Scienza, biotecnologie e corpo

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Scienza, biotecnologie e corpo
Scienza, biotecnologie e corpo
di Elena Del Grosso
Sono una genetista. La mia vita, sia professionale che privata, è
stata gestita dalla passione per la scienza, sperimentale e teorica, e
per la politica. Ciascuno di noi attraversa nella propria vita delle
fasi in cui le rispettive passioni si possono esprimere in maniera
completamente diversa e che fa di noi dei soggetti a “identità
multiple”, per cui non posso dire oggi di essere stata presa completamente da alcune cose anziché da altre, perché via via le ho
attraversate e vissute al meglio delle mie possibilità. La scienza è
un luogo di partecipazione totalizzante e negli anni Settanta la
passione per la scienza era in me prevalente rispetto a quella della
politica. Se all’inizio le mie esperienze erano organizzate in modo
da non lasciare spazio ad altri interessi che non fossero quelli
connessi con la ricerca, compresa la sua organizzazione e le sue
politiche, poi come donna ho dovuto fare i conti con la mia vita:
la parzialità è venuta di conseguenza, quella che ho costruito
giorno dopo giorno, sentendola sulla mia pelle.
Negli anni Settanta, a livello internazionale, si catalizzò intorno
alla guerra del Vietnam un movimento di opinione che definì il
contesto complessivo militare, politico, economico, all’interno
del quale si sviluppavano la scienza e le sue applicazioni. La critica alla neutralità della scienza segnò in maniera irreversibile tale
periodo. Le donne aggiunsero un valore aggiunto: la corporeità.
La scienza divenne un luogo abitato da corpi, maschili e femminili: la scienza non era neutra ma non lo erano neanche gli/le scien99
ziati/e. Finalmente noi scienziate/i non eravamo più soggetti neutri!
Negli stessi anni, in Italia la riflessione femminista sulla scienza
seguì lo stesso percorso ma fu il gruppo di Torino, composto da
ricercatrici e docenti universitarie, ad introdurre queste tematiche
all’interno dei laboratori. Partendo dall’autocoscienza nei luoghi
di lavoro, analizzò come le donne vi stessero. In linea con un
femminismo emancipatorio caratteristico di quegli anni, il loro fu
un contributo di pari opportunità volto alla rimozione di quei
meccanismi di discriminazione che portavano le donne a un’esclusione rispetto alle carriere, allo stare insieme, ma non mise in
discussione la neutralità della scienza.
Furono Seveso e Chernobyl a spostare l’asse verso “la non
neutralità”, ossia verso quella dimensione sociale e politica della
scienza per cui quei soggetti in carne e ossa, maschili e femminili,
avrebbero dovuto assumersene la responsabilità sociale. Fuori dai
laboratori, collocavo i miei studi scientifici all’interno di quell’esperienza sociale che fu fondamentale per avvicinare la mia riflessione sulla scienza a quella femminista. Poi, l’ingresso nell’associazione Orlando e nel Coordinamento Donne e Scienza mi
aprirono ad un nuovo tipo di ricerca sulla soggettività femminile
conoscente, sulla neutralità e sulla responsabilità sociale della
scienza e della tecnologia, sui luoghi di lavoro, visti come luoghi
di conflitto fra sessi e di potere maschile, in cui le donne – fatta
eccezione di un’esigua minoranza – erano e sono emarginate
dalla vita e dalle decisioni della comunità scientifica di appartenenza. La chiamammo “marginalità”, ma sarebbe stato meglio
dire che le donne nella scienza avevano ed hanno una cittadinanza dimezzata.
In realtà, la gran parte della riflessione femminista sulla scienza
non stava nei laboratori “accademici”, ma nei luoghi della città,
nei centri di salute, nei consultori, nei gruppi autogestiti delle
donne. In tutti questi luoghi le donne non solo lavoravano intorno ai temi riguardanti le battaglie sull’aborto e sui diritti civili,
ma, a partire dalla riflessione sul corpo, sul vissuto corporeo, sull’immaginario individuale e collettivo creato anche dalle nuove
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tecnologie, costruivano nuovi saperi decostruendo quelli vecchi,
che erano alla base degli stereotipi del maschile e del femminile e
che, per le donne, si erano tradotte in dominio, violenza, esclusione dalla sfera pubblica.
Con l’obiettivo di cambiare il mondo e lo sguardo sul mondo a
partire da sé, le donne si appropriarono delle tecnologie del corpo, costruendosi le loro “tecnologie del sé”, che – come dice
Foucault1 – «permettono agli individui di eseguire con i propri
mezzi o con l’aiuto degli altri delle operazioni sul proprio corpo
o sulla propria anima, dai pensieri al comportamento al modo di
essere per trasformare se stessi e raggiungere condizioni di benessere». Le metodologie usate furono quelle dell’analisi del linguaggio e delle sue metafore come tecnologie di sistemi e segni
che consentono di far uso di significati, simboli, significazioni.
Furono analizzate le tecnologie del potere che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi e domini esterni, dando luogo all’oggettivizzazione del soggetto.
La scienza ha a che fare con il mito, la religione e la filosofia,
più di quanto non si pensi nell’immaginario collettivo che invece
la vede come il mondo delle certezze e della verità. Data questa
complessità, il mondo della scienza e degli scienziati/e, al di là
dei luoghi comuni, è difficilmente rappresentabile: miti e metafore sono sempre stati usati efficacemente dai filosofi e dai teologi
per rappresentarcelo.
Se Platone ne La Repubblica ha bisogno del “mito della caverna” per dirci il ruolo e il dovere che il filosofo e lo scienziato
hanno nello spazio pubblico, ossia la ricerca della luce per descrivere la realtà “quale essa è” in un processo di liberazione dalle
tenebre, Aristotele ci consegna modi diversi per guardare il bios
ma tutti riconducibili ad una visione olistica della vita – in cui il
tutto è superiore alle parti – e ad una forza vitale che anima la
materia e che distingue l’animato (genere umano maschile) dall’inanimato (materia inerte, animali e donne). Questa visione rima1
Michel Foucault, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
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ne inalterata fino al Medioevo e sarà superata solo dalla modernità, a partire dalla rivoluzione industriale. Una visione olistica
materialista viene poi ripresa nell’Otto e nel Novecento: è l’embriologia che ne recupera l’eredità.
Con Cartesio e Galileo nasce la scienza moderna. Grazie a Bacone nasce la scienza applicata, ossia la tecnologia; Galileo considera la scienza come un complesso organico di conoscenze ottenuto mediante un processo sistematico di acquisizione dei dati
(metodo scientifico), allo scopo di giungere ad una descrizione
precisa della realtà attuale delle cose: in ultima analisi, ad una verità universalmente condivisa, l’oggettività scientifica.
In ambito moderno, elemento essenziale affinché un complesso di conoscenze possa essere ritenuto scientifico è la sua possibilità di esser falsificabile: ciò significa che in qualsiasi momento i
dati presentati a sostegno di un’ipotesi devono essere disponibili
affinché altri osservatori, in qualsiasi altra parte del mondo, possano verificare nelle condizioni descritte la loro veridicità o falsificabilità (confutazione). Quindi non c’è scienza e procedere scientifico senza comunicazione: la scienza è sapere comunicato. Questo modello – quantunque sottoposto a severe critiche da parte
di epistemologi, storici e sociologi della scienza, uomini e donne,
per il suo eurocentrismo e la centralità del metodo sperimentale
che esclude altre modalità conoscitive – è tuttavia largamente
condiviso dalla gran parte della comunità scientifica. Negli anni
Ottanta, Merton, sociologo della scienza, stilò una sorta di codice
deontologico dello/a scienziato/a, che nella società degli/delle
esperti/e assume oggi un ruolo politico ed etico rilevante e che
comporta universalismo, oggettività scientifica, comunitarismo,
obbligo morale da parte dello/a scienziato/a di rendere pubbliche le proprie scoperte, disinteresse e dubbio sistematico. Oggi,
le nuove tecnologie, fra cui quelle applicate alla vita, e l’introduzione dei brevetti capovolgono completamente questi principi,
sostituendo l’interesse privato al bene comune.
Dobbiamo però a Cartesio e a Bacone le più potenti metafore
che pongono le basi politiche ed ideologiche alla nascita della
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scienza e della tecnologia moderna. Cartesio decostruisce il modello aristotelico del bios per avvicinarlo a quello degli orologi e
delle macchine che funzionano: non più un insieme ma una
somma di parti legate da una relazione di causa ed effetto (meccanicismo, determinismo, riduzionismo). Egli propone uno
schema duale per organizzare e classificare il mondo intelligibile
in modo tale da distinguere la mente dal corpo, il soggetto dall’oggetto, l’oggettività dalla soggettività, i fatti dai valori, la ragione dall’emozione, la scienza dalla non-scienza. Queste distinzioni,
che tagliano trasversalmente tutto, servono in realtà a creare due
sfere indipendenti e non comunicanti che hanno codici, comportamenti e linguaggi tali da creare un noi ed un loro in opposizione e in antagonismo: il femminile da una parte e il maschile
dall’altra, e più in generale una Scienza distinta dalla Società.
A Bacone si devono invece alcune delle metafore più potenti
per indicarci metodi, valori e luoghi delle tecnologie applicate nel
contesto della rivoluzione industriale. Dobbiamo a Carolyn Merchant 2 l’analisi dei suoi testi e delle sue metafore. In Temporis partus masculus, Bacone – in linea con la privatizzazione dei beni comuni dell’epoca – ci dice che la natura è proprietà privata, è
femmina e va dominata, violentata, svelata e ricondotta attraverso il dominio e la manipolazione al proprio disegno. In Nuova
Atlantide, Bacone va oltre e costruisce l’impianto ideologico
dell’organizzazione del lavoro: nella casa di Salomone, il laboratorio ideale della Nuova Atlantide, la struttura del lavoro deve essere piramidale e assumere come modello la famiglia patriarcale.
La proprietà della casa e dei beni che vi si producono appartiene
al padre.
Le conseguenze di queste metafore non sono state importanti
solo dal punto di vista scientifico per imporre determinati paradigmi scientifici e le conseguenti politiche di ricerca, ma anche
dal punto di vista sociale. Il modello baconiano assomiglia più al
2 Carolyn Merchant, La morte della natura. Le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica, Garzanti, Milano 1988.
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modello di un’odierna società privata multinazionale di biotecnologie che non a quello di una struttura pubblica in cui la conoscenza i beni e i servizi appartengono alla comunità.
Le biotecnologie sono la quintessenza del pensiero baconiano
e vengono definite sia come insieme delle tecnologie che si servono dei sistemi biologici, degli organismi viventi o di derivati di
questi, per produrre o modificare prodotti o processi per un fine
specifico, sia come utilizzo di esseri viventi al fine di ottenere beni e/o servizi. Il discorso sulle biotecnologie sta all’interno di
queste metafore ed investe tutti gli organismi viventi, dalle piante
agli animali, ai microorganismi. Il quadro è estremamente complesso e riguarda vari livelli della nostra vita quotidiana con differenze notevoli alle diverse latitudini per cui – mentre il mondo
occidentale e ricco discute accanitamente di embrioni, cellule
staminali, terapia genica, clonazione, OGM, nuovi farmaci personalizzabili fino al singolo individuo –, il Sud del mondo parla
di corpi che debbono al tempo stesso essere curati e nutriti, parla
di biodiversità, di accesso alle risorse genetiche, ai farmaci, al cibo, ai brevetti. Parla di diritti alla salute e al cibo. Parla di sovranità alimentare.
Nella nostra riflessione sulle tecnologie del corpo abbiamo
sempre visto che questo si posiziona in mezzo a due tenaglie: da
una parte la scienza che dà l’impianto e lo statuto culturale e
ideologico, dall’altra la tecnologia che rappresenta il dominio, il
controllo, la manipolazione e quindi la negazione stessa del corpo. La medicina è in fondo una scienza applicata, è una biologia
applicata. La biologia dà l’impianto teorico, la cornice di riferimento; la medicina l’applica, troppo spesso riduttivamente, al
corpo umano.
Non c’è dubbio che oggi, sulla base delle nuove tecnologie
biomediche, l’immagine e la percezione che noi abbiamo quotidianamente dei nostri corpi e delle nostre vite è profondamente
modificata. Queste tecnologie ci dicono cosa siamo e come dobbiamo definirci: insieme di molecole, cellule, organi ma anche
macchine, computer, rete di informazione e di rielaborazione del104
l’informazione, traduttori di messaggi: pensiamo ai mediatori
chimici che rispondono alla luce, al tempo e allo spazio, in grado
di accendere e/o spegnere geni e funzioni che danno forma e
contenuto all’organismo vivente. Quello che queste tecnologie ci
restituiscono è una pluralità di corpi dai confini sempre più indefinibili, ma le cui rappresentazioni sono atte a definire norme e
comportamenti. Queste rappresentazioni non hanno niente a che
fare con l’immagine della dea madre delle terrecotte del Mediterraneo o la donna gravida che accoglie la vita e accetta di diventare madre dell’iconografia cristiana. Non è la bellezza del corpo di
Venere o il corpo della sirena che nel mito seduce Ulisse. Non è
il corpo fonte di nutrimento e garante materno dell’arte rinascimentale e moderna della tradizione patriarcale. È un corpo cyborg fatto di continue peregrinazioni tra Natura ed Artificio.
Nuove parole, nuovi concetti e nuove metafore ridisegnano
non solo i confini della vita e della morte, ma trasformano l’immagine e la percezione che noi abbiamo quotidianamente dei nostri corpi e delle nostre vite. Così, in quel continuo ridefinirsi e
riposizionarsi in una vertigine d’identità che le tecnologie ci conferiscono, accanto al “corpo che siamo e che sentiamo”, vissuto,
che si muove nella vita, capace di autonarrarsi, di descriversi, esiste un mondo separato di “corpi che abbiamo”, estranei a noi:
biologico, medicalizzato e patologizzato, ridotto e modificato, distribuito fisicamente e elettronicamente, socializzato, escluso ed
espropriato, liberato e controllato, mercificato e brevettato.
Come negli anni Settanta anche oggi è forse necessario recuperare la storia di come le donne hanno riflettuto su scienza e tecnologia a partire dal proprio corpo e dal ruolo sociale che questo
corpo imponeva. Le donne, nel cercare di dipanare l’intreccio
delle influenze e delle interazioni tra norme culturali, metafore e
sviluppo tecnico-scientifico, hanno ricostruito il percorso storico
della scienza integrato con quello della società e hanno analizzato
il ruolo della metafora nel determinare i paradigmi scientifici e lo
sviluppo tecnologico così come la cornice dei valori di riferimento.
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Metodologicamente, hanno decostruito lo schema duale a partire dall’oggettività scientifica a favore delle soggettività, come
corpi e menti sessuate, come storie individuali e collettive, anche
nell’intreccio tra caso e necessità, originalità e unicità dell’esperienza vissuta. Portando avanti la critica al determinismo genetico, alla neurobiologia e alla sociobiologia, hanno evidenziato il
peso che i paradigmi scientifici hanno nel supportare i ruoli sociali e nello specifico quello delle donne, il cui corpo riproduttivo, descritto da Bacone nel linguaggio scientifico della Natura,
poteva essere ridotto a “corpo produttivo” per la riproduzione
sociale. Poiché è natura, il corpo della donna diventa “il corpo
politico” per eccellenza. In questo senso, l’analisi delle metafore
– soprattutto quelle che riguardavano la riproduzione – fu esplicativa dei ruoli sociali che il maschile ed il femminile avevano
nella società, ma stimolò anche quella “coscienza del corpo” che
le donne andavano elaborando relativamente alle fasi storicopolitiche del momento.
Anche le tecnologie riproduttive stanno all’interno di queste
metafore e delle loro conseguenze. La procreazione medicalmente assistita è una tecnologia di alto valore simbolico e normativo per il genere umano (maschile e femminile), come la legge
40 sulla fecondazione assistita dimostra. È una tecnologia semplice che preleva e separa tutti i pezzi del processo riproduttivo:
uova e spermatozoi si uniscono fuori dal corpo materno (concepimento “in vitro”) e gli embrioni così ottenuti vengono reintrodotti all’interno di un corpo di donna, desiderante o meno (utero
in affitto).
Negli anni Settanta, nel movimento delle donne che avevano
posizioni emancipatorie o delle pari opportunità, se pure nel
contesto di una visione neutrale e positivista della scienza, le tecnologie riproduttive – soprattutto la contraccezione – venivano
viste come liberatorie da quella spada di Damocle che era la dipendenza dal maschile, ma soprattutto dalle gravidanze indesiderate e dall’aborto. A supportare questo punto di vista, Simone de
Beauvoir, già nel 1949, si esprimeva così:
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Con la fecondazione artificiale si compie l’evoluzione che permetterà
all’umanità di dominare la funzione riproduttrice. Questi cambiamenti hanno per la donna in particolare un’immensa importanza;
[…] (che) si libera così dalla natura, conquista il dominio del proprio
corpo. Sottratta in grandissima parte alla schiavitù della riproduzione,
può assumere il compito economico che le viene offerto e che le garantirà la conquista completa della propria persona3.
Nel 1971, un’accesa femminista come Shulamith Firestone
confermava il concetto e affermava che la storia dell’oppressione
della donna risale al fatto biologico: la procreazione.
Le donne per tutta la loro storia precedente l’avvento del controllo
delle nascite erano continuamente alla mercé della biologia […] il che
le rendeva dipendenti dai maschi per la loro sopravvivenza fisica.
Voglio dirlo francamente: la gravidanza è barbarica4.
Il pensiero della differenza in ambito femminista e gli effetti
delle tecnologie sull’ambiente e sulla salute cambiano questa percezione positivista della scienza e prende piede la critica al modello neutrale della scienza, che – visto come modello patriarcale
ed eurocentrico – si identifica nell’ambito medico come controllo
e sfruttamento del corpo femminile da parte del potere scientifico attraverso le tecnologie riproduttive e l’esproprio della maternità. Alla ricerca di altri modelli caratterizzati dallo specifico
femminile e che accogliessero un pensiero di differenza di genere, si ipotizza un ritorno alla “Natura” come madre e al corpo
femminile come potenza creatrice ma anche come potere sul
proprio corpo: Gene Corea5 chiama «bordello procreativo» l’intero processo della procreazione. Le tecnologie riproduttive vengono considerate in questo modo a causa della separazione fra
concepimento e maternità, e per il fatto che ciascuna entità –
ovuli, spermatozoi, embrioni, utero – assume un valore di soggetto. Tali entità, ciascuna analizzata e isolata dal proprio conteSimone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2002.
Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution, Mass
Market Paperback, New York 1971.
5 Gene Corea, The Mother Machine, Basic Books, New York 1982.
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sto, divengono soggetti attivi che provocano un disordine simbolico in grado di escludere la donna dal processo riproduttivo e
di depotenziarla.
Al tempo stesso, la FINRAGE (Feminist International Network of Resistence to Reproductive and Genetic Engineering)
nel 1985 dichiara:
Il corpo femminile, con la sua capacità unica di creare vita umana,
sta per essere espropriato e sezionato come mero materiale per la
produzione tecnologica di essere umani. Per noi donne, per la natura
e per i popoli sfruttati del mondo questo sviluppo è una dichiarazione di guerra. L’ingegneria riproduttiva genetica è un altro tentativo di
porre fine all’autodeterminazione dei nostri corpi. Resisteremo allo
sviluppo e all’applicazione dell’ingegneria riproduttiva e genetica. Sappiamo che la tecnologia non può risolvere nessuno di quei problemi
creati da condizioni di sfruttamento. Non è necessario trasformare la
nostra biologia ma è necessario trasformare le nostre condizioni patriarcali, sociali, politiche ed economiche. Noi vogliamo mantenere
l’integrità e la corporeità della procreatività delle donne. L’esternalizzazione del concepimento e della gestazione facilita la manipolazione e il controllo eugenetico. La suddivisione del corpo femminile
in parti distinte, la sua frammentazione e separazione al fine di una
successiva ricombinazione scientifica, sono operazioni che smembrano la continuità e l’identità.
Negli anni Novanta si teme che «politiche pubbliche regressive
possano minare le conquiste e i diritti delle donne appena conquistati», mentre «è la questione etica e politica che consente alle
donne di posizionarsi». Le donne, utilizzando gli strumenti della
critica, possono entrare come protagoniste nei luoghi della scienza e delle tecnologie, e possono accettare le tecnologie riproduttive e genetiche come un’opportunità in più e un potenziamento
della libertà di scelta femminile6.
Ma a partire dagli anni Novanta la riflessione si spinge oltre le
6 Sandra Harding, The Science Question in Feminism, Cornell University Press,
Ithaca, London 1986; Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche
del corpo, Feltrinelli, Milano 1995; Lynda I.A. Birke, Tomorrow’s Child: Reproductive
Technologies in the 1990s, Virago Press, London 1990.
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tecnologie riproduttive. La sociobiologia, che dopo gli effetti devastanti degli anni Trenta e Quaranta si pensava scomparsa, riappare strisciante. Grazie ai progressi della biologia molecolare che
culminano nel progetto Genoma Umano, si assiste alla conferma di
una Mistica del DNA e di una genetizzazione della società. Questi fenomeni manifestano una nuova forma di sociobiologia che
si fonda a livello individuale su una relazione deterministica di
causa-effetto tra un gene e il suo carattere (dal fisico al comportamentale): poiché la società è fatta dall’insieme dei suoi individui, essa esprime anche l’insieme dei suoi geni. Se a questo aggiungiamo le nuove tecniche di visualizzazione del cervello che
rispondono a logiche neuro-deterministe, il quadro di una Biologia tiranna e totalizzante ci appare completo. Il gene egoista e Il fenotipo
esteso di Dawkins7 ma anche La scimmia nuda di Desmond Morris8
rappresentano dei veri e propri manifesti ideologici che cercano di
dimostrare su base scientifica come il determinismo genetico sia alla
base dei comportamenti umani e quindi della società. Nell’ambito
della medicina sociale, sulla base di dati oggettivi creati da test diagnostici e dalle cartografie del cervello, si pongono le condizioni per
ricreare dei “topos” corporei, che possono portare a nuove forme
di discriminazioni su basi genetiche, neurologiche e sociobiologiche.
E questo ancora una volta riguarda noi donne. Ancora una volta
“il cervello di genere”, tagliato su un target tutto femminile, torna a
raccontarci la storia di sempre: le donne tornano ad essere corpo
riproduttivo perché lo vogliono i suoi geni, che si esprimono
fino all’ultimo neurone. Le donne sono la Natura per eccellenza, come diceva Bacone, quindi sono corpo su cui agisce la politica o – per dirlo oggi con la bella metafora di Barbara Duden
– «spazio pubblico».
Richard Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 1992; Richard Dawkins, Il fenotipo esteso. Il gene come unità di selezione, Zanichelli, Bologna 1986.
8 Desmond Morris, La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, Bompiani,
Milano 1980.
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La bioetica – lungi dall’essere spazio pubblico condiviso e
partecipato come originariamente si prevedeva – è diventata
sempre più etica medica e strumento di biopolitica e biopotere.
Le biopolitiche del corpo agiscono sulle tecnologie e sulle politiche del corpo non già per garantire ed assicurare la salute delle
donne e degli uomini, ma per costruire quell’insieme di immaginari, percezioni e sentimenti, atti a controllare e a normare i loro
stili di vita dalla nascita alla morte, la loro autodeterminazione e
libertà riproduttiva. Ed è per questo che è necessario un nuovo
modo di stare nello “spazio pubblico del corpo” ossia una nuova
governance delle tecnologie del corpo in cui le donne si facciano
soggetti morali attivi ed autorevoli, in grado di negoziare le proprie conoscenze, i propri saperi e lo stare “nel proprio corpo”, in
un confronto alla pari con il sapere degli/delle esperti/e, riattivando meccanismi partecipativi virtuosi e democratici.
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