Ebbene, in un numero di qualche tempo fa, proprio
«Nova» ha dedicato un forum alle implicazioni che
Internet ha sulle condizioni culturali che fanno funzionare l’intelligenza collettiva, riprendendo ed estendendo un dibattito promosso dalla Fondazione Edge
(www.edge.org). In quanto
strumento dell’intelligenza
collettiva e della cultura, si
fa notare, Internet genera
un contesto nuovo per lo
sviluppo dei tratti antropologici sui quali si fondano le
società. Creandosi una dimensione relazionale e informativa completamente
inedita, percezioni e atteggiamenti di base sono sollecitati a ridefinirsi e ristrutturarsi, con conseguenze sul
piano antropologico oggi
difficilmente prevedibili.
Il tema, come è facile osservare, è di enorme portata e
di gran lunga al di là dei nostri mezzi e spazio. Troviamo però interessante riportare alcune citazioni letterali dei partecipanti a questo
forum, a mo’ di efficaci spunti per ulteriori riflessioni.
«Internet aumenta il ricorso a scorciatoie nei nostri
ragionamenti, per il sommarsi di due fattori. Da un
lato la rete fa crescere a livelli mai visti prima il numero di informazioni e stimoli a cui siamo sottoposti.
Dall’altro, la nostra capacità di concentrarci mentalmente su un certo numero
di informazioni (memoria a
breve termine) rimane radicalmente limitata. Lo studio
dei fattori umani nell’interazione con i computer ha
mostrato che, in condizioni
di sovraccarico cognitivo, le
persone fanno maggior ricorso a scorciatoie euristiche per gestire in modo efficiente la complessità. (...)
Chi prospererà nell’ecosistema della rete sarà chi ha
sviluppato strategie di controllo dall’attenzione che
permettono di immergersi a
piacimento nel flusso informativo senza rimanerne travolti: discriminando, categorizzando, filtrando, stabilendo priorità, spendendo le
proprie risorse attenzionali
su ciò che è veramente importante» (Luca Chittaro).
«L’abbondanza rovina più
cose che la carenza. Quest’ultima implica che le cose
di valore acquistino maggior valore, un cambiamento concettualmente facile.
L’abbondanza invece porta
a togliere valore alle cose in
precedenza rilevanti» (Clay
Shirky). «Le nuove tecnologie danno vita a nuove percezioni. La realtà è un processo creato dall’uomo. Creiamo degli strumenti e poi
modelliamo noi stessi a loro
immagine» (John Brockman). «La rete non ha la capacità di elaborazione della
mente. Semmai assomiglia
a una memoria, ma compilata da un folle, che ha mischiato pietre preziose e sassi senza valore» (Paolo Legrenzi).
❑
Il nuovo libro di Raniero La
Valle «Paradiso e libertà»
riassume e sviluppa in modo
articolato due ideali fondamentali della sua esperienza di credente e di uomo
pubblico: il coinvolgimento
attivo nella politica come
impegno per la libertà, distintivo essenziale della persona umana, e la tensione
consapevole verso il traguardo del cammino comune: la
divinizzazione dell’uomo o
l’assunzione del «nome scritto nei cieli» (cfr. Lc. 10,20), il
nome di figli di Dio.
I due aspetti sono collegati
perché l’identità di figli di
Dio è scritta nel cielo ma lo
si costruisce solo sulla terra
camminando insieme ai fratelli e vivendo consapevolmente la responsabilità per
gli altri. «Non si salva l’anima se non si grida per gli
oppressi». Ora «la politica
altro non è che il consapevole vivere degli uomini insieme» (p. 164).
Il titolo «Paradiso e libertà»
rievoca una curiosa terminologia della Bologna medioevale. Un decreto del
1257, che riscattava le 5856
persone ancora soggette a
qualche forma di schiavitù
venne chiamato «Libro Paradiso», «perché la conquista della libertà era percepita come un ritorno al Paradiso; il Paradiso è la libertà;
data da Dio a lei si ritorna»
(p. 116). Il termine ‘Paradiso’, come è noto, può designare sia la condizione originaria dell’uomo secondo il
mito della perfezione iniziale (Paradiso terrestre), sia il
traguardo al quale ogni
uomo è chiamato: «l’identità definitiva dei figli di Dio»,
secondo le parole di Gesù
sulla croce «Oggi sarai con
me in Paradiso» (Lc. 23, 43).
Tra i due poli dell’inizio e
della fine si intreccia l’esistenza storica dell’uomo che
può svolgersi in un paradiso anticipato. Perché «ogni
volta che sono stati liberati
dei prigionieri, che è stata
abolita la schiavitù, che
sono state chiuse le Inquisizioni, che sono stati cacciati gli invasori, che sono stati arrestati gli usurai, che
sono stati sconfitti i mafio-
Raniero La Valle
Paradiso e libertà
Ponte alle Grazie, Milano 2010, pp. 240
si, che hanno acquistato diritti gli operai, che sono uscite le donne dalle mani di
padri e padroni, che si sono
poste garanzie per i delitti e
per le pene, e ogni volta che
si sono scritte le Costituzioni, e si è dato mano ad attuarle, e le si sono difese
contro i loro eversori, e
quando il costituzionalismo
ha fatto concepire anche altre, ulteriori conquiste, allora si è stabilito un pezzo di
paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si accorciano le distanze tra i due
paradisi» (p. 29).
L’ideale quando è vissuto inserisce una tensione nella storia e affida molte responsabilità agli uomini. «Forse un
giorno questo paradiso, senza manicomi, senza carceri,
senza ghetti, senza esclusioni, sarà possibile, qui in questo mondo. Forse le istituzioni, tutte le istituzioni, potranno assicurare la libertà, invece che toglierla… per costruire piuttosto un nuovo ordine di rapporti umani e vivere
in un libero Paradiso in libera terra» (p. 120).
Il sottotitolo, «L’uomo quel
Dio peccatore», riassume
l’antropologia soggiacente
alle scelte storiche e alle riflessioni proposte. L’uomo è
l’unica creatura fatta «a immagine e a somiglianza di
Dio» (cfr. Gen. 1,26 s) e lo è
in virtù della libertà. La libertà dell’uomo, tuttavia,
implica la possibilità di peccare, a differenza della libertà di Dio «che non può dissociarsi dalla propria immagine, non può non somigliare a se stesso, non può sdivinizzarsi» (p. 121). «Come la
divinità è ciò che distingue
l’uomo dagli animali, così il
peccato è ciò che distingue
l’uomo dagli animali e da
Dio; e se Dio è l’essere divino che non pecca, l’uomo è
l’essere divino che, peccando, viene meno alla sua divinità» (p. 121). È possibile
però uscire dal peccato per
entrare nell’ambito della gra-
zia riconciliatrice. Questo è
un aspetto essenziale del
«buon annuncio» che è il
Vangelo di Gesù: il peccato
può essere redento, l’amore
di Dio si esprime come misericordia per i peccatori.
Dio entra nella terra sterminata del peccato, «vi entra
per farsi uomo, l’uomo ne
esce per farsi Dio» (p. 122).
Tutto ciò è possibile non in
virtù della buona volontà
dell’uomo o delle sue attuali capacità, bensì perché
«nell’uomo c’è una misteriosa energia divina; misteriosa non perché sia magica,
ma perché è divina. E se Dio
è amore… questa energia è
l’amore. Come la libertà è
nell’uomo l’immagine di
Dio, così l’amore è Dio che
ama attraverso l’uomo; di
questo amore l’uomo è il
vaso e il ministro, ne è la trasparenza e il filtro» (p. 175).
D’altra parte lo stesso Concilio nel «Decreto sulle religioni non cristiane» aveva
parlato «di quella forza arcana che è presente al corso
delle cose e agli avvenimenti della vita umana» (Nostra
Aetate n. 2).
Questa forza creatrice nell’uomo è giunta a fiorire
come amore e conduce
avanti la storia. Per questo:
«l’antidoto al male e al peccato non è mai il Dio degli
eserciti, del giudizio, della
condanna, del potere, ma
solo e sempre» (p. 186) il Dio
dell’Amore misericordioso
rivelato da Gesù. È la forza
che consente di portare il
male, di attraversare la sofferenza espressioni provvisorie della condizione imperfetta delle creature, per
il momento ineliminabile.
«C’è troppo dolore nel mondo, per pensare che esso non
trovi né consolazione né
fine» (p. 200).
Questa stessa forza dell’amore spinge il mondo verso il compimento, perché il
Bene che la suscita e la muove è già esistente in forma
piena e può far fiorire mo-
dalità inedite di fraternità e
di giustizia. Questa tensione verso il Bene è essenziale alla prospettiva cristiana,
ma è anche una leva di sconvolgimenti storici per cui «il
cristianesimo che perda
l’escatologia perde la sua
anima, ma il mondo perde
la rivoluzione» (p. 200).
La missione della Chiesa in
questa prospettiva è proclamare e difendere l’eccelsa
dignità della persona umana; diffondere dinamiche di
attesa, suscitare la tensione
verso il compimento attraverso le sue anticipazioni.
La Chiesa, in quanto struttura, non è l’unico ambito
di salvezza nel mondo, ma
è lo strumento perché tutta
l’umanità diventi popolo di
Dio. «Questo popolo di Dio,
che sta nella Chiesa visibile
ma non finisce nella Chiesa
visibile, che sta in tutti i luoghi e in tutti i punti della storia, che è il soggetto in cui
si gioca la salvezza, esistenzialmente, sociologicamente, politicamente è l’umanità tutta intera. È lei il corpo
di cui Cristo è il capo: come
dice la Mystici corporis, Cristo morendo in croce offrì
al Padre ‘se stesso quale
capo di tutto il genere umano’ (p. 217).
Ciò che importa, in ogni
caso, è mantenere alta la
tensione verso il compimento, alimentare la speranza,
perché solo questa consente di camminare anche
quando tutto intorno è tenebroso. La città degli uomini può acquisire caratteristiche che anticipano e
fanno presagire la città di
Dio «e l’uomo, se è divino
può trovarsi a suo agio in
ambedue le città» (p. 29).
Questi messaggi riassumono la intensa e ampia riflessione di Raniero La Valle,
che ha indicato i criteri con
cui riconoscere nella storia
umana la sottile trama della salvezza offerta da Dio a
tutti gli uomini. La conclusione è molto chiara: «il
mondo non è da buttare. È
il mondo di Dio, abitato da
creature chiamate ad essere come Dei. E i demoni
sempre infesti e sconfitti»
(p. 220).
Carlo Molari
61
ROCCA 1 GENNAIO 2011
LIBRI
organizzazioni
in primo
piano
Carlo Timio
Ocse
ROCCA 1 GENNAIO 2011
L
’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico
(Ocse) è un’organizzazione
internazionale di studi economici costituita da paesi
industrializzati che condividono un sistema di governo
democratico e una economia di mercato. Nacque nel
1948 con la denominazione
Organizzazione europea
per la cooperazione economica (Oece) cui aderirono,
in un primo momento, diciotto stati membri e successivamente anche la Turchia. Lo scopo primario dell’Organizzazione era la volontà di avviare un nuovo
modello di cooperazione
economica tra le nazioni
europee appena uscite dalla seconda guerra mondiale e di utilizzare al meglio
gli aiuti statunitensi (Piano
Marshall) per la ricostruzione postbellica dell’Europa.
La cooperazione economica tra gli stati membri si basava essenzialmente sulla liberalizzazione degli scambi
commerciali e sui movimenti di capitali. Agli inizi
degli anni Sessanta cominciò però a prendere forma
l’idea che un vero processo
di integrazione europea poteva avvenire soltanto successivamente ad una revisione dell’Oece fondata su
una vera e propria unione
economica tra stati aderenti. Ma tale ipotesi risultò
impossibile in prima battuta, a causa della nascita nel
1957 delle Comunità europee (Cee, Euratom che facevano seguito alla fondazione della Ceca nel 1951)
ad opera dell’Italia, Paesi
Bassi, Belgio, Lussemburgo, Francia e Germania
Ovest. Tuttavia nel dicembre 1961, con la firma a Pa62
rigi di una nuova convenzione, prese forma l’Ocse che
andò a sostituire l’Oece. Oggi
sono trentatre i paesi membri. Oltre a quelli che già facevano parte dell’Oece (Austria, Belgio, Danimarca,
Francia, Grecia, Irlanda,
Islanda, Italia, Lussemburgo,
Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Repubblica Federale
Tedesca, Spagna, Svezia,
Svizzera, Turchia, Regno
Unito) i paesi che vi aderirono successivamente furono il
Canada, gli Stati Uniti, il
Giappone, la Finlandia, l’Australia, la Nuova Zelanda, il
Messico, la Repubblica Ceca,
l’Ungheria, la Polonia, la Corea del sud, la Slovacchia, il
Cile, la Slovenia e Israele.
Mentre l’Estonia, è stata ufficialmente invitata ad entrare nell’organizzazione ma
deve ancora formalizzare la
sua adesione. La Federazione russa è invece ancora formalmente in via di adesione.
L’Ocse mantiene anche rapporti con oltre settanta paesi
non membri, paesi in via di
sviluppo e con altre organizzazioni internazionali, che
possono partecipare come
osservatori ai lavori o a programmi specifici. Nel maggio
2007 è stato lanciato il programma Enhanced Engagement rivolto a cinque grandi
economie emergenti quali
Brasile, Cina, India, Indonesia e Sud Africa, con lo scopo di creare un partneriato
più strutturato. In generale,
l’azione di cooperazione dell’Ocse con gli stati terzi non
membri si realizza attraverso una serie di strumenti
come ad esempio il Global
Forum e i Programmi Regionali. Anche la commissione
europea è in qualche nodo
coinvolta nelle attività dell’Ocse, prendendo parte ai la-
vori a fianco dei paesi Ue.
Complessivamente i paesi
che aderiscono all’Ocse rappresentano il 72 per cento
del reddito nazionale lordo
del mondo, il 61 per cento
del commercio mondiale, il
18 per cento della popolazione mondiale, il 95 per cento
degli aiuti pubblici ai paesi
in via di sviluppo e il 46 per
cento delle emissioni Co2 nel
mondo.
Struttura: da un punto di
vista istituzionale l’Ocse, che
ha sede a Parigi, è composta da un consiglio formato
da un rappresentante per
ogni paese membro, da un
comitato esecutivo costituito dai rappresentanti di delegazioni permanenti dei
paesi membri sotto forma di
missioni diplomatiche dirette dagli ambasciatori, da comitati e gruppi di lavoro specializzati e dal segretariato
internazionale, strutturato
in direzioni generali, che è a
disposizione dei comitati e
degli altri organi. Dal giugno
2006 il nuovo segretario generale dell’Ocse è il messicano José Ángel Gurría. L’organo politico e strategico più
importante è il Consiglio,
che si riunisce periodicamente con i rappresentanti
permanenti e una volta l’anno a livello ministeriale. Il
Consiglio può adottare decisioni vincolanti o raccomandazioni e approva il programma di lavoro dei Comitati settoriali, composti da
esperti delle amministrazioni dei paesi membri. L’organizzazione è finanziata da
tutti gli stati membri, i cui
contributi sono calcolati sulla base dei rispettivi Pil. Gli
Stati Uniti sono il più grande finanziatore dell’organizzazione, contribuendo con
circa il 25 per cento alla for-
rocca
schede
mazione del budget totale,
seguiti dal Giappone. L’Italia con circa il 5 per cento
figura il sesto contribuente.
Missione e finalità: l’organizzazione svolge prevalentemente un ruolo di assemblea consultativa, sviluppando un confronto delle
esperienze politiche per la
risoluzione di problemi comuni, l’identificazione di
pratiche commerciali e il
coordinamento delle politiche regionali e internazionali. La missione dell’Ocse
è cioè quella di aiutare gli
stati membri a favorire una
crescita economica sostenibile, aumentare l’occupazione, innalzare il tenore di
vita, mantenere la stabilità
finanziaria, aiutare gli altri
stati a sviluppare le loro economie e contribuire alla crescita del commercio mondiale. Grazie alle attività
dell’Ocse, i paesi membri
possono comparare le differenti esperienze, cercare risposte ai problemi comuni,
scambiarsi buone pratiche
e coordinare le politiche
nazionali ed internazionali.
Questo tipo di attività viene
svolta attraverso l’elaborazione di statistiche, analisi
e pronostici sociali e economici. L’Ocse è così andata
oltre il ruolo di organizzazione europea, riuscendo ad
estendere la sua azione verso obiettivi di integrazione
e cooperazione economica
e finanziaria tra i maggiori
paesi occidentali.
Sistema Ocse: intorno all’organizzazione ruotano
anche organi autonomi e
semi-autonomi. Tra questi i
principali sono l’Agenzia
internazionale dell’energia
(Aie), l’Agenzia per l’energia
nucleare (Aen) e la Conferenza europea dei ministri
dei trasporti (Cemt). E ancora, il Centro di Sviluppo,
con il compito di raccogliere le conoscenze disponibili nei paesi membri e nell’Organizzazione in materia di
sviluppo economico al fine
di adattarle alle necessità
concrete dei paesi in via di
sviluppo.
❑
Fraternità
raccontare
proporre
chiedere
Perù: cucire e ricamare
nei vivaci colori andini
valorizza le capacità
pratiche e quelle abilità
che le ragazze hanno
dimostrato di possedere
nei cosiddetti «lavori
femminili» artigianali.
Molto scrupolose e dotate di buona manualità, che hanno affinato
anche frequentando un
corso di taglio e cucito,
esse si esercitano da
tempo nel cucire e nel
ricamare, eseguendo
apprezzati lavori sia a
mano sia usando le vecchie macchine per cucire del piccolo laboratorio esistente. Per una
migliore versatilità dei
lavori ci sarebbe bisogno di altre due macchine più accessoriate: una
ricamatrice e una impunturatrice. Cari amici di Fraternità, possiamo dare una mano a
Suor Dora ed alle ragazze un futuro lavorativo?
Luigina Morsolin
dre Provinciale interpellata da suor Dora, autorizzi, temporaneamente
ed in via eccezionale, la
ragazza a continuare a
vivere all’Hogar, dove potrebbe aiutare le suore ad
accudire i bimbi più piccoli, ora che uno di essi,
per una grave forma di
bronchite asmatica, ha
bisogno di cure assidue e
di controllo continuativo,
ma... tra sei mesi e poi tra
un anno analogo problema si ripresenterà per altre ragazze ospiti, che si
stanno avvicinando alla
maggiore età. Per esse si
intende avviare un progetto che ha come obiettivi l’autonomia personale e la capacità di lavorare in gruppo e che possa
garantire un sostentamento economico. Esso
Per aiutare e sostenere il
Progetto Perù e/o il Progetto Haiti si possono inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o tramite il ccp
10635068 – Coordinate:
codice IBAN: IT 76J
0760103 0000 0001
0635 068 intestato a Pro
Civitate Christiana –
Fraternità – Assisi. Per
comunicazioni, indirizzo e-mail: fraternita
@cittadella.org
63
.
ROCCA 1 GENNAIO 2011
Nel modo di parlare di
Suor Dora Chavez si
mescolano le tradizioni
della sua terra (è nata ed
ha vissuto fino all’adolescenza a Chimbote, sulla costa peruviana a
nord di Lima) con l’insegnamento di San Vincenzo de’ Paoli (che ispira la Congregazione delle Suore Ministre della
Carità a cui lei appartiene) e con il «comandamento andino» che fa
proprio lo spirito dello
scambio e della condivisione con generosità
(che la religiosa ha imparato a conoscere tra la
gente di Chiquian tra la
quale vive da parecchi
anni). «A poco a poco
uno cammina lontano»
ricorda con un antico
proverbio peruviano
Suor Dora e con tono
preoccupato aggiunge,
pensando alle «sue» ragazze ospitate nella
Casa Hogar di Chiquian,
«e le bambine diventano
ragazze e maggiorenni».
Una preoccupazione
che condivide con le giovani consorelle che operano al suo fianco nella
Casa-famiglia, perché il
regolamento della struttura prevede che al raggiungimento del 18°
anno le ragazze la debbano lasciare. E per una
di loro questa scadenza
è ormai prossima, alla
fine di gennaio. È molto probabile che Suor
Alicia Cordova, la Ma-
Indice
Introduzione
Parte Prima: Politica e valori
1. ALLA RICERCA DEL FONDAMENTO
Politeismo dei valori e ricerca del fondamento
Dalle etiche all’ethos condiviso
Laicità e valori di riferimento
La fede tra utopia e mediazione etica
Chiesa e modernità
2. LE CATEGORIE COSTITUTIVE
Bene comune: un concetto da ripensare
La crisi attuale della partecipazione
Sussidiarietà e solidarietà
3. I PRINCIPALI NODI CRITICI
Democrazia e valori
Dalla democrazia formale alla democrazia sociale
La democrazia e le sue regole
Ambivalenza del potere
Povertà e ricchezza dell’ideologia
Mutazione antropologica di politica
e informazione
3. LE NUOVE PROSPETTIVE
Democrazia economica
La reciprocità relazionale
La felicità in economia
Parte Terza: L’ordine internazionale
1. VALORI E DIRITTI UNIVERSALI
La ricerca dei valori comuni universali
La persona fondamento dei diritti
Dai diritti di libertà ai diritti sociali
I diritti delle culture
2. LA PACE BENE SUPREMO
La questione della pace
Dalla «guerra giusta» alla «irragionevolezza»
della guerra
Alternative agli attuali conflitti
Per una cultura della pace
richiedere a Rocca conto corrente postale 15157068
e-mail: [email protected]
Omologato
in omaggio
a chi procura
un nuovo abbonamento 2011
2. I PRESUPPOSTI DEL CAMBIAMENTO
Lo sviluppo tra quantità e qualità
Centralità del lavoro
Profitto aziendale e profitto sociale
Economia e ambiente
Stato sociale: sussidiarietà e responsabilità
no profit
per i lettori di Rocca
€ 15,00 anziché € 20.00
1. I LIMITI DELLA SITUAZIONE ATTUALE
Economia e globalizzazione
I guai del sistema finanza
Il dialogo tra economia e etica
DCOER0874
xxxxxxxxxx
raccolta in volume
degli articoli pubblicati
su Rocca
pagg. 184 - € 20,00
Parte Seconda:
Verso un nuovo modello economico
pubblicazione
informativa
Giannino Piana
politica etica economia
logiche della convivenza