L`infanzia della psicoanalisi: giro breve nella riserva indiana

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L`infanzia della psicoanalisi: giro breve nella riserva indiana
L’infanzia della psicoanalisi: giro breve nella riserva
indiana
STEFANIA NICASI
A Valentina
1. Partenza
Mia nipote Valentina è incinta. Laureata in Scienze dell’Educazione, educatrice
in un asilo nido, vive in una città del Centro Italia. Cosa legge questa giovane donna
mentre aspetta il primo figlio? Legge Il linguaggio segreto dei neonati, sorta di bibbia
della puericultura contemporanea. L’autrice è Tracy Hogg, battagliera ostetrica inglese
che ha riscosso un tale successo negli Stati Uniti da essere soprannominata «la donna
che sussurra ai neonati».
Una serie televisiva molto seguita si intitola «S.O.S. Tata». Lo schema è
semplice: una famiglia in pieno marasma, con bambini urlanti, disappetenti o insonni,
invoca l’intervento della Tata. Dopo qualche giorno di osservazione in famiglia, la Tata
suggerisce semplici ricette che ristabiliscono l’ordine: i bambini si calmano e si
consolano mentre i genitori, rinfrancati e fiduciosi nelle proprie capacità, riprendono
posto al timone. Ho sorpreso più volte i miei figli completamente assorbiti da questo
programma che rispolvera il mito di Mary Poppins: una persona adulta, dotata di
immaginazione e di buon senso, piove dal cielo e restaura l’armonia in famiglia grazie a
tre fondamentali qualità: capisce i bambini – ne conosce, direbbe Tracy Hogg, il
linguaggio segreto – e rispetta la funzione dei genitori – sa, come sapeva Giovanni
Bollea, che normalmente «le madri hanno sempre ragione», solo che ogni tanto hanno
bisogno di qualcuno che glielo ricordi. Queste le prime due qualità. La terza: apre
l’ombrello e si leva di torno quando la sua presenza non è più indispensabile.
Se penso allo psicoanalista infantile come figura, si apre alla mente sia una
galleria di personaggi storici nella psicoanalisi sia una serie di colleghi che ho avuto la
fortuna di incontrare o di altri che ho il piacere di frequentare. Se li penso al lavoro, non
mi è affatto difficile credere che abbiano svolto e che svolgano a meraviglia questa
preziosa «funzione Mary Poppins». Mentre se penso alla psicoanalisi come disciplina
scientifica e come «visione del mondo», secondo l’espressione di Freud, le cose si
complicano molto, proprio in relazione all’infanzia. Non sono più sicura né che la
funzione sia svolta al meglio né che la psicoanalisi abbia solo grandi meriti. Penso che
abbia anche qualche scheletro nell’armadio e numerose responsabilità. Sui meriti non si
discute. Il contributo della psicoanalisi alla conoscenza, alla comprensione, al rispetto,
alla tutela e alla cura del bambino è decisivo nel Novecento, non solo per ciò che è stato
prodotto all’interno della disciplina e del movimento ma anche per la ricaduta sulle
discipline limitrofe, in termini di impulso alla ricerca e di segnalazione di aree
problematiche da indagare. Gli studi sull’attaccamento e la stessa Infant Research non
sarebbero germogliati senza il retroterra psicoanalitico.
1
Peccato che non sempre o non tutti siamo capaci di raccogliere quello che
abbiamo contribuito a seminare. Peccato che l’infanzia, il continente che la psicoanalisi,
più di ogni altra disciplina del secolo scorso, ha esplorato e colonizzato, sembri versare
in tale stato di abbandono da essere diventata un po’ come la sua riserva indiana.
In un intervento titolato «Quel che resta dell (e nostre idee sull)’infanzia»
Amedeo Falci1 denuncia il ricorso a «un quadro minimale sincretico», dove convivono
alla meglio «pezzi di fasi psicolibidiche, di paranoide-schizo-depressivo, di oggetti
parziali, di narcisismo primario, di non-esiste-il bambino-senza-la-madre, di vero e falso
Sé, di rêverie materna, più alfa e beta» (Falci, 2011, 1): un folcloristico repertorio al
quale attingiamo alla rinfusa, pescando quello che ci serve sul momento.
2. Itinerario
Nello stesso intervento, Falci segnala varie questioni al riguardo: la correlazione
tra modelli evolutivi e teorizzazione clinica; i molteplici e discrepanti modelli di
sviluppo infantile in uso presso i vari indirizzi della psicoanalisi; la flessibilità o la
rigidità dei modelli psicoanalitici nei confronti di nuove acquisizioni provenienti da
campi di ricerca affini; l’idea della Hilflosigkeit, la condizione di inermità assoluta del
neonato; il modello imperante che considera la relazione analitica per molti versi
isomorfa alla relazione bambino/adulto. Aggiungerei alla lista: il problema dei metodi
per lo studio del bambino; il determinismo della prima infanzia, questione sulla quale
Jerome Kagan ha sollevato serie obiezioni.2 Il ruolo ancillare della psicoanalisi infantile
e la fatica che ha fatto a guadagnarsi in Italia un training specifico. Nelle pagine che
seguono, riprenderò e proverò a sviluppare solo alcuni punti.
3. Modelli evolutivi e teorizzazione clinica
Tendiamo a dimenticare che il paradigma psicoevolutivo assume fin dagli albori
della psicoanalisi un ruolo organizzatore situandosi al crocevia fra la diffusione del
paradigma evoluzionistico e la crisi che porterà Freud, tra il 1895 e il 1897, a sistemare
le sue concezioni in un modello di organizzazione diacronica ed evolutiva della psiche
umana. Al cuore di questo modello, la «celebre trilogia evoluzionista» (Bercherie, 2003)
che accomuna primitivo, bambino e folle. La dottrina della ricapitolazione, già presente
ne L’origine delle specie (1859) di Darwin, trova in Haeckel, intorno al 1899, il suo
divulgatore. Secondo la «legge biogenetica fondamentale» l’ontogenesi, cioè lo
sviluppo individuale degli embrioni, ripercorre e ricapitola, sia pure per sommi capi, la
filogenesi, cioè lo sviluppo della specie. A questa legge Freud si è richiamato più volte:
il capitolo quarto di Totem e tabù (1912-1913) si intitola «La ricorrenza infantile del
totemismo». Freud si muoveva all’interno di un paradigma che vedeva al fondo
dell’uomo il bambino e al fondo del bambino il selvaggio, equivalente dell’uomo
1
Il dibattito coordinato da Francesco Carnaroli è pubblicato nel sito SPI con il titolo «Strutture adattative
patogene e azione terapeutica della psicoanalisi. Riflessioni a margine del libro di Andrea Seganti Teoria
delle mine vaganti».
2
Cfr. Kagan, 1984 e 1998.
2
preistorico, primitiva evoluzione dell’animale. Un paradigma – Paolo Rossi lo ha
definito il «paradigma della riemergenza del passato» – nel quale la follia si poteva
leggere come ritorno dell’antico passato umano e animale attraverso la regressione
all’infanzia.3
L’adesione al paradigma genetico accompagna la nascita della psicoanalisi:
proseguendo sulla strada aperta da Henri Ellenberger, Frank J. Sulloway ha ricostruito,
in un testo ormai classico, il contesto filosofico-scientifico al quale Freud attingeva.4 I
Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), abitati da un bambino perverso polimorfo che
attraverso la fase orale, anale e fallica perviene al complesso edipico originato dal tabù
dell’incesto, vedono la luce in una cornice «ricapitolazionista» che ispira non solo il
modello di sviluppo come rigida successione di fasi ma anche l’audace visione
freudiana della sessualità infantile. Sulla scorta dell’ipotesi di Haeckel per la quale la
«gastrea primordiale» (lo zigote fecondato si invagina a creare uno stomaco primitivo,
una bocca e in seguito un orifizio anale) costituiva una svolta decisiva nell’evoluzione
degli animali superiori, Freud credeva che l’evoluzione della sessualità animale
passasse attraverso tre stadi: «Considerate come in una classe di animali l’apparato
genitale sia posto in stretto contatto con la bocca, in un’altra non possa essere distinto
dall’apparato escretorio e in altre ancora sia collegato agli organi motori, tutte cose che
trovate descritte in forma attraente nel prezioso libro di Bòlsche. Negli animali si
vedono, per così dire cristallizzate in organizzazione sessuale, tutte le specie di
perversioni» (Freud, 1915-1917, 510). Questo lo persuase che l’energia libidica del
bambino, nel ripercorrere le tappe dello sviluppo animale, si sposti dalla bocca all’ano
prima di concentrarsi sui genitali. Il paragone di Haevelock Ellis fra allattamento al seno
e rapporto sessuale adulto era pronto per essere raccolto da Freud come prova a
sostegno della sessualità infantile. Scrive Ellis nel 1900: «Il capezzolo erettile
corrisponde al pene erettile: la bocca umida e bramosa del bimbo alla madida e
palpitante vagina, il latte vitalmente albuminoso al seme vitalmente albuminoso» (Ellis,
1900, 250). Scrive Bòlsche fra il 1898 e il 1903: «Agli esordi della vita non c’era
opposizione fra mangiare e amare» (Bolsche, 1898-1903, 293). E Freud, nel 1905: «Chi
veda un bambino abbandonare il petto della madre, ne veda le guance arrossate e come
egli piombi nel sonno con un sorriso beato, dovrà dire che questa immagine rimane
esemplare per l’espressione del soddisfacimento sessuale nel seguito della vita» (Freud,
1905, 492).
È attingendo al contesto scientifico del suo tempo, che conosceva a fondo, e alle
ricerche sulla neuroanatomia, le paralisi infantili, le afasie dove si era imbattuto nella
teoria della «dissoluzione» di Jackson, che Freud formula le tre ipotesi chiave dello
sviluppo – la fissazione, la regressione, la persistenza delle prime impressioni.
Unitamente ai principi cardinali della rimozione, del contenuto sessuale del rimosso e
della dissoluzione dei livelli superiori di funzionamento mentale nel sogno che fondano
la scoperta dell’inconscio, le tre ipotesi si vanno a saldare con la «trilogia evoluzionista»
e conducono al modello freudiano base: la malattia psichica è regressione a un punto
3
4
Rossi, 1991, 118-153. Cfr. anche: Nicasi, 1984; Bonomi, 2007.
Cfr. Ellenberger, 1970; Sulloway, 1979, Bradley, 1989.
3
dello sviluppo dove, a causa di negative impressioni, si è creata una parziale fissazione.
Più la fissazione è remota nel tempo più grave è il danno, più seria la patologia.
«Trovate l’essenza del sogno e avrete trovato tutto quello che si può sapere
intorno alla follia», aveva detto Jackson.5 Trovate l’infantile nel sogno e avrete trovato
tutto quello che si può sapere intorno alla follia: questa è la mossa di Freud che chiude il
cerchio, saldando modello evolutivo e modello psicopatologico. Additando nell’infanzia
l’origine dei guai e nella sopravvivenza o nel ritorno dell’infantile la malattia stessa. In
questo modo, l’immagine della malattia viene alleggerita dalle sue stigmate di
irriducibile diversità – il malato è in fondo un bambino, e tutti siamo stati bambini –
mentre l’immagine dell’infanzia viene compromessa e oscurata dall’ombra di una
malattia in agguato a ogni fase dello sviluppo.
Per rendersi conto della sopravvivenza di questa vecchia idea, si può leggere un
breve scritto di Masud Khan intitolato «Infanzia, solitudine, follia», pubblicato nel
1979. Gran parte della prima infanzia è trascorsa dal lattante solo con se stesso, in stati
tranquilli di benessere. In seguito, quello che egli non è in grado di tradurre in
esperienza psichica, ricade nel campo dell’oblio: «Ma ciò che soccombe all’oblio non è
comunque perduto, riapparirà più tardi in stati di follia privata» (Khan, 1979, 189).
Persistenza delle prime impressioni, continuità dello sviluppo, determinismo della prima
infanzia e follia come riemergenza del passato: tutto concentrato in due pagine
suggestive.
In un lavoro recentissimo, intitolato «Fronteggiare l’estremo», Cristiana Cimino
situa nella condizione di inermità un elemento chiave della psicosi: «il suo nucleo
originario è naturalmente rintracciabile nell’esperienza di Hilflosigkeit descritta da
Freud», nella quale «il rapporto asimmetrico adulto-infans è immediatamente e
irrimediabilmente parassitato dall’inconscio di un altro, ossia dall’inconscio di un
adulto» (Cimino, 2011, 64).
Date queste premesse, è difficile pensare che in psicoanalisi possano prodursi
modelli teorico clinici senza fare i conti con la questione del modello evolutivo.
4. I bambini della psicoanalisi.
«Le nostre immagini dell’infanzia, ciò che noi pensiamo che i bambini siano,
sono non solo fortemente condizionate da un passato storico che conosciamo in modo
superficiale, ma sono anche legate ad asserzioni grandiose e a mitologie che hanno
radici lontane delle quali non siamo sempre consapevoli» (Rossi, 2001, 42). Le
immagini dell’infanzia sono fortemente condizionate anche dalle contingenze storiche e
sociali del presente e sempre e comunque dal nostro essere stati piccoli, dall’infantile
che si risveglia in modo potente non appena ci accostiamo al bambino. Sono
condizionate dall’ambivalenza degli adulti nei confronti del bambino. Sono
condizionate dai rimorsi del singolo e della collettività.
Inevitabilmente, l’immagine dell’umano influenza l’immagine dell’infanzia e
viceversa, attraverso un processo circolare. In psicoanalisi questo circolo si allarga fino
5
Citazione riferita da Freud, (Freud, 1900, 518) fondata sulla testimonianza di Jones: cfr. Sulloway, 1979,
299.
4
a comprendere il paziente disteso sul lettino, per cui saremo portati a immaginare un
certo tipo di bambino mentre veniamo in contatto – o almeno crediamo di venire in
contatto – con il bambino che il paziente è stato e contemporaneamente ci faremo
un’idea del bambino che il paziente è stato attraverso la lente della particolare immagine
dell’infanzia che guida il nostro operare clinico.
La «trilogia evoluzionista» è la matrice dalla quale scaturisce il bambino
freudiano. Maturata in ambito positivistico, è però fortemente imbevuta dello spirito
romantico che pervade la stessa opera di Freud. «Il selvaggio» e «l’animale» avevano
connotazioni corrusche – e morali – molto lontane da quelle che oggi possono avere per
noi, cresciuti alla scuola della moderna antropologia, del relativismo culturale e
dell’etologia. Nella scala del progresso umano, modellata sull’immagine
dell’evoluzione, i selvaggi sono l’equivalente degli uomini primitivi mentre l’animale è
«la bestia», bestia selvaggia, grumo di quegli istinti sessuali e aggressivi che,
nell’animale uomo, la civiltà cerca di imbrigliare.6
Per la legge della ricapitolazione, la storia del singolo individuo ripercorre la
storia dell’umanità. Educazione e sviluppo costituiscono l’argine e il torrente di questo
tumultuoso, periglioso processo. Dentro il nevrotico adulto, dentro i sogni dell’uomo, si
ritrova il bambino e dentro il bambino si ritrova il selvaggio, dentro il selvaggio si
ritrova la fiera: «Abbiamo detto che nel sogno e nella nevrosi si ritrova il bambino con
tutte le particolarità che caratterizzano il suo modo di pensare e la sua vita affettiva;
aggiungiamo ora che vi si rintraccia anche l’uomo primitivo, il selvaggio quale ci appare
alla luce delle ricerche archeologiche ed etnologiche» (Freud, 1910, 406).7
Come direbbe Antonino Ferro ispirandosi all’immaginario hollywoodiano, King
Kong è al fondo di questa immagine del bambino e dell’uomo: appena uscito dalla
foresta, ne conserva un’acuta nostalgia mentre accumula insofferenza nei confronti di
una civiltà che lo ingabbia. L’umanità dell’uomo è sotto la minaccia costante della sua
natura animale. Sulla natura animale che si intravede in controluce nel bambino, Freud
scrive:
«L’attrattiva del bambino poggia in buona parte sul suo narcisismo, sulla sua
autosufficienza e inaccessibilità, al pari del fascino di alcune bestie che sembrano non
occuparsi di noi, come i gatti e i grandi animali da preda» (Freud, 1914, 459). Sembra
catturato da una visione estetica: il bambino gli appare lontano, misterioso, regale. Ma
da dove viene questa impressione di lontananza? Dalla presunta autosufficienza del
bambino o dal punto di osservazione nel quale si colloca Freud? È nel bambino oppure
è nell’uomo? È nel bambino oppure è nello studioso che lo guarda attraverso la cortina
di ferro delle proprie congetture e del paradigma dominante?
Scrive Paula Heimann: «Tutte le qualità del bambino possono essere riassunte
nel concetto di “apertura alla vita”. Ciò che rende i bambini così affascinanti». È il
contrario di quello che vede Freud: il fascino qui non sta nella chiusura, ma
nell’apertura. Paula Heimann guarda il neonato da vicino, si curva su di lui. Sensibile ai
6
Cfr. Nicasi, 1986.
Come ricorda Paolo Rossi (Rossi, 2001, 41), e non Frank Sulloway, Freud muove a se stesso delle
obiezioni su questo punto: cfr. Freud, 1912- 1913, 107-108.
7
5
segnali infantili, notale linee tondeggianti della fronte, delle gote, del mento,
«semicerchi che rimangono aperti» e le paragona a punti interrogativi che riflettono la
sua apertura alla vita. Si intenerisce al cospetto della «meravigliosa tinta rosea, umida e
brillante delle unghie del neonato», ma poi si scusa con i lettori per essersi lasciata
trascinare «nel più vasto campo delle relazioni con i bambini» e per non aver tentato
«un’analisi in profondità» (Heimann, 1979, 93).
Torniamo a Freud. È nella lontananza che sembra maturare un altro caposaldo
della sua concettualizzazione della prima infanzia: l’idea del narcisismo primario,
primigenia fase nella quale l’energia libidica è tutta concentrata sull’Io di un lattante
racchiuso in se stesso come «un uccello nell’uovo», protetto dalla «barriera agli
stimoli», teso a ridurre la tensione per tornare allo stato di quiete intrauterino. Questa
idea, che oggi è entrata in una crisi irreversibile, ha esercitato un lungo potere ipnotico
sia all’interno della psicoanalisi – si pensi per esempio alla «fase autistica normale»
postulata da Margareth Maler e da Frances Tustin – sia nella psicologia evolutiva,
influenzata dalla tradizione psicoanalitica8. Come ricordano Vallino e Macciò, Henry
Wallon era convinto che il neonato non sia in contatto con il mondo esterno. Guillaume
aveva colto – fendendo la nebbia dello Zeitgeist – un «sorriso fuggitivo e un’espressione
meravigliata e attenta nei confronti dei visi umani tra 8 e 11 giorni dalla nascita», ma
questa osservazione era caduta nel vuoto. Persino Merleau-Ponty scrive, in un lavoro
del 1963, che «all’inizio della vita la percezione esteriore è impossibile» (Vallino e
Macciò, 2004, 65).
Ma la rappresentazione del bambino freudiano, padre di tutti i bambini
psicoanalitici a venire, non è completa se non si accenna alla sua caratteristica
fondamentale, a quella Hilflosigkeit, stato di inermità assoluta, di impotenza e di totale
dipendenza dall’aiuto esterno, che, al di là di tutte le sfumature e differenze, costituisce
il marchio di fabbrica del bambino psicoanalitico. Un bambino che viene al mondo
come un naufrago buttato a riva dalle onde infuriate e giace nudo sul suolo, incapace
di parlare, bisognoso di ogni aiuto vitale e riempie lo spazio d’un disperato vagire:
come per Lucrezio, che ha scritto questi versi, così per Freud, la nascita è una catastrofe
e l’angoscia generata dall’impotenza sigla l’esperienza germinale dell’incontro con il
mondo, sulle prode della luce.9 Questa idea è in parte fondata su elementi oggettivi,
primo fra tutti lo stato di neotenia del piccolo umano, e in altra parte è condizionata,
come osserva Amedeo Falci, da preconcetti ideativi forti che prefigurano i dati
osservativi e li piegano. L’impotenza del neonato diventa «un assioma blindato» che
scaturisce non tanto dall’osservazione quanto da uno sfondo teorico fondato sulla
concezione-energetico tensionale dello psichismo infantile, sull’incapacità del controllo
motorio delle tensioni, sulla tendenza alla scarica allucinatoria piuttosto che all’azione
sulla realtà esterna. Questa visione tragica dell’alba della vita umana diventa una sorta
di fantasma ideologico, «una talpa che scava ed erode il valore scientifico della gran
parte dei modelli evolutivi classici della psicoanalisi» (Falci, 2011,4).
8
Cfr. Vallino- Macciò, 2004, 73-74 e Barale- Ucelli, 2006, 74-77 per l’autocritica di Mahler e Tustin.
Per un confronto fra bambino lucreziano e bambino psicoanalitico, cfr. il bel capitolo “Emozioni e
infanzia” in Nussbaum, 218-292. I versi di Lucrezio sono in Tito Lucrezio Caro, 222-227.
9
6
L’ancoraggio all’infanzia resta un punto fermo nella psicoanalisi anche se non
sempre, o sempre meno, esplicitato. Con la crescita della disciplina, si affacciano
all’orizzonte nuove teorie, nuovi modelli e nuove immagini dell’infanzia: nuovi
bambini. Accanto al bambino freudiano classico, compare un bambino kleiniano, un
bambino madre-bambino winnicottiano, un bambino mahleriano… «Tanti bambini
quante le teorie!» (Falci).
Non tento una ricostruzione di questa lunga storia, interessante e ramificata.10
Non tento neppure una ricognizione puntuale di quella che ho soprannominato «la
riserva indiana». Ma, da un lato, mi preme richiamare l’attenzione sul peso delle
«asserzioni grandiose», delle mitologie e degli imperativi epistemologici nell’approccio
psicoanalitico all’infanzia, dall’altro, voglio segnalare, nel corso di questa storia e
all’interno di questo panorama, un passaggio significativo. Mi riferisco all’emergere e
all’imporsi sulla scena di un bambino avvicinato e interpretato in chiave etologica.
Attraverso una linea che muove dalla scuola ungherese, da Ferenczi e dai Balint,
passando per Sutton, per Anna Freud e per gli psicologi dell’Io, per Harlow, per Spitz e
poi di nuovo per Harlow per culminare in Bowlby, in Ainshworth e nella straordinaria
fioritura degli studi sull’attaccamento, prende forza sia l’attitudine metodologica a
osservare i bambini in presa diretta sia una nuova immagine del bambino.
Il bambino è fin da subito immerso nell’ambiente. È in relazione con una
persona, detta il caregiver, che si prende cura di lui – in genere è la madre – dalla quale
dipendono la sua sopravvivenza, il suo senso di sicurezza, la possibilità di esplorare il
mondo e di svilupparsi in modo armonico. Al caregiver si lega e si affida non tanto
perché ne riceve nutrimento, quanto perché ne riceve protezione e risposta al suo innato
bisogno di comunicare. Insieme al caregiver, è impegnato in una fitta e intima
«conversazione» che lo introduce nel mondo sociale. Al fondo del bambino non si
nasconde più un selvaggio o un gorilla, non c’è più King Kong. Fanno capolino
piuttosto i pulcini di Spalding e le papere di Lorenz. Fanno capolino le scimmiette di
Harlow in braccio alla «madre» di pezza. Siamo lontani anni luce dal capezzolo erettile
nella bocca come «umida vagina»: l’allattamento è faccenda animale, non erotica.
Partendo da Ferenczi, si è dismesso il codice della passione e si descrive il bambino
attraverso il codice della tenerezza. Tenerezza che nel bagno etologico si lega
all’«attaccamento».
Come siamo arrivati fin qui? Francesco Gazzillo ricostruisce, nel presente
numero di Psiche, i primi assi di questo profondo, significativo mutamento. Io mi
limito, in chiusura di paragrafo, a segnalare una ricaduta nell’immaginario collettivo. Ci
arrivo attraverso un breve elenco di punti.
1. Ricordavo più sopra (paragrafo 4) che le immagini e gli atteggiamenti relativi
all’infanzia sono condizionati anche dalle circostanze storiche, dalle mode culturali, dai
rimorsi che serpeggiano nella società dove si vanno formando. Molti hanno osservato
che il considerevole sviluppo della psicoanalisi infantile nell’immediato dopoguerra e,
più in generale, un rinnovato interesse per i bambini e una forte preoccupazione sociale
e culturale per la loro crescita, era legato anche alle devastazioni della guerra, ai milioni
10
Per una ricostruzione a grandi linee, rimando al saggio di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti, 2005.
7
di morti, alla sofferenza dei bambini feriti, uccisi, sterminati, rimasti orfani. Non è un
caso che, per esempio – come a Londra Anna Freud e Dorothy Burlingam, come a
Parigi Lebovici e Diaktine – in Italia Luciana Nissim, sopravvissuta ai campi di
concentramento, appena tornata si iscriva alla specializzazione in pediatria e approdi
alla psicoanalisi: «Per curare i bambini non basta sapere come sono fatti fuori, bisogna
conoscerli dentro».11 Allo stesso modo, Marcella Balconi, duramente colpita dalle
persecuzioni razziali, decide di dedicare un’intera vita professionale alla cura dei
bambini.12 L’impatto della guerra produce due effetti in un certo senso contrastanti. Da
un lato contribuisce a una rivalutazione delle conseguenze del trauma ambientale, a una
più attenta considerazione dell’impatto della cosiddetta realtà esterna sulla vita emotiva
delle persone e in particolare dei bambini. Dall’altro, esaspera la percezione della
violenza e conduce a un rafforzamento delle teorie imperniate sull’istinto di morte.
L’aggressività dell’uomo rimbalza sul bambino e raggiunge il lattante, immaginato dalla
Klein e dai kleiniani come un piccolo artificiere alle prese con una bomba nascosta nella
culla. Sul finire del secolo, i rimorsi dell’Occidente si concentrano sulla natura e sugli
animali. Dilaga la filosofia del protezionismo. L’animale ha perso le connotazioni
selvagge, la ferocia morale e l’antica inimicizia con l’uomo. È semplicemente una parte
dell’ambiente naturale che la civiltà minaccia di distruggere per sempre. In questo senso
non è già più «semplicemente» un animale: è una creatura indifesa a rischio di
estinzione. Il panda ne diventa simbolo: in ogni animale selvatico vive un tenero panda.
L’animale è buono, attacca solo per sfamarsi o per difendersi. Il grizzly è buono, il
gorilla di montagna è buono. Alcuni giovani naturalisti perdono la vita, ma non questa
ferma convinzione. In effetti, «Le persone colte pensano sempre di dover proteggere la
natura, benché ne siano completamente soggiogate» (Bernhard, 1981, 200).13 La natura
è buona: le immani catastrofi che si verificano puntualmente – che si sono sempre
verificate – sono messe tutte in conto all’uomo che ha alterato in modo irresponsabile il
pacifico equilibrio del pianeta.
2. Anche il bambino, come l’animale, non è malvagio. Non c’è bisogno di
ipotizzare una pulsione di morte. L’essere umano ha un potenziale aggressivo. Se
l’ambiente rispetta il bambino, se non lo traumatizza, se sua madre gli fornisce
sicurezza e stabilità, il bambino e il futuro uomo faranno un uso sano della propria
dotazione aggressiva. I serial killer hanno alle spalle un’infanzia terribile. Questo non
risulta per Heichman, il più grande serial killer del secolo scorso. Ma esistono le
eccezioni.
3. Anche il bambino, come l’animale, è a rischio di estinzione. Nell’Occidente
nascono sempre meno bambini. Il bambino va protetto.
11
La citazione è tratta dalla biografia di Alessandra Chiappano, 2010. Per l’internamento di Luciana
Nissim, cfr. Nissim, 2008. Cfr. anche, pubblicati nel sito SPI, sotto la voce “Attività scientifica. Report e
altre attvità” i lavori presentati da P.Chiari, M. Badoni, F. Barale, A. Ferruta, A. Foa, A. Ginzburg alla
“Giornata in ricordo di Luciana Nissim”, Roma, ottobre 2010 e, sempre nello stesso sito, sotto la voce
“Psicoanalisi e cultura”, Nicasi, 2009.
12
13
Cfr. Grasso e Crivelli, 2007, 31-34.
La citazione è in Pollo, 2008, 11: il capitolo si intitola “Bontà selvaggia”.
8
Sull’onda di semplificazioni ed esasperazioni ideologiche, si forma e si diffonde
anche nella psicoanalisi un’immagine prepsicoanalitica del bambino – dell’uomo, del
paziente. Si profila un bambino innocente e non conflittuale che, nella critica di
Mitchell (1993), assomiglia a una pianta piuttosto che a un animale. Una nuvola di
borotalco piove sulla sulfurea dottrina di Freud: improvvisamente, siamo su Quark.
5. Il bambino competente: lo shock dell’Infant Research
«Negli ultimi decenni si è assistito a una vera e propria rivoluzione nello studio
del bambino piccolo: in effetti, abbiamo più materiale di ricerca sui primi due anni di
vita che non sul resto dell’esperienza umana» (Stern, 1990, 7). Questa rivoluzione è in
parte legata, spiega Daniel Stern, al fatto che i ricercatori hanno imparato a porre
domande alle quali i piccoli siano effettivamente in grado di rispondere attraverso
segnali che si possano considerare effettive risposte. Per esempio, per sapere se un
neonato al secondo giorno di vita riconosce la madre dall’odore, si è posto a destra sul
cuscino un tampone imbevuto di latte della mamma e a sinistra un tampone imbevuto
del latte di un’altra donna. Il neonato gira la testa verso destra. Se si scambiano le
posizioni dei tamponi, il neonato gira la testa verso sinistra. Abbiamo una risposta
evidente, anzi due: riconosce l’odore della madre e lo preferisce. Anche l’uso della
cinepresa14 ha contribuito a questa rivoluzione dato che è possibile fermare l’immagine,
rivedere più volte un gesto, misurarne la frequenza e la durata: la cinepresa, nota Stern,
ha avuto la stessa importanza che ha avuto il microscopio nel rivelarci l’esistenza di
microrganismi prima invisibili. La stessa importanza, potremmo dire con un’iperbole,
che avuto il cannocchiale quando è stato puntato verso le stelle: come il telescopio, così
la cinepresa esisteva da tempo ma bisognava operare un rovesciamento di prospettiva e
infrangere un tabù per introdurla nel sacro recinto della nursery dove erano ammesse
unicamente devote seguaci del metodo di Esther Bick, «il solo metodo – scrive Florence
Guignard – che possa interessare uno psicoanalista» (Guignard, 2000, 53). Non un
metodo, il solo.
Dall’Infant Research in particolare e dalla psicologia evolutiva in generale
emerge una nuova immagine del bambino. Nella letteratura spunta, ricorre e si diffonde
rapidamente anche in altri contesti il verbo «elicitare», dall’inglese to elicit, che
sostituisce la forma «elicere» di uso poetico e raro.15 Elicitare, «tirar fuori», e
sollecitare, «stimolare», «accelerare»: il bebè invita l’adulto allo scambio sociale
suscitando risposte parentali. Quando si parla dell’originaria impotenza del neonato si
deve contemporaneamente tenere ben presente la sua potente forza attrattiva,
l’imperioso richiamo a che gli siano spalancate le porte del mondo. «Ecco Guido!»,
diceva a dodici mesi un bambino di mia conoscenza, ogni volta che faceva la sua
comparsa.
14
Gli impressionanti, pionieristici, filmati di René Spitz risalgono al 1952 e si trovano facilmente in
Internet così come quelli di Harlow sul comportamento delle piccole scimmie Rhesus.
15
Così recita il Dizionario Devoto–Oli: «Tirar fuori, estrarre, spremere ( per lo più riferito al pianto e
adoperato quasi esclusivamente all’infinito e nella forma elice dell’ind. pres.): Questo finto dolor da molti
elice Lagrime vere (Tasso)».
9
Un bambino «competente» nella discriminazione della realtà circostante, nella
precoce capacità di relazionarsi con gli adulti, nell’orientare attivamente l’accudimento.
Sveglio, vivace, interessato, pronto all’imitazione, equipaggiato per il gioco interattivo
con gli esseri umani fin dai primi giorni di vita: buone notizie? Non proprio. Non per
una parte della comunità psicoanalitica che ha reagito allo «shock dell’Infant
Research»16 con una levata di scudi: «Chi non sente che c’è più verità nella descrizione
fatta da Marcel Proust del bacio della buona notte piuttosto che nella massa delle
osservazioni dirette con pretesa scientifica?» (Green, 1979, 49). Oppure: «Quando Bion
ci offre la sua concezione del bambino, gli riconosce degli attributi che derivano dalla
filosofia, dalla matematica moderna e dal pensiero logico. Niente a che fare con il
modello del tubo digerente caro ai pediatri, anche se dotato di un’intelligenza
elementare detta senso-motoria» (Green, 1979, 48). Nel fuoco della perorazione, Green
dimentica che Freud ha lavorato dieci anni come pediatra17 e che proprio da un
«modello del tubo digerente», la «gastrea primordiale», ha preso le mosse la sua visione
della sessualità infantile. Come nasce la violenta presa di posizione di André Green,
mostro sacro della psicoanalisi francese? Nel paragrafo che segue forse il lettore potrà
farsi un’idea.
6. Il bambino clinico e il bambino osservato.
Nel 1987 Daniel Stern introduceva una distinzione fra il «bambino clinico» e il
«bambino osservato». Il bambino clinico è il bambino «ricostruito» nella stanza
d’analisi attraverso il rapporto con un paziente adulto o con un paziente bambino: «Ci
siamo abituati a concepire l’infanzia sulla base di ciò che scopriamo in un’analisi,
seguendo l’esempio dello stesso Freud» (Winnicott, 1957, 66).
Abbiamo visto (paragrafo 3) come a sua volta l’idea del bambino che l’analista
ha in mente lo orienti nel rapporto con il paziente il quale produce materiale che
l’analista tende a utilizzare a sostegno e arricchimento del proprio modello di
riferimento. Come notava Sandra Filippini, si tratta di un processo che ha tutte le
caratteristiche di una pseudo-spiegazione: «Le osservazioni compiute, nella clinica
psicoanalitica, sulla patologia dell’adulto vengono utilizzate per costruire una teoria
dello sviluppo usata a sua volta per spiegare la patologia dell’adulto» (Filippini, 1995,
2). La stessa autrice prendeva dalla letteratura psicoanalitica, che ne offre in
abbondanza, un esempio di ragionamento circolare. Analizzando un articolo di Leonard
Shengold intitolato «Invidia e invidia maligna», implacabilmente lo riassumeva: «1) vi
sono pazienti che presentano, in analisi, forme di invidia maligna – vengono, a questo
proposito, portati due esempi clinici; 2) come si può spiegare tale invidia? 3) l’Autore
propone, a partire dall’osservazione della qualità dell’invidia dei suoi pazienti e
servendosi di apporti della letteratura psicoanalitica, che vi sia una fase precoce dello
sviluppo caratterizzata dall’ invidia; 4) una regressione a questa fase causa, e spiega, la
16
17
L’espressione è di Vallino e Macciò, 2004, 68-70.
Su Freud pediatra, e sul «Perché abbiamo ignorato Freud pediatra» si veda Bonomi, 2007, 80-89.
10
patologia dell’adulto». Argomentazioni di questa natura «hanno un’aria così familiare
da anestetizzare le nostre capacità critiche» (Filippini, 1995, 3).18
Questo modo di funzionare, che risale alla fondazione della disciplina, è tuttora
riconosciuto da molti psicoanalisti come il solo che li riguardi. Afferma per esempio
Peter Wolff che per la psicoanalisi è rilevante solo ciò che proviene dal lettino.19 Ma,
come abbiamo visto, quello che proviene dal lettino è selezionato e interpretato
attraverso un sapere precostituito e in parte influenzato dalle ideologie dominanti. Chi si
appella a Freud per legittimare teorie costruite unicamente in base ai dati provenienti dal
lettino non solo ignora la straordinaria e imprevedibile capacità di penetrazione delle
idee, fenomeno ben noto agli storici delle idee e agli epistemologi, ma non rende
giustizia alla curiosità di Freud, alla sua vasta e aggiornata cultura scientifica, alla sua
abilità di recuperare buoni mattoni per costruire l’edificio dai contesti più diversi (e
qualche volta di far sparire le tracce). E forse dimentica che la nascita di un genio è un
evento molto raro.
In ogni caso il problema più spinoso è rappresentato dal fatto che abbiamo
utilizzato i dati provenienti dal lettino per mettere a punto modelli che hanno la pretesa
di fornire una descrizione corretta e universalmente valida dello sviluppo infantile. Ci
siamo sbilanciati, da sempre e con sempre maggiore disinvoltura, in affermazioni
impegnative su quello che succede nel corso della crescita. Non contenti delle fasi orale,
anale e fallica, che la vulgata ha continuato a propinare a stuoli di pediatri, maestre
d’infanzia e madri in attesa anche quando le fasi in questione erano scomparse da tempo
nei manuali di psicologia dell’età evolutiva, abbiamo ipotizzato le cosiddette «fasi
precoci», spingendoci sempre più indietro nel tempo, catturati dalla «vertigine» delle
origini e del primitivo (Diatkine, 1979). Abbiamo presa per buona la data che Melanie
Klein aveva immaginato per la «posizione schizoparanoide» senza preoccuparci se la
distinzione fra «seno buono» e «seno cattivo» che vi è implicata sia compatibile con il
livello di maturazione dell’Io a sei settimane di vita.20
Invitati al confronto, alcuni ricorrono all’espediente di restringere la definizione
della psicoanalisi e sacrificano il paradigma psicoevolutivo. Confinano l’infanzia nella
remota infanzia della psicoanalisi, cacciandola in soffitta o nella riserva indiana. Per
esempio, Peter Wolff sostiene che la psicoanalisi è «una psicologia di significati
personali idiosincratici e di motivazioni nascoste» (Wolff, 1996, 56) e pertanto non
interessata alle osservazioni infantili.
«Quante volte, mentre supervisionavo un’analisi di un bambino, ho constatato
che l’analista incontrava un bambino per la prima volta, e nel ruolo di paziente»
(Heimann, 1979, 92). Tuttavia, è proprio nell’alveo della psicoanalisi infantile che si fa
18
Sul ragionamento circolare in psicoanalisi, Filippini è tornata in Relazioni perverse: cfr. Filippini, 2005,
23, nota 1.
19
Cfr. Wolff, “L’irrilevanza delle osservazioni infantili per la psicoanalisi”, in Bonaminio-Fabozzi, 2002,
43-60. Corre l’obbligo di ricordare che prima di decretarne l’irrilevanza Wolff aveva prodotto contributi
importanti nell’osservazione del comportamento infantile. In particolare, la sua descrizione degli stati
ricorrenti di coscienza nei neonati (Wolff, 1966) condusse Stern a rivedere drasticamente l’ipotesi della
barriera degli stimoli (Stern, 1985, 235).
20
Cfr. Cramer, «Su qualche presupposto dell’osservazione diretta del bambino», in Pontalis et al., 1981,
124-125.
11
strada l’esigenza di stabilire, potremmo dire, «incontri ravvicinati del terzo tipo»:
conoscere i bambini, sia quelli sofferenti sia quelli sani, seguendo una strada più diretta,
ma non per questo meno problematica, rispetto all’esplorazione a ritroso nel corso
dell’analisi. Bambini in carne e ossa e non solo bambini evocati, immaginati, sognati.
Bambini in corso e non solo bambini ricostruiti. Bambini in fiore e non solo bambini
bonsai21 coltivati per anni nella serra dell’inconscio e della stanza di analisi.
Scriveva Winnicott: «L’applicazione delle scoperte di Freud sull’origine delle
psiconevrosi alla psicologia del bambino di due-tre anni non ha incontrato grosse
difficoltà, sebbene anche qui gli psicoanalisti fossero portati a dire cose vere nell’analisi
e non più vere se riferite così di peso alla psicologia infantile» (Winnicott, 1957, 66).
L’osservazione condotta dagli analisti da un lato acquista valore di conferma delle
ipotesi, dall’altro funziona come correttivo e potenziale messa in crisi: «Ciò che ci colpì
particolarmente fu l’ampio sovrapporsi dello stadio orale a quello anale» (Freud A,
1950, 46)22; «Taluni concetti mi sembrano veri quando conduco un’analisi e falsi
quando esamino i lattanti nel mio ambulatorio» (Winnicott, 1957, 67). È vero che, se
l’ipotesi è molto forte e se forte è la motivazione dell’osservatore a vederla confermata,
nell’osservazione si trova quello che si cerca, ma è anche vero che presto, nella storia
della psicoanalisi, sono i ricercatori più a contatto con i bambini che danno il via a
revisioni delle teorie o a nuove teorie che cercano di tenere in conto l’esperienza fatta
sul campo.
Di nuovo, non posso qui ripercorrere questa storia nella storia, la storia dei
metodi osservativi nella psicoanalisi.23 E neppure la storia dei rapporti fra psicoanalisi e
ricerca evolutiva. Storie caratterizzate da una certa fatica, da numerosi fraintendimenti e
da concezioni ingenue:come se anche il bambino osservato non fosse a sua volta una
costruzione; come se si trattasse di scegliere fra l’osservazione e la clinica e come se
l’una fosse in grado di contraddire direttamente l’altra. Difficile invece concepire quello
che da un punto di vista appena più raffinato sul piano epistemologico appare ovvio:
che l’una possa servire l’altra dal momento che l’osservazione ha bisogno di teorie che
la orientino mentre le teorie hanno bisogno di vincoli e di riferimenti esterni che le
assicurino al dominio della scienza. Migliaia di osservazioni e di registrazioni dei
comportamenti infantili ci dicono poco o nulla sulla esperienza soggettiva del bambino.
Come si passa dagli eventi osservabili all’esperienza interna? Che qualità ha questa
esperienza? È qui che la clinica si interfaccia con l’osservazione. È questo il campo
della ricerca che ci interessa. «Per curare i bambini non basta sapere come sono fatti
fuori, bisogna conoscerli dentro»: la frase di Luciana Nissim va continuamente percorsa
nei due sensi, per curare i bambini non basta conoscerli dentro, bisogna sapere come
21
Rubo questa bella immagine al titolo di un insolito romanzo di Paolo Zanotti.
«Nell’osservare l’andirivieni delle manifestazioni di pregenitalità nella loro inesorabile sequenza,
l’osservatore non può fare a meno di sentire che ad ogni studioso di psicoanalisi dovrebbe essere data
l’opportunità di osservare questi fenomeni nel momento in cui si verificano in modo da acquisire un
quadro rispetto al quale poter controllare le sue successive ricostruzioni analitiche» (Freud A., 1950, 46).
Corsivo mio. In seguito Anna Freud si sbarazzò dell’inesorabile sequenza grazie al modello delle «linee
di sviluppo».
23
Rimando a due raccolte utilissime: Pontalis et al., 1981; Bonaminio e Jaccarino ( a cura di), 1989.
22
12
sono fatti fuori, ricordando che il «dentro» e il «fuori» sono costrutti e dunque regioni
dai confini mobili.
Certo è possibile che, messe alla prova, vagliate alla luce dell’osservazione e
della ricerca empirica, alcune ipotesi vengano a cadere, come è successo per l’autismo
quando la psicoanalisi ha dovuto abbandonare l’idea che fosse l’esito di un fallimento
nell’uscita dalla «fase autistica normale»: «Non solo non esiste alcuna “fase autistica
normale”; non esiste neppure alcunché, nello sviluppo umano normale, che assomigli a
ciò che accade nell’autismo» (Barale e Ucelli, 2006, 77). La tragedia della scienza è
nello «scempio di una bellissima ipotesi perpetrato da un orribile fatto» (Huxley, 1870).
Sergio Bordi notava che quando si accenna a punti critici da condividere con
altre discipline e suscettibili di qualche integrazione, lo psicoanalista «cade in
apprensione» sentendosi minacciato nella sua identità (Bordi, 1995). Non è una
caratteristica peculiare della psicoanalisi la chiusura difensiva nei confronti della
minaccia identitaria costituita da ciò che è nuovo e al contempo attiguo. Tutte le
comunità scientifiche sono esposte alla tentazione di cementare i confini della propria
disciplina. Ma la scelta della parola «apprensione» sembra rimandare a qualcosa che
sfugge alle abituali categorie interpretative della epistemologia e della sociologia della
scienza. Non si tratta soltanto di spinte paranoiacali. Aldilà del vissuto di persecuzione
si profila un vissuto di preoccupazione. Come se la psicoanalisi, tanto amata, sembrasse
fragile alla comunità degli analisti: fragile, cagionevole, sempre a rischio di buscarsi
qualche malanno. Bisogna allora proteggerla dai virus e dalle correnti d’aria, un po’
come quei bambini che le mamme fanno uscire di casa sempre con la sciarpetta al collo:
«perché le relazioni di vicinato sono seduttrici» (Green, 1979, 39).
Anna Freud, che pure ha dato un contributo deciso all’apertura verso
l’osservazione e verso la psicologia evolutiva, riconosce che «uno spostamento di
interesse sull’osservazione del comportamento aperto e manifesto segna un passo che si
compie non senza apprensioni». Come psicoanalisti, prosegue, «noi non siamo
interessati ai dati comportamentali per se stessi»: sembra pacifico qualcosa che è già
intrinsecamente problematico e cioè la possibilità di isolare «i dati comportamentali per
se stessi» ( Freud A., 1950, 41).
La stessa cautela si ritrova in molti lavori che, nel corso degli anni, si sono
espressi a favore dell’osservazione dando però l’impressione di conservare una
prudenziale riserva, tanto che Bertrand Cramer si chiede spazientito: «Esiste una misura
comune fra le informazioni di osservazione e quelle di ricostruzione, oppure rimaniamo
lì, in due mondi di discorsi profondamente eterogenei, sperando in un incontro come
quello della balena e dell’orso polare che non avverrà mai?» (Cramer, 1979, 122).
Winnicott sentiva il bisogno di precisare che «l’osservazione diretta non può
invalidare ciò che viene ripetutamente trovato nell’analisi; l’osservazione diretta può
soltanto dimostrare che i pazienti hanno antidatato taluni fenomeni e hanno perciò dato
all’analista l’impressione che determinate cose siano accadute in un’età in cui non
sarebbero potute accadere» (Winnicott, 1957, 67). Il corsivo è mio: pur di salvare le
congetture degli analisti, si dice che sono i pazienti a essersi sbagliati. Ma quando mai si
è sentito qualcuno dire dal lettino che, per esempio, a due mesi si sentiva cadere in
pezzi?
13
Winnicott è stato pediatra prima di diventare psicoanalista di adulti e di bambini.
Ripetuti «incontri ravvicinati del terzo tipo» lo muovono a rispetto verso l’osservazione,
pur con le ambiguità di cui sopra. Nel medesimo scritto introduce una distinzione
preziosa e fondamentale. Può darsi, egli dice, che quanto veniamo scoprendo
nell’analisi come «profondo» non coincida con «precoce». Si interrompe, grazie a
questo colpo maestro, la coazione a ricapitolare di freudiana e ottocentesca memoria:
più profondo, più infantile, più grave.24 Non tutto ciò che è inconscio è infantile.
«Sempre più profondo» non significa necessariamente «sempre più precoce»: «Mi pare
che, se si accettasse questa differenza essenziale tra profondità e precocità, sarebbe più
facile per chi compie osservazioni dirette e per gli analisti venire a patti fra loro»
(Winnicott, 1957, 69).
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti. A partire dal famoso saggio di
Peterfreund (1978), attraverso i contributi di Brazelton, Emde, Stern, Cramer, attraverso
gli studi sull’attaccamento e i lavori di Fonagy, attraverso l’ampio dibattito
internazionale che ne è seguito, molte cose sono cambiate, le posizioni si sono
ammorbidite, alcuni pregiudizi sono caduti. L’osservazione diretta è confluita nel più
ampio filone della ricerca sullo sviluppo, ricerca che si avvale di contributi
pluridisciplinari, dalla psicologia dell’età evolutiva alle neuroscienze,dalla
neurobiologia interpersonale all’etnopsichiatria. Sempre meno sono gli studiosi,
compresi gli psicoanalisti, che pensano di poter venire a capo dello sviluppo normale e
patologico restando all’interno della propria disciplina, restando per così dire «in
famiglia».
Nonostante lo sconforto da più voci espresso, lo stato dell’arte non è così
disperante: la psicoanalisi non è più chiusa nel suo narcisismo primario, tesa a evitare il
dispiacere che le proviene dagli stimoli esterni attraverso la scarica allucinatoria. Ci
sono buone possibilità di migliorare lo stato della riserva indiana.25
Molte cose sono cambiate, ma non tutte. La diffidenza verso i metodi osservativi
e verso la psicologia evolutiva sopravvive e ogni tanto si fa sentire, non solo nelle
invettive di André Green. La raccolta di saggi Quale ricerca per la psicoanalisi? si apre
con una Introduzione dall’impianto robusto. Gli autori tuttavia non possono esimersi dal
sottolineare che il bambino dell’Infant Research è «privo di angosce, beato e sorridente,
forse proprio perché così competente». A questo bambino, appellandosi alla dimensione
tragica della psicoanalisi, con una mossa che ricorre spesso nel dibattito, sembrano
24
In una lucida rilettura dei Tre saggi, Anna Ferruta difende la visione freudiana di un soggetto che la
sessualità e il perseguimento del piacere rende autarchico, non interamente riducibile e risolvibile nella
relazione con l’altro. Ma si svincola dalla ricapitolazione proponendo un
modello fondato
sull’andamento ricorsivo della sessualità infantile (Ferruta, 2010).
25
Anche in Italia, come prova lo stesso dibattito suscitato dal libro di Andrea Seganti (2009) o
l’intervento di Vincenzo Bonaminio in questo numero di Psiche. Un dibattito che ha intorno e alle spalle
una tradizione di psicoanalisi infantile aperta e impegnata (cfr. Algini,2007); la colta e incessante opera di
aggiornamento di Sergio Bordi; una tempestiva convergenza sulle critiche di Peterfreund da parte di
Giordano Fossi; un’ampia serie di contributi, a partire da quelli di Nino Dazzi, Massimo Ammaniti,
Sergio Muscetta nello studio dell’attaccamento; lo studio dell’autismo con l’importante revisione critica
di Francesco Barale e Stefania Ucelli; le osservazioni e le terapie genitori-bambino condotte alla
fondazione Stella Maris in collaborazione con Cramer, Alvarez, Palacio Espasa, Stern e molto altro
ancora, compresi il grande lavoro nell’Infant Observation che ha trovato in Gina Ferrara Mori e in Dina
Vallino le sue espressioni più alte.
14
contrapporre l’altro bambino: «immerso nelle angosce impensabili del cadere per
sempre, del non avere un orientamento nello spazio e nel tempo, nell’assenza di una
relazione tra psiche e soma, nei territori senza nome, nelle emozioni arcaiche e negli
oggetti parziali» (Bonaminio e Fabozzi, 2002, 24). È il bambino evocato nella stanza
d’analisi, guardato sempre con gli occhi pieni di lacrime. Il bambino con il marchio di
fabbrica: appartiene alla nostra formazione, al DNA analitico. Il bambino che racchiude
in sé gli insegnamenti dei maestri e la sofferenza di tutti i bambini sofferenti. Compresa
la nostra. Ci riporta alle nostre miserevoli infanzie trascorse nell’agiatezza. Miseria e
agiatezza che ci hanno conquistati ai versi di Lucrezio e alla nostalgia di Proust come al
disincanto di Freud e ci hanno gettati sul lettino, alla proda luminosa della psicoanalisi
con la quale abbiamo contratto un debito di gratitudine che dura tutta la vita.26
Esporre un analista all’immagine del lattante sull’orlo di un’impensabile
angoscia equivale perciò a far risuonare in lui il richiamo della foresta. Pochi resistono.
Posto di fronte all’alternativa, chi di noi non salverebbe il neonato perduto nei territori
senza nome?
Ma perché porre un’alternativa? Perché un’immagine deve essere per forza più
vera dell’altra? Perché abbiamo stabilito che il positivo sta in superficie e il negativo in
profondità? E perché poi ci sentiamo più bravi se lavoriamo con il negativo e nel
profondo? È la coazione a ricapitolare: più grave, più profondo, più infantile, più…
psicoanalitico. Perché snobbiamo le forze e le risorse dell’Io? Perché celebriamo la
tempesta senza preoccuparci di sapere cosa rende sicura la barca? Perché dovremmo
terrorizzare le future madri con immagini apocalittiche di neonati che fronteggiano
l’estremo sull’orlo di una crisi capace di comprometterne per sempre l’equilibrio
mentale?
«Non vedo nelle vostre risposte niente che abbia a che fare con il transfert e il
controtransfert, niente che parli della storia rimossa del soggetto… non ci trovo
alcunché che evochi il ritorno della parola su di sé… e nelle vostre idee non si pone
nemmeno il problema del desiderio, del piacere e della pulsione; io mi interrogo
sull’insistenza della fascinazione immaginaria attraverso l’immagine di sé, sulla
caparbietà del godere e del soffrire? E voi, che ne dite?»: perché crediamo che «lo
psicoanalista la cui teoria e la cui pratica sono messe in questione dalle conquiste della
scienza» possa seriamente usare questi argomenti nel discutere con i suoi
interlocutori?27 Crediamo ancora che ci basti evocare l’oscurità, fare la ruota con le
penne di Freud e pronunciare l’«Abracadabra» perché tutti restino persuasi che stiamo
intrattenendo rapporti speciali con la verità? A furia di attaccare cartelli «Non
disturbare» la psicoanalisi ha corso il rischio di restare isolata e tagliata fuori dal
dibattito scientifico contemporaneo.
26
Prendo alla lettera l’espressione «il povero bambino ricco» di Alice Miller che ha riflettuto su «Il
dramma del bambino dotato e come siamo diventati psicoterapeuti» (Miller, 1994, 11-36).
27
Con questa lunga citazione di Green (Green, 1992, 73) si chiude l’Introduzione a Quale ricerca per la
psicoanalisi? (Bonaminio e Fabozzi, 2002, 28).
15
7. Ritorno al punto di partenza
Mia nipote Valentina è arrivata in fondo a Tracy Hogg, la bibbia delle
puericultura. Mi manda un sms: «Cosa posso leggere di psicoanalisi sui bambini? ». La
domanda invita a ricordare. Quando ero giovane, più di trent’anni fa, la mia vicina di
ombrellone, giovane pure lei, aveva le braccia piene di morsi. Entrando in confidenza,
con una certa aria compiaciuta, ci tenne a giustificare quei segni: «Samuele è nella fase
orale». Io pensai che essere nella fase orale non avrebbe dovuto autorizzare Samuele a
mordere selvaggiamente sua madre, tuttavia a quel tempo ero bene educata e non feci
commenti. Non so riferire cosa successe nella fase anale perché l’anno successivo, per
prudenza, avevo cambiato spiaggia. Ma mi è rimasto il sospetto che I tre saggi non
siano una lettura adatta alle madri. Dopo altri ricordi e modeste crisi di coscienza,
telefono a Valentina: «Tesoro, lascia perdere. Se mai, leggi Le ceneri di Angela che,
nonostante il titolo, è un libro pieno di ottimismo. Rileggi Gian Burrasca. Rileggi
Dickens, Grandi speranze». Grandi speranze: infanzia e psicoanalisi. Nonostante tutto,
proprio questo forse le accomuna.
SINTESI
L’articolo ricostruisce a grandi linee l’affacciarsi di differenti immagini del bambino
nella storia della psicoanalisi. Segnala lo stato di relativo abbandono nel quale versa la
riflessione psicoanalitica sull’infanzia. Si sofferma su alcuni nodi attorno ai quali la riflessione
si è arenata, interrogandosi in particolare sul rapporto fra «bambino clinico» e «bambino
osservato» e sull’atteggiamento della comunità degli analisti nei confronti della ricerca
evolutiva.
PAROLE CHIAVE: Psicoanalisi, infanzia, storia.
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