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VERMONDO BRUGNATELLI*
LA TOPONOMASTICA COME SIMBOLO IDENTITARIO
E COME STRUMENTO POLITICO
Riflessioni introduttive al convegno
Abstract
Place names as a symbol of identity and as a political tool.
Introductory considerations
Giving a name is equivalent to having power over what one names: in the Biblical account of
creation, when man was chosen to rule over all other creatures, God invited him to give a name
to each of them.
The identity of individuals or groups is based on numerous factors, among which language,
or “idiom” is one of the most powerful. Personal names (anthroponyms) are obviously those most
closely related to the individual, and it is now a widely shared belief that any attempt to impose
obligations or prohibitions concerning namegiving is an unacceptable violation of individual liberty
(although many countries enforce strict legislation in this area). With regard to naming the places
in which human communities live, expressing place names (toponyms) according to the usage
of a given language can be a sign of belonging and identity, especially when different linguistic
groups are present simultaneously. Personal names and place names display a particular tendency
to overlap in regions in which ethnic names (“tribes”) are commonly used to refer to geographic
areas. In such contexts, strict laws regulating toponyms ultimately also impact on anthroponyms.
In the past, neither place names nor personal names were rigidly coded, but in the modern
world, in which everything must be codified and defined with precision, some form of fixing and
standardization is demanded (this is more the case for place names, given their greater public
interest, than for the names of individuals). However, the specific choices adopted by governments
in this regard may have socio-political implications. In the presence of nationalistic (or micronationalistic) friction in particular, place names may become a source of conflict and rival claims
among political forces.
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Università degli Studi di Milano Bicocca.
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VERMONDO BRUGNATELLI
Agatarchide, nel diciannovesimo libro delle sue Storie d’Europa, così scrive: «Essendo gli Ateniesi in lite con i Beoti per il possesso di un territorio chiamato Sidai, Epaminonda, per provare i propri diritti, inaspettatamente prese una melagrana che teneva celata
nella mano sinistra e la mostrò loro chiedendo come chiamassero questa cosa. Essi risposero: rhoà. “Noi invece, disse, la chiamiamo sida. E questo luogo possiede un gran numero di queste piante, da cui ha preso il nome fin dal principio”. Ed ebbe vinta la causa.1
Questo episodio, risalente al IV secolo a.C., ci mostra uno dei più antichi esempi di uso ‘politico’ della toponomastica. Le melagrane si chiamavano sidai in tebano e rhoaì in ateniese: dunque un luogo che ‘ha ricevuto un nome’ (εἴληφε προσηγορίαν) in lingua tebana deve appartenere ‘fin dal principio’ (ἐξ ἀρχῆς) a Tebe.
Il principio che sancisce il diritto di quest’ultima città, tanto scontato da essere lasciato implicito, è che dare un nome equivale a possedere, ad avere potere su ciò che si nomina. Nel mondo giudaico-cristiano questo principio ha ricevuto una solenne sanzione: secondo il racconto
biblico della creazione, Dio diede all’uomo il potere su tutto il creato, invitandolo ad attribuire un nome a tutte le creature.
1. Convenzioni, consenso
Senza attardarci su queste considerazioni, che rischiano di condurre su un terreno a metà strada tra il teologico e il metafisico, e rivolgendoci invece all’ambito della linguistica, è da notare che anche i toponimi, come tutte le manifestazioni delle lingue storico-naturali, sono il frutto di ‘convenzioni’ e per millenni si sono di solito basati sul consenso della comunità che ne faceva uso. La motivazione originaria, per cui un dato luogo si chiama in un modo e non in un altro, è oggi spesso ‘opaca’, ma all’origine c’è sempre stata una scelta. Poteva trattarsi della descrizione fisica del luogo, ma anche del nome di chi vi abitava, o di qualunque altro termine che
un dato luogo poteva evocare. Per fare un esempio banale ma vissuto, su scala di micro-toponomastica, ho assistito allo svolgersi di questo fenomeno di denominazione dei luoghi all’interno della casa della mia infanzia. Essendo una famiglia numerosa, c’erano molti ‘luoghi’ (stanze), distribuiti su due piani, con una scala interna, e ciascuno aveva una denominazione precisa. L’arrivo della scala o la (stanza della) moquette azzurra erano locali identificati rispettivamente per la posizione e per una particolarità caratterizzante (‘caratteristiche fisiche’); la stan-
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Ἀγαθαρχίδης ἐν τῇ ἐννεακαιδεκάτῃ τῶν Εὐρωπιακῶν οὕτως γράφει· Ἀμφισβητούντων Ἀθηναίων
πρὸς Βοιωτοὺς περὶ τῆς χώρας, ἣν καλοῦσιν Σίδας, Ἐπαμινώνδας δικαιολογούμενος ἐξαίφνης ἐκ
τῆς ἀριστερᾶς μεταλαβὼν κεκρυμμένην ῥοὰν, καὶ δείξας, ἤρετο αὐτοὺς, τί καλοῦσι τοῦτο; τῶν δ’
εἰπόντων ῥοάν· ἀλλ’ἡμεῖς, εἶπε, σίδαν. Ὁ δὲ τόπος τοῦτ’ ἔχει τὸ φυτὸν ἐν αὐτῷ πλεῖστον, ἀφ’ οὗ
τὴν ἐξ ἀρχῆς εἴληφε προσηγορίαν· καὶ ἐνίκησε. (Ateneo, 14, 650 s.).
LA TOPONOMASTICA COME SIMBOLO IDENTITARIO E COME STRUMENTO POLITICO
za di Rosamaria, invece, denominata con un nome di persona, era quella occupata da una delle
mie sorelle. A differenza di queste tre denominazioni piuttosto specifiche, la cucina, denominata per un’attività che ospitava, è un termine che si trova in infiniti altri micro-toponimi famigliari. Ovviamente questa micro-toponomastica era condivisa da una comunità molto ristretta:
una sola famiglia (sia pure di dieci persone), ma anche per la nascita dei toponimi relativi a nomi di città, monti e valli, i princìpi cui si è fatto ricorso sono sempre stati più o meno gli stessi, sia pure su scala diversa.
Non è questa la sede in cui elencare le numerose vie seguite nella designazione toponimica: chiunque di noi, anche non linguista, ha sicuramente presenti molte ‘storie di nomi’ di luoghi.2 Quello che qui mi preme sottolineare è il consenso che ha ispirato per secoli la toponomastica tradizionale. Un consenso che è spontaneo e implicito in una comunità famigliare, ma che,
quando si tratta di toponimi su scala maggiore e risultanti dalle complesse interazioni umane
della storia, non è sempre altrettanto scontato.
Una considerazione importante è che, una volta stabilita la denominazione (qualunque ne sia
la motivazione), i nuovi nomi, in quanto ‘nomi propri’, escono dal novero dei ‘nomi comuni’ (o
‘aggettivi sostantivati’, o qualunque altra parte del discorso ne fosse alla base),3 e in quanto tali
intraprendono una vita a sé, autonoma all’interno del sistema linguistico di origine (non di rado i nomi propri hanno una morfosintassi particolare) e suscettibile di uso anche presso parlanti di lingue diverse. Infatti, essi possono permanere – immutati o con evoluzioni fonetiche proprie – anche quando la lingua in cui sono stati coniati abbia subìto evoluzioni o sia stata addirittura sostituita da altre lingue sul territorio.4 Da qui l’assoluta opacità di molti toponimi odierni,
risalenti a chissà quali lingue antiche oggi non più parlate. Non è raro, poi, il caso in cui una ricerca di legami col sistema linguistico odierno conduca a ‘paretimologie’ che possono modificare o sfigurare nomi di antica origine nello sforzo di renderli ‘interpretabili’ nello stato di lingua attuale.5 Innumerevoli sono gli esempi che si potrebbero citare, dalla località lombarda di
Canegrate il cui stemma (un cane dietro a una grata) dimostra la reinterpretazione di quello che
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Non essendo questo il punto centrale del mio intervento, tra i tanti testi che si occupano di questi aspetti
della toponomastica, rimando qui ad alcuni studi generali, che contengono altra e più estesa bibliografia
sull’argomento: Stewart 1975, Back 1996, Rostaing 1997, Kadmon 2001 e Berg-Vuolteenaho 2009. In
Tent-Blair (2011) si può trovare un’eccellente rassegna sintetica dei numerosi tentativi fin qui effettuati di
individuare categorie tipologiche nell’ambito dei toponimi.
Si possono anche trovare imperativi o basi verbali, come Mirabello, o la località scozzese detta Rest and be
thankful, in un punto panoramico estremamente suggestivo.
Ovviamente i nomi propri di luogo possono poi anche essere usati in qualunque lingua da parte di popolazioni di regioni anche lontane, e in questo caso potranno subire adattamenti fonetici o morfologici quando
non vere e proprie ‘traduzioni’ in caso di motivazione trasparente.
Apro una parentesi qui per ricordare quanto questi molteplici condizionamenti rendano difficile e in molti
casi francamente impossibile risalire ad etimologie certe di numerosi toponimi. Invidio la disinvoltura con
cui tanti colleghi sciorinano con sicurezza etimologie di nomi di luogo, senza porsi preliminarmente troppi
problemi metodologici che, obiettivamente, spesso paralizzerebbero ogni ricerca.
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VERMONDO BRUGNATELLI
Fig. 1 - Stemma
del comune di
Canegrate (MI).
un tempo era un toponimo con suffisso -ate da un probabile Ca’ Negra, alle etimologie a base araba che sono fatte di numerosi toponimi nordafricani, di origine berbera (Brugnatelli 2004: 31).
Questo consenso – perlopiù tacito in ambito toponomastico – è stato per secoli la norma, con rare eccezioni (di cui si parlerà più avanti), ma con la crescente complessità della società moderna, si osserva, insieme ad una tendenza a moltiplicare le denominazioni toponimiche conseguente alla crescita della popolazione ed alla moltiplicazione e allargamento dei luoghi antropizzati, anche la tendenza a procedere a denominazioni quanto più possibile univoche, alla
cui ‘ufficializzazione’ sono preposti enti che non sempre coincidono con la ristretta cerchia della comunità che vive nei luoghi da denominare o nelle loro immediate vicinanze. Il maggiore incremento dei nomi di luogo avviene oggi all’interno dei centri
urbani, nell’odonomastica, con la creazione di nuovi quartieri, nuove vie, nuovi ‘luoghi’, il cui
‘nome’ è importante per il catasto, il recapito della posta, le circoscrizioni elettorali, la definizione dei piani regolatori, i provvedimenti relativi al traffico urbano, e via discorrendo. Di solito a questa nominazione provvede un ‘assessore alla toponomastica’ e i nomi vengono adottati con delibere comunali.6
2. L’identità
L’identità di una persona o di un gruppo si definisce in base a numerosi elementi, tra cui la
lingua, l’idioma è uno dei più potenti. Il nome personale è ovviamente quello più legato all’identità dell’individuo ed è oggi convinzione piuttosto generalizzata che ogni tentativo di imporre nell’onomastica personale degli obblighi o dei divieti sia una violenza inaccettabile rispetto
alla libertà individuale (anche se non mancano paesi dove la legislazione interviene tuttora rigidamente anche in questo campo).7 Anche per i nomi dei luoghi dove risiedono le comunità umane, soprattutto in presenza di gruppi linguistici diversi, esprimere i toponimi secondo gli usi di
questa o quella lingua può essere un segnale forte di appartenenza identitaria.
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In quest’ambito, la ‘motivazione’ è sempre meno legata a caratteristiche del luogo. A volte si usano nomi di
cittadini celebri o importanti, ma spesso si fa ricorso a nomi di persone o luoghi genericamente famosi, o altri
soggetti, come nomi di piante o addirittura concetti astratti (via dell’Innovazione, nei pressi di un’università,
viale delle Rimembranze, nei pressi dei cimiteri, ecc.).
Nel mondo esistono casi di nomi personali ‘bilingui’ come quello, segnalato da Di Carlo-Good (2014), nella
regione multilingue del Lower Fungom (Camerun), in cui tipicamente i coniugi sono di lingue diverse, e
ognuno alla nascita riceve due nomi, uno dato dal padre e uno dalla madre: da adulto userà l’uno o l’altro a
seconda della lingua e del contesto linguistico e famigliare in cui si troverà ad esprimersi. Si tratta però di
usi tradizionali e non di imposizioni burocratico-amministrative.
LA TOPONOMASTICA COME SIMBOLO IDENTITARIO E COME STRUMENTO POLITICO
Esiste un insensibile declivio non discreto dai nomi personali a quelli di luogo. Un legame
tra i due è particolarmente evidente non solo nei paesi in cui denominazioni etniche (le ‘tribù’)
sono ampiamente in uso per far riferimento a spazi geografici, ma anche nei frequenti casi di
nomi di famiglia che rimandano a un toponimo di origine. In questi casi spesso non è facile tenere separati nomi personali e toponimi, e una legislazione sui toponimi può avere riflessi anche sugli antroponimi. Per esempio, in Algeria la regione abitata dagli At Yenni è denominata
ufficialmente con il termine arabo Beni Yenni (at e beni sono i termini berbero e arabo per dire ‘figli di’), e oggi non è raro che un abitante berberofono della zona, parlando in berbero, si
definisca come appartenente ai ‘Beni Yenni’, per l’abitudine all’uso del toponimo ‘ufficiale’.
Mentre un tempo toponimi e antroponimi non erano codificati troppo rigidamente, il mondo
moderno, in cui tutto va codificato e definito con precisione, richiede qualche tipo di fissazione
e standardizzazione (soprattutto nell’ambito d’interesse collettivo dei toponimi, più che in quello
individuale dei nomi di persona), e la toponomastica viene perciò via via tolta all’inafferrabile e
cangiante ‘consenso della comunità’ e trasferito ad autorità politico-amministrative. È inevitabile che le scelte che le amministrazioni finiscono per adottare abbiano conseguenze in ambito
socio-politico. Se ciò può non essere troppo problematico in paesi e regioni con una certa compattezza linguistica e/o un forte consenso con le istituzioni, è soprattutto in presenza di tensioni
di tipo nazionalistico (o micro-nazionalistico) che la toponomastica può divenire un ambito di
scontro e di rivendicazioni, specie se su ciò si innestano speculazioni da parte di forze politiche.
Beninteso, di interventi ‘dall’alto’ sulla toponomastica ve ne sono stati anche nel passato.
Gli esempi sono numerosi, dalle più diverse epoche storiche. Per le epoche più antiche, sembra che la regione dell’Assiria abbia assunto il suo nome (Aššur) solo nel XIV secolo a.C., per
volere di Aššur-Uballiṭ I, che volle consacrare al dio Aššur, protettore personale del sovrano, il
territorio della regione fino ad allora denominata Subartu.
Non parliamo poi delle numerose città di Alessandria fondate e/o denominate da Alessandro il Macedone, da quella più celebre in Egitto, ad Alessandria di Isso (Alessandretta) in Turchia, ad Alessandria degli Arî, oggi Herāt, e Alessandria di Aracosia, oggi Kandahar in Afghanistan, e tante altre fino all’Alessandria Escata, all’estremo confine nordorientale, oggi Hodžent
nel Tagikistan.8
Un altro celebre esempio storico è quello di Benevento, che deve il suo nome a un cambiamento imposto dai romani alla località di Maleventum, il cui nome era giudicato di cattivo au-
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2.1 Imposizioni
‘dall’alto’
Tra le numerose altre si possono ricordare, senza pretesa di esaustività: Alessandria in Margiana, l’attuale
Merv (Turkmenistan); Alexandria Oxiana sul fiume Oxus, oggi Termez (Uzbekistan); Alessandria Bucefala
e Alessandria Nicea, entrambe nei pressi del fiume Idaspe (Jhelam), a sud dell’odierna Rawalpindi (Pakistan); Alessandria, sul fiume Indo, presso l’odierna Khanpur (Pakistan); Alessandria, ad ovest del delta
dell’Indo, sul Mar Arabico, nei pressi dell’attuale Thatta (Pakistan); Alessandria in Carmania (Golashkerd,
Iran); Alessandria di Susiana, sulla foce del Tigri (presso Al-Qurna, Iraq).
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gurio (peraltro, a quanto sembra, a seguito di una paraetimologia), quando vi dedussero una colonia (268 a.C.).
Nei tempi recenti gli interventi arbitrari sulla toponomastica si moltiplicano, e un capitolo
a sé meriterebbe la storia dei toponimi dei paesi coloniali. Quasi dovunque i colonizzatori hanno portato dei nomi ‘propri’ che si sono affiancati e a volte sostituiti a quelli locali. Con l’indipendenza gran parte di questi nomi sono tornati nelle lingue locali, ma non sempre, e a volte in modo poco lineare.9
Un paio di esempi, tra i tanti, provenienti dal mondo berbero nordafricano, che illustrano bene come le oscillazioni dei nomi di luogo si adeguino agli eventi storici e politici:10 il villaggio
berbero di Icheraiouen, luogo di nascita del grande poeta Si Mohand, quando la Francia conquistò la regione della Cabilia nel 1857, venne in gran parte evacuato dai suoi abitanti (che crearono un nuovo villaggio con lo stesso nome nei pressi di Tizi Rached) e trasformato, per la sua
posizione dominante, in un centro abitato fortificato, ribattezzato Fort Napoléon in onore di Napoleone III. Alla caduta del secondo impero, il centro divenne poi Fort National, e così rimase
fino all’indipendenza, quando si tornò ad una denominazione indigena, quella di Larba n At Yiraten (‘il [luogo del mercato del] mercoledì [della tribù] degli At Yiraten’). Leggermente diversa è la sorte di un’altra località della Cabilia, un tempo nota come Lḥemmam (così viene citata in una poesia del suddetto Si Mohand), che in epoca francese venne ribattezzata Michelet in
onore dello storico Jules Michelet (1798-1874). Con l’indipendenza, è stato ripristinato l’antico nome, nella versione araba ‘classicizzante’ Ain El Hammam, ma per reazione alla politica di
arabizzazione forzata imposta dal governo algerino, ancor oggi molti cabili usano il nome ‘coloniale’, nella pronuncia (e ortografia) cabila Micli.11
Va anche detto che non tutti i mutamenti di denominazione sono espressione di un potere
che intende con essi affermarsi. Esistono anche casi in cui semplicemente si aggiunge al nome
di un paese il nome di un suo cittadino che si sia positivamente distinto nel mondo: si veda l’esempio di Corteno Golgi12 e Sotto il Monte Giovanni XXIII,13 toponimi modificati per onorare un Nobel e un papa.
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Un fenomeno analogo si osserva nei paesi dell’Europa orientale dopo la fine dei regimi comunisti durante
i quali molte località avevano preso nomi di personalità del partito. Non sempre i nomi originari sono stati
restaurati, e non sono rari i casi come quello di Leningrado/San Pietroburgo: nel 1991 la città ha ripreso il
nome di Sankt-Peterburg, ma la sua provincia (oblast’) ha mantenuto quello di Leningradskaja Oblast’.
Per altri esempi di onomastica coloniale nel cuore dell’Europa, si può vedere l’evoluzione dei toponimi
irlandesi in Nash (2009).
Nell’ortografia del cabilo <c> rende la fricativa palato-alveolare [ʃ].
Denominazione adottata con il D.P.R. n. 342 del 21/3/1956, per onorare Camillo Golgi (1843-1926), premio
Nobel per la medicina nel 1906.
Denominazione adottata con il D.P.R. n. 1996 dell’8/11/1963.
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3. Toponimi in regioni plurilingui
Tra le tante tematiche socio-politiche implicate nella toponomastica, quella che è senza dubbio la più ‘scottante’ in Italia, è la questione della toponomastica in regioni bi- o plurilingui (o
marcatamente diglottiche). Questa tematica riemerge con una certa frequenza in due contesti
specifici: le regioni con bilinguismo riconosciuto (in particolar modo il Trentino Alto Adige Südtirol) e le regioni dove è sentita la necessità di tutelare i dialetti e le parlate locali anche a livello della toponomastica. Il dibattito in certi momenti è stato così acceso da assumere i toni di
una crociata, a dimostrazione di quanto queste questioni, all’apparenza solo ‘tecniche’, possano essere vissute come possibili minacce alla propria ‘identità’. In fondo, l’idea di un convegno
scientifico su queste tematiche nasce proprio dalla constatazione di quanto mal posto, e potenzialmente pericoloso, fosse un dibattito lasciato agli umori delle piazze ed alle strumentalizzazioni politiche su questioni così delicate.
Se ci si distacca dai problemi contingenti dei ‘dispetti’ tra comunità linguistiche diverse e si
pensa in termini generali, astraendo dai casi specifici, è evidente che un semplice principio di
economia richiederebbe che, di regola, per scopi burocratico-amministrativi, si adottasse una
denominazione unica per ogni località. Una situazione come quella attuale dell’Alto Adige Südtirol, in cui ogni località ha due toponimi, non solo è altamente dispendiosa in termini di appesantimento di ogni testo contenente nomi di luoghi – si pensi solo al dover predisporre carte geografiche irte di nomi doppi – ma dà anche luogo a diversi problemi pratici. Basti pensare al solo problema delle ‘precedenze’: se ci si propone di usare due nomi in condizioni di parità, non essendo possibile usarli entrambi ‘simultaneamente’, uno dovrà precedere l’altro. Ne
risulta che ogni toponimo potrebbe avere almeno quattro denominazioni: A, B, A+B, B+A (e
di questo passo, nelle zone trilingui, le possibilità si moltiplicano, con almeno nove possibilità:
A, B, C, A+B+C, A+C+B, B+A+C, B+C+A, C+A+B, C+B+A). Chiunque abbia vissuto anche
solo per brevi periodi in quelle regioni avrà costatato quante volte questo moltiplicarsi dei nomi finisca col rendere difficile l’individuazione di una stessa località denominata in tanti modi diversi. Senza contare che non di rado il fatto stesso di dare la precedenza alla denominazione ‘italiana’ o a quella ‘tedesca’ o ‘ladina’ viene anch’esso vissuto come un ‘favore’ a un gruppo linguistico o un ‘dispetto’ ad un altro, col che il principio stesso di ‘parità’ invocato come
motivo della moltiplicazione dei toponimi bilingui viene in gran parte vanificato. Per rifarci ad
una situazione analoga, benché diversa, un problema simile emerge in una delle proposte contro il ‘sessismo’ della lingua, vale a dire la proposta di evitare il maschile generico per esprimere ambo i sessi, e di far ricorso invece allo splitting, nominando sia i maschi che le femmine (in pratica, non i lavoratori ma i lavoratori e le lavoratrici). Anche questo, però, non è garanzia di perfetta parità: nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Alma Sabatini, al momento di proporre alternative all’uso di uomo nel senso generico di
‘essere umano’, raccomanda, tra l’altro, «donna e uomo (donne e uomini) alternato con uomo
e donna (uomini e donne) perché, se si continua ad anteporre il maschile al femminile, si persi-
3.1. Lo splitting
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ste nel considerare il maschio più importante» (Sabatini 1987: 107). Essa, infatti, è consapevole che tra le «dissimmetrie grammaticali» che impediscono una ‘parità’ linguistica vi è «la precedenza del maschile nelle coppie oppositive uomo/donna. Es.: i ragazzi e le ragazze, fratelli e
sorelle, bambini e bambine, ecc.».
Anche quando viene esplicitata la presenza della donna, il primo nome che si offre
alla mente di “locutori e locutrici” è sempre il maschile, ribadendo ulteriormente la sua
preminenza linguistica. Si potrebbe anche rilevare una coincidenza con la regola d’uso
secondo cui, nelle coppie oppositive positivo/negativo, si dà generalmente la prima posizione al positivo: i buoni e i cattivi, il bello e il brutto, il vero e il falso, ecc. La stessa denominazione della Commissione segue automaticamente questa regola, parlando di
“parità tra uomo e donna”! (Ivi: 28).
La proposta di ‘alternare’ le precedenze per esprimere parità è nei fatti presente nel caos di
denominazioni che si riscontrano in tutta la provincia di Bolzano, anche se va ricordato che la
lettera dello Statuto di Autonomia prescriverebbe – almeno implicitamente – un monolinguismo
‘italiano’, con la concessione dell’uso «anche» della toponomastica locale «nei riguardi dei cittadini di lingua tedesca».14
3.2. Importanza
del consenso
Un elemento fondamentale che andrà sempre tenuto presente nel trattare queste questioni è
quello del consenso. Come i toponimi tradizionali sono nati e si sono imposti per il consenso
della comunità, così anche le denominazioni ufficiali non potranno non tener conto delle denominazioni in uso nelle comunità dei residenti, soprattutto per le località ‘minori’, per le quali è
meno giustificata la ricerca di ‘traduzioni’ e nomi alternativi.
Certo, il ‘consenso’ è un concetto inafferrabile e cangiante. Ai tempi dell’unità d’Italia, era
pacifico che i nomi dei luoghi, benché usati perlopiù nella lingua parlata, cioè il dialetto (De
Mauro 1963), venissero ‘italianizzati’ per sottolineare, anche con questi dati linguistici, l’aspirazione ad un’unità della nazione.15 Negli ultimi decenni, però, questo consenso generale è venu14
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Art. 101: «Nella Provincia di Bolzano le amministrazioni pubbliche devono usare, nei riguardi dei cittadini
di lingua tedesca, anche la toponomastica tedesca, se la legge provinciale ne abbia accertata l’esistenza ed
approvata la dizione».
Quando non ci si limitò a consacrare le denominazioni ‘in lingua’ già esistenti ma si procedette a cambiamenti di maggiore portata, non mancarono anche allora le voci di dissenso. Si veda, per esempio, la nota
che Giovanni Spano fa seguire ad una canzone di poeta anonimo dal titolo eloquente Nell’occasione che il
villaggio di Norghiddo assunse l’altro nome di Norbello: «Allorché nel 1866 invase lo spirito dei Municipii,
di innestare e di cambiar i nomi a villaggi, e di tanti senza il bisogno, io fui consultato dal Sindaco di questo
villaggio per escogitare un nome adattato al progresso che aveva fatto. Io risposi che nome più classico di
quello che aveva non poteva suggerire, perché era nome fenicio del primo colono che si fissò in quel sito,
NOR, luce, fuoco, dimora, casa, e GHID felicità, fortuna: tanto più che non si confondeva con altri villaggi
omonimi. Esso municipio però troppo corrivo all’idea di novità inoltrò la domanda e l’ottenne: quindi ben
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to indebolendosi, e sull’onda di uno scontento verso il ‘centralismo romano’, sono sorti partiti e
movimenti che richiedono il ritorno ai nomi dialettali, a volte conducendo vere e proprie guerre
di cartelli stradali contro le autorità nazionali che non vogliono riconoscere quelle denominazioni.
Con la fine dell’isolamento dei piccoli centri e lo sviluppo di comunicazioni sempre più intense e a vasto raggio, i problemi della toponimia locale non riguardano più solo le comunità
indigene, e quindi coinvolgono, a diverso titolo, anche entità maggiori a livello regionale e anche nazionale. Sembra sempre più indispensabile anche un ‘consenso’ della comunità nazionale, dello Stato.
L’esempio di Epaminonda citato all’inizio fa capire come il problema si ponga, in termini di
potere, negli stati nazionali moderni. Se un luogo ‘ha ricevuto un nome’ in lingua diversa da quella nazionale, tale nome afferma un’appartenenza ‘fin dal principio’ ad una comunità diversa. È
per questo che dopo le guerre spesso i vincitori si affrettano a intervenire sulla toponomastica.16
Se gli Ateniesi volessero appropriarsi oggi di Sidai per prima cosa la ribattezzerebbero Rhoaì...
Non a caso il ‘problema’ dei toponimi è vivo in provincia di Bolzano mentre in Val d’Aosta
nessuno sembra richiedere un bilinguismo che perpetui i nomi fascisti di Valtornenza e San Vincenzo della Fonte per Valtournenche o Saint-Vincent. Bisogna dire le cose come stanno. Il Tirolo meridionale, conquistato con una guerra e mai assimilato linguisticamente e culturalmente, è
stato per decenni al centro di malaccorte manipolazioni politiche, con la sciagurata italianizzazione forzata del ventennio e la lacerante proposta delle ‘opzioni’ in tempo di guerra. Da molti esso viene tuttora percepito come una ‘minaccia’ all’unità d’Italia, e, vista da fuori, la ‘guerra dei cartelli’ che qui e solo qui riesplode ogni estate17 non sembra altro che un modo per tenere ‘sotto pressione’ questi strani cittadini che non parlano italiano e ricordare loro, anche con i
nomi italiani, che questa terra è ‘nostra’.
Come si vede vi sono oggi spesso interessi contrastanti ed un consenso che sia realmente
generale è difficile da conseguire e da verificare. Prima di intervenire in direzione contraria a
quella indicata dal consenso dalle popolazioni locali, è bene domandarsi a chi o a che cosa serva un nome di luogo in forma diversa dalla denominazione indigena. A ragioni di sicurezza nazionale? Alla comodità del turista? A semplificazione burocratica dell’amministrazione centrale? A gratificare quanti si sentono ‘esclusi’ da un sistema linguistico diverso dall’italiano? Alla volontà di fare un dispetto verso una popolazione sottomessa?
Se quest’ultima motivazione non viene nemmeno menzionata, tanto sarebbe contraria alla sensibilità contemporanea, l’animosità di certe prese di posizione sembra tradire comunque
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gli stia il regalo che gli ha fatto il poeta, e così il suo nome ora è diventato storico» (Spano 1870: 309).
Tra i tanti esempi che si potrebbero citare, ne ricordo qui uno particolarmente vicino e ancora attuale:
l’ebraicizzazione di toponimi arabi nei territori conquistati da Israele, su cui si veda Cohen-Kliot 1992 e
Zuckermann 2011.
È almeno dal 2009 che ogni estate vi sono polemiche, che a volte registrano l’intervento di ministri (Fitto,
estate 2010), sui cartelli indicatori dei sentieri, che spesso recano solo l’indicazione monolingue in tedesco
dei nomi locali.
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VERMONDO BRUGNATELLI
la presenza, sullo sfondo, di una larvata ‘guerra tra comunità’ facilmente manipolabile in senso sciovinista.
3.3. Il ‘bilinguismo’:
toponimi e sistemi
linguistici
Fig. 2 - Cartello bilingue
a Foresta-Forst (BZ).
Un argomento che si sente addurre come giustificazione di questa pletorica situazione nella Provincia di Bolzano è il ‘rispetto del principio del bilinguismo’. In nome di questo rispetto,
sono stati creati molti più toponimi italiani dal dopoguerra ad oggi di quanti ne avesse creati il
fascismo col senatore Ettore Tolomei.18 Chiunque continui a sostenerlo non ha però chiari i termini della questione. Si tratta in gran parte di un falso problema. Il bilinguismo attiene, infatti,
al sistema linguistico nel suo complesso: l’italiano o il tedesco, con i rispettivi sistemi morfosintattici e le rispettive componenti lessicali, ma in linea di principio esclude i nomi propri. Come non vengono ‘tradotti’ i nomi di persona (e i marchi industriali o le denominazioni di associazioni), non ha molto senso pretendere che debbano esserlo i nomi di luogo.
Anche negli atti ufficiali in italiano nessuno
pensa di ‘tradurre in italiano’ il nome di Luis
Durnwalder. Eppure sembra naturale che una
località come Durnwald debba per forza avere due nomi (con la buffa ‘traduzione’ Durna
in Selva). E il toponimo Forst resta in tedesco
nel nome della sua birra ma è ‘bilingue’ in Foresta-Forst (la località dove essa viene prodotta); allo stesso modo, la squadra di calcio di St.
Georgen-San Giorgio ha partecipato al campionato nazionale di serie D col proprio nome
monolingue di St. Georgen.
È vero che ogni lingua possiede degli esonimi, ossia delle proprie denominazioni per
toponimi che hanno nomi nati ed integrati in
altri sistemi linguistici, ma si è sempre trattato di un uso relativamente marginale e limitato soprattutto a città e stati di una certa importanza. Inoltre, negli ultimi tempi vi è una forte tendenza al regresso di questi usi: se ancora si conservano in italiano i toponimi relativi a capitali come Berlino, Parigi o Algeri, oggi è quasi scomparso l’uso di Magonza per Mainz, Lil-
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Un dato che mi è stato segnalato da un addetto stampa del Commissariato del Governo di Bolzano: «la stragrande maggioranza dei nomi è stata coniata ben dopo il nefasto regime fascista (si pensi all’odonomastica)»
(e-mail 25 agosto 2009).
LA TOPONOMASTICA COME SIMBOLO IDENTITARIO E COME STRUMENTO POLITICO
la per Lille o Bugia per Béjaia.19 Il fenomeno si è accelerato da quando, a seguito di importanti fenomeni storici come la decolonizzazione o la disintegrazione dell’Unione Sovietica, si sono affermati molti ‘nuovi’ endonimi, il cui uso viene spesso associato a una volontà di riscatto da parte di popoli in precedenza oppressi anche con una toponomastica imposta. Oggi capita sempre più spesso che si parli di Myanmar e non della Birmania, dello Sri Lanka invece di
Ceylon, di Mumbai e non di Bombay, della Moldova e non della Moldavia. Quest’ultimo toponimo è stato per qualche tempo al centro di un dibattito perché, dopo l’indipendenza (1991), le
autorità del nuovo stato, ansiose di vederne utilizzato il ‘vero’ nome, fecero forti pressioni perché dovunque si usasse quello di Moldova in luogo delle denominazioni esistenti in precedenza. Tanto che la denominazione usata oggi dal Ministero degli esteri italiano è Repubblica di
Moldova (anche se è tuttora diffuso e forse prevalente l’esonimo tradizionale Moldavia).20 Con
questo esempio vediamo a quale distanza arrivino oggi a proiettarsi i problemi della toponomastica. Personalmente ho avuto modo di seguire i dibattiti che per qualche tempo si intrecciarono
sull’argomento, venuto di attualità per via di vicende sportive della nazionale calcistica di quel
paese, e ricordo quanti trovassero ingiusto ‘modificare la propria lingua’, foss’anche per compiacere un governo di un paese da poco indipendente.21
E così, se a partire dalle regioni bilingui alcune denominazioni ‘italiane’ sono ormai divenute
di uso corrente anche al di fuori dell’ambito locale, può non essere semplice ‘ripristinare’ semplicemente le antiche denominazioni. Ma è certamente fuori dal tempo ostinarsi a creare nuovi
nomi italiani per qualunque toponimo che ne sia sprovvisto.
Che cosa sia ragionevole fare oggi, dopo il ‘fatto compiuto’ di un’italianizzazione forzata che ha creato comunque toponimi con una certa diffusione anche nell’uso ‘nazionale’, non
è facile a dirsi. Ma ha poco senso appellarsi al ‘bilinguismo’ per continuare senza ripensamenti su questa strada. Non è questa la sede per stilare ricette, oltretutto in un campo in cui già esi-
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In questo l’uso relativo ai toponimi si sta conformando a ciò che è già avvenuto per i nomi di persona.
Fino agli inizi del Novecento era facile imbattersi nella ‘traduzione’ di nomi, e a volte anche di cognomi
di personalità straniere. Ma con l’ampliarsi degli orizzonti spaziali caratteristico della globalizzazione, i
nomi stranieri nei discorsi quotidiani sono sempre più numerosi, e per esempio i frequentatori di qualunque
‘Bar Sport’ si orientano senza difficoltà anche tra i nomi più esotici, come Eto’o o El Shaarawi; inoltre,
un ‘secondo nome’ attribuito da altri può essere un segno di rispetto ma può anche essere percepito come
un ‘nomignolo’ non sempre gradito. Il motivo di questo anticipo nel reintegro dei nomi personali rispetto
ai toponimi mi sembra facilmente individuabile nel fatto che le persone si possono risentire e difendere, i
luoghi no.
Dal toponimo italiano si ha anche l’aggettivo di nazionalità moldavo, ottenuto con la stessa procedura di
russo da Russia o di greco da Grecia, che è quello, a mia conoscenza, tuttora di uso corrente, mentre una
forma *moldovano da Moldova non mi risulta usata da nessuno.
Analogamente, il caposcuola francese della berberistica, Lionel Galand, continua ad usare il termine berbère
‘berbero’ per indicare la lingua oggetto dei suoi studi, benché molti nordafricani gli chiedano di usare l’autodenominazione tamazight, affermando di avere tutto il rispetto per quella lingua, ma di non desiderare per
questo cambiare la propria.
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VERMONDO BRUGNATELLI
ste una legislazione, per quanto redatta in termini poco rigorosi dal punto di vista linguistico.22
In linea di principio, sembrerebbe comunque ragionevole che si trovasse il modo di limitare i
nomi ‘bilingui’ allo stretto indispensabile mantenendo per il resto uno statuto di maggiore ufficialità ai nomi locali.
3.4. I toponimi
come ‘patrimonio
immateriale’
Per passare ad un’altra realtà italiana, è interessante notare come il ‘bilinguismo’ sia stato
richiamato anche, di recente, dal prefetto di Sondrio, per negare il permesso di intitolazione di
una via di Frontale, frazione di Sondalo, ai Minör, i minatori del luogo: «la normativa vigente
non consente l’intitolazione della nuova via in dialetto, né una doppia intitolazione, in lingua
italiana e in dialetto, non essendo questa una provincia ove vige il bilinguismo».23 Questo ricorso a princìpi superiori per negare un’istanza condivisa da una piccola comunità locale è oltretutto ben difficile da praticare con rigore su tutto il territorio nazionale: si pensi alla via dei
Martinitt a Milano, dedicata ai piccoli ospiti di uno storico orfanotrofio cittadino, noti proprio
con questo nome vernacolo.
Se riflettiamo su quest’ultimo episodio di Frontale, vediamo con chiarezza qual è la posta
in gioco. Qui è in gioco il patrimonio della storia. La umile ma fiera e orgogliosa storia di una
piccola comunità che era caratterizzata da questo antico e massacrante mestiere. E nulla meglio della lingua o del dialetto locale riesce ad esprimere questa storia locale condivisa. Contro
di essa si muove la logica dello Stato giacobino, che in nome dell’unità politica tende invece a
negare ogni particolarismo linguistico e culturale.
I toponimi ereditati dalla tradizione sono un prezioso ‘patrimonio immateriale’, precipitato di
secoli di storia e di evoluzione linguistica. Cancellarli sarebbe come distruggere i Buddha nella roccia afghani. Ma anche affiancar loro a tutti i costi creazioni moderne senza storia sarebbe
come piazzare accanto ad ogni obelisco o monumento antico una riproduzione più o meno fedele in plastica o acciaio, forse ‘più fruibile’ ma indubbiamente invadente e fuori posto. Pensiamo
all’aspetto grottesco di un ipotetico odonimo ‘bilingue’ *via degli Orfanelli/via dei Martinitt...
A conclusione di questo mio intervento non ho ritenuto fosse il caso di avanzare delle ‘proposte’ concrete. Ad esse potremo eventualmente dedicare le prossime assemblee del Gruppo di
Studio sulle Politiche Linguistiche o anche ulteriori, auspicabili, convegni. Mi è sembrato importante qui passare in rassegna alcuni aspetti fin qui poco approfonditi della toponomastica,
e spero di aver in tal modo adempiuto al compito affidatomi di introdurre i lavori di questo in-
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Per fare un esempio del livello di approssimazione terminologica e concettuale che caratterizza la legislazione
in materia linguistica, basti pensare che il sopra ricordato art. 101 dello Statuto di Autonomia, quello che
sancisce il principio del ‘bilinguismo’ della toponomastica altoatesina, rende in italiano con dizione (cioè,
sembra intendersi, ‘pronuncia’) ciò che nel testo tedesco è Bezeichnung, vale a dire ‘denominazione’.
Da una nota del viceprefetto vicario Luigi Scipioni al municipio di Sondalo del 30 maggio 2011: il testo è
quello riportato in «La Provincia di Sondrio», 15 giugno 2011; più succinto ma dello stesso tenore, e sempre
virgolettato, quello riportato dal «Corriere della Sera», 19 giugno 2011, 13.
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contro, in cui tanti altri colleghi esporranno i loro punti di vista e le loro riflessioni su un argomento estremamente vasto e gravido di implicazioni che vanno al di là degli ambiti più tradizionali della linguistica.
Nella storia delle discipline linguistiche, il confronto con il mondo esterno, l’extralinguistico, accuratamente evitato agli albori, si è mostrato sempre più ineludibile, dapprima con la nascita della sociolinguistica e in seguito ancora di più con l’emergere degli studi di ‘pianificazione linguistica’. È una sfida importante che attende i nostri studi quella che ci impone oggi di
inoltrarci, senza abbandonare il rigore scientifico e le metodologie collaudate, anche negli insidiosi territori degli aspetti politici e di potere con cui deve fare i conti la pianificazione in ambito toponomastico.
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