Tessa, oggi

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Tessa, oggi
1181
Titolo originale: Black-Eyed Susans
Copyright © 2015 Julia Heaberlin
All rights reserved
This translation is published by arrangement with Ballantine Books, an imprint of
Random House, a division of Penguin Random House LLC
Traduzione dall’inglese di Marianna Cozzi e Angela Ricci
Prima edizione ebook: marzo 2016
© 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-9218-8
www.newtoncompton.com
Julia Heaberlin
Gli occhi neri di Susan
Newton Compton editori
A Sam, che mi ha rivoluzionato la vita
Prologo
Ho perso trentadue ore della mia vita.
Lydia, la mia migliore amica, mi dice di pensare a queste ore come a vecchi vestiti
in fondo a un armadio buio. Chiudi gli occhi. Apri l’anta. Rovista. Cerca.
Ci sono cose che ricordo bene, ma preferirei non fosse così. Quattro lentiggini.
Occhi che non sono neri, ma azzurri, sbarrati, a pochi centimetri dai miei. Insetti che
rosicchiano una guancia morbida e liscia. Granelli di sabbia tra i denti. Ecco quello
che è impresso nella mia memoria.
È il mio diciassettesimo compleanno e sulla torta le candeline sono accese.
Le fiammelle mi invitano a fare in fretta. Penso a quei gelidi cassetti di metallo
pieni di margherite gialle, della varietà che chiamano Black-Eyed Susan, “Susan dagli
occhi neri”, per via di quel bottone scuro, quella specie di occhio, al centro dei petali.
Per quanto continui a sfregare, non riesco a togliermi di dosso il loro profumo, anche
dopo molte docce.
Sii felice.
Esprimi un desiderio.
Mi stampo un sorriso in faccia e mi concentro. Tutti in questa stanza mi amano e
mi vogliono a casa.
Ho buone speranze per la vecchia Tessie.
Fa’ che quei ricordi non tornino mai più.
Chiudo gli occhi e soffio sulle candeline.
Parte prima
Tessa e Tessie
Mia madre mi ha ucciso
Mio padre mi ha mangiato
Mia sorella ha raccolto le mie ossa
le ha avvolte in un fazzoletto di seta
e le ha deposte sotto il ginepro.
Cìo, cìo, che bell’uccello sono io.
Tessie, 10 anni, legge al nonno alcuni versi tratti da
Il ginepro (Jacob e Wilhelm Grimm), 1988
Tessa, oggi
Comunque vada, mi incammino lungo il sentiero tortuoso che conduce alla mia
infanzia.
La casa, in cima a una collina, ha una forma tutta strana, come se un bambino
l’avesse costruita con mattoncini e rotoli di carta igienica. Il camino ha una buffa
inclinazione e le torrette schizzano ai lati come missili sul punto di decollare. Nelle
notti d’estate dormivo in una di quelle torrette e fingevo di sfrecciare nello spazio.
Anche se al mio fratellino non piaceva, io mi divertivo spesso a uscire da una delle
finestre sul tetto e avanzavo lentamente sulle ginocchia sbucciate verso la terrazza
panoramica, aggrappandomi alle orecchie appuntite del gargoyle sul tetto e al
davanzale per tenermi in equilibrio. Una volta in cima, mi appoggiavo alla ringhiera
arabescata per scrutare le sconfinate pianure del Texas e le stelle del mio regno.
Suonavo il mio piccolo flauto traverso per gli uccelli notturni. La camicia da notte di
cotone frusciava nel vento come se fossi una strana colomba in cima a un castello.
Sembra una fiaba, e lo era.
In quella strampalata casa di campagna, da libro delle favole, ci abitava mio nonno,
ma in realtà l’aveva costruita per mio fratello Bobby e per me. Anche se non era poi
così grande, non so ancora come lui abbia potuto permettersela. A ognuno di noi
aveva regalato una torretta, un luogo in cui potevamo nasconderci dal mondo ogni
volta che volevamo squagliarcela. Da parte sua era stato un grande gesto di
generosità: ci aveva regalato una nostra Disney World personale per compensare
l’assenza di nostra madre.
Poco dopo la sua morte, la nonna provò a sbarazzarsi della casa, che invece fu
venduta solo diversi anni dopo, quando ormai lei era sottoterra accanto al marito e alla
loro figlia. Nessuno la voleva. La gente diceva che era inquietante. Maledetta. Sono
state le malelingue a far sì che lo diventasse per davvero.
Quando mi hanno ritrovata, quella casa è stata sbattuta su tutti i giornali e ha fatto il
giro delle tv.
I quotidiani locali la soprannominarono Grim’s Castle, con una sola “m”. Non ho
mai saputo se fosse un refuso. Noi texani abbiamo una pronuncia differente, non
sempre facciamo sentire le doppie alla fine delle parole. Per via di quella casa
bizzarra, la gente sospettava che il nonno avesse a che fare con la mia scomparsa e
con l’omicidio delle altre Susan dagli occhi neri. «È come Michael Jackson e la sua
tenuta di Neverland», mormorava, sebbene poco più di un anno dopo un uomo fosse
finito nel braccio della morte per quegli stessi delitti. A sparlare erano le stesse
persone che a Natale si accostavano con l’auto davanti al portone perché i figli
potessero guardare come tanti allocchi la casa di pan di zenzero tutta illuminata e
prendere un bastoncino di zucchero dal cesto che si trovava nella veranda d’ingresso.
Premo il campanello. Non suona più la Cavalcata delle Valchirie. Non so cosa
aspettarmi, così rimango un po’ sorpresa quando ad aprire la porta è una coppia di
anziani che sembra essere in perfetta armonia con quel posto. La casalinga sciatta e
grassottella, con un fazzoletto in testa, il naso affilato e lo straccio per spolverare in
mano mi ricorda la filastrocca della vecchia signora che viveva in una scarpa.
Balbettando, chiedo di entrare. La donna pare riconoscermi all’istante e distende
leggermente le labbra. Individua subito la piccola cicatrice a mezzaluna che ho sotto
l’occhio. Ha lo sguardo di chi vorrebbe dire “povera bambina”, anche se sono passati
diciott’anni e ora ho una figlia.
«Mi chiamo Bessie Wermuth», dice. «E questo è mio marito, Herb. Entra, cara».
Herb aggrotta le sopracciglia e si appoggia al suo bastone. Capisco che è sospettoso.
Non lo biasimo. Sono pur sempre un’estranea, anche se lui sa esattamente chi sono.
Tutti qui nel raggio di cinquecento miglia lo sanno. Sono la ragazza Cartwright che
tanti anni fa è stata scaricata sull’Autostrada 10, in un appezzamento di terra vicino
alla tenuta dei Jenkins, insieme a una studentessa universitaria strangolata e a un
mucchio di ossa umane.
Sono una celebrità nei titoli dei giornali scandalistici e nelle storie di fantasmi
raccontate intorno al fuoco.
Sono una delle quattro margherite gialle, le quattro Susan dagli occhi neri.
Quella fortunata.
«Ci vorranno solo pochi minuti», prometto. Il signor Wermuth aggrotta la fronte,
ma la signora Wermuth dice: «Sì, naturalmente». È chiaro che è lei a prendere le
decisioni su tutte le questioni più importanti, come l’altezza dell’erba del prato o cosa
farsene di una trovatella dai capelli rossi baciati dal diavolo che compare sulla soglia e
chiede di entrare.
«Non possiamo venire là sotto con te», brontola l’uomo spalancando la porta.
«Entrambi siamo scesi giù solo di rado da quando viviamo qui», si affretta a dire la
signora Wermuth. «Forse una volta all’anno. È umido. E c’è un gradino rotto.
Un’anca fratturata potrebbe farci fuori. A quest’età basta che ti rompi un ossicino e
nel giro di un mese ti ritrovi davanti alle porte del paradiso. Ti consiglio di non
mettere mai piede in un ospedale dopo i sessantacinque anni, se non vuoi restarci».
Mentre la donna dice quelle cose deprimenti rimango impietrita nel salone,
inondata di ricordi, e vado in cerca di oggetti che non si trovano più lì. Il totem che
un’estate io e Bobby, senza che nessuno ci controllasse, abbiamo intagliato con la
sega, andando a finire dritti al pronto soccorso. Il quadro del nonno che ritraeva un
topolino a bordo di una barca, con un fazzoletto al posto della vela, in mezzo a un
perfido mare in burrasca.
Ora al suo posto è appeso un Thomas Kinkade. La stanza ospita due divani fiorati e
una serie impressionante di gingilli, ammassati su scaffali e bacheche. Boccali di birra
in ceramica decorata e candelabri provenienti dalla Germania, una collezione di
bambole dei personaggi di Piccole donne, farfalle e rane di cristallo, almeno cinquanta
tazze da tè inglesi finemente incise, un Pierrot di porcellana con la sua lacrima nera
sul viso. Mi chiedo come diavolo siano finiti tutti nello stesso posto.
Si sente un ticchettio rilassante. Su una parete sono allineati dieci orologi antichi,
due hanno il pendolo a forma di coda di gatto e oscillano perfettamente a tempo.
Capisco perché la signora Wermuth abbia scelto la nostra casa. A modo suo, lei è
una di noi.
«Andiamo», dice. La seguo obbediente attraverso un corridoio che si snoda dal
soggiorno. Un tempo riuscivo a percorrere quelle curve sui pattini a rotelle, anche al
buio. Lungo il tragitto la donna accende la luce e d’improvviso mi sento come se
stessi camminando nel braccio della morte.
«In tv si dice che l’esecuzione avverrà tra un paio di mesi». Quelle parole mi fanno
sobbalzare. Pare avermi letto nel pensiero. La voce aspra e colma di fumo di sigaretta
dietro di me appartiene al signor Wermuth.
Mi fermo e mando giù il nodo che ho in gola aspettando che lui mi chieda se
intendo sedermi in prima fila e vedere il mio aggressore che esala l’ultimo respiro. E
invece mi dà un colpetto goffo sulla spalla. «Io non andrei. Non regalargli neanche un
altro dannato secondo del tuo tempo».
Mi sono sbagliata su Herb. Non sarebbe la prima volta e nemmeno l’ultima. Ho
ancora il viso rivolto verso di lui, perciò quando il percorso svolta all’improvviso
sbatto la testa contro il muro. «Sto bene», dico subito alla signora Wermuth. Lei alza
la mano, ma esita a toccarmi la guancia dolorante perché è vicinissima alla cicatrice,
quel segno permanente causato da un anello con granato appeso a un dito scheletrico.
Il dono di una delle altre Susan che non voleva che mi dimenticassi di lei, mai.
Respingo delicatamente la mano della signora Wermuth. «Non ricordavo che il
corridoio svoltasse così presto».
«Maledetta casa strampalata», dice Herb sottovoce. «Cosa diavolo c’è di sbagliato
nel vivere a St. Pete?». Non sembra aspettarsi una risposta. Il punto in cui la mia
guancia è stata colpita comincia a dolermi e la cicatrice gli fa eco: un
minuscolo dindin, dindin, dindin.
Il corridoio ora è tutto dritto. In fondo c’è una porta come tante. La signora
Wermuth tira fuori dalla tasca del suo grembiule una chiave universale e senza sforzo
la fa girare nella toppa. Ce n’erano venticinque di quelle chiavi, tutte identiche, che
potevano aprire qualunque porta della casa. Qualche volta mio nonno dimostrava un
po’ di senso pratico. Ci assale una corrente d’aria gelida. Sento puzza di qualcosa di
marcio e infestante. È il mio primo attimo di vero smarrimento da quando ho lasciato
casa mia un’ora fa. La signora Wermuth alza il braccio e tira una cordicella che
penzola sopra la sua testa. Una lampadina spoglia e impolverata si accende con un
guizzo.
«Prendi questa». Il signor Wermuth mi porge una piccola torcia che ha estratto
dalla tasca. «La porto in giro per leggere. Sai dov’è l’interruttore principale?»
«Sì», rispondo automaticamente. «Proprio in fondo».
«Attenta al sedicesimo gradino», avverte la signora Wermuth. «Qualche animaletto
l’ha tutto rosicchiato. Io conto sempre mentre scendo. Prenditi pure il tempo che vuoi.
Credo che preparerò per tutti una tazza di tè così dopo puoi raccontarci un po’ la storia
di questa casa. La troveremo senz’altro affascinante. Vero, Herb?». Herb grugnisce. È
intento a immaginare di colpire una pallina da golf e mandarla a inabissarsi nel mare
blu della Florida a duecento metri di distanza. Ho un momento di esitazione sul
secondo gradino e giro la testa, dubbiosa. Se la porta si chiude, passeranno cento anni
prima che qualcuno mi trovi. La morte sta ancora aspettando con impazienza di
agguantare quella ragazza di sedici anni, non ho alcun dubbio.
La signora Wermuth mi rivolge un gesto noncurante con la mano. «Spero che tu
possa trovare ciò che cerchi. Dev’essere importante».
Se questa è un’opportunità per ripensarci, di certo non la colgo.
Scendo le scale facendo un gran baccano, come una bambina, e salto il sedicesimo
gradino. Una volta arrivata in fondo, tiro un’altra corda penzolante e subito la stanza
viene rischiarata da una forte luce.
La luce illumina una tomba vuota. Una volta questa era la stanza in cui le cose
prendevano vita, c’erano cavalletti con quadri incompiuti, e strani e spaventosi arnesi
appesi a pannelli forati. Da un lato, una camera oscura provvista di tende aspettava di
animare le foto e i manichini banchettavano agli angoli della stanza. Io e Bobby
possiamo giurare di averli visti muoversi più di una volta.
Un mucchio di vecchi busti con sopra dei buffi cappelli eleganti fuori moda avvolti
nella carta velina, l’abito da sposa di mia nonna decorato esattamente con tremila e
due perline e l’uniforme della seconda guerra mondiale di mio nonno con la macchia
marrone sulla manica che io e Bobby credevamo fosse sangue. Mio nonno è stato
saldatore, agricoltore, storico, artista, capo scout, fotografo di cadaveri, fuciliere,
carpentiere, repubblicano e poi democratico convinto. Ed era anche un poeta. Non
riusciva mai a decidersi ed è esattamente ciò che dicono di me.
Ci ordinava di non scendere mai qui sotto da soli e non ha mai saputo che ci
venivamo lo stesso. La tentazione era troppo grande. Eravamo affascinati in
particolare da un polveroso album nero. Era proibito perché conteneva fotografie di
scene del crimine scattate durante la sua breve carriera all’obitorio della contea. Una
moglie dagli occhi sgranati con il cervello spappolato sul pavimento in linoleum della
sua cucina. Un giudice nudo, annegato, trascinato in spiaggia dal suo cane.
Fisso la muffa che sta letteralmente divorando i muri di mattoni. Poi guardo i
licheni neri che prosperano in un’ampia fessura che zigzaga lungo il sudicio
pavimento di cemento.
Nessuno si è preso cura di questo posto da quando è morto il nonno.Raggiungo in
fretta la parte opposta della stanza, passando tra la parete e la fornace a carbone che
tanti anni prima era stata abbandonata perché non si era rivelata affatto una buona
idea. Sento qualcosa muoversi lentamente sulla mia caviglia. Uno scorpione, uno
scarafaggio. Non batto ciglio. Mi hanno strisciato in faccia cose ben peggiori.
È difficile vedere cosa c’è dietro alla fornace. Sfioro l’interruttore sulla parete in
basso finché non trovo il mattone fuligginoso con il cuore rosso. L’avevo dipinto in
quel punto per depistare mio fratello. Un giorno l’avevo sorpreso a spiarmi mentre
riflettevo.
Per tre volte faccio scorrere il dito delicatamente intorno ai contorni del cuore.
Partendo da quello con il cuore rosso procedo verso l’alto contando dieci mattoni e,
sopra questi, altri cinque. Era troppo alto per il piccolo Bobby. Dalla tasca prendo il
cacciavite e lo conficco nella malta che si sgretola, poi comincio a fare leva. Il primo
mattone cade sbattendo a terra. Faccio leva su altri tre mattoni e li tiro fuori dal muro
uno alla volta. Illumino il buco con la torcia. Ragnatele filamentose disposte in
maniera quasi artistica. In fondo, un ammasso quadrato e grigiastro. È lì da diciassette
anni, nella cripta che ho creato apposta per lui.
Tessie, 1995
«Tessie, mi ascolti?».
Fa domande sciocche, proprio come gli altri.
Alzo gli occhi dalla rivista che tengo aperta sulle ginocchia e che al momento
giusto ho trovato sul divano accanto a me. «Non vedo perché dovrei».
Giro pagina, tanto per irritarlo. Naturalmente lui sa che non sto leggendo.
«Allora perché sei qui?».
Il silenzio tra noi potrebbe tagliarsi con un coltello. È il mio unico strumento di
controllo in questa serie di sedute terapeutiche. Poi dico: «Lo sa. Sono qui perché mio
padre vuole che io sia qui». Perché odiavo tutti gli altri. Perché papà è triste e io
questo non riesco a sopportarlo. «Mio fratello dice che sono cambiata». Ho detto
troppo. Penserai che abbia imparato.
Le gambe della sedia scricchiolano sul parquet non appena l’uomo cambia
posizione. È pronto all’attacco. «Tu credi di essere cambiata?».
Che domanda ovvia. Disgustata, mi ributto sulla rivista. Le pagine sono fredde,
lisce e spesse. Hanno un profumo nauseante. Credo sia il tipo di rivista piena di
ragazze ossute e corrucciate. Mi chiedo: “È così che mi vede quest’uomo?”.
Nell’ultimo anno ho perso nove chili. E la tonicità muscolare da vera atleta. Dopo il
mio terzo intervento chirurgico, il piede destro è avvolto in un gesso pesante come il
piombo.
L’amarezza mi sale nei polmoni come vapore bollente. Faccio un respiro profondo.
Il mio obiettivo è rimanere apatica.
«Ok», dice lui. «Domanda sciocca». So che mi sta osservando attentamente. «Che
ne dici di questa: perché hai scelto me questa volta?».
Metto giù la rivista. Provo a ricordare che lui sta facendo un’eccezione,
probabilmente deve un favore al procuratore distrettuale. Di rado prende in cura le
adolescenti.
«Ha firmato un documento in cui si impegnava ufficialmente a non prescrivere
farmaci, a non farlo mai; a non rendere noto nulla di quanto accade durante le nostre
sedute e a non servirsi di me a scopi di ricerca senza il mio consenso. Si è anche
impegnato a non dire ad anima viva che ha in cura una delle margherite gialle e mi ha
assicurato che non mi avrebbe ipnotizzata».
«Ti fidi del fatto che non farò niente di tutto ciò?»
«No», ribatto. «Ma se lo fa, almeno diventerò milionaria».
«Abbiamo ancora un quarto d’ora», dice lui. «Possiamo utilizzare questo tempo
come preferisci».
«Grandioso». Riprendo la rivista piena di ragazze ossute e corrucciate.
Tessa, oggi
Due ore dopo aver lasciato la casa del nonno, William James Hastings iiiarriva a
casa mia, una villetta degli anni Venti a Fort Worth con cupe persiane nere e uno stile
dalle linee tutt’altro che morbide e ricercate. Tra le quattro mura domestiche c’è
un’esplosione di vita e di colori, ma per l’esterno ho scelto l’anonimato.
È la prima volta che incontro quest’uomo dal nome baronale, che si accomoda sul
mio divano. Non ha più di ventotto anni ed è alto almeno un metro e novanta, con
lunghe braccia penzoloni lungo i fianchi e grandi mani. Le sue ginocchia sbattono
contro il tavolino. William James Hastings iii mi ricorda più un lanciatore di baseball
all’apice della sua carriera che un avvocato, come se quel corpo goffo sparisse
nell’attimo in cui prende in mano una palla. Viso fanciullesco. Belloccio. Non proprio
bello, per via del nasone. In sua compagnia c’è una donna in elegante giacca bianca,
camicia con colletto bianco e pantaloni neri. Il tipo di donna che bada non tanto alla
moda quanto alla sua efficienza professionale. Bassa, capelli biondo naturale. Non
porta anelli. Unghie piatte, tagliate, non curate. L’unico ornamento è una catenina
d’oro scintillante con un ciondolo che ha l’aria di essere costoso, un disegnino fatto di
familiari linee sinuose, ma non ho il tempo di pensare al suo significato. Forse è una
poliziotta, anche se tutto ciò non ha senso.
L’ammasso grigiastro, ancora coperto di polvere e di vecchie ragnatele, è sul
tavolino, tra me e loro.
«Mi chiamo Bill», dice l’uomo. «Non William. E di certo non Willie». Sorride. Mi
chiedo se abbia mai tentato questo tipo di approccio di fronte a una giuria. Credo che
gliene serva uno migliore. «Tessa, come ti ho detto al telefono, siamo felicissimi che
tu abbia chiamato. Sorpresi, ma felicissimi. Spero non ti dispiaccia che ci sia anche la
dottoressa Seger. Joanna. Non dobbiamo perdere altro tempo. Joanna è il medico
legale che domani andrà a dissotterrare le ossa delle… delle Susan dagli occhi neri, le
margherite. Vorrebbe prenderti al volo un campione di saliva. Per il dna. Poiché non
abbiamo più prove e i dati scientifici sono falsi e tendenziosi, lei preferisce occuparsi
personalmente del tampone. Sempre che tu ne sia davvero convinta. Angie non ha mai
pensato…».
Mi schiarisco la gola. «Sono convinta». Provo un’improvvisa stretta al cuore per
Angela Rothschild. La donna dai capelli argentati e sempre in ordine che mi ha
perseguitata negli ultimi sei anni, sostenendo che Terrell Darcy Goodwin era un uomo
innocente. Si è attaccata a ogni minimo dubbio, finché non è riuscita a confondermi le
idee.
Angie era una santa, ma anche un mastino, e aveva un po’ la vocazione da martire.
Aveva speso l’ultima parte della sua vita e quasi tutta l’eredità dei suoi genitori a
tentare di liberare prigionieri ingiustamente condannati dallo Stato del Texas. Ogni
anno oltre millecinquecento persone accusate di stupro e omicidio supplicavano di
essere assistite da lei, perciò Angie doveva scegliere bene. Mi diceva che fare il
padreterno con quella gente che chiamava e scriveva lettere era l’unica cosa che
l’aveva portata a considerare di poter lasciare quel lavoro. Quando mi contattò la
prima volta, andai nel suo ufficio. Si trovava nel seminterrato di una vecchia chiesa, in
una parte di Dallas abbastanza sgradevole, nota soprattutto per l’alto tasso di mortalità
tra i poliziotti. Se i clienti di Angie non potevano vedere la luce del giorno o prendere
al volo un caffè da Starbucks, diceva, allora nemmeno lei poteva. A farle compagnia
in quel seminterrato c’erano una caffettiera, tre procuratori che svolgevano anche altri
lavori più remunerativi e tutti gli studenti di legge disponibili.
Nove mesi prima c’era lei seduta sul mio divano, con indosso jeans e stivali da
cowboy neri e consumati e in mano una lettera di Terrell. Mi supplicò di leggerla. Mi
supplicò di fare un sacco di cose, come dare l’opportunità a uno dei suoi grandi esperti
di farmi recuperare la memoria. Adesso era morta d’infarto. Era stata trovata con la
faccia sepolta in un mucchio di documenti che riguardavano il caso di Goodwin. Il
giornalista che scrisse il suo necrologio lo trovò quasi poetico. Il mio senso di colpa
nella settimana dopo la morte di Angie fu quasi insopportabile. Mi ero resa conto
troppo tardi che lei era una delle mie ancore di salvezza. Una delle poche che non si
era mai arresa con me.
«È questo… il materiale che hai per noi?». Bill fissa la sudicia busta di plastica,
presa dal seminterrato del nonno, come se fosse colma d’oro. La busta ha lasciato una
scia di malta ghiaiosa sulla superficie di vetro del tavolino, proprio accanto
all’elastico rosa con attorcigliata una ciocca dei capelli color biondo rame di mia figlia
Charlie.
«Al telefono hai detto che dovevi andare… a cercarli», dice l’uomo. «Che l’avevi
raccontato a Angie, ma non sapevi bene dove si trovassero».
Non è esattamente una domanda, così non rispondo.
Lui dà un’occhiata al soggiorno pieno di cianfrusaglie lasciate in giro da un’artista
e da un’adolescente. «Fra qualche giorno vorrei organizzare un incontro in ufficio.
Dopo averli… esaminati. Tu e io dovremo scavare a fondo nel passato per il ricorso in
appello». Per essere un maciste, quel tipo è piuttosto gentile. Mi chiedo come si
comporti in un’aula di tribunale, se la gentilezza sia la sua arma.
«Pronta per il tampone?». La dottoressa Seger si intromette bruscamente e, da vera
stacanovista, ha una mano già allungata sui guanti in lattice. Forse ha paura che io
possa cambiare idea.
«Certo». Ci alziamo entrambe. Mi solletica la parte interna della guancia e sigilla in
una provetta minuscole particelle di saliva. So che intende aggiungere il mio dna ai
campioni raccolti da altre tre margherite gialle, due delle quali non sono ancora state
identificate. Sento il calore che emana quella donna. L’attesa.
Rivolgo di nuovo l’attenzione alla busta sul tavolino e a Bill. «Era un esperimento
suggerito da uno dei miei psichiatri. Potrebbe essere più utile per ciò che non contiene
che per quello che contiene». In altre parole, nei miei disegni non c’è alcun individuo
dalla pelle nera con le fattezze di Terrell Darcy Goodwin.
La mia voce è tranquilla, ma ho il cuore in gola. Sto mettendo Tessie nelle mani di
quest’uomo. Spero di non sbagliare.
«Angie… te ne sarebbe molto riconoscente. Ti è riconoscente». Bill punta un dito
verso l’alto, una specie di gesto michelangiolesco. Lo trovo confortante: un uomo
assillato da gente che gli mette i bastoni tra le ruote ogni giorno – gente
tendenzialmente onesta, che si aggrappa con ostinazione alle proprie bugie e ai propri
errori madornali – eppure ancora crede in Dio. O, almeno, ancora crede in qualcosa.
Il cellulare della dottoressa Seger suona nella sua tasca. Lei dà un’occhiata al
display. «Devo rispondere. È uno dei miei dottorandi. Ci vediamo in macchina, Bill.
Bel lavoro, signorina. Stai facendo la cosa giusta». Signnorina. Una lieve pronuncia
nasale. Forse dell’Oklahoma. Sorrido come un automa.
«Vengo subito, Jo». Bill si muove a passi lenti e precisi, chiude la ventiquattrore e
prende la busta con cautela, senza mostrare alcuna fretta. Le sue mani si fermano
quando lei chiude la porta. «Hai appena incontrato una gran donna. Joanna è un genio
del dna mitocondriale. Fa miracoli strabilianti con le ossa deteriorate. Si è precipitata
a New York dopo l’11 settembre e ci è rimasta quattro anni. È passata alla storia per
aver contribuito a identificare migliaia di vittime dai loro resti carbonizzati. All’inizio
viveva in un dormitorio dell’ymca. Si lavava nelle docce comuni insieme ai
senzatetto. Lavorava quattordici ore al giorno. Non era tenuta a farlo, non era parte del
suo lavoro, ma non appena poteva si metteva a sedere e spiegava alle famiglie afflitte
come funzionava esattamente il procedimento di identificazione, affinché queste
potessero essere sicure quanto lo era lei. Ha cominciato a masticare lo spagnolo per
parlare alle famiglie dei lavapiatti e camerieri messicani che lavoravano nei ristoranti
della torre nord. È uno dei migliori esperti della scientifica sulla faccia della terra ed è
pure una delle persone più gentili che abbia mai incontrato. Sta dando un’occasione a
Terrell. Voglio che tu comprenda il tipo di persone che stanno dalla tua parte. Ma
dimmi, Tessa, perché? Perché improvvisamente sei dalla nostra parte?».
La sua voce ha assunto un tono un po’ duro. Mi sta dicendo cortesemente di non
prenderli per i fondelli.
«Per diverse ragioni», rispondo incerta. «Te ne posso mostrare una».
«Tessa, io voglio sapere tutto».
«È meglio se lo vedi».
Senza aggiungere altro, lo conduco lungo il nostro stretto corridoio, passando per la
stanzetta viola e incasinata di Charlie, da dove spesso proviene della musica, e apro la
porta in fondo. Non era nei miei piani, e comunque non quel giorno.
Bill sembra un gigante nella mia camera da letto e sbatte la testa contro l’antico
lampadario penzolante fatto di vetri di mare che io e Charlie abbiamo scovato la
scorsa estate sulle spiagge grigie di Galveston. Si scosta e, nel farlo, mi sfiora per caso
la curva del seno. Si scusa. È imbarazzato. Per un secondo immagino le gambe di
quest’estraneo che si aggrovigliano tra le mie lenzuola. Non ricordo nemmeno più
l’ultima volta che ho permesso a un uomo di entrarvi.
Osservo dispiaciuta come Bill assimili dettagli che fanno parte della mia sfera
intima: il ritratto fumettistico della casa di mio nonno; gioielli d’oro e d’argento
sparpagliati sul comò; il primo piano di Charlie che mi fissa con i suoi occhi color
lavanda; sulla sedia una pila ordinata di mutandine bianche di pizzo appena lavate che
io speravo tanto fossero dentro un cassetto.
Lui sta già facendo lenti passi all’indietro, verso la porta, chiedendosi chiaramente
in quale ginepraio si sia cacciato. E se ha riposto le sue speranze per il povero Terrell
Darcy Goodwin in una donna pazza che l’ha condotto dritto nella sua camera da letto.
L’espressione di Bill mi fa venire voglia di ridere a crepapelle. Non ho mai avuto
fantasie che riguardassero un americano doc, con due lauree. Il mio tipo ideale è
completamente l’opposto. Ciò che sto per mostrargli mi tiene alzata di notte a leggere
e rileggere lo stesso paragrafo diAnna Karenina, mentre ascolto ogni minimo cigolio
della casa, ogni alito di vento, ogni passo di mia figlia che cammina a piedi nudi nel
cuore della notte, o il rumore del suo sonno tranquillo che dalla bocca si diffonde
lentamente fino in fondo al corridoio.
«Niente paura». Mi sforzo di avere una voce calma. «Mi piacciono gli uomini
ricchi e meno altruistici di te. E poi, sai, maturi abbastanza da avere i peli sul viso.
Vieni qui, per favore».
«Carina». Percepisco il suo sollievo. Fa due bei passi in avanti. Segue il mio dito
con lo sguardo, fuori dalla finestra.
Non punta verso il cielo, ma verso il basso, appena sotto il davanzale, dove alcune
margherite gialle ancora piuttosto vispe si prendono gioco di me con i loro occhietti
neri piccoli e luccicanti, da cui prendono il nome.
«È febbraio», dico sommessamente. «Le Susan dagli occhi neri fioriscono così solo
in estate». Mi fermo un attimo in modo da dargli il tempo di capire. «Sono state
piantate per il mio compleanno, tre giorni fa. Qualcuno le ha fatte crescere
appositamente per me e le ha messe sotto la finestra della mia camera da letto».
Il campo abbandonato vicino alla proprietà dei Jenkins era stato mezzo distrutto da
un incendio circa due anni prima che le Susan fossero scaricate lì. Uno sconsiderato
fiammifero gettato da un’auto sconosciuta su una strada sterrata fuori mano era
costato a un povero vecchio agricoltore l’intero raccolto di grano e aveva preparato il
terreno per le migliaia e migliaia di fiori gialli che in seguito avevano tappezzato il
campo come un’enorme coperta sgualcita.
Quell’incendio scavò anche la nostra tomba, una fossa dai contorni irregolari e
assai profonda. Le margherite gialle erano spuntate ad abbellirla molto prima che
arrivassimo noi. Sono piante ingorde, spesso le prime ad attecchire in terre aride e
devastate. Deliziose, eppure aggressive, come le cheerleader. Vivono escludendo tutti
gli altri.
Quel singolo fiammifero acceso, gettato incautamente, ci ha donato un soprannome
che è entrato a far parte delle leggende dei serial killer.
Bill, ancora nella mia camera da letto, ha scritto in fretta un lungo messaggio a
Joanna, forse perché non vuole rispondere alle sue domande al telefono davanti a me.
Incrociamo lo sguardo del medico legale fuori dalla finestra giusto in tempo per
vederla infilare una fiala nel terriccio nero e screziato. Il ciondolo con i ghirigori
appeso al collo della donna brilla sotto il sole e sfiora un petalo mentre lei si china in
avanti. Non mi viene ancora in mente il significato di quel simbolo. Religioso, forse.
Antico.
«Lui o lei ha usato qualcosa oltre al terriccio nel terreno», dice Joanna.
«Probabilmente una marca comune di terriccio per vasi e semi che si può comprare da
qualunque fioraio. Ma non si sa mai. Dovresti chiamare la polizia».
«Per dire che qualcuno ha piantato dei fiori?». Non voglio sembrare sarcastica,
però è così.
«È violazione di proprietà privata», dice Bill. «Molestie. Sai, non è per forza opera
dell’assassino. Potrebbe trattarsi di un qualunque pazzo che legge i giornali». C’è
qualcosa che non mi sta dicendo, ma io me ne accorgo. Ha dei dubbi sul mio stato
mentale. Spera che io abbia qualcosa di più che qualche fiore sotto la mia finestra per
convincere un giudice a credere a Terrell. Una piccola parte di lui si chiede persino se
sono stata io a piantarli.
Quanto devo rivelargli?
Prendo un bel respiro. «Ogni volta che chiamo la polizia, finisce tutto su internet.
Riceviamo chiamate e lettere e messaggi su Facebook da gente folle. Regali davanti
casa. Biscotti. Borse piene di feci di cane. Biscotti fatti con le feci di cane. Almeno
spero siano solo feci di cane. E ogni volta la vita di mia figlia a scuola diventa un vero
inferno. Adesso, dopo qualche anno di pace, l’esecuzione di Terrell mette di nuovo
tutto in subbuglio». Ed è esattamente il motivo per cui, per anni, ho detto ad Angie no,
no e no. Qualunque dubbio si insinuasse, dovevo scacciarlo. Alla fine sono arrivata a
capire Angie, e Angie ha capito me. “Troverò un altro modo”, mi aveva rassicurata.
Ma le cose sono diverse ora. Angie è morta.
E lui è stato sotto la mia finestra.
Sento qualcosa che si muove tra i miei capelli e lo scrollo via.
Chissà se è un animaletto che mi sono portata via dal seminterrato di mio nonno.
Ricordo come ho infilato la mano alla cieca in quel buco ammuffito poche ore prima e
la mia rabbia aumenta. «Volete sapere che facce avete ora? Un misto di pietà, disagio
e maldestra comprensione. Credete ancora di dovermi trattare come la sedicenne
traumatizzata di allora? È una vita che la gente mi guarda così. Ma ho imparato a
proteggermi e mi è andata bene finora. Ora sonofelice. Non sono più quella ragazza».
Mi avvolgo più stretto il mio lungo maglione marrone, anche se il sole di fine inverno
è una calda carezza sul mio viso. «Mia figlia sarà a casa a momenti e preferirei che
non vi incontrasse finché non le avrò spiegato un po’ di cose. Ancora non sa che vi ho
chiamati. Voglio che la sua vita resti più normale possibile».
«Tessa». Joanna azzarda un passo in avanti verso di me e si ferma. «Ti capisco».
La sua voce ha un tono terribilmente pesante. Ti capisco. Tre, due, uno, la bomba
precipita nell’oceano.
La scruto in faccia. Piccole rughe provocate dal dispiacere di altre persone. Occhi
verdazzurri che hanno guardato più orrore di quanto io riesca a decifrare. L’hanno
sentito. Toccato, respirato, mentre scendeva giù dal cielo come una pioggia di cenere.
«Davvero?», dico con voce sommessa. «Lo spero. Perché ho intenzione di esserci
quando aprirete quelle due tombe».
Mio padre ha pagato per quelle bare.
Joanna strofina il suo ciondolo tra le dita, come fosse una croce santa.
Tutt’a un tratto mi rendo conto che per lei ha proprio questo significato.
Indossa una doppia spirale d’oro.
La scala attorcigliata della vita.
Un pezzo di dna.
Tessie, 1995
Una settimana dopo. Martedì mattina, alle dieci in punto. Mi trovo di nuovo sul
divano ben imbottito del dottore e non sono da sola. Oscar strofina il suo naso umido
contro la mia mano in modo rassicurante, poi, con aria vigile, si sistema accanto a me,
sul pavimento. Sono la sua padrona dalla scorsa settimana e non vado da nessuna
parte senza di lui. Non che qualcuno abbia da ridire. Oscar, un cane dolce e protettivo,
infonde fiducia.
«Tessie, il processo si terrà tra tre mesi. Mancano novanta giorni. In questo
momento il mio compito fondamentale è quello di prepararti emotivamente. Conosco
la difesa. L’avvocato di norma è eccellente, e lo è ancora di più quando crede davvero
di avere tra le mani la vita di un uomo innocente, proprio come in questo caso. Capisci
cosa significa? Non ti renderà le cose facili».
Questa volta siamo andati subito al sodo.
Ho le mani giunte in grembo con gravità. Indosso un gonnellino plissettato blu a
quadri, calze di pizzo bianco e stivali neri di pelle lucida. Non sono mai stata una
Pippi Calzelunghe, nonostante i capelli rossicci dai riflessi dorati e le lentiggini, che
secondo il mio meraviglioso nonno sentimentale erano polvere di fata. Né allora, né
adesso. Oggi a vestirmi è stata la mia migliore amica Lydia. Ha frugato nel caos dei
miei cassetti e del mio armadio, non sopporta che io non faccia alcuno sforzo per
mettermi abiti intonati. Lydia è una delle poche amiche che non si arrende con me. Al
momento, sulla moda, prende spunto dal filmRagazze a Beverly Hills, ma io non l’ho
visto.
«Ok», dico. Quella è, dopotutto, una delle due ragioni per cui sono seduta qui. Ho
paura. Fin da quando Terrell Darcy Goodwin è stato arrestato mentre faceva colazione
in un diner nell’Ohio, undici mesi fa, e mi hanno detto che avrei dovuto testimoniare,
ho contato i giorni come se fossero pillole disgustose da buttare giù. A oggi ne
mancano ottantasette, non novanta, però non mi prendo la briga di correggerlo.
«Non ricordo nulla». Mi attengo a questo.
«Sono sicuro che l’avvocato dell’accusa ti ha detto che non ha importanza. Tu sei
una prova vivente. Una ragazza innocente contro un mostro indescrivibile. Be’,
intanto iniziamo da quello che ricordi. Tessie? Tessie? A cosa stai pensando ora,
proprio in quest’istante? Sputa il rospo… non distogliere lo sguardo, ok?».
Mi volto lentamente, puntando su di lui i miei occhi, che sono solo due pozze
d’acqua grigie e vuote.
«Ricordo un corvo che prova a cavarmi gli occhi», dico con voce piatta. «Mi dica,
come fa a individuare il punto esatto in cui si posa il mio sguardo, se sa che non posso
vederla?».
Tessa, oggi
Tecnicamente questa è la loro terza tomba. Le due margherite disseppellite stanotte
nel cimitero di St. Mary, a Fort Worth, sono state le prime a finire nelle grinfie di quel
mostro. Lui le aveva dissotterrate dal loro nascondiglio originario e gettate in quel
campo insieme a me, come fossimo ossa di pollo. Eravamo quattro in tutto, scaricate
con un unico viaggio in auto. Io sono stata gettata in cima a tutte con una ragazza di
nome Merry Sullivan che, secondo il coroner, era già morta da più di un giorno. Ho
sentito per caso il nonno che mormorava a mio padre: «Il diavolo faceva pulizia nei
suoi armadi».
È mezzanotte, e mi trovo almeno a cento metri di distanza, sotto un albero. Sono
schizzata sotto il nastro della polizia che delimita l’area. Chissà cosa pensano di chi a
quest’ora della notte se ne va in giro in un cimitero come un fantasma. Be’, mi sa
proprio che io lo sono, un fantasma.
Hanno montato sopra le due tombe un tendone bianco che risplende di luce pallida,
come una lanterna di carta. C’è molta più gente di quanto mi aspettassi. Bill,
naturalmente. Riconosco il procuratore distrettuale dalla foto sul giornale. Accanto a
lui c’è un uomo quasi calvo con indosso un completo che non gli calza affatto.
Almeno cinque poliziotti, più altre cinque persone che assomigliano ad alieni con le
loro tute protettive, entrano ed escono dal tendone. So che tra loro c’è il medico
legale. Per tutti loro è un’opportunità di fare carriera.
Il cronista che ha scritto il necrologio di Angie sapeva che le sue parole avrebbero
fatto scattare la leva arrugginita della giustizia? Che avrebbero suscitato tutto questo
scalpore in uno Stato dove ogni mese viene giustiziato qualcuno? Che avrebbero
convinto il giudice a far esumare le ossa e a prendere in considerazione un nuovo
processo? E che avrebbero convinto me una volta per tutte a telefonare?
Tutt’a un tratto l’uomo che indossa il completo si gira. Avvisto un colletto da prete
prima di nascondermi dietro l’albero. Per un istante mi bruciano gli occhi: sono
commossa da quest’operazione furtiva e dall’immane sforzo di trattare quelle ragazze
con dignità e rispetto quando nessuno ha la minima idea di chi siano e non è presente
nemmeno la stampa.
Le ragazze che stanotte vengono riportate alla luce non erano che unmucchietto di
ossa scaricato in quel vecchio campo di grano diciotto anni fa. Io ero sopravvissuta
per miracolo. Si dice che Merry fosse già morta almeno da trenta ore. Prima che
arrivasse la polizia era stata già rosicchiata. Avevo provato a proteggerla, ma a un
certo punto della notte sono svenuta. A volte sento ancora lo squittio dei ratti. Non
riesco a parlarne con i miei cari. È meglio se pensano che io non ricordi nulla.
I dottori dicono che è stato il mio cuore a salvarmi. Tanto per cominciare sono nata
con un cuore geneticamente lento. E poi ero in forma perfetta, pronta a gareggiare nel
campionato delle migliori ostacoliste d’America delle scuole superiori. Durante la mia
giornata tipo, mentre facevo i compiti, mangiavo un hamburger o mi mettevo lo
smalto sulle unghie, le mie pulsazioni raggiungevano stabilmente i trentasette battiti al
minuto e di notte, mentre dormivo, diminuivano a ventinove. La frequenza cardiaca
media per un adolescente è di circa settanta. Papà aveva l’abitudine di svegliarsi alle
due del mattino per controllarmi il respiro, anche se un famoso cardiologo di Houston
gli aveva detto di non preoccuparsi. Il mio cuore era fenomenale tanto quanto la mia
velocità. Si parlava di Olimpiadi. Mi chiamavano “la piccola palla di fuoco”, per il
colore dei capelli e per il mio caratteraccio quando non facevo un bel tempo o un’altra
ragazza mi urtava mentre saltavo un ostacolo.
I dottori dissero che mentre lottavo per la vita in quella fossa i miei battiti erano
arrivati a circa diciotto. Uno dei soccorritori giunti sul posto mi aveva addirittura data
per morta.
Il procuratore distrettuale disse alla giuria che ero stata io a cogliere alla sprovvista
l’assassino delle Black-Eyed Susan e non il contrario. Disse che l’avevo gettato nel
panico e spinto a sbarazzarsi delle prove; che il grosso livido sulla pancia di Terrell
Darcy Goodwin nella foto ingrandita e mostrata in pubblico, striato di blu, verde e
giallo, era opera mia. La gente apprezza storie del genere in cui c’è un eroe grintoso,
anche quando sono del tutto infondate.
Un furgone scuro fa marcia indietro lentamente verso il tendone. O. J. Simpson l’ha
passata liscia lo stesso anno in cui io ho testimoniato e lui ha massacrato la moglie e
lasciato il proprio sangue sul cancello di casa. Non c’erano prove schiaccianti contro
Terrell Darcy Goodwin sulla base dell’analisi del dna; avevano trovato solo il suo
gruppo sanguigno sul polso destro di una giacca sbrindellata, impantanata nel fango a
un chilometro e mezzo dalla fossa. La macchia di sangue era talmente minuscola e
deteriorata che non si riusciva a esaminare il dna, un metodo ancora poco
sperimentato nelle questioni di diritto penale. All’epoca quell’indizio mi era bastato,
ma adesso non più. Spero proprio che Joanna riesca a fare la sua magia da gran
sacerdotessa e alla fine ci dica chi sono queste due ragazze. Grazie a loro forse ci
metteremo tutti l’anima in pace.
Mi volto per andarmene quando con il tacco rimango impigliata all’estremità di
qualcosa. Capitombolo in avanti, con il fiato mozzo e le mani aperte, su una vecchia
pietra tombale. Le radici hanno maltrattato la lapide fino a farla cadere e rompere a
metà.
Qualcuno avrà sentito? Do subito un’occhiata in giro. Il tendone è mezzo
smontato. Qualcuno ride. Vedo muoversi delle ombre, ma nessuna viene verso di me.
Mi tiro su, con le mani che mi bruciano dal dolore, mi scrollo di dosso l’odore di
morte e i granelli di sabbia attaccati ai jeans. Dalla tasca posteriore tiro fuori il
cellulare, che quando spingo il pulsante emana una luce confortevole. Illumino la
pietra tombale. Sull’agnello dormiente che sorveglia la tomba di Christina Driskill c’è
una macchia di sangue che viene dalle mie mani
Christina è venuta al mondo e l’ha lasciato lo stesso giorno. Il 3 marzo del 1872.
Immagino di scavare nel terriccio sassoso, fino a raggiungere la piccola bara di
legno che giace sotto i miei piedi, sbilenca, spaccata, soffocata dalle radici.
Penso a Lydia.
Tessie, 1995
«Piangi spesso?». Prima domanda. Cortese.
«No», rispondo. Tanti saluti al trucco da fashion stylist di Lydia di mettere due
cucchiai gelati sotto gli occhi dopo le mie piccole crisi di pianto.
«Tessie, voglio che tu mi dica le ultimissime cose che hai visto prima di diventare
cieca». Non si sofferma affatto sulla mia faccia gonfia. Riprende esattamente da dove
siamo rimasti l’ultima volta. “Bella tattica”, penso a malincuore. In realtà lui ha
utilizzato la parola cieca e nessun altro avrebbe osato dirmelo in faccia se non Lydia,
che tre giorni fa mi ha detto pure di alzarmi e di lavarmi i capelli perché parevano
zucchero filato stantio. Questo dottore ha già capito che con me l’approccio soft è una
totale perdita di tempo.
Ho visto la faccia di mia madre. Bella, dolce, amorevole. Quella è l’ultima
immagine perfettamente chiara che mi si para davanti, solo che mia madre è morta
quando avevo otto anni e all’epoca i miei occhi erano sani e ben aperti. Il viso di mia
madre e poi nient’altro che uno scintillante oceano grigio. Penso spesso che sia stato
gentile da parte di Dio farmi conoscere la cecità in questo modo.
Mi schiarisco la gola, decisa a dire qualcosa nella seduta di oggi, a sembrare più
collaborativa, così lui potrà dire a papà che faccio progressi. Mio padre, che ogni
martedì mattina scappa via dal lavoro per portarmi qui. Per qualche strana ragione,
non credo che questo dottore gli mentirà come hanno fatto gli altri. Questo dottore ha
un modo diverso di porre le domande. E non so perché, ma anche le mie risposte sono
diverse.
«C’erano tanti biglietti d’auguri sul davanzale nella mia stanza d’ospedale», dico
con naturalezza. «Uno di questi aveva sul davanti la figura di un maiale. Indossava un
papillon e un cappello a cilindro. Diceva: “Spero che tu grugnisca presto”. Il maiale…
è l’ultima cosa che ho visto».
«Un’infelice scelta di parole sul biglietto».
«Lei crede?»
«C’è qualcos’altro che ti ha dato fastidio di quel biglietto d’auguri?»
«Nessuno è riuscito a leggere la firma». Uno scarabocchio illeggibile, simile a una
molla di metallo.
«Quindi non sapevi chi te l’avesse mandato».
«Molti estranei hanno mandato biglietti da ogni dove. E fiori, e peluches. Ce
n’erano così tanti che mio padre ha chiesto di inoltrarli al reparto di oncologia
pediatrica». Alla fine l’fbi ha trovato un indizio e passato tutto a un laboratorio. Più
tardi ripensarci mi ha turbata, perché chissà cosa hanno strappato via dalle mani di
qualche bimbo morente, senza nemmeno ottenere un briciolo di prove utili.
Il maiale stringeva una margherita nella sua zampa rosa. Avevo tralasciato quel
particolare. Era gialla, ma non era una Susan dagli occhi neri. A sedici anni, imbottita
di farmaci su un letto d’ospedale e spaventata a morte, non conoscevo la differenza tra
una semplice margherita gialla, senza quell’occhio scuro al centro, e una Black-Eyed
Susan.
Il gesso mi dà un prurito pazzesco, così infilo due dita nell’interstizio. Non riesco a
raggiungere la caviglia. Oscar tenta di aiutarmi leccandomi la gamba con la sua lingua
ruvida come carta vetrata.
«Ok, forse quel biglietto era l’innesco», dice il dottore. «O forse no. È un inizio.
Ecco cosa ho in mente: parliamo del tuo disturbo di conversione e poi ci prepariamo
al processo. Per non perdere tempo diciamo che… qualcuno… sperava che potessi
passare direttamente a quest’ultima parte. Ma non si può».
Tu credi?
«Per quanto mi riguarda, il tempo è fermo in questa stanza». Mi sta dicendo che
non c’è alcuna pressione; che insieme solcheremo il mio oceano grigio e io
controllerò il vento. Questa, che io sappia, è la sua prima menzogna. Disturbo di
conversione. Che espressione simpatica e fantasiosa per indicare questo malessere.
Freud lo chiamava cecità isterica.
Tutti quegli esami costosi e non ha alcuna anomalia fisica.
È tutto nella sua testa.
Poveretta, si rifiuta di vedere il mondo.
Non sarà mai più la stessa.
Perché le persone pensano che io non possa sentirle?
Mi adeguo alla sua voce. Assomiglia a quella di Tommy Lee Jones nel film Il
fuggitivo. La pronuncia strascicata tipica del selvaggio Texas. Molto furbo e lo sa.
«…non è un fatto insolito nelle ragazze che hanno subìto un simile trauma. È
insolito che sia durato così a lungo. Undici mesi».
Trecentoventisei giorni, dottore. Ma non lo correggo.
Non appena lui si sposta sulla sedia si sente un leggero scricchiolio e Oscar si tira
su con fare protettivo. «Esistono delle eccezioni», spiega l’uomo. «Una volta ho
curato un ragazzo, un pianista virtuoso, che da quando aveva cinque anni si esercitava
otto ore al giorno. Una mattina si è svegliato con le mani paralizzate. Non riusciva
nemmeno ad afferrare un bicchiere di latte. I dottori non trovavano la causa. Ha
ricominciato a muovere le dita esattamente lo stesso giorno di due anni dopo».
La voce del dottore è più vicina. Accanto a me. Oscar mi avvisa toccandomi il
braccio con il naso. Il dottore fa scivolare qualcosa di sottile, fresco e liscio nella mia
mano. «Prova questa», dice.
Una matita. La afferro. La conficco in un lato del gesso. Sento un profondo e
appagante sollievo. E una leggera brezza quando il dottore si allontana, causata forse
dal risvolto della sua giacca. Ora so che non assomiglia per niente a Tommy Lee
Jones. Riesco però a immaginare Oscar. Bianco come neve fresca. Occhi azzurri che
vedono tutto. Collare rosso. Dentini affilati se qualcuno mi importuna.
«Questo pianista sa che lei parla di lui agli altri pazienti?», chiedo. Non posso farne
a meno. Il sarcasmo è un frustino che non riesco a mettere da parte. Tuttavia al nostro
terzo martedì mattina insieme, devo ammettere che il dottore comincia ad avere un
certo ascendente su di me. Ho il primo senso di colpa. Come se dovessi impegnarmi
di più.
«A dire il vero, sì. Sono stato intervistato per un documentario. Il punto è: credo
che tu possa riacquistare la vista».
«Non sono preoccupata», sbotto.
«Quello è spesso un sintomo del disturbo di conversione. Il fatto che non ti importi
di tornare normale. Nel tuo caso, però, non credo sia vero».
Il suo primo confronto diretto. Attende in silenzio. Sto per perdere le staffe.
«Conosco la vera ragione per cui lei ha fatto un’eccezione nell’incontrarmi». Ho
sempre la voce un po’ rotta quando voglio assumere un tono sprezzante. «È per via di
quello che ha in comune con mio padre. So che lei aveva una figlia e che è
scomparsa».
Tessa, oggi
La pratica scrivania metallica di Angie è esattamente come me la ricordo, sepolta
da montagne di carte e cartelline. Messa in un angolo del grande open space nel
seminterrato della St. Stephen, la chiesa cattolica in pietra e mattoni che sorge
provocatoriamente in quel tratto infernale tra la 2 Avenue e Hatcher Street. Proprio al
centro di un quartiere di Dallas che, secondo l’fbi, si è piazzato tra i primi venticinque
più pericolosi d’America.
Fuori è il tipico mezzogiorno del Texas, ma non qui dentro. Questo posto è al buio
e in una dimensione senza tempo, macchiato da una storia violenta. La chiesa fu
abbandonata per otto anni e questa stanza veniva utilizzata come officina per i
trafficanti di droga.
La prima e l’unica volta in cui sono stata qui Angie mi ha detto che il giovane prete
fiducioso che le ha affittato quello spazio ha imbiancato da solo le pareti per quattro
volte. Le rientranze e i buchi delle pallottole nei muri, le spiegava, sarebbero rimasti
piantati là come i chiodi nella croce. Per non dimenticare.
La lampada della scrivania, unica fonte di luce, illumina debolmente la stampa
senza cornice appesa alla parete, la Lapidazione di santo Stefano. La prima opera nota
di Rembrandt che lui ha dipinto a diciannove anni. Avevo imparato la tecnica del
chiaroscuro in un altro seminterrato, con mio nonno chino sul suo cavalletto. Luci
forti e intense zone d’ombra.
nd
Rembrandt era un maestro del chiaroscuro. Ha fatto in modo che lo splendore del
paradiso si spalancasse a santo Stefano, il primo martire cristiano ucciso dalla folla
perché alcune persone malvagie avevano mentito sul suo conto. Tre sacerdoti si
accalcano in un angolo in alto. Lo vedono morire. Non intervengono.
Mi chiedo chi sia arrivato prima nel seminterrato: questa stampa o Angie, che ha
deciso che il destino di santo Stefano fosse il contrassegno più appropriato per la sua
scrivania. La stampa è floscia e sfilacciata ai margini. È attaccata alla parete
bucherellata con tre puntine gialle graffiate e una rossa. Un taglietto sul lato sinistro è
stato riparato con lo scotch.
Poco distante c’è un’altra visione paradisiaca. Un disegno su un foglio a righe di
taccuino. Cinque figure stilizzate con ali da farfalla sghembe, illuminate da uno
sprazzo di sole color arancio brillante. Una scritta infantile e sbilenca incombe nel
cielo: angie’s angels.
Dal necrologio di Angie ho appreso che questo disegno era un vecchio regalo da
parte di una bambina di sei anni, figlia di Dominicus Steele, l’apprendista idraulico
accusato di aver stuprato negli anni Ottanta una studentessa della Southern Methodist
University fuori da un bar a Fort Worth. Dominicus era stato identificato dalla vittima
e dalle sue amiche che facevano parte della sua stessa confraternita universitaria.
Quella notte si era avvicinato alla ragazza e aveva flirtato con lei. Era un omone di
colore e anche un bravo ballerino. Le ragazze bianche del college, che pure lo
avevano adorato fino a quel momento, si misero in testa che era proprio lui il tipo con
felpa e cappuccio grigi che era scappato lasciando la loro amica ubriaca e rannicchiata
per terra in un vicoletto. Dominicus fu messo in libertà grazie al dna estratto dallo
sperma conservato per dodici anni in una provetta della scientifica. E fu la madre di
Dominicus a usare per la prima volta con i giornalisti l’espressione Angie’s Angels, un
affettuoso appellativo che poi le rimase appiccicato.
Tuttavia, non avrei mai descritto Angie come un angelo. Non si tirava indietro
davanti a nulla. Era un’abile bugiarda quando bisognava esserlo. Lo so perché aveva
mentito sia per Charlie sia per me.
Faccio un passo e il lugubre suono del mio stivale echeggia sull’economico
linoleum giallo che copre Dio solo sa cosa. Anche le altre quattro scrivanie
sparpagliate nella stanza con lo stesso mucchio di scartoffie di quella di Angie sono
vuote. Dove sono finiti tutti?
All’altro lato della stanza c’è una porta blu che è impossibile non notare. Mi
avventuro da quella parte. Busso delicatamente. Nulla. Forse dovrei semplicemente
sedermi per un po’ sulla sedia di Angie, andare in giro sulle rotelle scassate di cui lei
si lamentava e rimanere a fissare il paradiso di Rembrandt, a valutare il ruolo del
martire.
Invece giro il pomello e apro appena la porta. Busso di nuovo. Sento voci che
discutono animatamente. La apro completamente. Un lungo tavolo da sala riunioni.
Una forte illuminazione dal soffitto. La faccia sorpresa di Bill. Una donna salta dalla
sedia e urta contro la sua tazza di caffè.
Con gli occhi percorro il tavolo, seguendo il rivolo di liquido ambrato.
La testa mi martella.
Copie di disegni, uniti gli uni agli altri e disposti lungo la superficie graffiata del
tavolo.
I disegni di Tessie.
Quelli veri. E quelli falsi.
Rimango a fissare il punteggio scarabocchiato sulla lavagna col gesso bianco: 1228. Un campionato juniores irregolare, forse, o un giorno sfortunato per la squadra dei
Dallas Cowboys. Da quanto è riportato sulla lavagna è chiaro che si tratta dei dodici
uomini messi in libertà nel corso degli anni da Angie e dal suo gruppo di legali che
lavoravano a rotazione. Ventotto invece sono quelli rimasti in prigione.
La donna che ha rovesciato il caffè e che mi era stata presentata con il nome di
Sheila Dunning, una studentessa di legge del terzo anno all’Università del Texas, se
n’è andata. William ha raccolto in fretta le copie dei miei disegni, li ha tolti di mezzo
e mi ha messo davanti una tazza pulita di caffè caldo. Si è scusato svariate volte e io
non ho fatto che dire: «È tutto a posto, va tutto bene, sapevo che prima o poi avrei
rivisto quei disegni» e «Avrei dovuto bussare più forte».
A volte desidero ardentemente far uscire la Tessie che è in me, quella che gli
avrebbe già sbattuto in faccia l’irritante verità nuda e cruda: Sei un’idiota. Sapevi che
stavo arrivando. Sapevi che non guardavo questi disegni da quando li ho tirati fuori
dal posto in cui li avevo murati.
«Ti ringrazio di aver guidato per tutto il tragitto fino a qui». Lui scivola su una
sedia accanto a me e sbatte sul tavolo un nuovo blocchetto di fogli gialli. Indossa
jeans, scarpe Nike e un pullover felpato verde che ha fatto un po’ di pallini e che è
troppo corto per la sua corporatura: è la maledizione di un uomo dalle spalle larghe.
«Sei ancora dell’idea di farlo?»
«Perché non dovrei?», ribatte Tessie. Sono ancora dell’idea, dopotutto.
«Non dovremmo parlare qui. In questa stanza». Mi fissa intensamente. «Questa è la
nostra sala operativa. In genere è vietata ai clienti».
I miei occhi si soffermano sulle pareti. Accanto alla lavagna, istantanee ingrandite
di cinque uomini. Presumo siano inchieste in corso. Quattro di quegli uomini sono
afro-americani. Un giovane Terrell Darcy Goodwin spicca nella fotografia al centro.
Ha il braccio intorno al collo di un tizio che indossa una divisa rossa e grigia da
giocatore di baseball delle superiori, forse il fratello minore. Lo stesso bel faccino,
occhi distanti, zigomi scolpiti, pelle caffellatte.
Sulla parete opposta: scene del crimine. Bocche aperte. Occhi bianchi. Un
ammasso confuso di braccia e gambe. Non mi soffermo.
Giro la testa verso un’enorme lavagna su cui è scarabocchiata una sorta di sequenza
temporale.
Vedo il mio nome. Quello di Merry.
Apro la bocca per parlare e trovo gli occhi di lui incollati alle mie gambe incrociate
e al pezzo di coscia bianca nuda sopra i miei stivali neri. Lascio l’orlo della gonna
alzato. Muovo in fretta le gambe sotto il tavolo. Lui indossa di nuovo una maschera
professionale.
«Io non sono una cliente». Ingoio un sorso di liquido amaro, leggo le parole scritte
sulla tazza: gli avvocati ti tirano fuori dai guai.
William segue il mio sguardo. Alza gli occhi. «La maggior parte delle tazze che
abbiamo è sporca. In effetti dovremmo lavarle prima o poi». Scherza. Lascia perdere
la curiosità di qualche attimo prima riguardo a ciò che si nasconde sotto la mia gonna.
«Sto bene qui, William».
«Bill», mi ricorda lui. «Solo le persone sopra i settanta mi chiamano William».
«La riesumazione martedì è andata come previsto?», chiedo. «Non ne hanno
parlato. Non è nemmeno uscito sulle pagine dei giornali».
«Credo che tu conosca già la risposta».
«Mi hai vista vicino all’albero».
«È difficile non notare i tuoi capelli, anche al buio».
Quindi anche lui mente. Oggi porto i capelli sciolti. Sono lunghi e i ricci arrivano
ribelli fin sotto le spalle. Hanno lo stesso colore acceso di quando avevo sedici anni.
Due notti fa, al cimitero, li avevo raccolti nel berretto da baseball nero di mia figlia
Charlie.
«Mi hai fregata», dico. «Grandioso».
Mi sposto goffamente sulla sedia. Sto parlando a un avvocato, uno al quale non ho
dato un centesimo per mantenere i miei segreti. Certo, lui ha l’aria da ragazzo della
porta accanto, con quegli occhi marroni da cerbiatto, i capelli dal taglio netto, le
orecchie leggermente a sventola e le mani enormi che potrebbero contenere un
pompelmo. Il simpatico migliore amico del tipo che ti piace, finché non ti rendi conto
che invece… oh, merda.
Bill sorride. «Hai lo stesso sguardo della mia sorellina quando sta per darmi uno
schiaffo. Per rispondere alla tua domanda, innanzitutto un antropologo forense
valuterà le ossa. Poi interverranno Jo e la sua squadra. La prossima settimana a Jo
piacerebbe che tutti e due andassimo a vederla all’opera sul caso delle Susan dagli
occhi neri, le margherite gialle. Mi ha chiesto di invitarti personalmente. È una specie
di offerta di pace per averti ordinato di non essere presente alla riesumazione. È
davvero molto dispiaciuta per questo».
Ho un leggero tremore. Non ci sono canne fumarie o fonti di calore qui dentro. Mio
padre diceva che il mese di febbraio nel Texas è come una donna dal carattere freddo
e aspro. Marzo invece è il mese in cui perde la verginità.
«Gli esami delle ossa si fanno sempre di lunedì mattina», continua lui. «Jo ha
dovuto ungere qualche leva per far arrivare le Susan in cima alla fila. Posso venirti a
prendere, se vuoi. Il laboratorio dista circa venti minuti da casa tua».
«Stavolta non avete paura di eventuali contaminazioni?». Questa era stata la
preoccupazione di Joanna nei miei confronti qualora avessi assistito ufficialmente alla
riesumazione dei corpi. Non voleva commettere neanche la minima infrazione al
protocollo.
«Osserveremo il trattamento attraverso una vetrata. Il nuovo laboratorio è stato
predisposto anche come struttura didattica. All’avanguardia. Le ossa arrivano da tutto
il mondo. Così come studenti e scienziati che vogliono osservare di persona le
tecniche di Jo». Sorride a denti stretti e prende la sua penna. «Vogliamo cominciare?
Ho un appuntamento alle due. Per l’altro lavoro, quello con cui pago le bollette».
Ovvero, secondo il sito web del suo studio legale, il mediatore aziendale, qualsiasi
cosa sia. Mi chiedo dove nasconda giacca e cravatta.
«Sì, procediamo pure». Cerco il più possibile di assumere un tono indifferente.
«La tua deposizione nel 1995. È cambiato qualcosa? Negli ultimi diciassette anni
ricordi qualcos’altro dell’aggressione o del tuo aggressore?»
«No», rispondo con fermezza. “Voglio dare una mano”, dico a me stessa, “ma solo
fino a un certo punto”. Ho due adolescenti da proteggere: quella che ero e quella che
dorme nella stanza viola.
«Per essere sicuro ti farò qualche domanda specifica, ok?».
Annuisco.
«Puoi descrivere il volto del tuo aggressore?»
«No».
«Ti viene in mente dove l’hai incontrato?»
«No».
«Hai qualche ricordo, anche vago, di quando sei stata gettata in quel campo?»
«No».
«Pensi di aver visto il nostro cliente – Terrell Goodwin – prima del giorno in cui
hai testimoniato?»
«No. Non che io sappia».
«No è una bella risposta semplice», dice lui. «Se fosse la verità».
«Lo è. È la verità».
«Puoi fornire qualche dettaglio, anche minimo, di quello che ti è successo nelle ore
in cui sei stata data per dispersa?»
«No».
«L’ultima cosa che rammenti è di aver comprato… degli assorbenti in farmacia?»
«E una barretta di cioccolato Snickers. Sì». L’involucro è stato trovato nella fossa.
«E hai ascoltato la registrazione della tua chiamata al 911, ma non hai scordato di
averla fatta?»
«Giusto, sì».
«Tessa, devo chiedertelo di nuovo. C’è una qualche possibilità che tu possa
cambiare idea e sottoporti a una leggera ipnosi? Per vedere se riesci a recuperare
qualcosa di quelle ore che hai cancellato dalla memoria? O magari potremmo
esaminare insieme a un esperto i disegni che mi hai dato. Se scartiamo tutto ciò che
risulta approssimativo, magari otteniamo una nuova udienza dal giudice».
«L’ipnosi è fuori discussione», dico con voce sommessa. «Mi sono documentata
abbastanza per sapere che posso essere guidata verso ricordi fasulli. Ma esaminare i
disegni in una seduta terapeutica… Sì, credo di sì. Anche se non so assolutamente
come questo potrà essere d’aiuto».
«Grandioso. Grandioso. Ho già in mente qualcuno. Qualcuno che ha lavorato con
me in passato. Credo che ti piacerà». Per poco non mi metto a ridere. Se solo sapesse
quante volte l’ho sentito.
Lui inclina la penna esattamente a novanta gradi. La fa girare. La ferma. La fa
girare di nuovo. William sa come utilizzare una lunga pausa ricca di significato.
Comincio a pensare che forse sa muoversi molto bene in tribunale.
«C’è una ragione per cui sei seduta qui, Tessa. C’è qualcosa che non vuoi dire. Ho
davvero bisogno di sapere di cosa si tratta. Perché a giudicare da come mi hai risposto
forse pensi ancora che Terrell Darcy Goodwin sia colpevole».
La scorsa notte non sono riuscita a dormire al pensiero di come avrei risposto a una
simile domanda. «Mi sento come se lo ferissi… Terrell… al banco dei testimoni».
“Vacci piano”, dico tra me e me. «Sono stata manipolata da un sacco di persone. Per
anni. Angie alla fine mi ha convinto che non esiste alcuna prova schiacciante contro di
lui. E ti ho mostrato le margherite gialle. Sotto la mia finestra». Continua a mantenere
il controllo.
«Sì». Le sue labbra si sono distese in una linea sottile. «Ma un giudice liquiderà
quei fiori dicendo che sono un frutto della tua immaginazione o solo un caso bizzarro.
Potrebbe anche insinuare che li abbia piantati tu. Sei pronta all’evenienza?».
«Questo è ciò che credi tu? Che io me lo stia inventando?».
Mi guarda dritto negli occhi, calmo. Quant’è irritante! Forse William non merita di
sapere tutto quanto. E di sicuro non sta facendo le domande giuste.
Comincio a pensare che fin dall’inizio la sua intenzione era quella di farmi fare un
passo falso in questa stanza; di scaraventarmi di nuovo nel passato e ficcare un ricordo
nitido nel mio cervello non collaborativo.
«I miei disegni non sono la tua arma segreta», dico bruscamente. «Non puoi riporre
le tue speranze in una ragazza arrabbiata con un pennello in mano».
Tessie, 1995
Fine dell'estratto Kindle.
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