corso di dialetto parmigiano
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dispense per il Corso di dialetto e cultura parmigiana (2015-2016) tenuto in Famija Pramzàna in collaborazione tra: Consulta per il dialetto parmigiano e Famija Pramzàna Biblioteca Civica Il Corso alla sua seconda edizione, articolato su 10 incontri, è stato svolto da: Giorgio Capelli, Claudio Cavazzini, Franco Greci, Giuseppe Mezzadri, Giovanni Mori, Aldo Pesce e Luigi Sturma. La lezione di apertura è stata tenuta da Giovanni Petrolini professore di linguistica e dialettologia italiana mentre quella di chiusura lo è stata dal linguista e glottologo Guido Michelini. In Civica il Corso si è avvalso della collaborazione di Roberto Montali Scaricare questo Corso dal sito GIUSEPPEMEZZADRI.COM è consentito soltanto per uso personale e senza scopo di lucro ALTRI UTILIZZI NON SONO PERMSSI SENZA L’AUTORIZZAZIONE DELL’AUTORE Per eventuali richieste, commenti, segnalazioni o comunicazioni si prega di contattare Giuseppe Mezzadri al seguente indirizzo di posta elettronica [email protected] Mezzadri potrà rispondere sia a titolo personale che a nome della Consulta per dialetto parmigiano. CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA LEZIONE DI APERTURA DEL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA (in Famija Pramzàna 2015-20169 Tenuta da: Giovanni Petrolini professore di linguistica e dialettologia italiana (articolo pubblicato dalla Gazzetta di Parma) IL DIALETTO A cura della Consulta per il dialetto parmigiano e in collaborazione con la Famija Pramzàna e la biblioteca Civica, da dicembre è iniziato un Corso di dialetto articolato su 10 incontri e svolto, nella prima parte, dal sottoscritto, Giovanni Mori, Aldo Pesce e Giorgio Capelli. La lezione di apertura è stata tenuta da Giovanni Petrolini professore di linguistica e dialettologia italiana mentre quella di chiusura lo sarà dal linguista e glottologo professor Guido Michelini. Si è trattato di un’ora e mezza di spiegazioni e citazioni puntuali ed approfondite. Ho ritenuto di fare cosa gradita agli appassionati della nostra parlata redigerne un riassunto seppure necessariamente stringato per motivi di spazio. Dialetto e lingua: qualche considerazione generale. Petrolini ha iniziato sottolineando che quel piccolo straordinario universo che è il dialetto, per noi italiani, è una varietà linguistica locale nettamente differenziata rispetto alla lingua italiana, diversamente dagli anglosassoni per i quali il “dialect” corrisponde ad una varietà locale che si discosta dalla lingua solo per qualche particolarità (per lo più fonetica). I linguisti ci dicono poi che, tra lingua e dialetto, sul piano strettamente linguistico, non esistono sostanziali differenze. Si tratta infatti di sistemi fonematici dotati in entrambi i casi di una loro grammatica (fonetica, morfologia, sintassi, lessico). Lingua e dialetto hanno insomma “una pari dignità semiologica”. Anche dal punto di vista genetico, lingua e dialetto rappresentano diversi momenti di uno stesso continuum linguistico. Quello che era una lingua, il latino, attraverso il suo uso parlato si trasformò lentamente, attraverso i secoli, nei volgari parlati neolatini ovvero nei dialetti neolatini e da questi si svilupparono le lingue nazionali. In particolare in Italia dal dialetto fiorentino, dal fiorentino delle persone colte, attraverso i secoli si sviluppò la lingua italiana. I dialetti sono dunque fratelli dell’italiano perché come l’italiano sono figli del latino e non figli, magari deformi, dell’italiano (anche se non si può negare che nel dialetto esistono le storpiature dell’italiano). Eppure, nonostante queste indubbie affinità linguistiche, lingua e dialetto nel vocabolario italiano hanno un significato ben diverso. Nessuno potrà dire che l’italiano è un dialetto e che (salvo che in occasioni promozionali come questa) il parmigiano è una lingua. Quel che distingue nettamente l’ uno dall’ altra a ben vedere non dipende da considerazioni linguistiche ma extralinguistiche. Nel linguaggio comune lingua e dialetto, si collocano su due piani diversi. Uno più importante l’altro meno. Nessuno potrà negare che il dialetto è una varietà linguistica parlata da un numero di persone inferiore rispetto a quella degli utenti di una lingua e che gode di minor prestigio sociale rispetto alla lingua. Il dialetto è stato per secoli la lingua dei poveri. E questa è la ragione per cui i nostri vecchi, per promuoverci socialmente, ci proibivano di parlarlo. Per loro era una scelta obbligata. Da quando sono nati a quando sono morti hanno sempre parlato in dialetto. Per la classe colta era una libera scelta. Nessuno potrà poi negare che l’importanza letteraria dell’ italiano è di gran lunga superiore a quella del parmigiano come a quella di un qualunque altro dialetto. Nell’’800, Friedrich Diez, il padre della filogia romanza, distingueva nel campo delle parlate europee derivate dal latino, soltanto sei lingue e fondava la distinzione sulla base della loro importanza letteraria. Tutte queste considerazioni (sostanzialmente extralinguistiche), ci portano insomma a collocare senz’altro il dialetto su di un piano di inferiorità rispetto alla lingua. Il parmigiano, ahimè, vale meno dell’italiano. Il valore del dialetto Le cose però cambiano radicalmente se si considera che per molti di noi il dialetto è stato la prima lingua che è stata ascoltata in famiglia e ancor più è stata la prima lingua dei nostri padri e dei nostri nonni ed è legato ai più cari ricordi della nostra infanzia. Il dialetto ha per noi ha un valore affettivo di gran lunga superiore all’italiano. Ascoltarlo ci scalda il cuore. Quello strano modo di parlare il dialetto è il nostro e solo il nostro, diverso da quello di tutti gli altri abitanti della terra. Più del colore degli occhi e dei capelli, più del modo di vestire a di parlare esprime la nostra più specifica identità e soprattutto la sua curva melodica, la sua cadenza, il suo accento inconfondibile rappresentano una sorta di linguistico DNA. Ed è naturale perciò per noi parmigiani non più giovanissimi innalzarlo di grado e dire che il dialetto parmigiano è una lingua. Si capisce allora perché benemerite istituzioni come la Famija Pramzàn, Parma Nostra, la Consulta per il dialetto parmigiano, Compagnie teatrali ecc., scrittori e, soprattutto, studiosi, facciano di tutto per non dimenticarlo e valorizzarlo in un momento della nostra storia, non soltanto nazionale ma anche europea, in cui fatalmente, se non contrastato, ci porterebbe ad abbandonarne l’uso e con esso forse anche il ricordo. A pensarci bene ci sono poi ragioni non solo soggettive e identitarie ma anche oggettive che inducono per qualche verso a considerare il dialetto più importante rispetto alla lingua. La sua maggiore antichità per esempio. Per le lingue si può stabilire seppure approssimativamente la data della loro nascita. Nel 1960 si celebrò il millenario della nascita della nostra lingua italiana essendo passati 1000 anni dalla data del placito Capuano o cassinese che, per convenzione, si considera il primo documento della lingua italiana. Per il dialetto questo non si può fare. I dialetti non hanno un certificato di nascita datato ma sono certamente più antichi delle lingue. La loro origine si perde nella notte dei tempi. Essi sono nati chissà quando insieme ai primi uomini stanziati qua e là nel territorio oggi italiano. È solo per convenzione storica che possiamo dire che il dialetto parmigiano è nato in età romana dal latino parlato nelle terre comprese tra il Po e l’Appennino. Se è vero che l’ anzianità fa grado, il dialetto è di grado più elevato della lingua. Di questo si era già accorto in qualche modo Dante Alighieri che nel “De vulgari eloquentia” giudicava senz’altro “nobilior” (più nobile) il volgare, cioè la parlata nativa (oggi diremmo il dialetto), rispetto alla “gramatica”, come lui definiva la lingua latina. Questo perché la facoltà di parlarlo è comune a tutti gli uomini della terra. È una facoltà universale ed innata. E’ un dono della natura che non s’impara sui libri. Ai tempi di Dante il termine dialetto non era ancora entrato nel vocabolario. Vi entrerà soltanto nel ‘400 in età umanistica. Come valorizzare il dialetto. Ci sono dunque molte ragioni valide per valorizzare il dialetto e ci sono vari modi per farlo ugualmente rispettabili e degni di attenzione. Tutte le iniziative però devono fare i conti con quanto la storia linguistica italiana ci insegna e cioè che una lingua si parla e si impone quando ci sono condizioni ambientali che suggeriscono e in qualche modo obblighino ad usarla per capire e per farsi capire. Oggi che tutti i parmigiani parlano italiano ci si potrebbe chiedere: “che bisogno c’è di parlare in dialetto?” Non certo quello di capire o di farsi capire. Anzi a parlarlo si rischia di non farsi capire Sino alla seconda metà dell’ Ottocento nessuno o quasi nessuno si era reso conto che le parlate native sparse nel nostro paese, e ora languenti, rappresentano una testimonianza storica di vita e di civiltà, un bene linguistico e culturale, un patrimonio dell’umanità che non può essere dissipato, ovvero dimenticato. Se è vero che oggi non si avverte l’indispensabilità di parlare in dialetto è vero però che da qualche tempo ci si è accorti del valore psicologico e affettivo dei dialetti. È stato necessario però che i dialetti, specialmente a partire dall’ Unità Unità d’ Italia, cominciassero ad indebolirsi, ad ammalarsi e a rischiare di morire di fronte della prepotente avanzata dell’italiano. È quando si stanno per perdere che ci si rende conto del valore di molte cose, anche del dialetto. Attualmente si ha l’impressione di un timido ritorno all’uso di parlare parmigiano sotto la spinta di iniziative ricreative che forse più che valorizzarlo in senso stretto mirano a riderne o a sorriderne, come è avvenuto per secoli a partire dal ‘500 nella letteratura del teatro dialettale. Per la verità vi sono anche altre iniziative tese alla valorizzazione del dialetto meno ludiche che cercano (con difficoltà) di coinvolgere il mondo della scuola, produrre corsi di dialetto, redigere raccolte di aneddoti, tradizioni e poesie evidenziandone anche gli aspetti culturali e persino educativi. Da quel mondo di povertà e di ignoranza che il dialetto esprime e riflette c’è molto da imparare: non fosse altro che la sua semplicità, la sua sobrietà, la sua serenità, la pazienza e l’eroica capacità dei suoi uomini e delle sue donne di tirare avanti nonostante tutto. Il piacere di parlare in dialetto Se si escludono certe sporadiche situazioni in famiglia o con amici, le persone che parlano in dialetto sono sempre più rare. Ed è un peccato perché quando parlano in dialetto sentono il piacere di parlarlo perché parlandolo esprimono l’orgoglio di essere figli di questa amatissima città dal glorioso passato. Parlare in dialetto è bello. I dialetti sono piccole lingue che sono state usate per secoli o per millenni dai nostri antichi, sono state le sole a disposizione della stragrande maggioranza di noi Italiani, le sole con le quali i nostri vecchi si sono sempre parlati, con le quali hanno riso e hanno pianto. Un lessico storico etimologico delle parlate parmensi Pur apprezzando le iniziative di cui si è accennato prima, Petrolini non nasconde il suo pessimismo sul fatto che si possa tornare a parlare in dialetto come una volta. Egli pertanto ritiene che il modo più efficace per valorizzare il dialetto sia quello di archiviarne la memoria (già largamente archiviata) e di approfondirne lo studio. A questo proposito ha annunciato di avere finalmente concluso una impresa ambiziosa, forse “velleitaria”, quella di un lessico storico etimologico delle parlate parmensi. E continua: “E’ il lavoro di una vita. L’ho cominciato insieme a mio padre quando ero studente di lettere alla Università di Bologna e concluso adesso che ho i capelli bianchi. Attendo con ansia che qualche generoso imprenditore o qualche pubblica Istituzione mi aiuti a pubblicarlo”. Riferendosi in particolare alle Istituzioni, non avendo ad oggi ricevuto segnali posititvi, dice: “Non si può far finta di valorizzare le cose e poi quando c’è l’occasione di farlo non si fanno”. Dice anche : “Anche se tutto il materiale è registrato su Word e travasarlo sul cartaceo non dovrebbe presentare problemi, non mi nascondo che a questi lumi di luna quello di stampare come si deve, non basta ch a sia, 15 volumi di 350 pagine l’uno, più un volume “0” di introduzione e bibliografia non è certo un gioco da ragazzi” Petrolini ha voluto infine dare una piccola dimostrazione di come possano essere approfonditi e interessanti gli studi sul vocabolario parmigiano. Lo ha fatto attraverso l’ illustrazione di tre parole “difficili” del dialetto parmigiano estratte dal suo lavoro, una ancor oggi ben nota, come cibàch ‘ciabattino, povero calzolaio’ e altre due oggi del tutto dimenticate, come Zvissra e Scòsia nel senso di ‘Oltretorrente’. Ogni parola del nostro dialetto ha una sua storia da raccontare. Qualcuna è una storia tranquilla, pacifica, come quella di gran parte delle parole dotte che si sono conservate si può dire com’erano in latino fino ad oggi. Ma le parole di tutti i giorni molto spesso si trasformano, si modificano, pian pianino si deformano. Una di queste è appunto il parmigiano cibàch. Era così chiamato sino a ieri il ciabattino, il povero calzolaio. Sull’origine di questa voce sono state avanzate, seppure dubitativamente, diverse spiegazioni. Si è ritenuto potesse rappresentare una contrazione di “pardincibach” oppure di “cicatabach” (mastica tabacco).La parola ha invece un’origine molto meno colorita. Proprio come l’italiano ciabattino a ben vedere anche il parmigiano cibàch ha infatti a che fare con ciabatta e, in particolare con una sua variante “cibatta”. “Cibàch” rappresenta infatti l’adattamento di un non attestato italiano “cibatto” forma scorciata (o meglio “retroformata”) dall’ antico italiano cibattone ‘ciabattino’ già attestata nel ‘500 da Annibal Caro. Da “cibatto” adattato in parmigiano come “cibàt” si passò a “cibàch” attraverso un facile scambio tra l’occlusiva dentale sorda del suffisso (‘-atto’) e la occlusiva velare sorda del suffisso (‘-acco’ cfr. per esempio il parm. antico tomata ‘pomodoro’ passato poi a tomaca. Petrolini ha infine chiarito attraverso puntuali riferimenti come sia Zvissra propr. Svizzera’ sia Scosja propr. ‘Scozia’, denominazioni scherzose del nostro dedlà da l acua, presero spunto dalla sua fama di contrada di osterie e di gran bevitori, proprio come terre di gran bevitori erano considerate appunto già nell’ Ottocento sia la Svizzera sia la Scozia. Il nome di quest’ ultima per di più veniva a giocare equivocamente con il gergale parm. scòsja ‘ciotola (da vino)’ e con scosjär ‘sbevazzare, bere in abbondanza’. Un commento A fine lezione, il prof. Giovanni Mori, della Consulta per il dialetto parmigiano, ha commentato convenendo che esiste il rischio che il dialetto non venga più parlato. E il rischio è più forte per il Parmigiano che per altri dialetti, a causa della spocchia con cui la grande corte della piccola capitale ha per secoli considerato chi parlava il dialetto, cioè come un ignorante e un poveraccio che non si è potuto permettere nemmeno la scuola elementare. Tuttavia, in altre regioni dalle capitali meno spocchiose, ciò non accade, come in Veneto, a Napoli o a Roma. In altre città addirittura si verificando il processo inverso, come a Mantova e anche a Brescia e Piacenza. Lì le persone più acculturate, quelle che non temono di essere scambiate per ignoranti, hanno ripreso a godersi il piacere di parlare ed ascoltare il dialetto, linguaggio ovunque più espressivo ed evocativo dell’Italiano. E’ una operazione che si può fare anche a Parma. Non a caso l’Unione Europea ha stanziato dei fondi dedicati alla valorizzazione dei dialetti per tutelare l’identità dei cittadini europei e contrastare l’avanzata della “società liquida” teorizzata da Bauman, secondo il cui modello assumeremmo, come un liquido che prende la forma del recipiente in cui viene versato, le parole, i pensieri, i comportamenti e le mode che qualcuno dall’alto decide. In una parola per contrastare la globalizzazione. E fare questo Mori ritiene sia doveroso. CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 1^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri) (origine del dialetto – grammatica – prime regole – locuzioni meteo – locuzioni tempo, feste, giorni ecc.) I DIALETTI ITALIANI Semplificando molto possiamo suddividere i dialetti italiani (da Nord a Sud) in sette gruppi: Gallo-Italici, Veneti, Trentini, Toscani e Corsi, dialetti Mediani e Meridionali. IL NOSTRO DIALETTO È una lingua con una storia che viene da lontano, che ha una letteratura, testi teatrali e un ricco un patrimonio di proverbi, modi di dire e tradizioni. Era la lingua che permetteva alle persone di esprimersi e capire il prossimo perché, come scriveva Renzo pezzani, il nostro maggior poeta, il nostro dialetto: “…è bello, armonioso e bastevole a tutte le necessità e contingenze della vita e dello spirito…” L’ORIGINE Nel 183 a.C. i Romani, dopo avere tracciato la Via Emilia, cacciarono i Galli [li avevano sconfitti nel 191!] e imposero la lingua latina. Il latino volgare, cioè parlato da soldati e coloni importati, impiantandosi sulle locali parlate celtiche (che pertanto hanno funzionato da sostrato al superstrato latino) ha prodotto il dialetto parmigiano. Parole derivanti dal sostrato celtico: bènna (carro senza ruote); lidga (fango, da “ledega”); brèssca (favo asciutto, da “brisca”). Parole derivate direttamente dal basso latino: caldarén (secchio) da “caldarius”; rezdór (capo famiglia) da “rector”; misóra (falce per mietere) da “falx messoria”. Dal germanico portato da Goti e Longobardi: bórogh (borgo) da “burgh”; guindol (arcolaio) da “garwinden”; magón (stomaco) da “magen”. Dallo spagnolo: soghètt (corda, “soga”); al m'à inlochì (dall'aggettivo “loco” pazzo); gozén (maiale) da “cocinho”. Dal francese: il duca don Filippo di Borbone e sua moglie Luisa Elisabetta, figlia di Luigi XV, sono giunti a Parma nel 1749 con l'idea di fare della città una piccola capitale di livello europeo e per questo hanno portato dalla Francia architetti, artisti, uomini di cultura, artigiani, cuochi, camerieri e stallieri: circa quattromila persone in una città di trentamila. Così molti termini francesi sono stati dialettizzati. Solo per citare alcuni fra i tanti: lorgnètti, occhialini da “lorgnettes”; armuar, armadio da “armoire”; babalàn, che parla a vanvera, da “babiller”; ombrìggol, ombelico, da “nombril”. LA GRAMMATICA Con il suo aureo volumetto “Il dialetto vivo di Parma e la sua letteratura” (1944), l’avv. Jacopo Bocchialini è stato il saggio restauratore e ordinatore delle norme grammaticali del nostro dialetto. Altri si erano applicati ma nessuno aveva approfondito come lui. Il professor Guglielmo Capacchi, autore del prezioso dizionario Italiano-dialetto aveva in animo di allegare al dizionario dialetto-italiano una grammatica. Purtroppo non ha fatto in tempo a completare il progetto ma, per quanto attiene la grafia, egli ha aggiornato, codificato e in parte modificato le proposte di Jacopo Bocchialini. Proposte che ha inserito comunque nel dizionario che riporta anche parecchie espressioni idiomatiche che, essendo scritte in modo completo e per esteso, contengono preziose indicazioni su come si costruiscono le frasi con relativi accenti, congiunzioni, apostrofi ed elisioni. n queste lezioni mi servirò delle regole del Bocchialini e perfezionate dal Capacchi. Mi servirò soprattutto degli spunti di un corso di dialetto parmigiano, redatto per gli incontri di “Parma Nostra”, da Vittorio Botti, stringato ma ben fatto. Vittorio era la mente e io il dattilografo e poco più perché sapevo usare il computer. Con tutta la stima e il rispetto per i miei maestri tuttavia mi sono riservato il diritto, soprattutto per quanto attiene all’accentazione, di apportare modifiche che il trascorrere del tempo (con sempre meno parlanti in dialetto) sono, a mio giudizio, opportune per facilitare la lettura. QUALE DIALETTO? Del dialetto parmigiano, parlato in tutta la provincia di Parma, si possono riscontrare almeno tre varianti: area della "bassa", approssimativamente da Torrile al fiume Po; area di Fidenza e Salsomaggiore Terme, dove la parlata si avvicina molto al dialetto piacentino orientale della Val d'Arda; area appenninica, dove vi sono alcune inflessioni liguri. Le variazioni tra questi dialetti sono riscontrabili, oltre che in alcuni termini, soprattutto nella pronuncia delle vocali. In queste lezioni parleremo soprattutto del dialetto della città di Parma, tralasciando quello “arioso”. Anche il dialetto di città non è del tutto omogeneo soprattutto per l’accentazione della vocale “e”. Anche se, fortunatamente, è quasi sparito il dialetto strascicato, aborrito dal Bocchialini, esiste una differenza tra quello dell’Oltretorrente (dedlà da l’acua) e quello della riva destra (dedsà da l’acua). Facciamo un esempio.è bello si può tradurre in due modi; l’è bél in cui la “è” voce del verbo essere ha la pronuncia aperta di “erba” oppure con l’é bél in cui la “é” ha la pronuncia stretta di “chiesa”. Nell’Oltretorrente si usa quella in cui la “e” ha pronuncia stretta. Il prof. Guglielmo Capacchi ha scelto di adottare la grafia della pronuncia “oltretorrentina”pur dicendo che, per lui, la questione non è ancora definita. Io ho scelto di seguire le indicazioni del Capacchi, che considero il mio maestro, e utilizzerò la grafia relativa alla pronuncia più stretta. Nel parlare però tendo ad una pronuncia più aperta. A questo proposito ricordo quando, tanti anni, nella redazione del “Lunario parmigiano” si è optato per quella “stretta” soprattutto per decisione di Vittorio Botti, caro amico non più tra noi, io inutilmente feci obiezione. Scherzosamente accusavo Vittorio di essere “Un capanón ‘d bórogh Bartàn” e di rimando lui mi diceva: “E ti a t’si un paizàn ‘d San Lazor”. LA GRAMMATICA Con il suo aureo volumetto “Il dialetto vivo di Parma e la sua letteratura” (1944), l’avv. Jacopo Bocchialini è stato il saggio restauratore e ordinatore delle norme grammaticali del nostro dialetto. Altri si erano applicati ma nessuno aveva approfondito come lui. Il professor Guglielmo Capacchi, autore del prezioso dizionario Italiano-dialetto aveva in animo di allegare al dizionario dialetto-italiano una grammatica. Purtroppo non ha fatto in tempo a completare il progetto ma, per quanto attiene la grafia, egli ha aggiornato, codificato e in parte modificato le proposte di Jacopo Bocchialini. Proposte che ha inserito comunque nel dizionario che riporta anche parecchie espressioni idiomatiche che, essendo scritte in modo completo e per esteso, contengono preziose indicazioni su come si costruiscono le frasi con relativi accenti, congiunzioni, apostrofi ed elisioni. n queste lezioni mi servirò delle regole del Bocchialini e perfezionate dal Capacchi. Mi servirò soprattutto degli spunti di un corso di dialetto parmigiano, redatto per gli incontri di “Parma Nostra”, da Vittorio Botti, stringato ma ben fatto. Vittorio era la mente e io il dattilografo e poco più perché sapevo usare il computer. Con tutta la stima e il rispetto per i miei maestri tuttavia mi sono riservato il diritto, soprattutto per quanto attiene all’accentazione, di apportare modifiche che il trascorrere del tempo (con sempre meno parlanti in dialetto) sono, a mio giudizio, opportune per facilitare la lettura. ALCUNE REGOLE DI GRAFIA E DI LETTURALE VOCALI La vocale “a” presenta due suoni: “a” aperta es. “mat” (matto), oppure “ä” con un suono allungato tendente ad“è” (es.“cärna”-carne, “Pärma”-Parma). La vocale“e” presenta due suoni: uno aperto come “è di “erba” (es. “ernja”-ernia), l’altro chiuso come “é” di “chiesa” (es. “pianén”-pianino). Anche la vocale “o” presenta due suoni: aperto come “ò” di “fuoco” (es. “solit”solito), e chiuso come “ó” di “torre” (es. “pisón”-piccione). Per leggere con la giusta tonalità è importante osservare l’accento. Il professor Capacchi, per semplificare, ha adottato la seguente regola generale. La“o” con suono aperto non si accenta.La “o”con suono chiuso si accenta. A questa regola generale molto saggia perché consente di semplificare, a mio giudizio, può risultare utile fare qualche eccezione. Esempio: la parola “rosso”, nell’italiano che si parla a Parma, la “o” ha suono chiuso. In dialetto ha suono aperto. In casi come questo l’apposizione dell’accento aperto facilità il lettore. Così io preferisco scrivere ròss”. Occorre anche considerare che il Capacchi scriveva le sue regole oltre 40 anni fa quando i parlanti in dialetto erano sicuramente in numero più elevato. “i” suona come in italiano. “j”suono semiconsonantico come in “chiudere “u” suona come in italiano La vocale “u” talvolta si muta in “v” Es. avtón "(autunno); "avtista " (autista); Clavdia (Claudia) TEMPO –GIORNI –MESI –FESTE Alba Mattino Mezzogiorno Pomeriggio Sera Tramonto Mezzanotte Notte Anno Secondo ora minuto secolo primavera Älba Mezdì Mezgioron dopmezdì sira Tramónt mezanota Nota An Secónd FESTE Epifania Capodanno Carnevale Natale La vigilia Ferragosto Martedì grasso Festa repubblica Dom. delle Palme óra Pasqua minud Pasquetta secónd Festa dei santi primmavéra Il giorno dei Befana Primm ädl’an Carnväl Nadäl La vgilja ‘d Nadäl Feragosst Martedì gras Fésta ‘dla Republica Doménica dil Pälmi Pascua Pacuètta I Sant I mort estate autunno Istè Avtón morti Santo stefano Giorno feriale inverno Inveron giorno festivo lunedì martedì mercoledì Lundì martedì marcordì Adesso Da poco tempo Da molto tempo giovedì Giovedì venerdi sabato domenica Venardì sabot Doménica gennaio febbraio marzo Znär farvär Märs aprile Avril maggio giugno luglio Mag’ Zuggn Lujj agosto settembre ottobre novembre dicembre Agosst Setémbor otobbor Nevémbor Dzémbor San Stévon Gioron feriäl gior’n in fra la stmana Gioron festiv gior’n ‘d fésta Da poch témp Da bombén ‘d témp Da un sach ‘d témp Fra poco Tra poch A moménti In anticipo In anticcip In ritardo In ritärd Qualche volta Cuälca volta ‘na cuälca volta Sempre Sémpor Mai mäi Spesso Spèss De spèss Subito Subitt subitta Tempo fa Témp fa Per poco tempo Par poch témp Per molto tempo Par bombén témp P’r un sach ‘d témp Presto prést Tardi tärdi Prima primma Dopo Dop - dopa Che ore sono ? Che ór’è A che ora ? A che óra Fino a quando? Finn a cuand Che giorno è Che giór’n è incón oggi ? Ogni giorno Ogni gióron LOCUZIONI METEOROLOGICHE Afa Caldo Umido stuffgas cäld Ummid Clima clima Freddo Ghiaccio Pioggia frèdd giasa acua Secco sècch Nuvoloso nuvvlóz Sereno srén Vento Temporale Tempo atmosferico Sole vént temporäl Neve néva Nebbia Fumära Sól Grandine Che tempo fa ? Fa bello ? fa brutto ? timpesta Che témp fa? Fa bél, gh’é bél Fa brutt – gh’é brutt Fa caldo fa freddo ? Fa cäld – gh’é cäld Fa frèdd – gh’é frèdd Piove? Pióva? Nevica? Néva? C’è nebbia ? Gh’é la fumära? Gh’é ‘dla fumära? È sereno è nuvoloso ? Gh?é Srén? Gh’é nuvolo? che tempo farà Che témp farà dman domani ? Che témp a gh’sarà dman? quanti gradi ci sono ? Cuant gräd Gh’é? Co’ gh’é ‘d gräd? Nevica? A néva? Néva? C’è nebbia ? Gh’é ‘dla fumära È sereno è nuvoloso ? Gh’é srén? È srén? che tempo farà domani ? quanti gradi ci sono ? Che témp farà dman DAL DIZIONARIO ITALIANO–DIALETTO DI G. CAPACCHI (1992 Artegrafica Silva S.r.l – Parma) —vènto, s.m.: vént; àrja (s.f ); —v. austro, di grecale, libeccio, maestrale, di ponente, di scirocco, di tramontana, vént äd montagna (o: ’d mezdì), guastaléz, äd mär, cremonéz, pjazintén, arzàn, äd tramontana (o: color- néz, äd setentrjón); — molino a v., molén a vént; — torcia a v., torsa da vént; — giacca a v., zachètta da vént; — farsi v., färos vént; — che buon v. ti porta?, che bón vént t’ à portè chi?; s’ alza il v., a s’ lèva su ’l vént; — non tira un alito di v., a n’ gh’ é miga un boff d’ arja; —v. forte, a tira un vént gajärd CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 2^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri) LE CONSONANTI b, d, f, gn, p,r, t, u, v si pronunciano come nell’italiano La «c» italiana, davanti ad «e» e «i», ha suono palatale sorda come nell’italiano “cera” ,”cipria” La «c» ha suono velare sorda davanti ad “a”, “o”, “u”, ; come nell’italiano “cane”, collo”,“cubo” La «c» italiana, davanti ad «e» e «i», in inizio di parola, si è a volte trasformata in «s» es. sercär (cercare) es. sivètta (civetta) «ch» in italiano, nel dialetto diventa «c» dolce: es. céza (chiesa) «ch» in dialetto, nei finali di parola con c dura, mantiene il ch: es. toch (pezzo) La «c», in dialetto, nei finali di parola con c dolce diventa: «c’» Es. Oc’ (occhio) La “g” italiana davanti ad “e” e “i” tende a dare “s” dolce o sonora e nella grafia dialettale viene resa con la “z” (es. “zardén”-giardino), znòc’ (ginocchio), es. zlè (gelato) La «g», in dialetto, nei finali di parola con g dolce diventa: «g’» es. mag’ (maggio) «gh» in italiano, nel dialetto diventa «g» dolce: es. gianda (ghianda) «gh» in dialetto nei finali di parola («g» dura) si usa es. fagh (faccio) La «p» tra due vocali si trasforma in «v» es. Savór (sapore) es. Lòvv (lupo) La «s» dolce, nel dialetto, viene resa usando la usata “z” : es. róza (rosa) - déz (dieci) - mézdì (mezzodì) La «z» tra due vocali (in italiano) si traduce con la «s» aspra: es. asjón (azione) rasa (razza) La «z» dell’italiano di “razza”, “tazza”, “ragazza”, ecc. viene resa con la “s” aspra o sorda: “rasa”, “tasa”, “ragasa”. Raddoppio della consonante finale: quando si vuole indicare la pronuncia rapida di una vocale, si ricorre al raddoppio delle consonati. Esempio: “j àn ditt”- “hanno detto”, indica la pronuncia rapida della “i” mentre la grafia “co dit?”- “cosa dici?”, è un esempio di pronuncia lenta della “i”. Altro esempio è “pòss”- “pozzo” distinto da “pòs”- “posso” e ”pòz” (poso). Es. pèss (pesce) distinto da pés (peggio). Es. mèss (messo) distinto da méz (mese o mezzo). NESSI CONSONANTICI «gl» e «sc» sono nessi consonantici che mancano nel dialetto. Fa eccezione l’articolo determinativo femminile plurale davanti a vocale: es. gli óngi (le unghie) «gl» spesso diventa «j»: es. Paja (paglia) Per «sc» si usa la forma «s’c» es. s’ciop (schioppo) es. viss’c (vischio) VALIDITÀ DELLE REGOLE Mentre il dizionario Italiano-Parmigiano del Capacchi è soprattutto dedicato al dialetto di Parma pur contenendo vari lemmi di dialetto campagnolo (DC), di montagna (DM) e della Bassa (DB), per contro le regole sulla grafia sono utilizzabili per i vari dialetti della nostra Provincia come si evince dall’esempio che segue che vuole dimostrare come le regole di grafia, correttamente applicate, permettono di scrivere frasi uguali tra loro nei lemmi e nel significato ma appartenenti a dialetti diversi tra loro rispettando la diversità delle pronunce stesse. In questo esempio tra il dialetto di città e uno di provincia e cioè tra il dialetto di Parma e quello di Collecchio. Ecco la frase: “vieni con me che andiamo a prendere un caffè” Ovviamente è necessario conoscere e applicare le seguenti regole di grafia del Capacchi che recitano: a) L “o” e la “e” quando hanno pronuncia aperta come nella “o” di orto e nella “e” di erba, non si accentano. b) Viceversa quando hanno suono chiuso come la “o” di ora e la “e” di chiesa si accentano (con accento acuto). c) Inoltre occorre applicare la regola del raddoppio della consonante quando è necessario rendere veloce il suono della vocale precedente. La frase di cui sopra, nel dialetto di città, si traduce: “véna con mi ch’andemma a tór un cafè” In questa frase la “e” di véna ha velocità di pronuncia normale e suono chiuso per cui si pone l’accento acuto sulla “e”. Invece è rapida ( e aperta) la pronuncia della “e” di andemma per cui si raddoppia la consonante mettendo due “m” mentre l’accento sulla “e” non è indispensabile ma può risultare utile per chi legge. In questo caso l’accento da apporre sarebbe quello grave. Nella parola cafè la “e” ha suono aperto e si pone accento grave. Ma nel dialetto di Collecchio andrebbe tradotta come segue: “vénna con a mi ch’andémma a tór un café” In questo caso la “e” di vénna ha suono chiuso (vuole accento acuto) e pronuncia rapida che richiede il raddoppio della “n”. Per la parola andémma vale quanto detto prima ma la “e” richiede accento acuto e anche in questo caso serve il raddoppio della “m”. La “e” della parola café ha suono chiuso e richiede l’accento acuto. In entrambi i casi la “o” di tór ha suono chiuso e richiede l’accento acuto. GLOSSARI FORMULE COLLOQUIALI E DI CORTESIA Si No Si per favore No grazie Per favore piacere Grazie Grazie tante Prego Prego (da pregare) Mi scusi Mi dispiace Si accomodi Permesso Entri Passi pure Non si preoccupi SALUTI AUGURI E CONGRATULAZI ONI si si Si, par pjäzér No grasja Par pjäzér (a m’al fät par pjäzér?) Ajut, (tórna a to vantag’ Grasja Al so anca mi (ironico) Prego Mi a prégh Ch’al me scuza Ch’al scuza al desturob A m’ dipjäz A mi n’ dipjäz A m’nin sa mäl Ch’al véna déntor Gni pur déntor Ch’al s’acòmda Parmés. Lecit, beneplacit A m’ són parmiss Ch’al véna dentor Arrivederci Ciao Buon viaggio Buona fortuna A presto arveddros Ta bén Bón vjaz Bón’na fortän’na A prést A più tardi A pu tärdi A stasera A stasira A domani A dman Tanti auguri I miei complimenti Tant’ avgurri O anche tant avguri I me compolimént Buon natale Bón Nadäl Felice anno nuovo Ch’al pasa pur Ch’al ne s’ preocupa miga Buona pasqua Come stà ? Bón primm ädl’ an’ An nóv Bon’na Pascua Cme stala? Potrei? Potrebbe ? A ne gh’l’ò gnan’ in ménta Podrisja? Posja? (Posja o n’ posja miga?) Podrissol? DOMANDE ED INTERROGATI VI DI USO COMUNE Che cosa significa? Coza vól dir? Co’ vól dir? Che cosa ? Coza? Che cosa ha detto ? Co’ al ditt? Chi? Chi è ? Come ? Bene e lei ? Bén e le? Bene Non c’è male bén An gh’é gnan’ mäl ESPRESSIONI DI APPROVAZ. APPREZZAM. Certamente Perché? Chi? Chi él? In che manéra cme Indò él Dovva? Indovva? parchè Qual è ? Quando ? Cuäl éla? Cuand? D’accordo Con molto piacere Quanto ? Cuant? Che bello Si può? A s’ pól? È mäi posibbil? Bravo Bón bombén Un diznär da sjor D’acordi Con gusst Con tant piazér Che bél Cme l’é bél bravo Vero Giusto Sono contento Sono stato bene Lei ha ragione L’é véra? giusst A són contént A són stè bén Lu al gh’à ragión Mi piace mi è piaciuto. Al me piäz Al m’è piazù Dov’è? Dove ? Volentieri Sicur Äd sicur vlontéra Bene Benissimo bén Bén Bombén Ottimo NUMERI Articolo inderminato 4 5 Un (un bräv omm) ‘n (La gh’à ‘n an’) ‘na stmana ‘d témp vón (a vón a vón) vunna (l’é vunna ch’la la sa longa) Do man) Du pe du (du e basta) dòvv (vunna dil dòvv) pronome. Tri (al tri ‘d spädi) Tri ommi Tre donni Trejj (stil trejj donni) Cuator (in du e du cuator) sinch 6 séz 7 sètt 8 ot 9 10 nóv déz 11 12 vundoz Doddoz (i dodd’z apostoj Trenta…. Quaranta … Cinquanta … Sessanta … Settanta… . Ottanta…. Novanta … cento duecento 13 treddoz mille 14 cuatordoz 1 2 3 15 cuindoz 16 seddoz 17 darsètt 18 dezdòt 19 Deznóv 20 venti Vint trénta cuaranta sincuanta s‘santa stanta otanta novanta sént Dozént dozetmìlla mill agg. mill franch (von su milla) pron. (Da milla e pu ani) ESPRESSIONI DAL DIZIONARIO ITALIANO–DIALETTO DI G. CAPACCHI augùrio, s.m.: avgùrri; al pi. e come inter. anche: avgùri!; far gli auguri di buone feste, fär j avgurri ’d bón’ni fésti; con tanti auguri.! con tant avgurri ! è un uccellaccio di mal augurio, 1’ é ’n ozlàs dal mäl avgurri (si dice anche di chi è considerato jettatore). auguràbile, agg.: da avgurär, da deziderär. auguràre del male ad altri, deziderär dal mäl a chj ätor; questo non 1’ augurerei proprio a nessuno, cosst a n’ l’ avgurarè gnanca a un can; me lo auguro!, a m’ l’ avgur! al spér propja!, mo Dio vója!; mi auguro di sbagliare, a m’ avgur äd zbaljärom, Dio vója ch’ a m' daga äd bocca ala lénngua; a. le buone feste, där il bón’ni fésti (vale anche per «dare la mancia»), CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 3^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispensa a cura di g. Mezzadri) ENA, -INA, -ONA , -UNA Le parole italiane che finiscono in: -ena, -ina, -ona, -una Si traducono con: -en’na, -ón’na: -ena: srén’na (serena) -ona: patón’na (pattona) -ina: cantén’na (cantina) -una: fortón’na (fortuna) Il Bocchialini commenta che: «La grafia con apostrofo intermedio è suggerita dall’effettivo distacco di pronuncia tra la prima parte della parola e la sillaba finale –na; TRASFORMAZIONE DELLE CONSONANTI DOPPIE A differenza dei casi precedenti, nei quali una consonante «n» viene raddoppiata, il dialetto tende a trasformare le consonanti doppie in semplici. esempi: fisär (fissare); giasa (ghiaccio); guéra (guerra); pasjón (passione); rotura (rottura); sabja (sabbia); torón (torrone) METATESI (Trasposizione di suoni all’interno di una parola) es. cardù (creduto; cräva (capra); frär (fabbro); gionvot (giovanotto); plugga (pulce); préda (pietra). NESSI CONSONANTICI INTERESSANTI bic’rén (bicchierino) - cridär (piangere) - bzär (pesare) -fnissni (finiscono?) ciac’ri (chiacchiere) - bòcla (orecchino oppure addéntala la scelta del significato si desume dal contesto. pchè (peccato) - zgranfgnär (graffiare) - mèttogla (metticela) - vciära (vecchiaia) mèttla (mettila) - psär (rappezzare) «gl» con «g» palatale: es. proteg’la (proteggila) «gl» con «g» gutturale: es. fógla (affogala) SEMPLIFICAZIONE DELLA SCRITTURA Il dialetto è una lingua e come tale è una lingua vive che si evolve. Vediamo l’evoluzione di alcune parole: pader pädor; vundez vundoz; sinchev sincov; lavour lavór cuseina cuzén’na; spoeuza spóza. Molti autori, come anche il Pezzani, hanno scritto, ad esempio : “gioren”, “foren” come si usava alla loro epoca. Da tempo però la pronuncia era “gioron”, “foron”. Pertanto bene ha fatto il Capacchi ad usare la grafia corrispondente alla pronuncia. Anche noi nella stesura del “Lunario Parmigiano” dopo i primi numeri, ci siamo adeguati alla grafia del Capacchi. Tendenza alla caduta di molte vocali finali (specie nei nomi maschili) es.: témp (tempo); cór (cuore); bräv (bravo); fär (fare). GLOSSARIO Non sono d’accordo A ‘n són miga Sembra un patto d’acordi fatto Pati (al pär un pati fat) È sbagliato L’é sbaljè L’é inezat Per niente Par njént (Gnént) Par njénta anche (Gnénta) Che sfortuna Che sfortón’na, zlippa, scalòggna Aspettare Aspetär sptär Attraversare Sono arrabbiato A són rabì A són inchjét A gh’ò présja Glielo compri? Travarsär pasär Bévor Bev’r a pisarota (garganella) Cambjär Mudär baratär Gh’al tót? A gh’ò paura A gh’ò ‘na stricca A gh’ò sonn’ A cród dala sonn’ Pensär –ideär – ésor d’äviz lavare Ho fretta Ho paura di paura Ho sonno pensare Bere Cambiare Dormire pagare potere Dormir - Polegiär Slofen - sloffer Lavär lavär zo ardinsär Pagär - zganciär Co’ gf’ät dè Podér sicura ch’a pos Magara podissja DAL DIZIONARIO CAPACCHI MANGIARE magnär da mägor; m. in bianco, magnär in bjanch; m. poco e male, magnär da malè; m. con regolarità, stär a past; — mangia continuamente, al ne fa che magnär, a gh’ tén’ pu j oc’ che la pansa; m. alle spalle di altri, magnär con la tésta in-t-al sach; m. la foglia (accorgersi di q.cosa), magnär la fója, nazär al stras, mangerebbe qualsiasi cosa, al magnariss de tutt, 1’é un Barnardén-bón-stòmmogh (che vale anche per «becco contento»); mangiarsi il fegato (fig. per «rodersi»), rozgär’s al fìddogh, magnär ’dla féla; — mangiarsi le dita (pentirsi amaramente), magnär’s i did; mangiato dalla ruggine (roso), rozghè dala ruzzna; vinca la Spagna, purché si mangi, vénsa la Fransa, vénsa la Spagna, basta ch’ a s’ magna ESERCIZIO DI LETTURA I BAGOLO’N (Da Apén’na da biasär) - Al Nilo l’é grand cme la Pärma. Mi a l’ò pasè a nód e m’è córs adrè trénta cocodrìll mo an gh’ äva miga paura parchè al cocodrìll l’é cme ‘n ringol e al gh’à pavura dal cioch. Al Nilo al nasa dal lago Tana, ch’l’é lóngh di chilometro e po ’l vén a cascär in Egitt. Al cocodrìll al fà ‘d j óv chi päron di mlón e il sarpént pitón, al gh’ ja và a bévor. Anca la jena la béva j óv. La lezione, venne interrotta da Carlón: - Renato, se tutti i bévon j’óv alóra a nin nasa miga ‘d cocodrìll. - Ragas siv co’ v’ diggh? Andiggh a vèddor vojätor cme i fan a nasor! Renato è un po’ offeso dall’incredulità dei suoi amici, ma continua ugualmente: - A Nairobi s’era bél. A gh’äva un casco ch’a paräva dent’r in-t-‘n armäri. L’é ste li ch’ò catè mojera, ‘na donna bassa di capelli e alta di talloni. Ad Addis Abeba Varesi passò delle belle giornate. Era giovane ed era in forma smagliante. - ‘Na giornäda a séra in citè, a m’ vèdd davanti du león sedù in-t-la sträda e mi va a tór ‘na rejj (rete) e cuchia tutt du. J éron masc’ e fèmna. - ‘Na giornäda äva apén’na spianè ‘l casco cuand è rivè un aeroplàn in picchiata e con al spostamént d’aria a m’è ‘ndè al sòttgola taca l’ombrìggol! Arrivò poi anche la prigionia che durò sei anni. Renato ricorda la propaganda degli alleati: - Italiani arrendetevi, dateci la via della capitale e non vi sarà torto un capello. I vostri pieni poderi vi saranno lasciati. - Poderi? Renato co’ sérot in sit? (sit è un podere agricolo) lo beccò qualcuno ma lui continuò: - Vi hanno promesso i rifornimenti dal Nord e dall’Ovest ma non vi sono giunti. Cme j ò sentì acsì j ò ditt, co’ m’àni tot, pr’un bolgné d’la ferovìa? E m’són aréz. I m’an ciapè dal ‘42, naitinfortitu. Durante la prigionia gli inglesi organizzavano il lungo tempo libero dei prigionieri. Una delle cose che più aveva successo erano gli incontri di pugilato. Renato era giovane e forte e quando fu sfidato da un pugile di Forlì accettò tranquillamente anche perché, il Forlivese, gli aveva detto: - Renato facciamo solo un’esibizione. - Finna a l’otäva ripréza an gh’é gnàn’ stè mäl, mo dopa o ciapè ‘na nuvvla’d puggn. Al m’a dè còlli ‘d jopé. Ò ciapè tant puggn ch’a m’éra gnu do orecci ch’ an ‘n ghe vdäva pu. A gh’äva un näz ch’al paräva ‘na tomaca nostrana e j oc j éron gnu picén cme coj dil galén’ni. A m’ paräva d’aver fat n’ avtopsia. A m’ són desdè a l’ospedäl, che po ch’són stè quaranta dì. Al pugil al m'è gnu a catär e ‘l m’ à ditt: « Varesi quando sei guarito facciamo un'altra esibizione». « Co è stè? Ti ‘t si matt, a gh'ò ditt. No cära al me lòmmo a gh'é ottmila parzonér va a fär dal bén a n' ätor, va la! ». Esercizio di traduzione Bruno Lanfranchi, il miglior attore dialettale vivente è nato a Parma, in via San Giacomo, attualmente via Rodolfo Tanzi, nel 1917 Il padre, anch’esso attore fin dal lontano 1915, aveva una compagnia Filodrammatica, che dalla fine della prima guerra mondiale, prese il nome di «Filippo Corridoni» e della quale fece parte anche Guido Picelli. La madre, Anita Zerbini, sorella del poeta Alfredo, gestiva un’osteria, in Borgo San Giacomo al n. 12, chiamata affettuosamente «Giamaica». In quest’osteria non si faceva cucina ed era frequentata oltre che da molti giovani, anche da anziani. I vecchi andavano per gustare il buon lambrusco che ogni anno veniva pigiato con i piedi, come si usava allora, ed i giovani per fare partite a briscola durante la sera e a giocare alla «Rana» durante il giorno nell’attigua corte. Bruno Lanfranchi, al pu bräv ‘d j atór djaletäl ancorra al mónd l’é nasù a Pärma in via San Giacomo (incó via Rodolfo Tansi), in-t-al 1917. So pädor, atór anca lu fin dal lontàn 1915, al gh’äva ‘na compagnia filodramatica, che dala fén ‘dla primma guéra mondiäla, i gh’àn miss a nomm «Filippo Corridoni», e anca Guido Picéli a gh’nin fäva pärta. So mädra, Anita Zerbini, soréla d’al poeta Alfredo, la mandäva avanti ‘n ostaria, in borogh san Giacom al 12, che j afesionè i ciamävon Giamaica. In sté ostaria in fävon miga da magnär e gh’andäva bombén di giovvon e anca ‘d j ansjàn. I vecc’ i gh’andävon par gustär un bón lanbrussch che tutt j ani al gnäva mostè coj pe, cme s’ fäva ‘na volta, e i giovvon par zugär a briscola äd sira e zugär a Rana durant al dì in-t-la córta li ataca. CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 4^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri) a) aggettivi qualificativi Formazione del femminile: si aggiunge di norma la desinenza «-a» come per i sostantivi. Bél diventa béla - Sjor diventa sjora fanno eccezione: 1)participi passati usati come aggettivi: 1) es. varnizè (verniciato) varnizäda es. bvù (bevuto) bvuda, es. véstì (vestito) véstida 2) altri casi es. lärogh (largo) lärga es. férom (fermo) férma es. giòvvon (giovane) giòvvna (o gionnva) Formazione del plurale: come per i sostantivi gli aggettivi maschili restano invariati al plurale:es. brutt = brutto o brutti fanno eccezione gli aggettivi terminanti in: «-el»: es. bél, béj gli aggettivi femminili cambiano la «-a» in «-i»: es. béla, béli – furba, furbi superlativo assoluto: si ottiene aggiungendo all’aggettivo l’avverbio «bombén» (molto) es. bellissimo bél bombén in dialetto si ricorre spesso, per indicare una qualità superlativa, a modi di dire, a metafore e similitudini iperboliche del tipo: ält cme la tòrra dal dom – antigh cme l’ärca ‘d noè - dóls cme la méla – fort cme ‘l trón – giòvvon cme l’acua ecc b) Aggettivi possessivi a differenza dell’italiano alcuni aggettivi possessivi si differenziano dai corrispondenti pronomi possessivi (in particolare al femminile) al me libbor (aggettivo) é pu bél al me (pronome) maschile la me borsa (aggettivo): é pu bél la mèjja (pronome) femminile al to capél (aggettivo) indo’ él al to? (o tòvv) (pr.) femminile: tòvv al so mobil (aggettivo) l’è pu bél al so (o sòvv) (pr.) masch. la so scrana (agg.: l’é pu béla la sòvva (pr.) i so parént (aggettivo) j én i sòvv (pr.) il so soréli (agg.) j én il sòvvi (pr.) c) Aggettivi dimostrativi Questo ragazzo:«Sté ragas» oppure «Coll ragas chi» Codesti ragazzi: «Chi ragas lì» Quelle ragazze: «Chil ragasi là» d) Aggettivi indefiniti Tutto «Tutt» Nessuno «Nisón» Femminile: «Nisùnna» Qualche «Quälch» Femminile: «Quälca» Altro «Ätor» Femminile: «Ätra» o «Ältra» e) Aggettivi numerati Uno «Vón» Femminile «Vùnna» Due «Du» Femm. «Do» (pronome «Dòvv») Tre «Tri» Femm. «Tre» (Pronome «Trèjj») Quattro «Quator» Cinque «Sinch» (Pron. «Sincov») Doppio «Dòppi» Triplo «Tre volti tant» ecc. a) pronomi personali per soggetto o complementi: io «mi» noi «nojätor» o «nuätor» (femm. «nójätri» o anche «nójältri») tu «ti» voi vojätor» o «vuätor» (femm. «vòjätri» o anche «vójältri»)) egli «lu» (femm. «le») essi «lór» b) forma pleonastica (aggiuntiva, sovrabbondante, proclitica cioè che precede il verbo): io «a» mi a fagh tu «at» at sént njént «’t» se preceduto da vocale ti ‘t diz «t’» davanti a vocale ti t’äv sonn egli «al» quand al riva «‘l» se preceduto da vocale lu ‘l diz ella «la» le la diz «l’» se seguita da vocale le l’arvirà l’uss noi «a» nojätor a dzèmma voi «a» vojätor a dzi essi, esse «i» lór i dizon «j» lór j éron c) forma impersonale: piove : a pióva d) forma interrogativa il pronome è in posizione enclitica, cioè si unisce alla parola che precede. mangio io? = magnja? mangi tu? = magnot? mangia egli? = magnol? mangia ella? = magn’la? mangiamo noi?=magnèmja? mangiate voi?= magniv? mangiano essi?=magn’ni? GLOSSARIO attardàre attaccapànni attentarsi atént attorcigliaménto Boccone appetitóso appendici tgnir in témp omètt atintäros, avér’gh al bècch inorcè ravojamént 1’ é un bcón giott pendissi aràchide Andare a letto Nisolén’ni mericani andär a pajón applaudire Ciocär il man fär bévor (där da bévor) in pansón propinàre pròno j os giot sono le ossa "ghiotte" erano le "appendici" del contratto di mzzadria che prevedevano le ragalie in uova, capponi ecc. o sgagnarabja (Scagett ? a Reggio) Bruzär al pajón (mancare un appuntamento) biliett ciocadór sono i biglietti dati gratis a persone che devono applaudire (claque) GLOSSARIO Estrapolazioni dal dizionario ITALIANO-DIALETTO di Guglielmo Capacchi (1992 Artegrafica Silva S.r.l – Parma) aspettàre, v.tr.: a) [a]spetär, [a]sptär (in tutte le accez.), b) asptäros, spetäros (prevedere per sé). — A. una notizia, sptär ’na nova (o.- ’na notìssja); — a. con ansia, sptär in ansjetè, an veddor 1’ óra, si fa a., 1’ amico!, al s’ fa deziderär, al sosi!; — be’, che cosa aspetti?, ebén, co’ spétot?, spétot ancorra ’n ätor po’?; — sì, hai voglia, di a.!, a te gh’ n è acsì ’sè, da sptär!, a. l’occasione propizia, sptär al moment bón, spetär la gata in-t-al sintér; che cosa ti aspettavi mai da una canaglia simile?, co’ te spetävot mäi da ’n brutt omm compàgn?; — chi la fa, 1’ aspetti, chi tóz in gir al sop, ch’ al guärda d’ andär dritt (Prov.), chi semmna i spén, pov’r a lu s’ al va in scapén (Prov.); Proverbi educativi Le mamme, un tempo, utilizzavano spesso la saggezza dei proverbi per educare i figli. Mia madre, per l’educazione di noi quattro figli e per allevarci "a l'onor däl mond" faceva ricorso al bagaglio di valori che aveva assorbito in famiglia ma anche, spesso, ai vecchi detti popolari. Quando facevamo arrabbiare ci diceva: "Brut rospas, Dio 'l voja ch'insantì!" (Rospas è un grosso rospo). Nei momenti difficili, e Dio sa quanti ne ha avuti, non si perdeva d'animo; il suo motto era: "Providensa provedarà". Durante la guerra aveva anche coniato una preghiera adeguata alle circostanze: "Sgnór, jutiss a l'ingrosa che a l'imnuda an fì pu vóra". (Aiutateci "all'ingrosso" che "al minuto" non c'è più tempo). Per educarci al rispetto del cibo e a non sprecare ci diceva: "Al Sgnór l'é zmontè da caval par tór su 'na briza äd pan". (Il Signore è sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane). Per inculcarci la generosità anche verso gli altri diceva: "Tutti il bòcchi j en soréli, meno che còlla dal foron". (Tutte le bocche sono sorelle, meno quella del forno). Quando, ad esempio, facevamo fatica a svegliarci diceva: "Ala sira león, a la matén'na cojón." Per dire che bisogna avere pazienza diceva: “Al Sgnór al ne päga miga tutt i sabot !” (il Signore non paga tutti i sabati) PROVERBI "AMOROSI" Sono parecchi i detti che esorcizzano con l'ironia la vecchiaia e i suoi inconvenienti "amorosi". "Pu cressa j ani, pu cala 'l morbén". (La voglia). "Cuand al cul al dvénta frusst, i Pater Noster i dvénton giusst". "Cuand al cul l'impasissa, l'alma l'insantissa". "Cuand la vitta l'é frussta, la tésta la s’ giussta". ESERCIZIO DI LETTURA La nostra parlata Vunna dil cozi pu importanti da diféndor e divulgär l’é al nostor djalètt che, sól par comditè, al ciamèmma djalètt. In realtè la nostra parläda l’é ‘na lénngua con tutt al valór äd ‘na lénngua. Mo miga ‘na lénngua basta ch’sia. L’é la lénngua ch’a s’dovrisson tgnir cära cme a s’tgèmma cär i nostor genitór parchè j én i nostor. L’é ‘na lénngua con ‘na storja vécia ‘d domilla ani, cla gh’à ‘na leteratura, di copión teaträl, e un gran patrimonni äd proverbi, mód ‘äd dir e tradisjón. L’é la lénngua cla parmetäva ala génta äd parläros e capiros in tutti il so necesitè. Intervista ad una parmigiana oltretorrentina “A mi coll ch’a m’dà fastiddi, in-t-la génta, l’é che cuand i perlon äd l’Oltretorente pära chi nominon ’na tribù, ’dla gintära. Inveci, anca in-t-i borógh pu brutt, cme borógh di Cara e borógh di Minè, gh’éra dill brävi génti! Gh’éra anca di mascalsón, dill génti matariäli, di ’nalfabeto mo ’st’äv bizoggna d‘un bcón ’d pan i t’al dävón e ’s t’äv bizoggna d’un piazér i t’nin fävon du. Dédlà da l’acua, inveci, gh’éra tutti il ca malfamädi; in borógh Marmiról, incóntra al conservatori, borógh Tas, borógh S.Silvestor, borógh Vala, bórgh ‘dla morta, zo da Sträda S.Ana, borógh di Stalatich, bórgh Onorè e via discorendo. Dedsà da l’acua a gh’n’éra gnan vunna!, dzigol a cojj ch’a gh’l’à con l’Oltretorente”. Aggiunge: “Anticlericäl cme j éron in borógh di Cara, gh’éra ’na niccia, con ’na Madonén’na, la Madonna dal Coléro, ebén a n‘ l’à mäj tocäda nisón, ansi, l’éra sémpor bén in ordin”. Testi da tradurre PARMA NOSTRA Lo Statuto-Atto costitutivo infatti, redatto presso lo Studio Notarile Andrea Borri il 15 maggio1979, recita: “Parma Nostra” è una Associazione apolitica e aconfessionale a carattere culturale, che si pone l’obiettivo del recupero e della salvaguardia di tutto Quanto si può catalogare come “civiltà: quindi, in parmigiana”: quindi, interventi nel campo del dialetto, della storia, dell’arte, della letteratura, delle tradizioni, della musica, del canto, e perché no? Della buona cucina della nostra città; quindi il recupero di quanto è già scomparso o va scomparendo a causa dell’introduzione di altri dialetti e di diversi modi di vivere (sia della nostra città che di altre province o regioni o stati) e la valorizzazione di quanto è motivo di orgoglio per ogni parmigiano veramente tale, al fine di riproporlo alle nuove generazioni come fatto culturale strettamente collegato al presente. Per la redazione di questa pubblicazione abbiamo eseguito un lavoro di recupero e selezione di quanto di più interessante è stato pubblicato in questi anni. Il lettore troverà effemeridi del passato sia prossimo che lontano. Dai Farnese al secondo dopoguerra e ai giorni nostri. Sono pillole di storia già di per se interessanti ma in grado, ce lo auguriamo, di stimolare anche a saperne di più. Troverà aneddoti sia spiritosi che interessanti. Tutti comunque in grado di presentare aspetti non banali del carattere della nostra città e dei suoi abitanti. Troverà i proverbi e i modi di dire tanto cari ai nostri padri e molti dei quali ancora vivi ed utilizzati. Veri scrigni di arguzia e di saggezza spesso utilizzati anche dalle mamme, a scopo educativo. Troverà poesie di diversi autori parmigiani scelte perché in grado di disvelare i migliori sentimenti della nostra gente. Troverà le battute di personaggi della nostra città. Battute ironiche, spiritose e mai volgari. CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 5^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. mezzadri) PREPOSIZIONE SEMPLICE Di si traduce in vari modi: äd: es. äd gèss (di gesso); ‘d se preceduta da vocale; es. ‘d cimént (di cemento); volta ‘d cimént d’ se seguita da vocale: es. do man d’un scariolant (due mani di uno scariolante). A = a come in italiano. Da = da come in italiano ma d’ davanti a vocale: es. partir d’in ca. In = in come in italiano. con = con come in italiano. Per = par, che diventa p’r davanti a vocale: es. par gnir e p’r andär (per venire e per andare). Fra = fra come in italiano. Tra = tra come in italiano. Nota: nel dialetto manca la preposizione su, usata invece negli avverbi. PREPOSIZIONE ARTICOLATA Note: Per maggior semplicità ci si è limitati alle forme più usate trascurando quelle complesse o desuete. Le preposizioni semplici e gli articoli, dall’unione dei quali si formano le preposizioni articolate, sono indicate nel seguente modo: in grassetto il dialetto e tra parentesi l’italiano. Maschile singolare Äd (di) + al (il, lo) = dal (del): es. dam dal pan (dammi del pane). A (a) + al (il, lo) = al (al): es. al fornär (al fornaio). Da (da) + al (il, lo) = dal (dal, dallo): es. dal nonón ( dal nonno); dal zio (dallo zio). In (in) + al (il, lo) = in-t-al (nel): es. in-t-al camp (nel campo). Con (con) + al (il, lo) = cól (con il, con lo): es. lat cól sùccor (latte con lo zucchero): cól capél (con il cappello). Par (per) + al (il, lo) = p’r al (per il): es. p’r al viäl (per il viale). PREPOSIZIONE ARTICOLATA (continua) Femminile plurale Äd (di) + il, ilj (le) = dil, dilj (delle): gh’é dil formighi (ci sono delle formiche); gh’é dilj ochi (ci sono delle oche). A (a) + il, ilj (le) = alj (alle): es. alj äli (alle ali). Da (da) + il, ilj (le) = dal, dalj (dalle): es. dal sóri (dalle suore); dalj ongi (dalle unghie). In (in) + il, ilj (le) = int il, int ilj (nelle): es. int il bräghi (nelle braghe); int ilj ongi (nelle unghie). Con (con) + il, ilj (le) = col, colj (con): es. col moschi (con le mosche); colj olivi (colle olive). Par (per) + il, ilj (le) = p’r il (per): es. i libbor pr’il scóli ( i libri per le scuole). Int derivato dal latino intus (dentro), oppure in-t PARTICELLE PRONOMINALI singolare 1^ persona (mi) «me» egli mi vede: al me vèdda - lei mi guarda: la m’guärda 2^ persona (ti) «te» o «t’» egli ti dirà: al te dirà - ella ti guarda: la t’guärda 3^ persona (lui) «lu» egli gli dice: lu al ghe diz 3^ persona (la) «la» ella le fa solletico: la gh’fa blèddogh la vedrai: a t’ la vedrè Egli la vede: lu al la vèdda Egli lo vede: lu l’al vèdda (maschile) (lo) «al»: complemento oggetto lo vedrai: a t’ al vedrè plurale (ci) «se» egli ci dice: al se diz - egli ci vede al s’vèdda (vi) «ve» o «v’» egli vi guarda: al ve guärda - ella vi invidia: la v’invidia (li, le) «ja»: complemento oggetto essi li sentono: lór ja sénton (loro) «ghe» o «gh’»: compl. di termine es:egli dice loro: al ghe diz io voglio loro bene: a gh’vój bén riflessivo: (si) «se» o «s’» egli si sposta: al se sposta egli si inginocchia: al s’inznoccia Nota: se le particelle seguono il verbo, si modificano: es. guardami = guärdom; guardalo = guärdol; svegliati = dèzzdot. Espressioni dal dizionario ITALIANO-PARMIGIANO di G.Capacchi (ed. Artegrafica Silva S.r.l. Parma) Comprèndere v.tr.: a) contgnir, inclùddor, brasär, tór déntor, ciapär déntor (includere in un novero); b) capir, inténdor (capire); penetrar (capire a fondo); fig (scusare, giustificare): capir, compatir, scuzär, pardonär. — Il prezzo non comprende le bevande, al prèsi al n’ includda miga il bvandi (o: il bevandi); — il libro contiene diverse illustrazioni, al libbor al contén diversi figuri; — il Ducato comprendeva anche la zona di Succiso, al Ducät al ciapäva déntor anca al teritori de S’ciz; — comprenda chi può, intènda chi pól; — questo posso anche comprenderlo, cosst al pos anca capir (o: compatir, scuzär, pardonär). MODI DI DIRE Andar a tävla a són ‘d campanén ( andare a tavola quando tutto è pronto) Andär col färli ( andare con le stampelle) Andär ed so pe ( camminare secondo un piano stabilito) Andär fóra ‘d carzäda (fare o dire uno sproposito) Andär in bojóza (andare in prigione, carcere) Andär in didéla (andare in punta di piedi) Andärson a la mùtta ( alla chetichella) Andär a pe sospét ( andare in punta di piedi ) Se zlónga la giornäda se scurta la gociäda Alcune parole ormai in disuso: Abbaino Luzròn - Acciuga = anciovva - asparagi = sparoz - Albicocca = Muliäga Arcobaleno = arcbalèstor - Barbabietole = bedrèva Carrucola = sidéla - girino = testen botol Gnocchi - sgranfgnón - grattugia = razóra - tartaruga = bisa scudlära Quarto di vino = fojètta - Strofinaccio = boras - scoiattolo = sghirag’ - brace tizzone = borniza.. Còrga = custodia del pollame - Misóra = piccola falce a mezza luna - gavél = Pala per il focolare. Mansarén = scopino di saggina - triggn = vaso di terra cotta per i grassi. - zov = giogo per buoi. Triblón = strumento per battere il grano nell’aia. Poesia-canzone Fausto Bertozzi, a mio giudizio, il maggior poeta dialettale vivente, mi ha permesso di pubblicare la bella poesia-canzone Il campani äd Pärma. Quando gli ho chiesto il permesso, leggendo questo preambolo, mi ha detto: - Lasa perdor ‘il maggior poeta vivente’ che chisà s’l’é vera. Coll ch’a m’piäz l’é soltant ‘vivente’! Questa poesia vuole essere un inno alla fratellanza e alla concordia. La poesia, che è già molto bella di suo, maggiormente la diventa, quando si ascolta in musica. Infatti, è stata musicata dal maestro Mario Fulgoni. Felice da Parma la utilizzava come sigla della sua trasmissione e, più di recente, è stata inserita nel repertorio del coro diretto dalla maestra Beniamina Carretta. Il Campani äd Pärma di Fausto Bertozzi Da ‘na f’néstra äd la me ca sént rivär tanti matén’ni äd campani un din-don-dan. A comincia il capusén’ni Al so za!, fa Santa Cróza, però incó mi són in fésta: ‘na ragasa la se spóza, l’é za chi cój fjór in tésta. Coza crèddot, veh, putén’na? A gh’ rispónda la ‘Nonsiäda, Miga fär la zgalzarèn’na, che anca mi són bélle alväda! Su putén’ni andì d’acordi cónta (al siv?) sól ésor bón! Campanär zo tutti il cordi! Sälta fora al Campanón. Sarò vécia il me ragasi, mo n’ gh’ò l’äzma ne l’afan. De ‘d chi su mo si pran basi! Sälta su còlla ‘d San Zvan. Sèmma tutti dil campani, parlèmm tutti al stés dialètt, sèmmja o no tutti pramzàni? E a s’ piäz sól parlär bél scètt. Personaggi parmigiani: Giampiero Caffarra Credo che fin dall’antichità gli anziani abbiano sempre avuto nostalgia e rimpianto per i loro tempi. Sicuramente il rimpianto è legato alla loro gioventù e al fatto che amano ricordare le cose belle che hanno vissuto e scordare, se possibile, quelle brutte. Anche noi non più giovani non facciamo eccezione anche perché i motivi di rimpianto ci sono e molto validi. Prima di tutto dall’inizio del dopoguerra in poi le cose erano in continuo miglioramento e soprattutto, c’era la speranza. Il futuro non faceva paura, anzi. Ora invece sappiamo tutti come stanno le cose. Altro motivo di rimpianto è dato dalla perdita di identità e dell’autenticità di quel mondo. Un mondo che si manifestava in particolare attraverso il suo linguaggio autoctono del dialetto, il recupero del quale significherebbe rilanciare una sorta di memoria storica e di una identità culturale che si sta stemperando. Detto questo però, non sarebbe corretto idealizzare troppo il passato a scapito del presente. Almeno per quanto riguarda la sensibilità verso le persone diverse e, in particolare con difetti fisici, faccio mie le considerazioni dell’amico, da tanti anni non più tra noi, Gianpiero Caffarra. Caffarra, era una figura conosciuta in città per essere stato per molti anni alle dipendenze dell’INAIL, impegnato in politica e nel sindacato degli enti locali. Coltivava molti interessi culturali, il dialetto e il teatro parmigiano, la musica lirica e sinfonica e tutto quanto sapeva di parmigianità. Nostalgìa si, ma senza esagerare Riporto le considerazioni di Gianpiero che, a suo tempo, avevo pubblicato dopo di averle tradotte in dialetto come esercizio di lettura. Caffarra al dzäva (diceva) che al rimpjànt par la nostra gioventù e i nostor témp l’à miga da fär scordär i difét ‘dla mentalitè ‘d dachindrè (dei tempi addietro). Gh’éra poca sensibilitè par la génta ch’a gh’äva di difét fisich o dil menomasjón. Tanta génta la ne s’réndäva gnanca cónt dal tutt dal mäl che, magari sénsa vrér (senza volere), i gh’fävon in-t-al mètt’r in rizält i difét. Se, p’r ezémpi, vón l’éra sop (zoppo) facilmént j al ciamävon gambalissa o gamba ‘d lèggn. A chi gh’ mancäva ‘na man o un bras, facilmént i ghé dzävon mónch o monchén. Cuand invéci vón al gh’äva j ociäj (occhiali) al dvintäva cuat’r oc’ (quattro occhi). Chi gh’äva al näz (naso) gros al dvintäva canapja e chi gh’ äva la tésta grosa testón botol. Vón dur d’orècci ch’al ne gh’séntiva miga o poch, i ghé dzävon sórd, cme era sucés a Bruno l’ost ‘d borogh Sorrogh. A un òmm gras i ghé dzävon pansa ‘d dolégh. Mo par lu gh’éra prónt anca codgón o lotgón. P’r i trop mägor gh’éra sól che da sarnir (scegliere); fildura, tridura e via discorendo. Se vón l’éra ròss ‘d cavì j al ciamävon al Ròss e in pu gh’éra al ditt che: al pu bón di ròss l’à butè so pädor in-t-al pòss e ‘l pu cativ al l’à magnè viv. Un guärs (guercio) l’éra bél océn quand l’andäva bén parché gh’éra prónt anca sbrägh d’oc cme vón di parsonàg’ ‘dla poezia ‘d Zarbén, “L’astronomia”. CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 6^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. mezzadri) VERBI AUSILIARI ESSERE PASSATO PROSSIMO PRESENTE mi a són (mi són) ti t‘ sì (ti a t' é - oppure ti t’é) lu l’ é nojätor a sèmma (nojätor sèmma )( vojätor a sì (vojätor sì) lór j én mi a son stè ti t' é stè oppure ti t’ sì stè lu l’ é stè nojätor a sèmma stè (nojätor sèmma stè) vojätor a sì stè (vojätor sì stè) lór j én stè CONDIZIONALE PRES mi a sarè (mi a sarìss) l ti t’ sarìss lu ‘l sarè (lu 'I sarìss)1 nojätor a sarìsson vojätor a sarissov lor i sarisson FUTURO mi a sarò (mi sarò) l ti a t’ sarè (ti t’ sarè) lu al sarà(lu 'l sarà) nojätor a sarèmma (nojätor sarèmma) vojätor a sarì (vojätor sarì) lór i saràn CONDIZIONALE PRES mi séra t ‘t sér lu l’éra nojätor a séron vojätor a sérov lor j éron lu ‘l sarè (lu 'I sarìss)1 lor i sarisson mi a sariss stè ti a t’ sariss stè lu al sariss stè nojätor a sarisson stè vojätor a sarissov stè lór i sariss stè IMPERATIVO NEGATIVO Sta miga ésor cojón Sti miga ésor cojón AVERE PRESENTE PASSATO PROSSIMO mi a gh’ ò (oppure a j’ ò - mi gh’ ò ) ti ‘t gh’ è (ti a t’è) lu al gh’ à (lu ‘l gh’à- lu l’à) nojätor a gh’ èmma ( a j èmma gh’èmma) vojätor a gh’avi (oppure vojätor j avì – anche vojätor a gh’ì) lór i gh’àn (oppure j àn) mi a gh’ ò avu (oppure a j’ ò avu) ti ‘t gh’ è avu (ti a t’è avu) lu al gh’ à avu ( lu l’à avu) nojätor a gh’ èmma avu ( a j èmma avu vojätor a gh’avi avu (oppure vojätor j avì avu – anche vojätor a gh’ì avu lór i gh’àn avu (oppure j àn avu CONDIZIONALE FUTURO mi a gh’ äva (oppure a j’ äva ti ‘t gh’ äv (ti a t’arè) lu al gh’ äva ( lu l’ äva) nojätor a gh’ ävon ( a j ävon ) vojätor a gh’ ävov (vojätor j ävov) lór i gh’ ävon (oppure j ävon) mi a gh’ arò (oppure a j’ arò - mi gh’ arò) ti ‘t gh’ arè (ti a t’arè) lu al gh’ arà (lu ‘l gh’arà- lu l’arà) nojätor a gh’ arèmma ( a j arèmma ) vojätor a gh’arì (oppure vojätor j arì lór i gh’aràn (oppure j àran) CONDIZIONALE mi a gh’ ariss ti ‘t gh’ ariss (ti a t’ gh’ariss) anche lu al gh’ ariss nojätor a gh’ arisson vojätor a gh’ arissov lór i gh’ arisson mi a gh’ ariss avu ti ‘t gh’ ariss avu (ti a t’ gh’ariss avu) lu al gh’ ariss avu nojätor a gh’ arisson avu vojätor a gh’ arissov avu lór i gh’ arisson avu Esempi: mi a gh’ ò di sold mi a j’ ò visst al lädor IMPERATIVO NEGATIVO Sta miga avérogh paura (sta miga avér paura) Sti miga avérogh paura (sti miga avér paura) Alcuni dei VERBI IRREGOLARI di uso più comune: DIRE –FARE -VOLERE PRESENTE mi a diggh (oppure mi diggh) ti t’ diz lu al diz (lu ‘l diz) nojätor a dzemma vojätor a dzi lór i dizon PASSATO PROSSIMO mi a j’ ò ditt ti t’ è ditt lu l’à ditt nojätor emma ditt vojätor ì ditt lór j àn ditt TRAPASSATO PROSSIMO mi äva ditt (mi j äva ditt) CONDIZIONALE PRES mi a diriss (oppure mi diriss) ti t’ diriss lu al diriss nojätor a dirison vojätor a dirisov lór i dirisson CONDIZIONALE PASSATO mi ariss ditt (mi j ariss ditt) CONGIUNTIVO che mi digga CONGIUNTIVO PASSATO che a mi abja dit (che mi apja ditt INFINITO Presente: dir Passato : avér ditt IMPERATIVO NEGATIVO sta miga dir ch’la staga miga dir sti miga dir chi stagon miga dir IMPERFETTO mi a dzäva (oppure mi dzäva) ti te dzäv lu al dzäva nojätor a dzävon vojätor a dzävov lór i dzävon FUTURO mi a dirò (oppure mi dirò) ti t’ dirè lu al dirà (lu ‘l dirà) nojätor a diremma (nojätor diremma) vojätor a dirì (vojätor dirì) lór i diràn FUTURO ANTERIORE mi arò ditt (mi j arò ditt) IMPERATIVO dzi (dzi la vritè!) VERBI - FARE PRESENTE mi a fagh’ (oppure mi fagh’ ) ti t’ fè lu al fà (lu ‘l fà) nojätor a femma vojätor a fi lór i fan CONDIZIONALE PRES PASSATO PROSSIMO mi a j’ ò fat (mi j ò fat) ti t’ è fat lu l’à fat nojätor emma fat vojätor ì fat lór j àn fat TRAPASSATO PROSSIMO mi äva fat (mi j äva fat) IMPERFETTO mi a fariss (mi fariss) ti t’ fariss lu ‘l fariss nojätor a farisson vojätor a farissov lor i farisson mi a fäva (oppure mi fäva) ti t’ fäv lu al fäva nojätor a fävon vojätor a fävov (vojätor fävov) lór i fävon CONDIZIONALE PASSATO mi ariss fat (mi j ariss fat) FUTURO mi a farò (mi farò) l ti a t’ farè (ti t’ farè) lu al farà(lu 'l farà) nojätor a faremma vojätor a farì lór i faran CONGIUNTIVO che mi faga CONGIUNTIVO PASSATO che a mi abja fat (che mi apja fat INFINITO FUTURO ANTERIORE mi arò fat (mi j arò fat) Presente: fär Passato : avér fat IMPERATIVO NEGATIVO sta miga fär chi stagon miga fär ch’la staga miga fär sti miga fär IMPERATIVO Fi (fi da razón) VERBI – VOLERE PRESENTE mi a vój (mi vój) ti t‘ vól (ti a t' é - oppure ti t’é) lu l’ vól nojätor a vremma vojätor a vrì lór i vólon CONDIZIONALE PRES PASSATO PROSSIMO mi j ò vrù (volsù) ti t' é vrù oppure ti t’è volsù lu l’ à vrù nojätor emma vrù vojätor i vrù (volsù) lór j àn vrù TRAPASSATO PROSSIMO mi äva volsù IMPERFETTO mi a vriss (mi vriss) ti t’ vriss lu ‘l vriss nojätor a vrisson vojätor a vrissov lor i vrisson mi a vräva (mi vräva) ti a t’ vräv (ti a te vräv -ti t’ vräv) lu al vräva (lu 'l vrà) nojätor a vrävon vojätor a vrävov lór i vrävon CONDIZIONALE PASSATO mi ariss volsù (mi ariss vru) l FUTURO mi a vrò (mi vrò) l ti a t’ vrè (ti t’ vrè) lu al vrà(lu 'l vrà) nojätor a vremma vojätor a vrì lór i vran CONGIUNTIVO Che a mi vója (che i vója) CONGIUNTIVO PASSATO Che a mi abja volsù (che mi apja volsù INFINITO Presente: Vrér Passato : avèr volsù (vru) IMPERATIVO NEGATIVO Sta miga vrér savérni pu che mi Sti miga vrér FUTURO ANTERIORE mi arò volsù (mi j arò volsù – vru) CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 7^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. Mezzadri) Alcuni dei VERBI IRREGOLARI di uso più comune: MANGIARE - POTERE PRESENTE mi a magn (oppure mi magn) ti a t’ magn (ti t’ magn) lu al magna nojätor a magnèmma vojätor a magnì lór i magnon PASSATO PROSSIMO mi a j ò magnè (mi j ò magnè) ti a t’ è magnè (ti t’ è magnè) lu l’à magnè nojätor èmma magnè vojätor ì magnè lór j àn magnè TRAPASSATO PROSSIMO mi äva magnè (mi j äva magnè) ti t’ äv magnè lu l’ äva magnè CONDIZIONALE PRES mi a magnariss (mi magnariss) ti a t’ magnariss (ti t’ magnariss) lu al magnariss nojätor a magnarisson vojätor a magnarissov lór i magnarisson IMPERFETTO mi a magnäva (oppure mi magnäva) ti t’ magnäv (ti t’ magnäv ) lu al magnäva nojätor a magnävon vojätor a magnävov lór i magnävon CONDIZIONALE PASSATO mi ariss magnè CONGIUNTIVO PRESENTE che mi magna (che mi a magna) CONGIUNTIVO PASSATO che a mi abja magnè INFINITO FUTURO mi a magnarò (oppure mi magnarò) ti a t’ magnarè (ti t’ magnarè ) lu al magnarà (lu ‘l magnarà) nojätor a magnaremma vojätor a magnarì (vojätor magnarì) Presente: magnär Passato : avér magnè PARTICIPIO PASSATO magnè lór i magnaràn IMPERATIVO NEGATIVO sta miga magnär ch’la staga miga magnär sti miga magnär chi stagon miga magnär IMPERATIVO magna magnì chi magnon FUTURO ANTERIORE mi arò magnè (mi j arò dmagnè) GERUNDIO magnand PRESENTE VERBI: POTERE PASSATO PROSSIMO mi a poss’ (oppure mi poss ) ti t’ pól lu al pól (lu ‘l pól) nojätor a podèmma vojätor a podì lór i pólon CONDIZIONALE PRES mi a j ò podù (mi j ò podù) ti t’ è podù lu l’à podù nojätor èmma podù vojätor ì podù lór j àn podù TRAPASSATO PROSSIMO mi äva podù (mi j äva podù) ti t’ äv podù IMPERFETTO mi a podriss (mi podriss ) ti t’ podriss lu ‘l podriss nojätor a podrisson vojätor a podrissov lór i podrisson mi a podeva (oppure mi podeva) ti t’ podev lu al podeva nojätor a podevon vojätor a podevov (vojätor podevov) lór i podevon CONDIZIONALE PASSATO mi ariss podù (mi j ariss podù) FUTURO mi a podrò (mi podrò) l CONGIUNTIVO che mi possa CONGIUNTIVO PASSATO che a mi abja podù (che mi apja podù) INFINITO Presente: podér Passato : avér podù ti a t’ podrè (ti t’ podrè) lu al podrà (lu ‘l podrà) nojätor a podremma vojätor a podrì lór i podran FUTURO ANTERIORE mi arò podù (mi j arò podù) PARTICIPIO PASSATO podù GERUNDIO podénd PERSONAGGI PARMIGIANI – DODI BRUNO (Da Riz e Vérzi) Cme vala in pensjón, Bruno? "Bén, mo sta migh strajär la vóza, a s’ fa tant prést." "E pär via dal pär via ?" "Gnanca pu col lorètt". Un collega rideva per la battuta e Bruno lo rimbeccò: "A t’ pól vansär äd riddor tant; a ca' tovva l' é un pés ch'a s' canta "Beati morti". (Famosa orazione funebre cui i parmigiani danno uno spiritoso senso figurato). "Ti, a t’ pól dir dabón la preghiera däl pensionè!" "Cme éla ?", gli chiesi incuriosito. "A t’ ringrassi al me Signór ch'a t’ m'è castrè sénsa dolór" C'è chi lo stuzzica: "Bruno, è vera che al Castlètt a magnevov il ponghi ?"(Le pantegane). "No, parchè agh séron afesionè; a s' gnäva su ragas insèmma". Ormai lanciato sui vecchi tempi continua: "Mi stäva in-t 'na béla ca', diviza bèn. Gh' éra cambra e cuzén’na, granär e cantén'na, tutt in-t 'na stansa ! A gh' éra di mur acsì sutil che al gioron d’ incó agh sariss d'aver paura a färogh cóntra il diapositivi." C'era uno che rideva più degli altri e allora Dodi gli disse: stà miga riddor tant, ch’al so indò t’ stäv! L' éra 'na ca' tanta sporca che j inquilén i s' pulivon i pè a 'ndär fóra. Gh’era dil tlarén’ni che par tirärja via a gh’ vräva la fiama osidrica”. Gh’ éra 'na scäla acsì dirocäda che, pr'andär su dritt, a gh’ vräva vón sòp." C ‘era un collega che amava molto il vino. Gli chiede: " Cme t’ vala?". " Speremma bén, adman a vagh a fär j analizi," " A si? E in do' vät, al cantinón? " Adesa i ragas i dmandon: Ma, co gh'è da senna? Mo nuetor a dmandevon: ma, stasira gh'éla la senna? Sät co diggh sempor mi? Che coj chi dizon che “l’appetito vien mangiando” i dovrisson provär che aptit a vén a magnär miga! A gh’é ‘d coj chi gh’lason dil villi. A mi i m’ àn lasè la bronchite! Parchè a gh’ äva sémpor fama e a forsi ‘d revor la cardénsa par vèddor sa gh’ éra cuel da magnär j ò ciapè tant cólp d’aria ch’a m’ són malè ‘d brónch “In ca’ mèjja l’andäva tant mäl e séron tant mizerabil, che cuand sèmma dvintè povrètt èmma fat fésta”. Saluta l'amico Aldo con calore: "Cme vala, vecchio Aldo ?" "Vec miga tant". "L'é un compliment". "I compliment j a sarniss mi". AMARCORD A vèdd al fiumm, un fiumm grand indò l'aqua la và pian, pian, pulida e ciära eme còlla d'un ruscél äd montagna: cme l'era ‘na volta l'aqua äd la Pärma, ‘dla Bagansa e còlli äd tutt i fiumm äd la téra.L'aqua dal fiumm la porta con manéra i me ricord, soquant a pél äd l'aqua, 'd j ätor pu sòtta, 'd j ältr ancòrra pu in fónda mo dato la purèssa äd l'aqua i s’ vèddon tutti ancòrra bén. 'd j ätor ancòrra i viazon tant in fónda che a malapén’na i s’ intravdevon. Quant agh n'è! dil volti i s'incavalon in dizordin cme il bärbi quand i vénon cargädi insìmma al car ala rinfuza e n' t’ se miga còlla ch'vén primma e còlla dopa. 'd j ältri volti inveci se gh’ la cäva a metorja in fila in órdin äd témp chi päron tant scolär in fila chi rispondon a l' apél. (dai ricordi di Angiolino Melegari caro amico non più tra noi) CONSULTA PER IL DIALETTO PARMIGIANO FAMIJA PRAMZANA 8^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA in Famija Pramzàna 2015-2016 (dispense a cura di g. mezzadri) Ricette La “vécia” sécond “Bruno il Sordo” Contäva Bruno che aj so témp, quand al manz al costäva tri franch e méz al chilo e la vaca la nin costäva du, in-t-il famij con molt ragas, par fär la vécia, a s’in toläva un po’ e un po’; pu vaca che manz. A s’fäva al brod e ‘l manz al s’magnäva acsì. Con la vaca e ‘l manz ch’vansäva a s’ fäva la vécia. In-t-‘na padéla äd ram a s’ fäva andär; aj, sigolla, pevrón, carotli, tomachi e romlasén. Da ‘na pärta a s’maniva i pòmm da tera, chi gnävon fritt in-t -al dolegh con aj e lavor. Intant in-t-la padéla dill verduri, a gh’gnäva miss la cärna a insavoriros e quand era vóra, a s’ghé metäva anca i pòmm da tera fritt. A s’fäva andär tutt par dez minud e po’ la vecia l’ éra prónta. Costa, contäva Bruno, l’é la vera vecia di povrètt. Pu tärdi po’ j àn tachè col cavàl pisst e la gnäva ancòrra pu bón’na. (da “Apenn’na da Biasär”) La “buzéca” di Gino Picelli Ónt äd gòmmod e po’ äd la gran pasénsja j én il primmi cozi ch’a gh’vól par fär ‘na bón’na buzeca a sintir Gino Picéli che in fat äd buzeca al la säva lónga cme poch. La trippa, ch’l’à da ésor älta e narvóza, la s’ taja in quädor grand e po’ con un cuciär la s’rascia ben ben fin ch’l’é sgrasäda. La s’läva in acua corénta sinch o séz e sètt volti e po’ la s’taja a fètti cme ‘l salam. La s’mètta a boijor par quattr’óri in-t- ‘na brónza indò gh’é tutti il verduri tridädi; aj, sigòlli, carotli e sènnor, fin’na quäzi a cotura. Intant da ‘na pärta a s’prepära un fónd äd casaróla con la pistäda äd gras e sälsa. La s’fa andär par méz’ óra e, quand l’é prónta, a s’ghe mètta la trippa col verduri e la s’fa boijor pian pianén do o tre ori. Al gioron dop la s’fa boijor ‘n’ältra mezz’ óra e po’ la s’ lasa arposär n’ätor brizén. Dop, finalmént, la s’pól magnär, briza grasa e béla gomóza. La ricéta dal “nozén” sécond Gino Tessoni Ricéta secónd al “Trisindich” di “Ragas äd Santa Teresa”, Gino Tessoni. P’r ogni littor äd nozén a gh’ vól 24 nózi béli e sani, catädi posibilmént ala matén’na äd San Zvan (24 äd zuggn) . In-t-‘na bocia a bòcca lärga o väz äd védor a s’gh’é mètta un litor d’alcol a 95 gräd, sez etto äd sucor, un quärt äd ven bianch sècch, 12 cioldén äd garofon, un bastonsén äd canéla e ‘na scorsa äd limón. Il nózi i van tajädi in quator toch e missi déntor in-t-la bocia o in-t-al väz. Sarär bén stricch al quärc’ e mèttor al sól par quaranta dì, avendogh cura äd derogh d’ogni tant ‘na stobasäda in tónd. Dop quaranta dì d’esposisjón al sól, filträr al nozén con un filtor bén sutil e, bón’na digestjón! La tòrra A gh’éra ’na tòrra pu buza d’ un zdas, con l’érba in-t-i còpp e i mur tutt äd sas. Là p’r arja se vdäva do béli campani... mo sénsa baciòch da milla e pu ani. E ’l prét coza fävol? Mo sì, al’ ja guardäva e ’l dzäva: «Co’ faghja?», e po’ ’l tintognäva. Man man ch’la pasäva, se vdäva la génta ormai ch’la ridäva, mo sénsa dir njénta. Äd gióron la säva ch’ riväva mezdì, parchè la sentiva il pasri in-t-al ni. E vèrs mezanota, guardànd la navètta, «L’è óra – la dzäva - gh’ é za la sivètta!». La conserva pramzana S’ a gniss al mónd la serva ch'a s‘ fäva la consèrva quand mi j éra un putén, coj parój e i dgamén coza dirèla a vèddor col sugh ross, acsì tènnor ch'a s'cata in-t- il latén'ni dil qualitè pu fén'ni ? E che profumm i gh ’dan! La s ’magna con al pan cmé s’la fiss 'na marmläda. Na volta a l’ò scordäda in-t -la cardénsa, averta sésa mèttrogh ‘na cärta, sénsa mèttrogh su gnént, e al m e putén, primma al ma lasè voltär, po ’l s ’è miss a pescär col sanfén; e cme la gata... al gh’à lasè la lata! S’ a gniss al mónd la sèrva ch'a fäva la conserva al siv co’ la dirè? "Costa l’é civiltè (Renzo Pezzani) MODI DI DIRE VARI Pov’ra cla spóza ch’la va in ca con la nona e so fjóla. (anca magnär ‘na sigolla mo in ca da lór) L’ult’m a rivär ala scudéla, l’è ‘l primm a cridär. (coll ch’a fa il pärti l’è l’ultim a tirär zo) Dio nin guärda da chi magna sénsa bévor. Né a tävla né a lét a n’ s’à d’aver rispét. (podemmia fär coll mestér? La n’ s’ghe diz miga tant stasira Cuand canta la galén’na, al gal al täz (la lingua madre è quella che fa tacere il padre Fà pu un pädor par déz fjó, che déz jó p’r un pädor. I povrett, o mantgnirja o masärja. Chi lavora gh’à ‘na camiza, chi a n’ lavora al gh’n’à dovv. Sold e amicissja i fòton la giustissja L’avocät ch’à pärs… Fresch e pastóz e dur da razor (la botte piena ecc?) Cala Tèllo, cressa Cilién Non è la statura Co dizol al giornäl? Che chi gh’ n’à magna e chi gh’ n’ à miga badacia Incò la va bén aj sjori e adman la va mäl aj povrett La donna d’onór primma la fa la serva e po’’l servitór In ca dal galnt’omm primma nasa la femna e po lomm S’ a gh’è un bél pomm al va a fnir in bocca al lovv. Di bella ragazza che sposa un brutto o meglio un balordo) Ricordot che cuand a t’ vè su ‘na pjanta, con pu a t’ vè in älta, con pu i broch i dvénton sutil e con pu a te ‘t zlontan da téra. A n’ väl miga corror, a väl riverogh in témp Fiv corag’ che mi äd paura a gh’ n’ò par tutti A fagh cme n’ò vója mo cuand a ne s’ pól miga a fagh cme pos Fiv lmozna si o no? Si o no, coza? Siono fagh sénsa! nona e nóra, gat e can, paroch e caplan, j én tre cozi chi n’ s’afan povor povrett, sténta e po crépa. Bendètt col mort ch’a móra in venerdì che ala domenica al véna suplì cuand al putén al gh’ à méz an, al culén al fa scran Al ne sa d’azej s’al n’è stè in-t- la succa Semma äd rasa ch’a móra. Contént cme un bégh in bocca a un pit Génta ch’ a lavóra a nin móra mo äd pensionè a nin scampa gnan vón A gh’ dà fastiddi i pagn ados Cuand la barba la fa bianchén, mola il donni e pénsa al vén. Pissa in mär, che l’acua la cressa. Sold in banca e rud in-t-la masa, i n’àn mäj frutè a nisón «Cme vala ?» «Acsi, acsi cme ‘l donni sénsa marì» (da agiornär) Cära al me Sgnór compagnì coj ch’ j én da lór e chi è mäl compagnè tolil pur dal Vostor lè". Ot etto a tutti, nóv etto a un cuelchidón e un chilo a nisón Siora, chi è äd l’ärta stìmma l’opra. La fäva la pupón’na, la gh’ äva dil véni varicosi chi parevon grostón äd garbuz un corp san l’à da pisär cme un can L’è cme l’acua äd Milan che pära ch’a n’ pióva mo la bagna al gaban Al spendor poch e ‘l povor pian l’è coll ch’inganna al vilàn Lontan da ca pan, gaban e baston p’ri can Tgniss sénsa vansàj, foghè in-t-al butér e sughè col formaj. Chi nodon int al buter5 foghè int al formaj Magnaren fa cavalen e magnaron fa cavalon Al sporch dil man al taca miga in-t-al pan Pa e spuda e chi n la vól la muda E’ mej roba vansa che creppa pansa. mo gh’è anca: creppa pansa la s’pól cuzir e roba vansa la pól marsir Chiaro ti vedo, spesso ti ricordo. mnéstra fissa e predica ciära è mej al vén fiss che l’acua ciära Pulidén l’è mort ad fama. E sporcación a gh’n’è vansè. L’amór l’è ‘na gran coza mo la fam passa ogni coza. (E’ l’equivalente plebeo di più che l’amor potè il digiuno?) ragas e gnoch i n’én mäj trop i zgranfgnón i s’ magnon anca in bocca a ‘n tignón Cunì sénsa tésta. Cunì da copp –lévri da copp lontan cme znär aj persogh Meno mäl che la providensa di dotór la fa anca sénsa e la mètta a nostra dispozisjón ‘na muccia äd sant potént dabón: P’r al mäl ‘d góla a gh’è San Biäz San Quintén par j imbariägh San Mavor p’r il roturi San Loréns p’r il strinaduri Sant’Ana per chi à fjó Santa Lussia par j oc’ mafón (dall’arabo) Santa liberäda p’r i tormént Santa Apolonia p’r al mäl ‘d dént Santa Rita p’r i disprè E Sant’Antonni con tant a gh’n’è A ghg’è ‘d cojj chi san coll chi dizon A gh’è ‘d j ätor chi dizon coll chi san E äd j ätor ancorra chi ‘n san miga coll chi dizon 9^ DISPENSA PER IL CORSO DI DIALETTO E CULTURA PARMIGIANA 2014-2015 IN FAMIJA PRAMZÀNA (dispense a cura di G.Mezzadri) MODI DI DIRE LE ETA’ DELL’UOMO “Bräga bojuda”, si diceva ai bimbi molto piccoli. Era molto calzante, quando non c’erano i pannolini e, per i neonati, venivano usati i “ciripan”. Avevano forma triangolare e servivano a formare una “braga” e che, per motivi igienici, erano fatti bollire, dopo ogni utilizzo. “Pista pòcci”, letteralmente “pesta pozzanghere”, si diceva dei bambini già più grandicelli che, com’è noto, amano pestare le pozzanghere. “Gamba äd sènnor” La gamba del sedano è lunga e fragile e l’epiteto era affibbiato ai ragazzini che, nell’età dello sviluppo, aumentano rapidamente in altezza e hanno spesso gambe lunghe e magre. Se il ragazzo diventava particolarmente alto poteva sentirsi dire: “Sta ‘tént a dvintär acsì ält ch’a t’ ve a fnir in sménsa”. (Vai in semente – come fa l’erba che, se non viene tagliata diventa alta e produce la semente). Oppure: “Vät a alvär i nì?” (vai a prendere i piccoli dai nidi?). “Spumarén” e “spumarén’na”, i ragazzi e le ragazze lo diventano quando cominciano a guardarsi insistentemente allo specchio. “Bacucch” o “Véc’ cme ‘l cucch” sono titoli meno ambiti e per conquistarli servono anni. Molti anni. “Vec’ da insucär”. (la usava mia mamma) COSTUME "Suocera e nóra, timpesta e gragnóla." Dice la suocera: "Cära la me nóra podissov durär cme la néva marzóla"(o marsaróla). La nuora risponde: Eh nona, ne m’ fe dir, podissov durär cme la néva d'avril!" Il cavsi a j à vénsa chi j a fa miga. Eccheggia l’altro: È méj un cativ d’acordi che ‘na bón’na senténsa. La roba robäda la gh’à poca duräda L’à gh’à fatt sintir al väz ‘d méla…(si diceva di un putt che ha sposato una donna più vecchia di lui e con figli) Quanta lèggna st’an’!!! (Si dicevano preoccupati i poveri quando nevicava in abbondanza Pit a ca’ ch’a gh’è i muradór. (I muratori, che d’inverno lavoravano poco o niente, erano considerati soggetti “pericolosi” e le massaie si preoccupavano che la polleria stazionasse vicino alla casa dove era possibile controllare meglio). “L’erba la conòssa al zgädor sensa bärba. che sta a significare che per tagliare bene l’erba con la falce occorre esperienza e perizia. Il senso vale anche, più in generale, per ogni mestiere. “Va là ch 'al conòssa l’erba ch’fa ’l gràn!’’ si diceva di persona furba che capisce bene ciò che gli conviene oppure no. Al riz al nasa in-t-l’acua e ‘l móra in-t-al vén. (Il riso si gusta meglio se accostato ad un buon bicchiere di vino, meglio ancora se bevuto mischiato al vino nel bév’r in vén o sorbir.) DEFINIZIONI (di Giorgio Capelli) Su gentile richiesta di “ vari scolari “ del corso di dialetto Parmigiano, trasmetto le informazioni che avevo raccolto negli anni settanta dal direttore della Biblioteca Comunale marchese Maurizio Corradi Cervi che mi aveva fornito queste informazioni e fatto notare che a suo avviso, nessun altro dialetto nazionale aveva tanti modi di definire il nostro “ fondo schiena”. Aggiungeva che a suo giudizio, questa caratteristica di varietà di espressioni non solo era la conseguenza delle diverse influenze culturali e linguistiche che avevano condizionato storicamente la nostra comunità, ma di una delle caratteristiche della parmigianità : al pramzàn l’é vón originäl Al cul Al casètt dal pan bjasè Al dardè Al bascull Al sesè Al bombardén Al bernardén Al tamburlàn Al tafanäri Al bombè Al chichén Al gnì gnì Al mandolén Al mapamónd Al lorgnón Al lorètt Al fiorón Al bordò Al gnao Al bofice Al sambràn Al panò l’organén Al cavagn Il rénni Al lorón Il lati Al buzgnón Al cicolatén Al cucù L’ orgon Al rustich Al bordnél Al chitarén Al butalà Al cu cu Al bofètt Al culiseo Le fonti sono quelle di vari autori del settecento, dell’ottocento e dei primi del novecento che hanno scritto delle pubblicazioni, delle poesie , componimenti, nonché dei vari calendari che venivano pubblicati e quelle provenienti da quegli studiosi che hanno redatto vocabolari o anche ricerche sul nostro dialetto . (a cura di G.Capelli) Dal dizionario ITALIANO-PARMIGIANO di G.Capacchi (ed.Artegrafica S.r.l. Silva – Parma) MEMORIA, s.f.: memòrja (in tutte le accez.); arcòrd, ricòrd (s.m.), DC ricordànsa; non ha m., al ne gh’ à ’d memòrja, ☆al ne s’ arcòrda dal näz ala bocca; ha un’ ottima m., al gh’ à ’na memòrja ’d fér (o; ’na memorjón’na); m. debole, memorjasa, memòrja balórda; sovraccaricare la m., fadigär (o: sforsär) la memòrja; chi non ha m., abbia gambe chi a n’ gh’ à ’d tèsta a gh’ à gambi (Prov.); a m. d’ uomo, a memòrja d’ ommi; riandare con la m. al passato. fär memòrja ad coll ch’ é stè: il Tale, di buona m che ’l Sgnór al gh’ l’ abja in glorja; qui si conservano le memorie del passato, chicsi a s’ conserva il memorji dal témp indrè; CONCLUSO IL SECONDO CORSO DI DIALETTO PARMIGIANO Tenuto dalla Consulta per il dialetto e Famija Pramzàna Lezione del linguista prof. Guido Michelini (articolo pubblicato dalla Gazzetta di Parma) La grammatica L’ultima lezione del Corso di dialetto (2015-2016), svolto dalla Consulta per il dialetto parmigiano in collaborazione con la Famija Pramzàna (che ha visto l’impegno di Giorgio Capelli, Giovanni Mori, Aldo Pesce, Franco Greci, Giuseppe Mezzadri e Claudio Cavazzini), è stata tenuta dal prof. Guido Michelini, glottologo e linguista della nostra Università. Il professore è stato invitato in quanto autore della prima grammatica completa e strutturata del dialetto parmigiano, alla quale sta dando gli ultimi ritocchi. Questa grammatica è un lavoro che completa ciò che altri studiosi avevano iniziato: Jacopo Bocchialini con “Il dialetto vivo di Parma e la sua letteratura” (1944) e Angelo De Marchi con “Il dialetto di Parma” (1976). Guglielmo Capacchi, autore di quel prezioso scrigno che è il dizionario Italiano-Parmigiano, aveva in animo di pubblicare anche una grammatica, ma la morte prematura gli ha impedito di realizzare il progetto; così ci ha lasciato soltanto la corposa serie delle osservazioni grammaticali delle quali il suo dizionario è disseminato. È importante che il professor Michelini abbia accettato di scrivere la Grammatica perché la sua specializzazione di glottologo e linguista gli consente di affrontare l’impresa con le armi adeguate della linguistica scientifica moderna. La dialettizzazione dell’italiano Il professore ha svolto un breve excursus sulla situazione del dialetto oggi. Nel 1861, data dell’Unità di d’Italia, gli analfabeti totali erano il 95% della popolazione. Il dialetto era la lingua della gente e rimase tale fino al 900 e anche oltre perché i due anni di scuola elementare frequentati perlopiù dai soli maschi non avevano contribuito a cambiare la situazione. La svolta, seppure molto lenta, è iniziata alla metà degli Anni venti, quando la riforma Gentile del 1923 portò a cinque gli anni di scuola, rendendola obbligatoria anche per le femmine. A tale svolta ha contribuito anche la circostanza che le famiglie divennero inconsapevolmente alleate della scuola nel combattere l’uso del dialetto da parte dei loro ragazzi, lasciandosi condizionare dall’idea che le persone non ignoranti dovessero parlare in italiano. Michelini sostiene che negli anni in cui i dialettofoni costituivano la maggioranza della popolazione, il dialetto, diversamente dall’italiano, non era “ingessato” con regole o grammatiche (che ancora non esistevano), ma continuava ad evolversi con vivacità e creatività. Da quando invece i dialettofoni sono una sparuta minoranza che si riduce sempre più, assistiamo non ad una normale evoluzione, ma ad una italianizzazione del dialetto. Così la parola tradizionale péca “gradino” sta cedendo il passo all’italianismo gradén, mentre a zonzìa “gengiva” si preferisce l’italianismo gengìva; altri esempi di parole che tendono a perdersi per il condizionamento dell’italiano sono pòmm-da-téra “patate” (sostituito da patàti), quadrél “mattone” (che diventa matón, con la perdita della bella espressione idiomatica fär du pass int un quadrél “fare due passi in un mattone”, cioè “camminare molto lentamente”), tomàchi “pomodori” (rimpiazzato da pomdòr) e via discorrendo. Per queste ragioni Michelini sostiene che sia giunto il momento di incanalare il dialetto dentro gli argini delle regole di una grammatica e di un lessico normativo, come nel Rinascimento è stato fatto per l’italiano. I pronomi clitici Parlando della grammatica, Michelini ha citato diverse curiosità. Ha detto che, ad esempio, forse non tutti sanno che il nostro dialetto ha una caratteristica che lo rende unico in Europa, insieme a quello di Piacenza e delle altre località vicine. Sono i pronomi clitici, cioè quei pronomi atoni che si appoggiano a un'altra parola nella pronuncia. Un esempio chiarirà meglio. Nel nostro dialetto per dire “vado” dobbiamo usare a vagh, mentre per dire “io vado” possiamo scegliere a piacere tra mi a vagh e mi vagh, visto che in questo caso l’elemento portante è il pronome accentato mi, mentre la vocale a di quello clitico si indebolisce a tal punto, che può essere anche tralasciata. Queste particolarità, che ai più possono sembrare di poco conto, sono state oggetto di studi approfonditi da parte di fior di linguisti italiani e stranieri, americani compresi. Confronto tra dialetti Alla domanda perché i veneti continuano a parlare in dialetto e noi lo stiamo perdendo, il professore Michelini ha risposto spiegando che un tempo a Venezia anche il Doge e il Consiglio parlavano in dialetto e numerosi documenti venivano redatti in dialetto. Poiché il dialetto veneziano era la lingua di tutti, comprese le persone appartenenti alle classi più alte, nessuno si vergognava di parlarlo. Diversamente, a Parma il dialetto era soltanto la lingua delle classi inferiori, mentre per la Corte e le persone “importanti” le lingue erano l’italiano o il francese. Invito ai parmigiani Considerando che oggi, grazie all’innalzamento della scolarità e all’influsso dei “mass media”, tutti sono in grado di usare senza problemi la lingua italiana, la Consulta invita i parmigiani a seguire l’esempio di altre città, riscoprendo il piacere di parlare ed ascoltare il dialetto, senza il timore di essere scambiati per ignoranti. Quel dialetto che è stato la prima lingua dei nostri padri, è una sorgente inesauribile di ricordi e scalda il cuore quando lo si ascolti perché è l’ “elemento portante” della nostra parmigianità. Giuseppe Mezzadri