corso di dialetto parmigiano

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corso di dialetto parmigiano
dispense per il Corso di dialetto e cultura parmigiana (2015-2016)
tenuto in Famija Pramzàna in collaborazione tra:
 Consulta per il dialetto parmigiano e
 Famija Pramzàna
 Biblioteca Civica
Il Corso alla sua seconda edizione, articolato su 10 incontri, è stato svolto da:
Giorgio Capelli, Claudio Cavazzini, Franco Greci, Giuseppe Mezzadri,
Giovanni Mori, Aldo Pesce e Luigi Sturma.
La lezione di apertura è stata tenuta da Giovanni Petrolini professore di
linguistica e dialettologia italiana mentre quella di chiusura lo è stata dal
linguista e glottologo Guido Michelini.
In Civica il Corso si è avvalso della collaborazione di Roberto Montali
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GIUSEPPEMEZZADRI.COM
è consentito soltanto per uso personale e senza scopo di lucro
ALTRI UTILIZZI NON SONO PERMSSI
SENZA L’AUTORIZZAZIONE DELL’AUTORE
Per eventuali richieste, commenti, segnalazioni o comunicazioni si prega
di contattare Giuseppe Mezzadri al seguente indirizzo di posta elettronica
[email protected]
Mezzadri potrà rispondere sia a titolo personale che a nome della Consulta
per dialetto parmigiano.
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
LEZIONE DI APERTURA DEL CORSO DI DIALETTO E CULTURA
PARMIGIANA (in Famija Pramzàna 2015-20169
Tenuta da:
Giovanni Petrolini professore di linguistica e dialettologia italiana
(articolo pubblicato dalla Gazzetta di Parma)
IL DIALETTO
A cura della Consulta per il dialetto parmigiano e in collaborazione con la Famija
Pramzàna e la biblioteca Civica, da dicembre è iniziato un Corso di dialetto articolato
su 10 incontri e svolto, nella prima parte, dal sottoscritto, Giovanni Mori, Aldo Pesce
e Giorgio Capelli. La lezione di apertura è stata tenuta da Giovanni Petrolini
professore di linguistica e dialettologia italiana mentre quella di chiusura lo sarà dal
linguista e glottologo professor Guido Michelini. Si è trattato di un’ora e mezza di
spiegazioni e citazioni puntuali ed approfondite. Ho ritenuto di fare cosa gradita agli
appassionati della nostra parlata redigerne un riassunto seppure necessariamente
stringato per motivi di spazio.
Dialetto e lingua: qualche considerazione generale.
Petrolini ha iniziato sottolineando che quel piccolo straordinario universo che è il
dialetto, per noi italiani, è una varietà linguistica locale nettamente differenziata
rispetto alla lingua italiana, diversamente dagli anglosassoni per i quali il “dialect”
corrisponde ad una varietà locale che si discosta dalla lingua solo per qualche
particolarità (per lo più fonetica). I linguisti ci dicono poi che, tra lingua e dialetto,
sul piano strettamente linguistico, non esistono sostanziali differenze. Si tratta infatti
di sistemi fonematici dotati in entrambi i casi di una loro grammatica (fonetica,
morfologia, sintassi, lessico). Lingua e dialetto hanno insomma “una pari dignità
semiologica”.
Anche dal punto di vista genetico, lingua e dialetto rappresentano diversi momenti di
uno stesso continuum linguistico. Quello che era una lingua, il latino, attraverso il
suo uso parlato si trasformò lentamente, attraverso i secoli, nei volgari parlati
neolatini ovvero nei dialetti neolatini e da questi si svilupparono le lingue nazionali.
In particolare in Italia dal dialetto fiorentino, dal fiorentino delle persone colte,
attraverso i secoli si sviluppò la lingua italiana.
I dialetti sono dunque fratelli dell’italiano perché come l’italiano sono figli del latino
e non figli, magari deformi, dell’italiano (anche se non si può negare che nel dialetto
esistono le storpiature dell’italiano).
Eppure, nonostante queste indubbie affinità linguistiche, lingua e dialetto nel
vocabolario italiano hanno un significato ben diverso. Nessuno potrà dire che
l’italiano è un dialetto e che (salvo che in occasioni promozionali come questa) il
parmigiano è una lingua. Quel che distingue nettamente l’ uno dall’ altra a ben
vedere non dipende da considerazioni linguistiche ma extralinguistiche. Nel
linguaggio comune lingua e dialetto, si collocano su due piani diversi. Uno più
importante l’altro meno. Nessuno potrà negare che il dialetto è una varietà linguistica
parlata da un numero di persone inferiore rispetto a quella degli utenti di una lingua e
che gode di minor prestigio sociale rispetto alla lingua. Il dialetto è stato per secoli
la lingua dei poveri. E questa è la ragione per cui i nostri vecchi, per promuoverci
socialmente, ci proibivano di parlarlo. Per loro era una scelta obbligata. Da quando
sono nati a quando sono morti hanno sempre parlato in dialetto. Per la classe colta era
una libera scelta.
Nessuno potrà poi negare che l’importanza letteraria dell’ italiano è
di gran lunga superiore a quella del parmigiano come a quella di un qualunque altro
dialetto. Nell’’800, Friedrich Diez, il padre della filogia romanza, distingueva nel
campo delle parlate europee derivate dal latino, soltanto sei lingue e fondava la
distinzione sulla base della loro importanza letteraria.
Tutte queste considerazioni (sostanzialmente extralinguistiche), ci portano insomma a
collocare senz’altro il dialetto su di un piano di inferiorità rispetto alla lingua. Il
parmigiano, ahimè, vale meno dell’italiano.
Il valore del dialetto
Le cose però cambiano radicalmente se si considera che per molti di noi il dialetto è
stato la prima lingua che è stata ascoltata in famiglia e ancor più è stata la prima
lingua dei nostri padri e dei nostri nonni ed è legato ai più cari ricordi della nostra
infanzia. Il dialetto ha per noi ha un valore affettivo di gran lunga superiore
all’italiano. Ascoltarlo ci scalda il cuore. Quello strano modo di parlare il dialetto è il
nostro e solo il nostro, diverso da quello di tutti gli altri abitanti della terra. Più del
colore degli occhi e dei capelli, più del modo di vestire a di parlare esprime la nostra
più specifica identità e soprattutto la sua curva melodica, la sua cadenza, il suo
accento inconfondibile rappresentano una sorta di linguistico DNA.
Ed è naturale perciò per noi parmigiani non più giovanissimi innalzarlo di grado e
dire che il dialetto parmigiano è una lingua. Si capisce allora perché benemerite
istituzioni come la Famija Pramzàn, Parma Nostra, la Consulta per il dialetto
parmigiano, Compagnie teatrali ecc., scrittori e, soprattutto, studiosi, facciano di tutto
per non dimenticarlo e valorizzarlo in un momento della nostra storia, non soltanto
nazionale ma anche europea, in cui fatalmente, se non contrastato, ci porterebbe ad
abbandonarne l’uso e con esso forse anche il ricordo.
A pensarci bene ci sono poi ragioni non solo soggettive e identitarie ma anche
oggettive che inducono per qualche verso a considerare il dialetto più importante
rispetto alla lingua. La sua maggiore antichità per esempio. Per le lingue si può
stabilire seppure approssimativamente la data della loro nascita. Nel 1960 si celebrò il
millenario della nascita della nostra lingua italiana essendo passati 1000 anni dalla
data del placito Capuano o cassinese che, per convenzione, si considera il primo
documento della lingua italiana.
Per il dialetto questo non si può fare. I dialetti non hanno un certificato di nascita
datato ma sono certamente più antichi delle lingue. La loro origine si perde nella
notte dei tempi. Essi sono nati chissà quando insieme ai primi uomini stanziati qua e
là nel territorio oggi italiano. È solo per convenzione storica che possiamo dire che il
dialetto parmigiano è nato in età romana dal latino parlato nelle terre comprese tra il
Po e l’Appennino.
Se è vero che l’ anzianità fa grado, il dialetto è di grado più elevato della lingua.
Di questo si era già accorto in qualche modo Dante Alighieri che nel “De vulgari
eloquentia” giudicava senz’altro “nobilior” (più nobile) il volgare, cioè la parlata
nativa (oggi diremmo il dialetto), rispetto alla “gramatica”, come lui definiva la
lingua latina. Questo perché la facoltà di parlarlo è comune a tutti gli uomini della
terra. È una facoltà universale ed innata. E’ un dono della natura che non s’impara sui
libri. Ai tempi di Dante il termine dialetto non era ancora entrato nel vocabolario. Vi
entrerà soltanto nel ‘400 in età umanistica.
Come valorizzare il dialetto.
Ci sono dunque molte ragioni valide per valorizzare il dialetto e ci sono vari modi per
farlo ugualmente rispettabili e degni di attenzione.
Tutte le iniziative però devono fare i conti con quanto la storia linguistica italiana ci
insegna e cioè che una lingua si parla e si impone quando ci sono condizioni
ambientali che suggeriscono e in qualche modo obblighino ad usarla per capire e per
farsi capire.
Oggi che tutti i parmigiani parlano italiano ci si potrebbe chiedere: “che bisogno c’è
di parlare in dialetto?” Non certo quello di capire o di farsi capire. Anzi a parlarlo si
rischia di non farsi capire
Sino alla seconda metà dell’ Ottocento nessuno o quasi nessuno si era reso conto che
le parlate native sparse nel nostro paese, e ora languenti, rappresentano una
testimonianza storica di vita e di civiltà, un bene linguistico e culturale, un patrimonio
dell’umanità che non può essere dissipato, ovvero dimenticato.
Se è vero che oggi non si avverte l’indispensabilità di parlare in dialetto è vero però
che da qualche tempo ci si è accorti del valore psicologico e affettivo dei dialetti. È
stato necessario però che i dialetti, specialmente a partire dall’ Unità Unità d’ Italia,
cominciassero ad indebolirsi, ad ammalarsi e a rischiare di morire di fronte della
prepotente avanzata dell’italiano. È quando si stanno per perdere che ci si rende conto
del valore di molte cose, anche del dialetto.
Attualmente si ha l’impressione di un timido ritorno all’uso di parlare parmigiano
sotto la spinta di iniziative ricreative che forse più che valorizzarlo in senso stretto
mirano a riderne o a sorriderne, come è avvenuto per secoli a partire dal ‘500 nella
letteratura del teatro dialettale.
Per la verità vi sono anche altre iniziative tese alla valorizzazione del dialetto meno
ludiche che cercano (con difficoltà) di coinvolgere il mondo della scuola, produrre
corsi di dialetto, redigere raccolte di aneddoti, tradizioni e poesie evidenziandone
anche gli aspetti culturali e persino educativi. Da quel mondo di povertà e di
ignoranza che il dialetto esprime e riflette c’è molto da imparare: non fosse altro che
la sua semplicità, la sua sobrietà, la sua serenità, la pazienza e l’eroica capacità dei
suoi uomini e delle sue donne di tirare avanti nonostante tutto.
Il piacere di parlare in dialetto
Se si escludono certe sporadiche situazioni in famiglia o con amici, le persone che
parlano in dialetto sono sempre più rare. Ed è un peccato perché quando parlano in
dialetto sentono il piacere di parlarlo perché parlandolo esprimono l’orgoglio di
essere figli di questa amatissima città dal glorioso passato. Parlare in dialetto è bello.
I dialetti sono piccole lingue che sono state usate per secoli o per millenni dai nostri
antichi, sono state le sole a disposizione della stragrande maggioranza di noi Italiani,
le sole con le quali i nostri vecchi si sono sempre parlati, con le quali hanno riso e
hanno pianto.
Un lessico storico etimologico delle parlate parmensi
Pur apprezzando le iniziative di cui si è accennato prima, Petrolini non nasconde il
suo pessimismo sul fatto che si possa tornare a parlare in dialetto come una volta.
Egli pertanto ritiene che il modo più efficace per valorizzare il dialetto sia quello di
archiviarne la memoria (già largamente archiviata) e di approfondirne lo studio. A
questo proposito ha annunciato di avere finalmente concluso una impresa ambiziosa,
forse “velleitaria”, quella di un lessico storico etimologico delle parlate parmensi. E
continua: “E’ il lavoro di una vita. L’ho cominciato insieme a mio padre quando ero
studente di lettere alla Università di Bologna e concluso adesso che ho i capelli
bianchi. Attendo con ansia che qualche generoso imprenditore o qualche pubblica
Istituzione mi aiuti a pubblicarlo”. Riferendosi in particolare alle Istituzioni, non
avendo ad oggi ricevuto segnali posititvi, dice: “Non si può far finta di valorizzare le
cose e poi quando c’è l’occasione di farlo non si fanno”. Dice anche : “Anche se
tutto il materiale è registrato su Word e travasarlo sul cartaceo non dovrebbe
presentare problemi, non mi nascondo che a questi lumi di luna quello di stampare
come si deve, non basta ch a sia, 15 volumi di 350 pagine l’uno, più un volume “0”
di introduzione e bibliografia non è certo un gioco da ragazzi”
Petrolini ha voluto infine dare una piccola dimostrazione di come possano essere
approfonditi e interessanti gli studi sul vocabolario parmigiano.
Lo ha fatto attraverso l’ illustrazione di tre parole “difficili” del dialetto parmigiano
estratte dal suo lavoro, una ancor oggi ben nota, come cibàch ‘ciabattino, povero
calzolaio’ e altre due oggi del tutto dimenticate, come Zvissra e Scòsia nel senso di
‘Oltretorrente’. Ogni parola del nostro dialetto ha una sua storia da raccontare.
Qualcuna è una storia tranquilla, pacifica, come quella di gran parte delle parole dotte
che si sono conservate si può dire com’erano in latino fino ad oggi. Ma le parole di
tutti i giorni molto spesso si trasformano, si modificano, pian pianino si deformano.
Una di queste è appunto il parmigiano cibàch. Era così chiamato sino a ieri il
ciabattino, il povero calzolaio. Sull’origine di questa voce sono state avanzate,
seppure dubitativamente, diverse spiegazioni. Si è ritenuto potesse rappresentare una
contrazione di “pardincibach” oppure di “cicatabach” (mastica tabacco).La parola
ha invece un’origine molto meno colorita. Proprio come l’italiano ciabattino a ben
vedere anche il parmigiano cibàch ha infatti a che fare con ciabatta e, in particolare
con una sua variante “cibatta”. “Cibàch” rappresenta infatti l’adattamento di un non
attestato italiano “cibatto” forma scorciata (o meglio “retroformata”) dall’ antico
italiano cibattone ‘ciabattino’ già attestata nel ‘500 da Annibal Caro. Da “cibatto”
adattato in parmigiano come “cibàt” si passò a “cibàch” attraverso un facile
scambio tra l’occlusiva dentale sorda del suffisso (‘-atto’) e la occlusiva velare sorda
del suffisso (‘-acco’ cfr. per esempio il parm. antico tomata ‘pomodoro’ passato poi
a tomaca.
Petrolini ha infine chiarito attraverso puntuali riferimenti come sia Zvissra propr.
Svizzera’ sia Scosja propr. ‘Scozia’, denominazioni scherzose del nostro dedlà da l
acua, presero spunto dalla sua fama di contrada di osterie e di gran bevitori, proprio
come terre di gran bevitori erano considerate appunto già nell’ Ottocento sia la
Svizzera sia la Scozia. Il nome di quest’ ultima per di più veniva a giocare
equivocamente con il gergale parm. scòsja ‘ciotola (da vino)’ e con scosjär
‘sbevazzare, bere in abbondanza’.
Un commento
A fine lezione, il prof. Giovanni Mori, della Consulta per il dialetto parmigiano, ha
commentato convenendo che esiste il rischio che il dialetto non venga più parlato. E
il rischio è più forte per il Parmigiano che per altri dialetti, a causa della spocchia con
cui la grande corte della piccola capitale ha per secoli considerato chi parlava il
dialetto, cioè come un ignorante e un poveraccio che non si è potuto permettere
nemmeno la scuola elementare. Tuttavia, in altre regioni dalle capitali meno
spocchiose, ciò non accade, come in Veneto, a Napoli o a Roma. In altre città
addirittura si verificando il processo inverso, come a Mantova e anche a Brescia e
Piacenza. Lì le persone più acculturate, quelle che non temono di essere scambiate
per ignoranti, hanno ripreso a godersi il piacere di parlare ed ascoltare il dialetto,
linguaggio ovunque più espressivo ed evocativo dell’Italiano. E’ una operazione che
si può fare anche a Parma. Non a caso l’Unione Europea ha stanziato dei fondi
dedicati alla valorizzazione dei dialetti per tutelare l’identità dei cittadini europei e
contrastare l’avanzata della “società liquida” teorizzata da Bauman, secondo il cui
modello assumeremmo, come un liquido che prende la forma del recipiente in cui
viene versato, le parole, i pensieri, i comportamenti e le mode che qualcuno dall’alto
decide. In una parola per contrastare la globalizzazione. E fare questo Mori ritiene sia
doveroso.
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
1^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri)
(origine del dialetto – grammatica – prime regole – locuzioni meteo – locuzioni
tempo, feste, giorni ecc.)
I DIALETTI ITALIANI
Semplificando molto possiamo suddividere i dialetti italiani (da Nord a Sud) in sette
gruppi:
Gallo-Italici, Veneti, Trentini, Toscani e Corsi, dialetti Mediani e Meridionali.
IL NOSTRO DIALETTO
È una lingua con una storia che viene da lontano, che ha una letteratura, testi teatrali e
un ricco un patrimonio di proverbi, modi di dire e tradizioni. Era la lingua che
permetteva alle persone di esprimersi e capire il prossimo perché, come scriveva
Renzo pezzani, il nostro maggior poeta, il nostro dialetto:
“…è bello, armonioso e bastevole a tutte le necessità e contingenze della vita e dello
spirito…”
L’ORIGINE
Nel 183 a.C. i Romani, dopo avere tracciato la Via Emilia, cacciarono i Galli [li
avevano sconfitti nel 191!] e imposero la lingua latina. Il latino volgare, cioè parlato
da soldati e coloni importati, impiantandosi sulle locali parlate celtiche (che pertanto
hanno funzionato da sostrato al superstrato latino) ha prodotto il dialetto parmigiano.
Parole derivanti dal sostrato celtico: bènna (carro senza ruote); lidga (fango, da
“ledega”); brèssca (favo asciutto, da “brisca”).
Parole derivate direttamente dal basso latino: caldarén (secchio) da “caldarius”;
rezdór (capo famiglia) da “rector”; misóra (falce per mietere) da “falx messoria”.
Dal germanico portato da Goti e Longobardi: bórogh (borgo) da “burgh”; guindol
(arcolaio) da “garwinden”; magón (stomaco) da “magen”.
Dallo spagnolo: soghètt (corda, “soga”); al m'à inlochì (dall'aggettivo “loco” pazzo); gozén (maiale) da “cocinho”.
Dal francese: il duca don Filippo di Borbone e sua moglie Luisa Elisabetta, figlia
di Luigi XV, sono giunti a Parma nel 1749 con l'idea di fare della città una piccola
capitale di livello europeo e per questo hanno portato dalla Francia architetti, artisti,
uomini di cultura, artigiani, cuochi, camerieri e stallieri: circa quattromila persone in
una città di trentamila. Così molti termini francesi sono stati dialettizzati. Solo per
citare alcuni fra i tanti: lorgnètti, occhialini da “lorgnettes”; armuar, armadio da
“armoire”; babalàn, che parla a vanvera, da “babiller”; ombrìggol, ombelico, da
“nombril”.
LA GRAMMATICA
Con il suo aureo volumetto “Il dialetto vivo di Parma e la sua letteratura” (1944),
l’avv. Jacopo Bocchialini è stato il saggio restauratore e ordinatore delle norme
grammaticali del nostro dialetto. Altri si erano applicati ma nessuno aveva
approfondito come lui.
Il professor Guglielmo Capacchi, autore del prezioso dizionario Italiano-dialetto
aveva in animo di allegare al dizionario dialetto-italiano una grammatica. Purtroppo
non ha fatto in tempo a completare il progetto ma, per quanto attiene la grafia, egli ha
aggiornato, codificato e in parte modificato le proposte di Jacopo Bocchialini.
Proposte che ha inserito comunque nel dizionario che riporta anche parecchie
espressioni idiomatiche che, essendo scritte in modo completo e per esteso,
contengono preziose indicazioni su come si costruiscono le frasi con relativi accenti,
congiunzioni, apostrofi ed elisioni.
n queste lezioni mi servirò delle regole del Bocchialini e perfezionate dal Capacchi.
Mi servirò soprattutto degli spunti di un corso di dialetto parmigiano, redatto per gli
incontri di “Parma Nostra”, da Vittorio Botti, stringato ma ben fatto. Vittorio era la
mente e io il dattilografo e poco più perché sapevo usare il computer. Con tutta la
stima e il rispetto per i miei maestri tuttavia mi sono riservato il diritto, soprattutto
per quanto attiene all’accentazione, di apportare modifiche che il trascorrere del
tempo (con sempre meno parlanti in dialetto) sono, a mio giudizio, opportune per
facilitare la lettura.
QUALE DIALETTO?
Del dialetto parmigiano, parlato in tutta la provincia di Parma, si possono
riscontrare almeno tre varianti:
area della "bassa", approssimativamente da Torrile al fiume Po;
area di Fidenza e Salsomaggiore Terme, dove la parlata si avvicina molto al
dialetto piacentino orientale della Val d'Arda;
area appenninica, dove vi sono alcune inflessioni liguri.
Le variazioni tra questi dialetti sono riscontrabili, oltre che in alcuni termini,
soprattutto nella pronuncia delle vocali.
In queste lezioni parleremo soprattutto del dialetto della città di Parma, tralasciando
quello “arioso”.
Anche il dialetto di città non è del tutto omogeneo soprattutto per l’accentazione della
vocale “e”. Anche se, fortunatamente, è quasi sparito il dialetto strascicato, aborrito
dal Bocchialini, esiste una differenza tra quello dell’Oltretorrente (dedlà da l’acua) e
quello della riva destra (dedsà da l’acua).
Facciamo un esempio.è bello si può tradurre in due modi; l’è bél in cui la “è” voce
del verbo essere ha la pronuncia aperta di “erba” oppure con l’é bél in cui la “é” ha
la pronuncia stretta di “chiesa”. Nell’Oltretorrente si usa quella in cui la “e” ha
pronuncia stretta.
Il prof. Guglielmo Capacchi ha scelto di adottare la grafia della pronuncia
“oltretorrentina”pur dicendo che, per lui, la questione non è ancora definita.
Io ho scelto di seguire le indicazioni del Capacchi, che considero il mio maestro, e
utilizzerò la grafia relativa alla pronuncia più stretta. Nel parlare però tendo ad una
pronuncia più aperta.
A questo proposito ricordo quando, tanti anni, nella redazione del “Lunario
parmigiano” si è optato per quella “stretta” soprattutto per decisione di Vittorio
Botti, caro amico non più tra noi, io inutilmente feci obiezione. Scherzosamente
accusavo Vittorio di essere “Un capanón ‘d bórogh Bartàn” e di rimando lui mi
diceva: “E ti a t’si un paizàn ‘d San Lazor”.
LA GRAMMATICA
Con il suo aureo volumetto “Il dialetto vivo di Parma e la sua letteratura” (1944),
l’avv. Jacopo Bocchialini è stato il saggio restauratore e ordinatore delle norme
grammaticali del nostro dialetto. Altri si erano applicati ma nessuno aveva
approfondito come lui.
Il professor Guglielmo Capacchi, autore del prezioso dizionario Italiano-dialetto
aveva in animo di allegare al dizionario dialetto-italiano una grammatica. Purtroppo
non ha fatto in tempo a completare il progetto ma, per quanto attiene la grafia, egli ha
aggiornato, codificato e in parte modificato le proposte di Jacopo Bocchialini.
Proposte che ha inserito comunque nel dizionario che riporta anche parecchie
espressioni idiomatiche che, essendo scritte in modo completo e per esteso,
contengono preziose indicazioni su come si costruiscono le frasi con relativi accenti,
congiunzioni, apostrofi ed elisioni.
n queste lezioni mi servirò delle regole del Bocchialini e perfezionate dal Capacchi.
Mi servirò soprattutto degli spunti di un corso di dialetto parmigiano, redatto per gli
incontri di “Parma Nostra”, da Vittorio Botti, stringato ma ben fatto. Vittorio era la
mente e io il dattilografo e poco più perché sapevo usare il computer. Con tutta la
stima e il rispetto per i miei maestri tuttavia mi sono riservato il diritto, soprattutto
per quanto attiene all’accentazione, di apportare modifiche che il trascorrere del
tempo (con sempre meno parlanti in dialetto) sono, a mio giudizio, opportune per
facilitare la lettura.
ALCUNE REGOLE DI GRAFIA E DI LETTURALE VOCALI
La vocale “a” presenta due suoni: “a” aperta es. “mat” (matto), oppure “ä” con un
suono allungato tendente ad“è” (es.“cärna”-carne, “Pärma”-Parma).
La vocale“e” presenta due suoni: uno aperto come “è di “erba” (es. “ernja”-ernia),
l’altro chiuso come “é” di “chiesa” (es. “pianén”-pianino).
Anche la vocale “o” presenta due suoni: aperto come “ò” di “fuoco” (es. “solit”solito),
e chiuso come “ó” di “torre” (es. “pisón”-piccione).
Per leggere con la giusta tonalità è importante osservare l’accento. Il professor
Capacchi, per semplificare, ha adottato la seguente regola generale.
La“o” con suono aperto non si accenta.La “o”con suono chiuso si accenta.
A questa regola generale molto saggia perché consente di semplificare, a mio
giudizio, può risultare utile fare qualche eccezione. Esempio: la parola “rosso”,
nell’italiano che si parla a Parma, la “o” ha suono chiuso. In dialetto ha suono aperto.
In casi come questo l’apposizione dell’accento aperto facilità il lettore. Così io
preferisco scrivere ròss”. Occorre anche considerare che il Capacchi scriveva le sue
regole oltre 40 anni fa quando i parlanti in dialetto erano sicuramente in numero più
elevato.
“i” suona come in italiano.
“j”suono semiconsonantico come in “chiudere
“u” suona come in italiano
La vocale “u” talvolta si muta in “v”
Es. avtón "(autunno); "avtista " (autista); Clavdia (Claudia)
TEMPO –GIORNI –MESI –FESTE
Alba
Mattino
Mezzogiorno
Pomeriggio
Sera
Tramonto
Mezzanotte
Notte
Anno
Secondo
ora
minuto
secolo
primavera
Älba
Mezdì
Mezgioron
dopmezdì
sira
Tramónt
mezanota
Nota
An
Secónd
FESTE
Epifania
Capodanno
Carnevale
Natale
La vigilia
Ferragosto
Martedì grasso
Festa repubblica
Dom. delle
Palme
óra
Pasqua
minud
Pasquetta
secónd
Festa dei santi
primmavéra Il giorno dei
Befana
Primm ädl’an
Carnväl
Nadäl
La vgilja ‘d Nadäl
Feragosst
Martedì gras
Fésta ‘dla Republica
Doménica dil Pälmi
Pascua
Pacuètta
I Sant
I mort
estate
autunno
Istè
Avtón
morti
Santo stefano
Giorno feriale
inverno
Inveron
giorno festivo
lunedì
martedì
mercoledì
Lundì
martedì
marcordì
Adesso
Da poco tempo
Da molto tempo
giovedì
Giovedì
venerdi
sabato
domenica
Venardì
sabot
Doménica
gennaio
febbraio
marzo
Znär
farvär
Märs
aprile
Avril
maggio
giugno
luglio
Mag’
Zuggn
Lujj
agosto
settembre
ottobre
novembre
dicembre
Agosst
Setémbor
otobbor
Nevémbor
Dzémbor
San Stévon
Gioron feriäl
gior’n in fra la stmana
Gioron festiv
gior’n ‘d fésta
Da poch témp
Da bombén ‘d témp
Da un sach ‘d témp
Fra poco
Tra poch
A moménti
In anticipo
In anticcip
In ritardo
In ritärd
Qualche volta
Cuälca volta
‘na cuälca volta
Sempre
Sémpor
Mai
mäi
Spesso
Spèss
De spèss
Subito
Subitt
subitta
Tempo fa
Témp fa
Per poco tempo Par poch témp
Per molto tempo Par bombén témp
P’r un sach ‘d témp
Presto
prést
Tardi
tärdi
Prima
primma
Dopo
Dop - dopa
Che ore sono ?
Che ór’è
A che ora ?
A che óra
Fino a quando? Finn a cuand
Che giorno è
Che giór’n è incón
oggi ?
Ogni giorno
Ogni gióron
LOCUZIONI METEOROLOGICHE
Afa
Caldo
Umido
stuffgas
cäld
Ummid
Clima
clima
Freddo
Ghiaccio
Pioggia
frèdd
giasa
acua
Secco
sècch
Nuvoloso
nuvvlóz
Sereno
srén
Vento
Temporale
Tempo
atmosferico
Sole
vént
temporäl
Neve
néva
Nebbia
Fumära
Sól
Grandine
Che tempo fa ?
Fa bello ? fa brutto ?
timpesta
Che témp fa?
Fa bél, gh’é bél
Fa brutt – gh’é brutt
Fa caldo fa freddo ? Fa cäld – gh’é cäld
Fa frèdd – gh’é frèdd
Piove?
Pióva?
Nevica?
Néva?
C’è nebbia ?
Gh’é la fumära?
Gh’é ‘dla fumära?
È sereno è nuvoloso ? Gh?é Srén?
Gh’é nuvolo?
che tempo farà
Che témp farà dman
domani ?
Che témp a gh’sarà dman?
quanti gradi ci sono ? Cuant gräd Gh’é?
Co’ gh’é ‘d gräd?
Nevica?
A néva? Néva?
C’è nebbia ?
Gh’é ‘dla fumära
È sereno è nuvoloso ? Gh’é srén? È srén?
che tempo farà
domani ?
quanti gradi ci sono ?
Che témp farà dman
DAL DIZIONARIO ITALIANO–DIALETTO DI G. CAPACCHI
(1992 Artegrafica Silva S.r.l – Parma)
—vènto, s.m.: vént; àrja (s.f );
—v. austro, di grecale, libeccio, maestrale, di ponente, di scirocco, di
tramontana, vént äd montagna (o: ’d mezdì), guastaléz, äd mär, cremonéz,
pjazintén, arzàn, äd tramontana (o: color- néz, äd setentrjón);
— molino a v., molén a vént;
— torcia a v., torsa da vént;
— giacca a v., zachètta da vént; — farsi v., färos vént;
— che buon v. ti porta?, che bón vént t’ à portè chi?;
s’ alza il v., a s’ lèva su ’l vént;
— non tira un alito di v., a n’ gh’ é miga un boff d’ arja;
—v. forte, a tira un vént gajärd
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
2^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri)
LE CONSONANTI
b, d, f, gn, p,r, t, u, v si pronunciano come nell’italiano
La «c» italiana, davanti ad «e» e «i», ha suono palatale sorda come nell’italiano
“cera” ,”cipria”
La «c» ha suono velare sorda davanti ad “a”, “o”, “u”, ; come nell’italiano “cane”,
collo”,“cubo”
La «c» italiana, davanti ad «e» e «i», in inizio di parola, si è a volte trasformata in «s»
es. sercär (cercare) es. sivètta (civetta)
«ch» in italiano, nel dialetto diventa «c» dolce: es. céza (chiesa)
«ch» in dialetto, nei finali di parola con c dura, mantiene il ch: es. toch (pezzo)
La «c», in dialetto, nei finali di parola con c dolce diventa: «c’» Es. Oc’ (occhio)
La “g” italiana davanti ad “e” e “i” tende a dare “s” dolce o sonora e nella grafia
dialettale viene resa con la “z” (es. “zardén”-giardino), znòc’ (ginocchio), es. zlè
(gelato)
La «g», in dialetto, nei finali di parola con g dolce diventa: «g’» es. mag’ (maggio)
«gh» in italiano, nel dialetto diventa «g» dolce: es. gianda (ghianda)
«gh» in dialetto nei finali di parola («g» dura) si usa es. fagh (faccio)
La «p» tra due vocali si trasforma in «v» es. Savór (sapore) es. Lòvv (lupo)
La «s» dolce, nel dialetto, viene resa usando la usata “z” : es. róza (rosa) - déz
(dieci) - mézdì (mezzodì)
La «z» tra due vocali (in italiano) si traduce con la «s» aspra: es. asjón (azione) rasa
(razza)
La «z» dell’italiano di “razza”, “tazza”, “ragazza”, ecc. viene resa con la “s” aspra o
sorda: “rasa”, “tasa”, “ragasa”.
Raddoppio della consonante finale:
quando si vuole indicare la pronuncia rapida di una vocale, si ricorre al raddoppio
delle consonati. Esempio: “j àn ditt”- “hanno detto”, indica la pronuncia rapida della
“i” mentre la grafia “co dit?”- “cosa dici?”, è un esempio di pronuncia lenta della
“i”.
Altro esempio è “pòss”- “pozzo” distinto da “pòs”- “posso” e ”pòz” (poso).
Es. pèss (pesce) distinto da pés (peggio).
Es. mèss (messo) distinto da méz (mese o mezzo).
NESSI CONSONANTICI
«gl» e «sc» sono nessi consonantici che mancano nel dialetto.
Fa eccezione l’articolo determinativo femminile plurale davanti a vocale: es. gli óngi
(le unghie)
«gl» spesso diventa «j»: es. Paja (paglia)
Per «sc» si usa la forma «s’c» es. s’ciop (schioppo) es. viss’c (vischio)
VALIDITÀ DELLE REGOLE
Mentre il dizionario Italiano-Parmigiano del Capacchi è soprattutto dedicato al
dialetto di Parma pur contenendo vari lemmi di dialetto campagnolo (DC), di
montagna (DM) e della Bassa (DB), per contro le regole sulla grafia sono utilizzabili
per i vari dialetti della nostra Provincia come si evince dall’esempio che segue che
vuole dimostrare come le regole di grafia, correttamente applicate, permettono di
scrivere frasi uguali tra loro nei lemmi e nel significato ma appartenenti a dialetti
diversi tra loro rispettando la diversità delle pronunce stesse. In questo esempio tra il
dialetto di città e uno di provincia e cioè tra il dialetto di Parma e quello di
Collecchio. Ecco la frase:
“vieni con me che andiamo a prendere un caffè”
Ovviamente è necessario conoscere e applicare le seguenti regole di grafia del
Capacchi che recitano:
a) L “o” e la “e” quando hanno pronuncia aperta come nella “o” di orto e nella
“e” di erba, non si accentano.
b) Viceversa quando hanno suono chiuso come la “o” di ora e la “e” di chiesa si
accentano (con accento acuto).
c) Inoltre occorre applicare la regola del raddoppio della consonante quando è
necessario rendere veloce il suono della vocale precedente.
La frase di cui sopra, nel dialetto di città, si traduce:
“véna con mi ch’andemma a tór un cafè”
In questa frase la “e” di véna ha velocità di pronuncia normale e suono chiuso per cui
si pone l’accento acuto sulla “e”. Invece è rapida ( e aperta) la pronuncia della “e” di
andemma per cui si raddoppia la consonante mettendo due “m” mentre l’accento
sulla “e” non è indispensabile ma può risultare utile per chi legge. In questo caso
l’accento da apporre sarebbe quello grave. Nella parola cafè la “e” ha suono aperto e
si pone accento grave.
Ma nel dialetto di Collecchio andrebbe tradotta come segue:
“vénna con a mi ch’andémma a tór un café”
In questo caso la “e” di vénna ha suono chiuso (vuole accento acuto) e pronuncia
rapida che richiede il raddoppio della “n”. Per la parola andémma vale quanto detto
prima ma la “e” richiede accento acuto e anche in questo caso serve il raddoppio
della “m”. La “e” della parola café ha suono chiuso e richiede l’accento acuto. In
entrambi i casi la “o” di tór ha suono chiuso e richiede l’accento acuto.
GLOSSARI
FORMULE
COLLOQUIALI
E DI CORTESIA
Si
No
Si per favore
No grazie
Per favore
piacere
Grazie
Grazie tante
Prego
Prego (da pregare)
Mi scusi
Mi dispiace
Si accomodi
Permesso
Entri
Passi pure
Non si preoccupi
SALUTI AUGURI
E
CONGRATULAZI
ONI
si
si
Si, par pjäzér
No grasja
Par pjäzér
(a m’al fät par
pjäzér?)
Ajut, (tórna a to
vantag’
Grasja
Al so anca mi
(ironico)
Prego
Mi a prégh
Ch’al me scuza
Ch’al scuza al
desturob
A m’ dipjäz
A mi n’ dipjäz
A m’nin sa mäl
Ch’al véna déntor
Gni pur déntor
Ch’al s’acòmda
Parmés. Lecit,
beneplacit
A m’ són parmiss
Ch’al véna dentor
Arrivederci
Ciao
Buon viaggio
Buona fortuna
A presto
arveddros
Ta bén
Bón vjaz
Bón’na fortän’na
A prést
A più tardi
A pu tärdi
A stasera
A stasira
A domani
A dman
Tanti auguri
I miei complimenti
Tant’ avgurri
O anche tant
avguri
I me compolimént
Buon natale
Bón Nadäl
Felice anno nuovo
Ch’al pasa pur
Ch’al ne s’
preocupa miga
Buona pasqua
Come stà ?
Bón primm ädl’
an’
An nóv
Bon’na Pascua
Cme stala?
Potrei?
Potrebbe ?
A ne gh’l’ò gnan’
in ménta
Podrisja?
Posja? (Posja o n’
posja miga?)
Podrissol?
DOMANDE ED
INTERROGATI
VI DI USO
COMUNE
Che cosa significa? Coza vól dir?
Co’ vól dir?
Che cosa ?
Coza?
Che cosa ha detto ? Co’ al ditt?
Chi?
Chi è ?
Come ?
Bene e lei ?
Bén e le?
Bene
Non c’è male
bén
An gh’é gnan’ mäl
ESPRESSIONI DI
APPROVAZ.
APPREZZAM.
Certamente
Perché?
Chi?
Chi él?
In che manéra
cme
Indò él
Dovva?
Indovva?
parchè
Qual è ?
Quando ?
Cuäl éla?
Cuand?
D’accordo
Con molto piacere
Quanto ?
Cuant?
Che bello
Si può?
A s’ pól?
È mäi posibbil?
Bravo
Bón bombén
Un diznär da sjor
D’acordi
Con gusst
Con tant piazér
Che bél
Cme l’é bél
bravo
Vero
Giusto
Sono contento
Sono stato bene
Lei ha ragione
L’é véra?
giusst
A són contént
A són stè bén
Lu al gh’à ragión
Mi piace
mi è piaciuto.
Al me piäz
Al m’è piazù
Dov’è?
Dove ?
Volentieri
Sicur
Äd sicur
vlontéra
Bene
Benissimo
bén
Bén Bombén
Ottimo
NUMERI
Articolo
inderminato
4
5
Un (un bräv omm)
‘n (La gh’à ‘n an’)
‘na stmana ‘d témp
vón (a vón a vón)
vunna (l’é vunna ch’la la
sa longa)
Do man)
Du pe
du (du e basta) dòvv
(vunna dil dòvv) pronome.
Tri (al tri ‘d spädi)
Tri ommi
Tre donni
Trejj (stil trejj donni)
Cuator (in du e du cuator)
sinch
6
séz
7
sètt
8
ot
9
10
nóv
déz
11
12
vundoz
Doddoz (i dodd’z apostoj
Trenta….
Quaranta
…
Cinquanta
…
Sessanta
…
Settanta…
.
Ottanta….
Novanta
…
cento
duecento
13
treddoz
mille
14
cuatordoz
1
2
3
15
cuindoz
16
seddoz
17
darsètt
18
dezdòt
19
Deznóv
20 venti
Vint
trénta
cuaranta
sincuanta
s‘santa
stanta
otanta
novanta
sént
Dozént
dozetmìlla
mill agg. mill franch
(von su milla) pron. (Da
milla e pu ani)
ESPRESSIONI DAL DIZIONARIO ITALIANO–DIALETTO DI G.
CAPACCHI
augùrio, s.m.: avgùrri; al pi. e come inter. anche: avgùri!;
far gli auguri di buone feste, fär j avgurri ’d bón’ni fésti;
con tanti auguri.! con tant avgurri !
è un uccellaccio di mal augurio, 1’ é ’n ozlàs dal mäl avgurri (si dice anche di chi è
considerato jettatore).
auguràbile, agg.: da avgurär, da deziderär.
auguràre del male ad altri, deziderär dal mäl a chj ätor;
questo non 1’ augurerei proprio a nessuno, cosst a n’ l’ avgurarè gnanca a un can;
me lo auguro!, a m’ l’ avgur! al spér propja!, mo Dio vója!;
mi auguro di sbagliare, a m’ avgur äd zbaljärom, Dio vója ch’ a m' daga äd bocca
ala lénngua;
a. le buone feste, där il bón’ni fésti (vale anche per «dare la mancia»),
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
3^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispensa a cura di g. Mezzadri)
ENA, -INA, -ONA , -UNA
Le parole italiane che finiscono in: -ena, -ina, -ona, -una
Si traducono con: -en’na, -ón’na:
-ena: srén’na (serena)
-ona: patón’na (pattona)
-ina: cantén’na (cantina)
-una: fortón’na (fortuna)
Il Bocchialini commenta che: «La grafia con apostrofo intermedio è suggerita
dall’effettivo distacco di pronuncia tra la prima parte della parola e la sillaba finale
–na;
TRASFORMAZIONE DELLE CONSONANTI DOPPIE
A differenza dei casi precedenti, nei quali una consonante «n» viene raddoppiata, il
dialetto tende a trasformare le consonanti doppie in semplici.
esempi: fisär (fissare); giasa (ghiaccio); guéra (guerra); pasjón (passione); rotura
(rottura);
sabja (sabbia); torón (torrone)
METATESI
(Trasposizione di suoni all’interno di una parola)
es. cardù (creduto; cräva (capra); frär (fabbro); gionvot (giovanotto); plugga
(pulce); préda (pietra).
NESSI CONSONANTICI INTERESSANTI
bic’rén (bicchierino) - cridär (piangere) - bzär (pesare) -fnissni (finiscono?) ciac’ri (chiacchiere) - bòcla (orecchino oppure addéntala la scelta del significato si
desume dal contesto.
pchè (peccato) - zgranfgnär (graffiare) - mèttogla (metticela) - vciära (vecchiaia)
mèttla (mettila) - psär (rappezzare)
«gl» con «g» palatale: es. proteg’la (proteggila)
«gl» con «g» gutturale: es. fógla (affogala)
SEMPLIFICAZIONE DELLA SCRITTURA
Il dialetto è una lingua e come tale è una lingua vive che si evolve.
Vediamo l’evoluzione di alcune parole:
pader  pädor;
vundez  vundoz;
sinchev  sincov;
lavour  lavór
cuseina  cuzén’na;
spoeuza  spóza.
Molti autori, come anche il Pezzani, hanno scritto, ad esempio : “gioren”, “foren”
come si usava alla loro epoca. Da tempo però la pronuncia era “gioron”, “foron”.
Pertanto bene ha fatto il Capacchi ad usare la grafia corrispondente alla pronuncia.
Anche noi nella stesura del “Lunario Parmigiano” dopo i primi numeri, ci siamo
adeguati alla grafia del Capacchi.
Tendenza alla caduta di molte vocali finali (specie nei nomi maschili)
es.: témp (tempo); cór (cuore); bräv (bravo); fär (fare).
GLOSSARIO
Non sono d’accordo A ‘n són miga
Sembra un patto
d’acordi
fatto
Pati (al pär un pati
fat)
È sbagliato
L’é sbaljè
L’é inezat
Per niente
Par njént (Gnént)
Par njénta anche
(Gnénta)
Che sfortuna
Che sfortón’na,
zlippa, scalòggna
Aspettare
Aspetär
sptär
Attraversare
Sono arrabbiato
A són rabì
A són inchjét
A gh’ò présja
Glielo compri?
Travarsär
pasär
Bévor
Bev’r a pisarota
(garganella)
Cambjär
Mudär
baratär
Gh’al tót?
A gh’ò paura
A gh’ò ‘na stricca
A gh’ò sonn’
A cród dala sonn’
Pensär –ideär –
ésor d’äviz
lavare
Ho fretta
Ho paura di
paura
Ho sonno
pensare
Bere
Cambiare
Dormire
pagare
potere
Dormir - Polegiär
Slofen - sloffer
Lavär lavär zo
ardinsär
Pagär - zganciär
Co’ gf’ät dè
Podér
sicura ch’a pos
Magara podissja
DAL DIZIONARIO CAPACCHI
MANGIARE
magnär da mägor;
m. in bianco, magnär in bjanch; m. poco e male, magnär da malè;
m. con regolarità, stär a past; — mangia continuamente, al ne fa che magnär, a gh’
tén’ pu j oc’ che la pansa;
m. alle spalle di altri, magnär con la tésta in-t-al sach;
m. la foglia (accorgersi di q.cosa), magnär la fója, nazär al stras,
mangerebbe qualsiasi cosa, al magnariss de tutt, 1’é un Barnardén-bón-stòmmogh
(che vale anche per «becco contento»);
mangiarsi il fegato (fig. per «rodersi»), rozgär’s al fìddogh, magnär ’dla féla; —
mangiarsi le dita (pentirsi amaramente), magnär’s i did;
mangiato dalla ruggine (roso), rozghè dala ruzzna; vinca la Spagna, purché si
mangi, vénsa la Fransa, vénsa la Spagna, basta ch’ a s’ magna
ESERCIZIO DI LETTURA I BAGOLO’N
(Da Apén’na da biasär)
- Al Nilo l’é grand cme la Pärma. Mi a l’ò pasè a nód e m’è córs adrè trénta
cocodrìll mo an gh’ äva miga paura parchè al cocodrìll l’é cme ‘n ringol e al gh’à
pavura dal cioch. Al Nilo al nasa dal lago Tana, ch’l’é lóngh di chilometro e po ’l
vén a cascär in Egitt. Al cocodrìll al fà ‘d j óv chi päron di mlón e il sarpént pitón,
al gh’ ja và a bévor. Anca la jena la béva j óv. La lezione, venne interrotta da
Carlón:
- Renato, se tutti i bévon j’óv alóra a nin nasa miga ‘d cocodrìll.
- Ragas siv co’ v’ diggh? Andiggh a vèddor vojätor cme i fan a nasor! Renato è
un po’ offeso dall’incredulità dei suoi amici, ma continua ugualmente:
- A Nairobi s’era bél. A gh’äva un casco ch’a paräva dent’r in-t-‘n armäri. L’é ste
li ch’ò catè mojera, ‘na donna bassa di capelli e alta di talloni.
Ad Addis Abeba Varesi passò delle belle giornate. Era giovane ed era in forma
smagliante.
- ‘Na giornäda a séra in citè, a m’ vèdd davanti du león sedù in-t-la sträda e mi
va a tór ‘na rejj (rete) e cuchia tutt du. J éron masc’ e fèmna.
- ‘Na giornäda äva apén’na spianè ‘l casco cuand è rivè un aeroplàn in picchiata
e con al spostamént d’aria a m’è ‘ndè al sòttgola taca l’ombrìggol! Arrivò poi
anche la prigionia che durò sei anni. Renato ricorda la propaganda degli alleati:
- Italiani arrendetevi, dateci la via della capitale e non vi sarà torto un capello. I
vostri pieni poderi vi saranno lasciati.
- Poderi? Renato co’ sérot in sit? (sit è un podere agricolo) lo beccò qualcuno ma
lui continuò:
- Vi hanno promesso i rifornimenti dal Nord e dall’Ovest ma non vi sono giunti.
Cme j ò sentì acsì j ò ditt, co’ m’àni tot, pr’un bolgné d’la ferovìa? E m’són aréz. I
m’an ciapè dal ‘42, naitinfortitu.
Durante la prigionia gli inglesi organizzavano il lungo tempo libero dei prigionieri.
Una delle cose che più aveva successo erano gli incontri di pugilato. Renato era
giovane e forte e quando fu sfidato da un pugile di Forlì accettò tranquillamente
anche perché, il Forlivese, gli aveva detto:
- Renato facciamo solo un’esibizione.
- Finna a l’otäva ripréza an gh’é gnàn’ stè mäl, mo dopa o ciapè ‘na nuvvla’d
puggn. Al m’a dè còlli ‘d jopé. Ò ciapè tant puggn ch’a m’éra gnu do orecci ch’
an ‘n ghe vdäva pu. A gh’äva un näz ch’al paräva ‘na tomaca nostrana e j oc j
éron gnu picén cme coj dil galén’ni. A m’ paräva d’aver fat n’ avtopsia. A m’ són
desdè a l’ospedäl, che po ch’són stè quaranta dì.
Al pugil al m'è gnu a catär e ‘l m’ à ditt: « Varesi quando sei guarito facciamo
un'altra esibizione». « Co è stè? Ti ‘t si matt, a gh'ò ditt. No cära al me lòmmo a
gh'é ottmila parzonér va a fär dal bén a n' ätor, va la! ».
Esercizio di traduzione
Bruno Lanfranchi, il miglior attore dialettale vivente è nato a Parma, in via San
Giacomo, attualmente via Rodolfo Tanzi, nel 1917
Il padre, anch’esso attore fin dal lontano 1915, aveva una compagnia
Filodrammatica, che dalla fine della prima guerra mondiale, prese il nome di
«Filippo Corridoni» e della quale fece parte anche Guido Picelli.
La madre, Anita Zerbini, sorella del poeta Alfredo, gestiva un’osteria, in Borgo
San Giacomo al n. 12, chiamata affettuosamente «Giamaica». In quest’osteria non si
faceva cucina ed era frequentata oltre che da molti giovani, anche da anziani.
I vecchi andavano per gustare il buon lambrusco che ogni anno veniva pigiato con
i piedi, come si usava allora, ed i giovani per fare partite a briscola durante la sera e a
giocare alla «Rana» durante il giorno nell’attigua corte.
Bruno Lanfranchi, al pu bräv ‘d j atór djaletäl ancorra al mónd l’é nasù a Pärma
in via San Giacomo (incó via Rodolfo Tansi), in-t-al 1917.
So pädor, atór anca lu fin dal lontàn 1915, al gh’äva ‘na compagnia filodramatica,
che dala fén ‘dla primma guéra mondiäla, i gh’àn miss a nomm «Filippo Corridoni»,
e anca Guido Picéli a gh’nin fäva pärta.
So mädra, Anita Zerbini, soréla d’al poeta Alfredo, la mandäva avanti ‘n ostaria,
in borogh san Giacom al 12, che j afesionè i ciamävon Giamaica. In sté ostaria in
fävon miga da magnär e gh’andäva bombén di giovvon e anca ‘d j ansjàn.
I vecc’ i gh’andävon par gustär un bón lanbrussch che tutt j ani al gnäva mostè
coj pe, cme s’ fäva ‘na volta, e i giovvon par zugär a briscola äd sira e zugär a Rana
durant al dì in-t-la córta li ataca.
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
4^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri)
a) aggettivi qualificativi
Formazione del femminile:
si aggiunge di norma la desinenza «-a» come per i sostantivi.
Bél diventa béla - Sjor diventa sjora
fanno eccezione:
1)participi passati usati come aggettivi:
1) es. varnizè (verniciato) varnizäda
es. bvù (bevuto) bvuda, es. véstì (vestito) véstida
2) altri casi es. lärogh (largo) lärga es. férom (fermo) férma es. giòvvon (giovane)
giòvvna (o gionnva)
Formazione del plurale:
come per i sostantivi gli aggettivi maschili restano invariati al plurale:es. brutt =
brutto o brutti
fanno eccezione gli aggettivi terminanti in: «-el»: es. bél, béj
gli aggettivi femminili cambiano la «-a» in «-i»: es. béla, béli – furba, furbi
superlativo assoluto: si ottiene aggiungendo all’aggettivo l’avverbio «bombén»
(molto) es. bellissimo bél bombén
in dialetto si ricorre spesso, per indicare una qualità superlativa, a modi di dire, a
metafore e similitudini iperboliche del tipo:
ält cme la tòrra dal dom – antigh cme l’ärca ‘d noè - dóls cme la méla – fort cme ‘l
trón – giòvvon cme l’acua ecc
b) Aggettivi possessivi
a differenza dell’italiano alcuni aggettivi possessivi si differenziano dai
corrispondenti pronomi possessivi (in particolare al femminile)
al me libbor (aggettivo) é pu bél al me (pronome) maschile
la me borsa (aggettivo): é pu bél la mèjja (pronome) femminile
al to capél (aggettivo) indo’ él al to? (o tòvv) (pr.)
femminile: tòvv
al so mobil (aggettivo) l’è pu bél al so (o sòvv) (pr.)
masch.
la so scrana (agg.: l’é pu béla la sòvva (pr.)
i so parént (aggettivo) j én i sòvv (pr.)
il so soréli (agg.) j én il sòvvi (pr.)
c) Aggettivi dimostrativi
Questo ragazzo:«Sté ragas» oppure «Coll ragas chi»
Codesti ragazzi: «Chi ragas lì»
Quelle ragazze: «Chil ragasi là»
d) Aggettivi indefiniti
Tutto «Tutt»
Nessuno «Nisón»
Femminile: «Nisùnna»
Qualche «Quälch» Femminile: «Quälca»
Altro «Ätor» Femminile: «Ätra» o «Ältra»
e) Aggettivi numerati
Uno «Vón» Femminile «Vùnna»
Due «Du» Femm. «Do» (pronome «Dòvv»)
Tre «Tri» Femm. «Tre» (Pronome «Trèjj»)
Quattro «Quator»
Cinque «Sinch»
(Pron. «Sincov»)
Doppio «Dòppi»
Triplo «Tre volti tant» ecc.
a) pronomi personali
per soggetto o complementi:
io «mi»
noi «nojätor» o «nuätor» (femm. «nójätri» o anche «nójältri»)
tu «ti»
voi vojätor» o «vuätor» (femm. «vòjätri» o anche «vójältri»))
egli «lu» (femm. «le») essi «lór»
b) forma pleonastica (aggiuntiva, sovrabbondante, proclitica cioè che precede il
verbo):
io «a» mi a fagh
tu «at» at sént njént
«’t» se preceduto da vocale ti ‘t diz
«t’» davanti a vocale ti t’äv sonn
egli «al» quand al riva
«‘l» se preceduto da vocale lu ‘l diz
ella «la» le la diz
«l’» se seguita da vocale le l’arvirà l’uss
noi «a» nojätor a dzèmma
voi «a» vojätor a dzi
essi, esse «i» lór i dizon
«j» lór j éron
c) forma impersonale:
piove : a pióva
d) forma interrogativa
il pronome è in posizione enclitica, cioè si unisce alla parola che precede.
mangio io? = magnja?
mangi tu? = magnot?
mangia egli? = magnol?
mangia ella? = magn’la?
mangiamo noi?=magnèmja?
mangiate voi?= magniv?
mangiano essi?=magn’ni?
GLOSSARIO
attardàre
attaccapànni
attentarsi
atént
attorcigliaménto
Boccone appetitóso
appendici
tgnir in témp
omètt
atintäros, avér’gh al
bècch
inorcè
ravojamént
1’ é un bcón giott
pendissi
aràchide
Andare a letto
Nisolén’ni mericani
andär a pajón
applaudire
Ciocär il man
fär bévor (där da
bévor)
in pansón
propinàre
pròno
j os giot sono le ossa "ghiotte"
erano le "appendici" del contratto di
mzzadria che prevedevano le ragalie
in uova, capponi ecc.
o sgagnarabja (Scagett ? a Reggio)
Bruzär al pajón (mancare un
appuntamento)
biliett ciocadór sono i biglietti dati
gratis a persone che devono
applaudire (claque)
GLOSSARIO
Estrapolazioni dal dizionario ITALIANO-DIALETTO di Guglielmo Capacchi
(1992 Artegrafica Silva S.r.l – Parma)
aspettàre,
v.tr.: a) [a]spetär, [a]sptär (in tutte le accez.), b) asptäros, spetäros (prevedere per
sé). — A. una notizia, sptär ’na nova (o.- ’na notìssja);
— a. con ansia, sptär in ansjetè, an veddor 1’ óra, si fa a., 1’ amico!,
al s’ fa deziderär, al sosi!; — be’, che cosa aspetti?,
ebén, co’ spétot?, spétot ancorra ’n ätor po’?; — sì, hai voglia, di a.!,
a te gh’ n è acsì ’sè, da sptär!, a. l’occasione propizia, sptär al moment bón,
spetär la gata in-t-al sintér; che cosa ti aspettavi mai da una canaglia simile?, co’
te spetävot mäi da ’n brutt omm compàgn?;
— chi la fa, 1’ aspetti, chi tóz in gir al sop, ch’ al guärda d’ andär dritt (Prov.),
chi semmna i spén, pov’r a lu s’ al va in scapén (Prov.);
Proverbi educativi
Le mamme, un tempo, utilizzavano spesso la saggezza dei proverbi per educare i
figli.
Mia madre, per l’educazione di noi quattro figli e per allevarci "a l'onor däl mond"
faceva ricorso al bagaglio di valori che aveva assorbito in famiglia ma anche, spesso,
ai vecchi detti popolari. Quando facevamo arrabbiare ci diceva:
"Brut rospas, Dio 'l voja ch'insantì!" (Rospas è un grosso rospo).
Nei momenti difficili, e Dio sa quanti ne ha avuti, non si perdeva d'animo; il suo
motto era: "Providensa provedarà".
Durante la guerra aveva anche coniato una preghiera adeguata alle circostanze:
"Sgnór, jutiss a l'ingrosa che a l'imnuda an fì pu vóra". (Aiutateci "all'ingrosso"
che "al minuto" non c'è più tempo).
Per educarci al rispetto del cibo e a non sprecare ci diceva:
"Al Sgnór l'é zmontè da caval par tór su 'na briza äd pan".
(Il Signore è sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane).
Per inculcarci la generosità anche verso gli altri diceva:
"Tutti il bòcchi j en soréli, meno che còlla dal foron". (Tutte le bocche sono sorelle,
meno quella del forno).
Quando, ad esempio, facevamo fatica a svegliarci diceva:
"Ala sira león, a la matén'na cojón."
Per dire che bisogna avere pazienza diceva:
“Al Sgnór al ne päga miga tutt i sabot !”
(il Signore non paga tutti i sabati)
PROVERBI "AMOROSI"
Sono parecchi i detti che esorcizzano con l'ironia la vecchiaia e i suoi inconvenienti
"amorosi".
"Pu cressa j ani, pu cala 'l morbén". (La voglia).
"Cuand al cul al dvénta frusst, i Pater Noster i dvénton giusst".
"Cuand al cul l'impasissa, l'alma l'insantissa".
"Cuand la vitta l'é frussta, la tésta la s’ giussta".
ESERCIZIO DI LETTURA
La nostra parlata
Vunna dil cozi pu importanti da diféndor e divulgär l’é al nostor djalètt che, sól par
comditè, al ciamèmma djalètt. In realtè la nostra parläda l’é ‘na lénngua con tutt al
valór äd ‘na lénngua. Mo miga ‘na lénngua basta ch’sia. L’é la lénngua ch’a
s’dovrisson tgnir cära cme a s’tgèmma cär i nostor genitór parchè j én i nostor. L’é
‘na lénngua con ‘na storja vécia ‘d domilla ani, cla gh’à ‘na leteratura, di copión
teaträl, e un gran patrimonni äd proverbi, mód ‘äd dir e tradisjón. L’é la lénngua cla
parmetäva ala génta äd parläros e capiros in tutti il so necesitè.
Intervista ad una parmigiana oltretorrentina
“A mi coll ch’a m’dà fastiddi, in-t-la génta, l’é che cuand i perlon äd
l’Oltretorente pära chi nominon ’na tribù, ’dla gintära. Inveci, anca in-t-i borógh pu
brutt, cme borógh di Cara e borógh di Minè, gh’éra dill brävi génti! Gh’éra anca di
mascalsón, dill génti matariäli, di ’nalfabeto mo ’st’äv bizoggna d‘un bcón ’d pan i
t’al dävón e ’s t’äv bizoggna d’un piazér i t’nin fävon du.
Dédlà da l’acua, inveci, gh’éra tutti il ca malfamädi; in borógh Marmiról, incóntra
al conservatori, borógh Tas, borógh S.Silvestor, borógh Vala, bórgh ‘dla morta, zo da
Sträda S.Ana, borógh di Stalatich, bórgh Onorè e via discorendo. Dedsà da l’acua a
gh’n’éra gnan vunna!, dzigol a cojj ch’a gh’l’à con l’Oltretorente”. Aggiunge:
“Anticlericäl cme j éron in borógh di Cara, gh’éra ’na niccia, con ’na Madonén’na, la
Madonna dal Coléro, ebén a n‘ l’à mäj tocäda nisón, ansi, l’éra sémpor bén in ordin”.
Testi da tradurre
PARMA NOSTRA
Lo Statuto-Atto costitutivo infatti, redatto presso lo Studio Notarile Andrea Borri il
15 maggio1979, recita:
“Parma Nostra” è una Associazione apolitica e aconfessionale a carattere culturale,
che si pone l’obiettivo del recupero e della salvaguardia di tutto
Quanto si può catalogare come “civiltà: quindi, in parmigiana”: quindi, interventi
nel campo del dialetto, della storia, dell’arte, della letteratura, delle tradizioni, della
musica, del canto, e perché no? Della buona cucina della nostra città; quindi il
recupero di quanto è già scomparso o va scomparendo a causa dell’introduzione di
altri dialetti e di diversi modi di vivere (sia della nostra città che di altre province o
regioni o stati) e la valorizzazione di quanto è motivo di orgoglio per ogni
parmigiano veramente tale, al fine di riproporlo alle nuove generazioni come fatto
culturale strettamente collegato al presente.
Per la redazione di questa pubblicazione abbiamo eseguito un lavoro di
recupero e selezione di quanto di più interessante è stato pubblicato in questi anni.
Il lettore troverà effemeridi del passato sia prossimo che lontano. Dai Farnese al
secondo dopoguerra e ai giorni nostri. Sono pillole di storia già di per se interessanti
ma in grado, ce lo auguriamo, di stimolare anche a saperne di più.
Troverà aneddoti sia spiritosi che interessanti. Tutti comunque in grado di presentare
aspetti non banali del carattere della nostra città e dei suoi abitanti.
Troverà i proverbi e i modi di dire tanto cari ai nostri padri e molti dei quali ancora
vivi ed utilizzati. Veri scrigni di arguzia e di saggezza spesso utilizzati anche dalle
mamme, a scopo educativo.
Troverà poesie di diversi autori parmigiani scelte perché in grado di disvelare i
migliori sentimenti della nostra gente.
Troverà le battute di personaggi della nostra città. Battute ironiche, spiritose e mai
volgari.
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
5^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. mezzadri)
PREPOSIZIONE SEMPLICE
Di si traduce in vari modi: äd: es. äd gèss (di gesso);
‘d se preceduta da vocale;
es. ‘d cimént (di cemento); volta ‘d cimént
d’ se seguita da vocale: es. do man d’un scariolant (due mani di uno scariolante).
A = a come in italiano.
Da = da come in italiano ma d’ davanti a vocale: es. partir d’in ca.
In = in come in italiano.
con = con come in italiano.
Per = par, che diventa p’r davanti a vocale: es. par gnir e p’r andär (per venire e per
andare).
Fra = fra come in italiano.
Tra = tra come in italiano.
Nota:
nel dialetto manca la preposizione su, usata invece negli avverbi.
PREPOSIZIONE ARTICOLATA
Note: Per maggior semplicità ci si è limitati alle forme più usate trascurando quelle
complesse o desuete. Le preposizioni semplici e gli articoli, dall’unione dei quali si
formano le preposizioni articolate, sono indicate nel seguente modo: in grassetto il
dialetto e tra parentesi l’italiano.
Maschile singolare
Äd (di) + al (il, lo) = dal (del): es. dam dal pan (dammi del pane).
A (a) + al (il, lo) = al (al): es. al fornär (al fornaio).
Da (da) + al (il, lo) = dal (dal, dallo): es. dal nonón ( dal nonno); dal zio (dallo zio).
In (in) + al (il, lo) = in-t-al (nel): es. in-t-al camp (nel campo).
Con (con) + al (il, lo) = cól (con il, con lo): es. lat cól sùccor (latte con lo zucchero):
cól capél (con il cappello).
Par (per) + al (il, lo) = p’r al (per il): es. p’r al viäl (per il viale).
PREPOSIZIONE ARTICOLATA
(continua)
Femminile plurale
Äd (di) + il, ilj (le) = dil, dilj (delle): gh’é dil formighi (ci sono delle formiche); gh’é
dilj ochi (ci sono delle oche).
A (a) + il, ilj (le) = alj (alle): es. alj äli (alle ali).
Da (da) + il, ilj (le) = dal, dalj (dalle): es. dal sóri (dalle suore); dalj ongi (dalle
unghie).
In (in) + il, ilj (le) = int il, int ilj (nelle): es. int il bräghi (nelle braghe); int ilj ongi
(nelle unghie).
Con (con) + il, ilj (le) = col, colj (con): es. col moschi (con le mosche); colj olivi
(colle olive).
Par (per) + il, ilj (le) = p’r il (per): es. i libbor pr’il scóli ( i libri per le scuole).
Int derivato dal latino intus (dentro),
oppure in-t
PARTICELLE PRONOMINALI
singolare
1^ persona (mi) «me»
egli mi vede: al me vèdda - lei mi guarda: la m’guärda
2^ persona (ti) «te» o «t’»
egli ti dirà: al te dirà - ella ti guarda: la t’guärda
3^ persona (lui) «lu»
egli gli dice: lu al ghe diz
3^ persona (la) «la»
ella le fa solletico: la gh’fa blèddogh
la vedrai: a t’ la vedrè
Egli la vede: lu al la vèdda
Egli lo vede: lu l’al vèdda (maschile)
(lo) «al»: complemento oggetto
lo vedrai: a t’ al vedrè
plurale
(ci) «se» egli ci dice: al se diz - egli ci vede al s’vèdda
(vi) «ve» o «v’» egli vi guarda: al ve guärda - ella vi invidia: la v’invidia
(li, le) «ja»: complemento oggetto
essi li sentono: lór ja sénton
(loro) «ghe» o «gh’»: compl. di termine es:egli dice loro: al ghe diz
io voglio loro bene: a gh’vój bén
riflessivo: (si) «se» o «s’» egli si sposta: al se sposta
egli si inginocchia: al s’inznoccia
Nota:
se le particelle seguono il verbo, si modificano:
es. guardami = guärdom; guardalo = guärdol; svegliati = dèzzdot.
Espressioni dal dizionario ITALIANO-PARMIGIANO
di G.Capacchi (ed. Artegrafica Silva S.r.l. Parma)
Comprèndere
v.tr.: a) contgnir, inclùddor, brasär, tór déntor, ciapär déntor (includere in un
novero); b) capir, inténdor (capire); penetrar (capire a fondo); fig (scusare,
giustificare): capir, compatir, scuzär, pardonär. —
Il prezzo non comprende le bevande, al prèsi al n’ includda miga il bvandi (o: il
bevandi); —
il libro contiene diverse illustrazioni, al libbor al contén diversi figuri;
— il Ducato comprendeva anche la zona di Succiso, al Ducät al ciapäva déntor
anca al teritori de S’ciz; —
comprenda chi può, intènda chi pól;
— questo posso anche comprenderlo, cosst al pos anca capir (o: compatir, scuzär,
pardonär).
MODI DI DIRE
Andar a tävla a són ‘d campanén ( andare a tavola quando tutto è pronto)
Andär col färli ( andare con le stampelle)
Andär ed so pe ( camminare secondo un piano stabilito)
Andär fóra ‘d carzäda (fare o dire uno sproposito)
Andär in bojóza (andare in prigione, carcere)
Andär in didéla (andare in punta di piedi)
Andärson a la mùtta ( alla chetichella)
Andär a pe sospét ( andare in punta di piedi )
Se zlónga la giornäda se scurta la gociäda
Alcune parole ormai in disuso:
Abbaino Luzròn - Acciuga = anciovva - asparagi = sparoz - Albicocca = Muliäga
Arcobaleno = arcbalèstor - Barbabietole = bedrèva Carrucola = sidéla - girino =
testen botol Gnocchi - sgranfgnón - grattugia = razóra - tartaruga = bisa scudlära Quarto di vino = fojètta - Strofinaccio = boras - scoiattolo = sghirag’ - brace tizzone =
borniza.. Còrga = custodia del pollame - Misóra = piccola falce a mezza luna - gavél
= Pala per il focolare. Mansarén = scopino di saggina - triggn = vaso di terra cotta per
i grassi. - zov = giogo per buoi. Triblón = strumento per battere il grano nell’aia.
Poesia-canzone
Fausto Bertozzi, a mio giudizio, il maggior poeta dialettale vivente, mi ha permesso
di pubblicare la bella poesia-canzone Il campani äd Pärma. Quando gli ho chiesto il
permesso, leggendo questo preambolo, mi ha detto:
- Lasa perdor ‘il maggior poeta vivente’ che chisà s’l’é vera. Coll ch’a m’piäz l’é
soltant ‘vivente’!
Questa poesia vuole essere un inno alla fratellanza e alla concordia. La poesia, che è
già molto bella di suo, maggiormente la diventa, quando si ascolta in musica. Infatti,
è stata musicata dal maestro Mario Fulgoni. Felice da Parma la utilizzava come sigla
della sua trasmissione e, più di recente, è stata inserita nel repertorio del coro diretto
dalla maestra Beniamina Carretta.
Il Campani äd Pärma di Fausto Bertozzi
Da ‘na f’néstra äd la me ca
sént rivär tanti matén’ni
äd campani un din-don-dan.
A comincia il capusén’ni
Al so za!, fa Santa Cróza,
però incó mi són in fésta:
‘na ragasa la se spóza,
l’é za chi cój fjór in tésta.
Coza crèddot, veh, putén’na?
A gh’ rispónda la ‘Nonsiäda,
Miga fär la zgalzarèn’na,
che anca mi són bélle alväda!
Su putén’ni andì d’acordi
cónta (al siv?) sól ésor bón!
Campanär zo tutti il cordi!
Sälta fora al Campanón.
Sarò vécia il me ragasi,
mo n’ gh’ò l’äzma ne l’afan.
De ‘d chi su mo si pran basi!
Sälta su còlla ‘d San Zvan.
Sèmma tutti dil campani,
parlèmm tutti al stés dialètt,
sèmmja o no tutti pramzàni?
E a s’ piäz sól parlär bél scètt.
Personaggi parmigiani: Giampiero Caffarra
Credo che fin dall’antichità gli anziani abbiano sempre avuto nostalgia e rimpianto
per i loro tempi. Sicuramente il rimpianto è legato alla loro gioventù e al fatto che
amano ricordare le cose belle che hanno vissuto e scordare, se possibile, quelle brutte.
Anche noi non più giovani non facciamo eccezione anche perché i motivi di
rimpianto ci sono e molto validi. Prima di tutto dall’inizio del dopoguerra in poi le
cose erano in continuo miglioramento e soprattutto, c’era la speranza. Il futuro non
faceva paura, anzi. Ora invece sappiamo tutti come stanno le cose. Altro motivo di
rimpianto è dato dalla perdita di identità e dell’autenticità di quel mondo. Un mondo
che si manifestava in particolare attraverso il suo linguaggio autoctono del dialetto, il
recupero del quale significherebbe rilanciare una sorta di memoria storica e di una
identità culturale che si sta stemperando.
Detto questo però, non sarebbe corretto idealizzare troppo il passato a scapito del
presente. Almeno per quanto riguarda la sensibilità verso le persone diverse e, in
particolare con difetti fisici, faccio mie le considerazioni dell’amico, da tanti anni non
più tra noi, Gianpiero Caffarra. Caffarra, era una figura conosciuta in città per essere
stato per molti anni alle dipendenze dell’INAIL, impegnato in politica e nel sindacato
degli enti locali. Coltivava molti interessi culturali, il dialetto e il teatro parmigiano,
la musica lirica e sinfonica e tutto quanto sapeva di parmigianità.
Nostalgìa si, ma senza esagerare
Riporto le considerazioni di Gianpiero che, a suo tempo, avevo pubblicato dopo di
averle tradotte in dialetto come esercizio di lettura.
Caffarra al dzäva (diceva) che al rimpjànt par la nostra gioventù e i nostor témp l’à
miga da fär scordär i difét ‘dla mentalitè ‘d dachindrè (dei tempi addietro). Gh’éra
poca sensibilitè par la génta ch’a gh’äva di difét fisich o dil menomasjón. Tanta génta
la ne s’réndäva gnanca cónt dal tutt dal mäl che, magari sénsa vrér (senza volere), i
gh’fävon in-t-al mètt’r in rizält i difét. Se, p’r ezémpi, vón l’éra sop (zoppo) facilmént
j al ciamävon gambalissa o gamba ‘d lèggn. A chi gh’ mancäva ‘na man o un bras,
facilmént i ghé dzävon mónch o monchén. Cuand invéci vón al gh’äva j ociäj
(occhiali) al dvintäva cuat’r oc’ (quattro occhi). Chi gh’äva al näz (naso) gros al
dvintäva canapja e chi gh’ äva la tésta grosa testón botol. Vón dur d’orècci ch’al ne
gh’séntiva miga o poch, i ghé dzävon sórd, cme era sucés a Bruno l’ost ‘d borogh
Sorrogh. A un òmm gras i ghé dzävon pansa ‘d dolégh. Mo par lu gh’éra prónt anca
codgón o lotgón. P’r i trop mägor gh’éra sól che da sarnir (scegliere); fildura, tridura
e via discorendo. Se vón l’éra ròss ‘d cavì j al ciamävon al Ròss e in pu gh’éra al ditt
che: al pu bón di ròss l’à butè so pädor in-t-al pòss e ‘l pu cativ al l’à magnè viv. Un
guärs (guercio) l’éra bél océn quand l’andäva bén parché gh’éra prónt anca sbrägh
d’oc cme vón di parsonàg’ ‘dla poezia ‘d Zarbén, “L’astronomia”.
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
6^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. mezzadri)
VERBI AUSILIARI
ESSERE
PASSATO PROSSIMO
PRESENTE
mi a són (mi són)
ti t‘ sì (ti a t' é - oppure ti t’é)
lu l’ é
nojätor a sèmma (nojätor sèmma )(
vojätor a sì (vojätor sì)
lór j én
mi a son stè
ti t' é stè oppure ti t’ sì stè
lu l’ é stè
nojätor a sèmma stè (nojätor sèmma stè)
vojätor a sì stè (vojätor sì stè)
lór j én stè
CONDIZIONALE PRES
mi a sarè (mi a sarìss) l
ti t’ sarìss
lu ‘l sarè (lu 'I sarìss)1
nojätor a sarìsson
vojätor a sarissov
lor i sarisson
FUTURO
mi a sarò (mi sarò) l
ti a t’ sarè (ti t’ sarè)
lu al sarà(lu 'l sarà)
nojätor a sarèmma (nojätor sarèmma)
vojätor a sarì (vojätor sarì)
lór i saràn
CONDIZIONALE PRES
mi séra
t ‘t sér
lu l’éra
nojätor a séron
vojätor a sérov
lor j éron
lu ‘l sarè (lu 'I sarìss)1
lor i sarisson
mi a sariss stè
ti a t’ sariss stè
lu al sariss stè
nojätor a sarisson stè
vojätor a sarissov stè
lór i sariss stè
IMPERATIVO NEGATIVO
Sta miga ésor cojón
Sti miga ésor cojón
AVERE
PRESENTE
PASSATO PROSSIMO
mi a gh’ ò (oppure a j’ ò - mi gh’ ò )
ti ‘t gh’ è (ti a t’è)
lu al gh’ à (lu ‘l gh’à- lu l’à)
nojätor a gh’ èmma ( a j èmma gh’èmma)
vojätor a gh’avi (oppure vojätor j avì –
anche vojätor a gh’ì)
lór i gh’àn (oppure j àn)
mi a gh’ ò avu (oppure a j’ ò avu)
ti ‘t gh’ è avu (ti a t’è avu)
lu al gh’ à avu ( lu l’à avu)
nojätor a gh’ èmma avu ( a j èmma avu
vojätor a gh’avi avu (oppure vojätor j
avì avu – anche vojätor a gh’ì avu
lór i gh’àn avu (oppure j àn avu
CONDIZIONALE
FUTURO
mi a gh’ äva (oppure a j’ äva
ti ‘t gh’ äv (ti a t’arè)
lu al gh’ äva ( lu l’ äva)
nojätor a gh’ ävon ( a j ävon )
vojätor a gh’ ävov (vojätor j ävov)
lór i gh’ ävon (oppure j ävon)
mi a gh’ arò (oppure a j’ arò - mi gh’
arò)
ti ‘t gh’ arè (ti a t’arè)
lu al gh’ arà (lu ‘l gh’arà- lu l’arà)
nojätor a gh’ arèmma ( a j arèmma )
vojätor a gh’arì (oppure vojätor j arì
lór i gh’aràn (oppure j àran)
CONDIZIONALE
mi a gh’ ariss
ti ‘t gh’ ariss (ti a t’ gh’ariss) anche
lu al gh’ ariss
nojätor a gh’ arisson
vojätor a gh’ arissov
lór i gh’ arisson
mi a gh’ ariss avu
ti ‘t gh’ ariss avu (ti a t’ gh’ariss avu)
lu al gh’ ariss avu
nojätor a gh’ arisson avu
vojätor a gh’ arissov avu
lór i gh’ arisson avu
Esempi:
mi a gh’ ò di sold
mi a j’ ò visst al lädor
IMPERATIVO NEGATIVO
Sta miga avérogh paura (sta miga avér paura)
Sti miga avérogh paura (sti miga avér paura)
Alcuni dei VERBI IRREGOLARI di uso più comune:
DIRE –FARE -VOLERE
PRESENTE
mi a diggh (oppure mi diggh)
ti t’ diz
lu al diz (lu ‘l diz)
nojätor a dzemma
vojätor a dzi
lór i dizon
PASSATO PROSSIMO
mi a j’ ò ditt
ti t’ è ditt
lu l’à ditt
nojätor emma ditt
vojätor ì ditt
lór j àn ditt
TRAPASSATO PROSSIMO
mi äva ditt (mi j äva ditt)
CONDIZIONALE PRES
mi a diriss (oppure mi diriss)
ti t’ diriss
lu al diriss
nojätor a dirison
vojätor a dirisov
lór i dirisson
CONDIZIONALE PASSATO
mi ariss ditt (mi j ariss ditt)
CONGIUNTIVO
che mi digga
CONGIUNTIVO PASSATO
che a mi abja dit (che mi apja ditt
INFINITO
Presente: dir
Passato : avér ditt
IMPERATIVO NEGATIVO
sta miga dir
ch’la staga miga dir
sti miga dir
chi stagon miga dir
IMPERFETTO
mi a dzäva (oppure mi dzäva)
ti te dzäv
lu al dzäva
nojätor a dzävon
vojätor a dzävov
lór i dzävon
FUTURO
mi a dirò (oppure mi dirò)
ti t’ dirè
lu al dirà (lu ‘l dirà)
nojätor a diremma (nojätor diremma)
vojätor a dirì (vojätor dirì)
lór i diràn
FUTURO ANTERIORE
mi arò ditt (mi j arò ditt)
IMPERATIVO
dzi
(dzi la vritè!)
VERBI - FARE
PRESENTE
mi a fagh’ (oppure mi fagh’ )
ti t’ fè
lu al fà (lu ‘l fà)
nojätor a femma
vojätor a fi
lór i fan
CONDIZIONALE PRES
PASSATO PROSSIMO
mi a j’ ò fat (mi j ò fat)
ti t’ è fat
lu l’à fat
nojätor emma fat
vojätor ì fat
lór j àn fat
TRAPASSATO PROSSIMO
mi äva fat (mi j äva fat)
IMPERFETTO
mi a fariss (mi fariss)
ti t’ fariss
lu ‘l fariss
nojätor a farisson
vojätor a farissov
lor i farisson
mi a fäva (oppure mi fäva)
ti t’ fäv
lu al fäva
nojätor a fävon
vojätor a fävov (vojätor fävov)
lór i fävon
CONDIZIONALE PASSATO
mi ariss fat (mi j ariss fat)
FUTURO
mi a farò (mi farò) l
ti a t’ farè (ti t’ farè)
lu al farà(lu 'l farà)
nojätor a faremma
vojätor a farì
lór i faran
CONGIUNTIVO
che mi faga
CONGIUNTIVO PASSATO
che a mi abja fat (che mi apja fat
INFINITO
FUTURO ANTERIORE
mi arò fat (mi j arò fat)
Presente: fär
Passato : avér fat
IMPERATIVO NEGATIVO
sta miga fär
chi stagon miga fär
ch’la staga miga fär
sti miga fär
IMPERATIVO
Fi
(fi da razón)
VERBI – VOLERE
PRESENTE
mi a vój (mi vój)
ti t‘ vól (ti a t' é - oppure ti t’é)
lu l’ vól
nojätor a vremma
vojätor a vrì
lór i vólon
CONDIZIONALE PRES
PASSATO PROSSIMO
mi j ò vrù (volsù)
ti t' é vrù oppure ti t’è volsù
lu l’ à vrù
nojätor emma vrù
vojätor i vrù (volsù)
lór j àn vrù
TRAPASSATO PROSSIMO
mi äva volsù
IMPERFETTO
mi a vriss (mi vriss)
ti t’ vriss
lu ‘l vriss
nojätor a vrisson
vojätor a vrissov
lor i vrisson
mi a vräva (mi vräva)
ti a t’ vräv (ti a te vräv -ti t’ vräv)
lu al vräva (lu 'l vrà)
nojätor a vrävon
vojätor a vrävov
lór i vrävon
CONDIZIONALE PASSATO
mi ariss volsù (mi ariss vru) l
FUTURO
mi a vrò (mi vrò) l
ti a t’ vrè (ti t’ vrè)
lu al vrà(lu 'l vrà)
nojätor a vremma
vojätor a vrì
lór i vran
CONGIUNTIVO
Che a mi vója (che i vója)
CONGIUNTIVO PASSATO
Che a mi abja volsù (che mi apja volsù
INFINITO
Presente: Vrér
Passato : avèr volsù (vru)
IMPERATIVO NEGATIVO
Sta miga vrér savérni pu che mi
Sti miga vrér
FUTURO ANTERIORE
mi arò volsù (mi j arò volsù – vru)
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
7^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri)
Alcuni dei VERBI IRREGOLARI di uso più comune:
MANGIARE - POTERE
PRESENTE
mi a magn (oppure mi magn)
ti a t’ magn (ti t’ magn)
lu al magna
nojätor a magnèmma
vojätor a magnì
lór i magnon
PASSATO PROSSIMO
mi a j ò magnè (mi j ò magnè)
ti a t’ è magnè (ti t’ è magnè)
lu l’à magnè
nojätor èmma magnè
vojätor ì magnè
lór j àn magnè
TRAPASSATO PROSSIMO
mi äva magnè (mi j äva magnè)
ti t’ äv magnè
lu l’ äva magnè
CONDIZIONALE PRES
mi a magnariss (mi magnariss)
ti a t’ magnariss (ti t’ magnariss)
lu al magnariss
nojätor a magnarisson
vojätor a magnarissov
lór i magnarisson
IMPERFETTO
mi a magnäva (oppure mi magnäva)
ti t’ magnäv (ti t’ magnäv )
lu al magnäva
nojätor a magnävon
vojätor a magnävov
lór i magnävon
CONDIZIONALE PASSATO
mi ariss magnè
CONGIUNTIVO PRESENTE
che mi magna (che mi a magna)
CONGIUNTIVO PASSATO
che a mi abja magnè
INFINITO
FUTURO
mi a magnarò (oppure mi magnarò)
ti a t’ magnarè (ti t’ magnarè )
lu al magnarà (lu ‘l magnarà)
nojätor a magnaremma
vojätor a magnarì (vojätor magnarì)
Presente: magnär
Passato : avér magnè
PARTICIPIO PASSATO
magnè
lór i magnaràn
IMPERATIVO NEGATIVO
sta miga magnär
ch’la staga miga magnär
sti miga magnär
chi stagon miga magnär
IMPERATIVO
magna
magnì
chi magnon
FUTURO ANTERIORE
mi arò magnè (mi j arò dmagnè)
GERUNDIO
magnand
PRESENTE
VERBI: POTERE
PASSATO PROSSIMO
mi a poss’ (oppure mi poss )
ti t’ pól
lu al pól (lu ‘l pól)
nojätor a podèmma
vojätor a podì
lór i pólon
CONDIZIONALE PRES
mi a j ò podù (mi j ò podù)
ti t’ è podù
lu l’à podù
nojätor èmma podù
vojätor ì podù
lór j àn podù
TRAPASSATO PROSSIMO
mi äva podù (mi j äva podù)
ti t’ äv podù
IMPERFETTO
mi a podriss (mi podriss )
ti t’ podriss
lu ‘l podriss
nojätor a podrisson
vojätor a podrissov
lór i podrisson
mi a podeva (oppure mi podeva)
ti t’ podev
lu al podeva
nojätor a podevon
vojätor a podevov (vojätor podevov)
lór i podevon
CONDIZIONALE PASSATO
mi ariss podù (mi j ariss podù)
FUTURO
mi a podrò (mi podrò) l
CONGIUNTIVO
che mi possa
CONGIUNTIVO PASSATO
che a mi abja podù (che mi apja podù)
INFINITO
Presente: podér
Passato : avér podù
ti a t’ podrè (ti t’ podrè)
lu al podrà (lu ‘l podrà)
nojätor a podremma
vojätor a podrì
lór i podran
FUTURO ANTERIORE
mi arò podù (mi j arò podù)
PARTICIPIO PASSATO
podù

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
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




GERUNDIO
podénd
 PERSONAGGI PARMIGIANI – DODI BRUNO (Da Riz e Vérzi)

Cme vala in pensjón, Bruno?
"Bén, mo sta migh strajär la vóza, a s’ fa tant prést."
"E pär via dal pär via ?"
"Gnanca pu col lorètt".
Un collega rideva per la battuta e Bruno lo rimbeccò:
"A t’ pól vansär äd riddor tant; a ca' tovva l' é un pés ch'a s' canta "Beati morti".
(Famosa orazione funebre cui i parmigiani danno uno spiritoso senso figurato).
"Ti, a t’ pól dir dabón la preghiera däl pensionè!"
"Cme éla ?", gli chiesi incuriosito.
"A t’ ringrassi al me Signór ch'a t’ m'è castrè sénsa dolór"
C'è chi lo stuzzica:
"Bruno, è vera che al Castlètt a magnevov il ponghi ?"(Le pantegane).
"No, parchè agh séron afesionè; a s' gnäva su ragas insèmma".
Ormai lanciato sui vecchi tempi continua:
"Mi stäva in-t 'na béla ca', diviza bèn. Gh' éra cambra e cuzén’na, granär e
cantén'na, tutt in-t 'na stansa ! A gh' éra di mur acsì sutil che al gioron d’ incó
agh sariss d'aver paura a färogh cóntra il diapositivi."
C'era uno che rideva più degli altri e allora Dodi gli disse:
stà miga riddor tant, ch’al so indò t’ stäv! L' éra 'na ca' tanta sporca che j
inquilén i s' pulivon i pè a 'ndär fóra. Gh’era dil tlarén’ni che par tirärja via a gh’
vräva la fiama osidrica”. Gh’ éra 'na scäla acsì dirocäda che, pr'andär su dritt, a
gh’ vräva vón sòp."
C ‘era un collega che amava molto il vino. Gli chiede:



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


" Cme t’ vala?".
" Speremma bén, adman a vagh a fär j analizi,"
" A si? E in do' vät, al cantinón? "
Adesa i ragas i dmandon: Ma, co gh'è da senna? Mo nuetor a dmandevon: ma,
stasira gh'éla la senna? Sät co diggh sempor mi? Che coj chi dizon che “l’appetito
vien mangiando” i dovrisson provär che aptit a vén a magnär miga!
A gh’é ‘d coj chi gh’lason dil villi. A mi i m’ àn lasè la bronchite! Parchè a gh’
äva sémpor fama e a forsi ‘d revor la cardénsa par vèddor sa gh’ éra cuel da
magnär j ò ciapè tant cólp d’aria ch’a m’ són malè ‘d brónch
“In ca’ mèjja l’andäva tant mäl e séron tant mizerabil, che
cuand sèmma dvintè povrètt èmma fat fésta”.
Saluta l'amico Aldo con calore:
"Cme vala, vecchio Aldo ?" "Vec miga tant". "L'é un compliment".
"I compliment j a sarniss mi".
AMARCORD
A vèdd al fiumm, un fiumm grand indò l'aqua la và pian, pian, pulida e ciära eme
còlla d'un ruscél äd montagna: cme l'era ‘na volta l'aqua äd la Pärma, ‘dla Bagansa e
còlli äd tutt i fiumm äd la téra.L'aqua dal fiumm la porta con manéra i me ricord,
soquant a pél äd l'aqua, 'd j ätor pu sòtta, 'd j ältr ancòrra pu in fónda mo dato la
purèssa äd l'aqua i s’ vèddon tutti ancòrra bén. 'd j ätor ancòrra i viazon tant in fónda
che a malapén’na i s’ intravdevon. Quant agh n'è! dil volti i s'incavalon in dizordin
cme il bärbi quand i vénon cargädi insìmma al car ala rinfuza e n' t’ se miga còlla
ch'vén primma e còlla dopa. 'd j ältri volti inveci se gh’ la cäva a metorja in fila in
órdin äd témp chi päron tant scolär in fila chi rispondon a l' apél.
(dai ricordi di Angiolino Melegari caro amico non più tra noi)
CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO
FAMIJA PRAMZANA
8^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. mezzadri)
Ricette
La “vécia” sécond “Bruno il Sordo”
Contäva Bruno che aj so témp, quand al manz al costäva tri franch e méz al chilo e la
vaca la nin costäva du, in-t-il famij con molt ragas, par fär la vécia, a s’in toläva un
po’ e un po’; pu vaca che manz. A s’fäva al brod e ‘l manz al s’magnäva acsì. Con la
vaca e ‘l manz ch’vansäva a s’ fäva la vécia. In-t-‘na padéla äd ram a s’ fäva andär;
aj, sigolla, pevrón, carotli, tomachi e romlasén. Da ‘na pärta a s’maniva i pòmm da
tera, chi gnävon fritt in-t -al dolegh con aj e lavor. Intant in-t-la padéla dill verduri, a
gh’gnäva miss la cärna a insavoriros e quand era vóra, a s’ghé metäva anca i pòmm
da tera fritt. A s’fäva andär tutt par dez minud e po’ la vecia l’ éra prónta. Costa,
contäva Bruno, l’é la vera vecia di povrètt. Pu tärdi po’ j àn tachè col cavàl pisst e la
gnäva ancòrra pu bón’na.
(da “Apenn’na da Biasär”)
La “buzéca” di Gino Picelli
Ónt äd gòmmod e po’ äd la gran pasénsja j én il primmi cozi ch’a gh’vól par fär ‘na
bón’na buzeca a sintir Gino Picéli che in fat äd buzeca al la säva lónga cme poch. La
trippa, ch’l’à da ésor älta e narvóza, la s’ taja in quädor grand e po’ con un cuciär la
s’rascia ben ben fin ch’l’é sgrasäda. La s’läva in acua corénta sinch o séz e sètt volti e
po’ la s’taja a fètti cme ‘l salam. La s’mètta a boijor par quattr’óri in-t- ‘na brónza
indò gh’é tutti il verduri tridädi; aj, sigòlli, carotli e sènnor, fin’na quäzi a cotura.
Intant da ‘na pärta a s’prepära un fónd äd casaróla con la pistäda äd gras e sälsa. La
s’fa andär par méz’ óra e, quand l’é prónta, a s’ghe mètta la trippa col verduri e la
s’fa boijor pian pianén do o tre ori. Al gioron dop la s’fa boijor ‘n’ältra mezz’ óra e
po’ la s’ lasa arposär n’ätor brizén. Dop, finalmént, la s’pól magnär, briza grasa e
béla gomóza.
La ricéta dal “nozén” sécond Gino Tessoni
Ricéta secónd al “Trisindich” di “Ragas äd Santa Teresa”, Gino Tessoni.
P’r ogni littor äd nozén a gh’ vól 24 nózi béli e sani, catädi posibilmént ala matén’na
äd San Zvan (24 äd zuggn) . In-t-‘na bocia a bòcca lärga o väz äd védor a s’gh’é
mètta un litor d’alcol a 95 gräd, sez etto äd sucor, un quärt äd ven bianch sècch, 12
cioldén äd garofon, un bastonsén äd canéla e ‘na scorsa äd limón. Il nózi i van tajädi
in quator toch e missi déntor in-t-la bocia o in-t-al väz. Sarär bén stricch al quärc’ e
mèttor al sól par quaranta dì, avendogh cura äd derogh d’ogni tant ‘na stobasäda in
tónd. Dop quaranta dì d’esposisjón al sól, filträr al nozén con un filtor bén sutil e,
bón’na digestjón!
La tòrra
A gh’éra ’na tòrra pu buza d’ un zdas,
con l’érba in-t-i còpp e i mur tutt äd sas.
Là p’r arja se vdäva do béli campani...
mo sénsa baciòch da milla e pu ani.
E ’l prét coza fävol?
Mo sì, al’ ja guardäva e ’l dzäva:
«Co’ faghja?», e po’ ’l tintognäva.
Man man ch’la pasäva, se vdäva la génta
ormai ch’la ridäva, mo sénsa dir njénta.
Äd gióron la säva ch’ riväva mezdì,
parchè la sentiva il pasri in-t-al ni.
E vèrs mezanota, guardànd la navètta,
«L’è óra – la dzäva - gh’ é za la sivètta!».
La conserva pramzana
S’ a gniss al mónd la serva ch'a s‘ fäva la consèrva quand mi j éra un putén, coj parój
e i dgamén coza dirèla a vèddor col sugh ross, acsì tènnor ch'a s'cata in-t- il latén'ni
dil qualitè pu fén'ni ?
E che profumm i gh ’dan! La s ’magna con al pan cmé s’la fiss 'na marmläda. Na volta
a l’ò scordäda in-t -la cardénsa, averta sésa mèttrogh ‘na cärta, sénsa mèttrogh su
gnént, e al m e putén, primma al ma lasè voltär, po ’l s ’è miss a pescär col sanfén; e
cme la gata... al gh’à lasè la lata!
S’ a gniss al mónd la sèrva ch'a fäva la conserva al siv co’ la dirè?
"Costa l’é civiltè
(Renzo Pezzani)
MODI DI DIRE VARI
Pov’ra cla spóza ch’la va in ca con la nona e so fjóla.
(anca magnär ‘na sigolla mo in ca da lór)
L’ult’m a rivär ala scudéla, l’è ‘l primm a cridär.
(coll ch’a fa il pärti l’è l’ultim a tirär zo)
Dio nin guärda da chi magna sénsa bévor.
Né a tävla né a lét a n’ s’à d’aver rispét.
(podemmia fär coll mestér? La n’ s’ghe diz miga tant stasira
Cuand canta la galén’na, al gal al täz
(la lingua madre è quella che fa tacere il padre
Fà pu un pädor par déz fjó, che déz jó p’r un pädor.
I povrett, o mantgnirja o masärja.
Chi lavora gh’à ‘na camiza, chi a n’ lavora al gh’n’à dovv.
Sold e amicissja i fòton la giustissja
L’avocät ch’à pärs…
Fresch e pastóz e dur da razor (la botte piena ecc?)
Cala Tèllo, cressa Cilién
Non è la statura
Co dizol al giornäl? Che chi gh’ n’à magna e chi gh’ n’ à miga badacia
Incò la va bén aj sjori e adman la va mäl aj povrett
La donna d’onór primma la fa la serva e po’’l servitór
In ca dal galnt’omm primma nasa la femna e po lomm
S’ a gh’è un bél pomm al va a fnir in bocca al lovv. Di bella ragazza che sposa un
brutto o meglio un balordo)
Ricordot che cuand a t’ vè su ‘na pjanta, con pu a t’ vè in älta, con pu i broch i
dvénton sutil e con pu a te ‘t zlontan da téra.
A n’ väl miga corror, a väl riverogh in témp
Fiv corag’ che mi äd paura a gh’ n’ò par tutti
A fagh cme n’ò vója mo cuand a ne s’ pól miga a fagh cme pos
Fiv lmozna si o no? Si o no, coza? Siono fagh sénsa!
nona e nóra, gat e can, paroch e caplan, j én tre cozi chi n’ s’afan
povor povrett, sténta e po crépa.
Bendètt col mort ch’a móra in venerdì che ala domenica al véna suplì
cuand al putén al gh’ à méz an, al culén al fa scran
Al ne sa d’azej s’al n’è stè in-t- la succa
Semma äd rasa ch’a móra.
Contént cme un bégh in bocca a un pit
Génta ch’ a lavóra a nin móra mo äd pensionè a nin scampa gnan vón
A gh’ dà fastiddi i pagn ados
Cuand la barba la fa bianchén, mola il donni e pénsa al vén.
Pissa in mär, che l’acua la cressa.
Sold in banca e rud in-t-la masa, i n’àn mäj frutè a nisón
«Cme vala ?»
«Acsi, acsi cme ‘l donni sénsa marì» (da agiornär)
Cära al me Sgnór compagnì coj ch’ j én da lór
e chi è mäl compagnè tolil pur dal Vostor lè".
Ot etto a tutti, nóv etto a un cuelchidón e un chilo a nisón
Siora, chi è äd l’ärta stìmma l’opra.
La fäva la pupón’na, la gh’ äva dil véni varicosi chi parevon grostón äd garbuz
un corp san l’à da pisär cme un can
L’è cme l’acua äd Milan che pära ch’a n’ pióva mo la bagna al gaban
Al spendor poch e ‘l povor pian l’è coll ch’inganna al vilàn
Lontan da ca pan, gaban e baston p’ri can
Tgniss sénsa vansàj, foghè in-t-al butér e sughè col formaj.
Chi nodon int al buter5 foghè int al formaj
Magnaren fa cavalen e magnaron fa cavalon
Al sporch dil man al taca miga in-t-al pan
Pa e spuda e chi n la vól la muda
E’ mej roba vansa che creppa pansa.
mo gh’è anca:
creppa pansa la s’pól cuzir e roba vansa la pól marsir
Chiaro ti vedo, spesso ti ricordo.
mnéstra fissa e predica ciära
è mej al vén fiss che l’acua ciära
Pulidén l’è mort ad fama. E sporcación a gh’n’è vansè.
L’amór l’è ‘na gran coza mo la fam passa ogni coza.
(E’ l’equivalente plebeo di più che l’amor potè il digiuno?)
ragas e gnoch i n’én mäj trop
i zgranfgnón i s’ magnon anca in bocca a ‘n tignón
Cunì sénsa tésta.
Cunì da copp –lévri da copp
lontan cme znär aj persogh
Meno mäl che la providensa
di dotór la fa anca sénsa
e la mètta a nostra dispozisjón
‘na muccia äd sant potént dabón:
P’r al mäl ‘d góla a gh’è San Biäz
San Quintén par j imbariägh
San Mavor p’r il roturi
San Loréns p’r il strinaduri
Sant’Ana per chi à fjó
Santa Lussia par j oc’ mafón (dall’arabo)
Santa liberäda p’r i tormént
Santa Apolonia p’r al mäl ‘d dént
Santa Rita p’r i disprè
E Sant’Antonni con tant a gh’n’è
A ghg’è ‘d cojj chi san coll chi dizon
A gh’è ‘d j ätor chi dizon coll chi san
E äd j ätor ancorra chi ‘n san miga coll chi dizon
9^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA
2014-2015 IN FAMIJA PRAMZÀNA (dispense a cura di G.Mezzadri)
MODI DI DIRE
LE ETA’ DELL’UOMO
 “Bräga bojuda”, si diceva ai bimbi molto piccoli. Era molto calzante, quando non
c’erano i pannolini e, per i neonati, venivano usati i “ciripan”. Avevano forma
triangolare e servivano a formare una “braga” e che, per motivi igienici, erano fatti
bollire, dopo ogni utilizzo.
 “Pista pòcci”, letteralmente “pesta pozzanghere”, si diceva dei bambini già più
grandicelli che, com’è noto, amano pestare le pozzanghere.
 “Gamba äd sènnor” La gamba del sedano è lunga e fragile e l’epiteto era
affibbiato ai ragazzini che, nell’età dello sviluppo, aumentano rapidamente in
altezza e hanno spesso gambe lunghe e magre. Se il ragazzo diventava
particolarmente alto poteva sentirsi dire:
 “Sta ‘tént a dvintär acsì ält ch’a t’ ve a fnir in sménsa”. (Vai in semente – come
fa l’erba che, se non viene tagliata diventa alta e produce la semente). Oppure:
 “Vät a alvär i nì?” (vai a prendere i piccoli dai nidi?).
 “Spumarén” e “spumarén’na”, i ragazzi e le ragazze lo diventano quando
cominciano a guardarsi insistentemente allo specchio.
 “Bacucch” o “Véc’ cme ‘l cucch” sono titoli meno ambiti e per conquistarli
servono anni. Molti anni.
 “Vec’ da insucär”. (la usava mia mamma)
COSTUME
"Suocera e nóra, timpesta e gragnóla." Dice la suocera: "Cära la me nóra
podissov durär cme la néva marzóla"(o marsaróla). La nuora risponde:
Eh nona, ne m’ fe dir, podissov durär cme la néva d'avril!"
 Il cavsi a j à vénsa chi j a fa miga. Eccheggia l’altro:
 È méj un cativ d’acordi che ‘na bón’na senténsa.
 La roba robäda la gh’à poca duräda
 L’à gh’à fatt sintir al väz ‘d méla…(si diceva di un putt che ha sposato una
donna più vecchia di lui e con figli)
 Quanta lèggna st’an’!!! (Si dicevano preoccupati i poveri quando nevicava in
abbondanza
Pit a ca’ ch’a gh’è i muradór. (I muratori, che d’inverno lavoravano poco o niente,
erano considerati soggetti “pericolosi” e le massaie si preoccupavano che la polleria
stazionasse vicino alla casa dove era possibile controllare meglio).

“L’erba la conòssa al zgädor sensa bärba. che sta a significare che per tagliare
bene l’erba con la falce occorre esperienza e perizia. Il senso vale anche, più in
generale, per ogni mestiere.
 “Va là ch 'al conòssa l’erba ch’fa ’l gràn!’’ si diceva di persona furba che capisce
bene ciò che gli conviene oppure no.
 Al riz al nasa in-t-l’acua e ‘l móra in-t-al vén. (Il riso si gusta meglio se
accostato ad un buon bicchiere di vino, meglio ancora se bevuto mischiato al vino
nel bév’r in vén o sorbir.)
DEFINIZIONI (di Giorgio Capelli)
Su gentile richiesta di “ vari scolari “ del corso di dialetto Parmigiano, trasmetto le
informazioni che avevo raccolto negli anni settanta dal direttore della Biblioteca
Comunale marchese Maurizio Corradi Cervi che mi aveva fornito queste
informazioni e fatto notare che a suo avviso, nessun altro dialetto nazionale aveva
tanti modi di definire il nostro “ fondo schiena”.
Aggiungeva che a suo giudizio, questa caratteristica di varietà di espressioni non
solo era la conseguenza delle diverse influenze culturali e linguistiche che avevano
condizionato storicamente la nostra comunità, ma di una delle caratteristiche della
parmigianità : al pramzàn l’é vón originäl
Al cul
Al casètt dal pan bjasè
Al dardè
Al bascull
Al sesè
Al bombardén
Al bernardén
Al tamburlàn
Al tafanäri
Al bombè
Al chichén
Al gnì gnì
Al mandolén
Al mapamónd
Al lorgnón
Al lorètt
Al fiorón
Al bordò
Al gnao
Al bofice
Al sambràn
Al panò
l’organén
Al cavagn
Il rénni
Al lorón
Il lati
Al buzgnón
Al cicolatén
Al cucù
L’ orgon
Al rustich
Al bordnél
Al chitarén
Al butalà
Al cu cu
Al bofètt
Al culiseo
Le fonti sono quelle di vari autori del settecento, dell’ottocento e dei primi del
novecento che hanno scritto delle pubblicazioni, delle poesie , componimenti,
nonché dei vari calendari che
venivano pubblicati e quelle provenienti da quegli studiosi che hanno redatto
vocabolari o anche ricerche sul nostro dialetto . (a cura di G.Capelli)
Dal dizionario ITALIANO-PARMIGIANO di G.Capacchi
(ed.Artegrafica S.r.l. Silva – Parma)
MEMORIA,
s.f.: memòrja (in tutte le accez.); arcòrd, ricòrd (s.m.), DC ricordànsa;
non ha m., al ne gh’ à ’d memòrja, ☆al ne s’ arcòrda dal näz ala bocca;
ha un’ ottima m., al gh’ à ’na memòrja ’d fér (o; ’na memorjón’na);
m. debole, memorjasa, memòrja balórda;
sovraccaricare la m., fadigär (o: sforsär) la memòrja;
chi non ha m., abbia gambe chi a n’ gh’ à ’d tèsta a gh’ à gambi (Prov.);
a m. d’ uomo, a memòrja d’ ommi;
riandare con la m. al passato. fär memòrja ad coll ch’ é stè:
il Tale, di buona m che ’l Sgnór al gh’ l’ abja in glorja;
qui si conservano le memorie del passato, chicsi a s’ conserva il memorji dal
témp indrè;
CONCLUSO IL SECONDO CORSO DI DIALETTO PARMIGIANO
Tenuto dalla Consulta per il dialetto e Famija Pramzàna
Lezione del linguista prof. Guido Michelini
(articolo pubblicato dalla Gazzetta di Parma)
La grammatica
L’ultima lezione del Corso di dialetto (2015-2016), svolto dalla Consulta
per il dialetto parmigiano in collaborazione con la Famija Pramzàna (che
ha visto l’impegno di Giorgio Capelli, Giovanni Mori, Aldo Pesce, Franco
Greci, Giuseppe Mezzadri e Claudio Cavazzini), è stata tenuta dal prof.
Guido Michelini, glottologo e linguista della nostra Università. Il
professore è stato invitato in quanto autore della prima grammatica
completa e strutturata del dialetto parmigiano, alla quale sta dando gli
ultimi ritocchi. Questa grammatica è un lavoro che completa ciò che altri
studiosi avevano iniziato: Jacopo Bocchialini con “Il dialetto vivo di
Parma e la sua letteratura” (1944) e Angelo De Marchi con “Il dialetto di
Parma” (1976). Guglielmo Capacchi, autore di quel prezioso scrigno che è
il dizionario Italiano-Parmigiano, aveva in animo di pubblicare anche una
grammatica, ma la morte prematura gli ha impedito di realizzare il
progetto; così ci ha lasciato soltanto la corposa serie delle osservazioni
grammaticali delle quali il suo dizionario è disseminato. È importante che
il professor Michelini abbia accettato di scrivere la Grammatica perché la
sua specializzazione di glottologo e linguista gli consente di affrontare
l’impresa con le armi adeguate della linguistica scientifica moderna.
La dialettizzazione dell’italiano
Il professore ha svolto un breve excursus sulla situazione del dialetto oggi.
Nel 1861, data dell’Unità di d’Italia, gli analfabeti totali erano il 95% della
popolazione. Il dialetto era la lingua della gente e rimase tale fino al 900 e
anche oltre perché i due anni di scuola elementare frequentati perlopiù dai
soli maschi non avevano contribuito a cambiare la situazione. La svolta,
seppure molto lenta, è iniziata alla metà degli Anni venti, quando la
riforma Gentile del 1923 portò a cinque gli anni di scuola, rendendola
obbligatoria anche per le femmine. A tale svolta ha contribuito anche la
circostanza che le famiglie divennero inconsapevolmente alleate della
scuola nel combattere l’uso del dialetto da parte dei loro ragazzi,
lasciandosi condizionare dall’idea che le persone non ignoranti dovessero
parlare in italiano. Michelini sostiene che negli anni in cui i dialettofoni
costituivano la maggioranza della popolazione, il dialetto, diversamente
dall’italiano, non era “ingessato” con regole o grammatiche (che ancora
non esistevano), ma continuava ad evolversi con vivacità e creatività. Da
quando invece i dialettofoni sono una sparuta minoranza che si riduce
sempre più, assistiamo non ad una normale evoluzione, ma ad una
italianizzazione del dialetto. Così la parola tradizionale péca “gradino” sta
cedendo il passo all’italianismo gradén, mentre a zonzìa “gengiva” si
preferisce l’italianismo gengìva; altri esempi di parole che tendono a
perdersi per il condizionamento dell’italiano sono pòmm-da-téra “patate”
(sostituito da patàti), quadrél “mattone” (che diventa matón, con la perdita
della bella espressione idiomatica fär du pass int un quadrél “fare due
passi in un mattone”, cioè “camminare molto lentamente”), tomàchi
“pomodori” (rimpiazzato da pomdòr) e via discorrendo. Per queste ragioni
Michelini sostiene che sia giunto il momento di incanalare il dialetto
dentro gli argini delle regole di una grammatica e di un lessico normativo,
come nel Rinascimento è stato fatto per l’italiano.
I pronomi clitici
Parlando della grammatica, Michelini ha citato diverse curiosità. Ha detto
che, ad esempio, forse non tutti sanno che il nostro dialetto ha una
caratteristica che lo rende unico in Europa, insieme a quello di Piacenza e
delle altre località vicine. Sono i pronomi clitici, cioè quei pronomi atoni
che si appoggiano a un'altra parola nella pronuncia. Un esempio chiarirà
meglio. Nel nostro dialetto per dire “vado” dobbiamo usare a vagh, mentre
per dire “io vado” possiamo scegliere a piacere tra mi a vagh e mi vagh,
visto che in questo caso l’elemento portante è il pronome accentato mi,
mentre la vocale a di quello clitico si indebolisce a tal punto, che può
essere anche tralasciata.
Queste particolarità, che ai più possono sembrare di poco conto, sono state
oggetto di studi approfonditi da parte di fior di linguisti italiani e stranieri,
americani compresi.
Confronto tra dialetti
Alla domanda perché i veneti continuano a parlare in dialetto e noi lo
stiamo perdendo, il professore Michelini ha risposto spiegando che un
tempo a Venezia anche il Doge e il Consiglio parlavano in dialetto e
numerosi documenti venivano redatti in dialetto. Poiché il dialetto
veneziano era la lingua di tutti, comprese le persone appartenenti alle
classi più alte, nessuno si vergognava di parlarlo. Diversamente, a Parma il
dialetto era soltanto la lingua delle classi inferiori, mentre per la Corte e le
persone “importanti” le lingue erano l’italiano o il francese.
Invito ai parmigiani
Considerando che oggi, grazie all’innalzamento della scolarità e
all’influsso dei “mass media”, tutti sono in grado di usare senza problemi
la lingua italiana, la Consulta invita i parmigiani a seguire l’esempio di
altre città, riscoprendo il piacere di parlare ed ascoltare il dialetto, senza il
timore di essere scambiati per ignoranti. Quel dialetto che è stato la prima
lingua dei nostri padri, è una sorgente inesauribile di ricordi e scalda il
cuore quando lo si ascolti perché è l’ “elemento portante” della nostra
parmigianità.
Giuseppe Mezzadri