Gli scritti di cultura medievale e umanistica di

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Gli scritti di cultura medievale e umanistica di
Studi e ricerche sui saperi Medievali
Peer e-Review annuale dell’Officina di Studi Medievali
Direttore
Giuseppe Allegro
Vicedirettore
Armando Bisanti
Direttore
editoriale
Diego Ciccarelli
18 (gennaio-dicembre 2016)
MEDIAEVAL SOPHIA 18
(gennaio-dicembre 2016)
Mediaeval Sophia 18
gennaio-dicembre 2016
Sommario
Studia
Ezio Albrile, Notti alchemiche. Frammenti ermetici taurinensi 1
Antonino Cannata, Antonino Mazzaglia, Claudia Pantellaro, Salvatore Russo, Ricerche nel territorio di c.da Cugno Case Vecchie. Primi
dati dalla tomba con menorah incisa
23
Françoise Dejoas, La maiolica a lustro d’importazione spagnola a
Gela (CL). Il caso del Castelluccio di Eraclea-Terranova nel XV secolo 35
Francesca Garziano, Un complesso documentario inedito: Il Fondo
Pergamene della Biblioteca Fardelliana di Trapani. Per uno studio sulla
società e sulla religiosità trapanese del XIII secolo 55
Maria Vittoria Martino, Le Origines di Catone tra Servio e Isidoro
di Siviglia: uno studio sulle fonti
111
Alessia Martorana, L’exemplum de canicula lacrimante nella Disciplina Clericalis di Pietro Alfonsi
117
Guglielmo Russino, Confronti pericolosi. La differenza religiosa e i
rischi del pluralismo 129
Domenico Sebastiani, Dalla civiltà del grano a quella della carne.
Gli animali e l’alimentazione del nobile medievale
137
Postilla
Armando Bisanti, «Humanae ac divinae litterae». Gli scritti di
cultura medievale e umanistica di Mauro Donnini «Mediaeval Sophia». Studi
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e ricerche sui saperi medievali
E-Review annuale dell’Officina di Studi Medievali
17 (gennaio-dicembre 2015), pp. V-VIII
171
VI
Mediaeval Sophia 18 (gennaio-dicembre 2016) - Sommario
Sabrina Crimi, L’Algorismus proportionum di Nicola d’Oresme e i
Flores Almagesti di Geber: un testimone palermitano 215
Giuseppe Muscolino, The Salvation of Mankind in Late Antiquity:
concerning a recent Study
225
Lecturae
235
Acqua e territorio nel Veneto medievale, a cura di Dario Canzian e Remy Simonetti,
Roma, Viella, 2012, pp. 257, ill. (Interadria culture dell’Adriatico, 16), ISBN 978-888334-959-1 (Marzia Sorrentino)
Averroè, Il Trattato decisivo sulla connessione della religione con la filosofia, a cura
di Massimo Campanini, testo arabo a fronte, Milano, Rizzoli, 2015 (Gabriele Papa)
Paolo Bianchi, Inchiostro antipatico. Manuale di dissuasione dalla scrittura creativa,
Milano, Bietti, 2012 (Antonella Maria Giovanna Modica)
I Camaldolesi ad Arezzo. Mille anni di interazione in campo religioso, artistico, culturale. Atti della giornata di studio in occasione del millenario della fondazione del
Sacro Eremo di Camaldoli (Arezzo, 9 ottobre 2012), a cura di Pierluigi Licciardello,
Arezzo, Società Storica Aretina, 2014 (Armando Bisanti)
Santino Alessandro Cugno, Dinamiche insediative nel territorio di Canicattini Bagni
(SR) tra Antichità e Medioevo, Oxford, British Archaeological Reports (B.A.R. International Series 2802), 2016 (Marta Fitula)
Il Desiderio nel Medioevo, a cura di Alessandro Palazzo, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 2014 (Giuseppe Allegro)
Des Saints et des Rois. L’hagiographie au service de l ’histoire. Textes réunis par Françoise Laurent, Laurence Mathey-Maille et Michelle Szkilnik, Paris, Champion, 2014
(Armando Bisanti)
Estudios de Filología e Historia en honor del profesor Vitalino Valcárcel, coord.
Iñigo Ruiz Arzalluz, edd. Alejandro Martínez Sobrino, María Teresa Muñoz García de
Iturrospe, Iñaki Ortigosa Egiraun, Enara San Juan Manso,Vitoria, Universidad del País
Vasco – Gasteiz, Euskal Herriko Unibertsitatea, 2014 (Armando Bisanti)
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Mediaeval Sophia 18 (gennaio-dicembre 2016) - Sommario
VII
Fiorentino ville désertée. Nel contesto della Capitanata medievale (ricerche 19821993), a c. di M.S. Calò Mariani, Françoise Piponnier, Patrice Beck, Caterina Laganara, Collection de l’École Française de Rome – 441, Rome 2013 (Ferdinando Maurici)
Forme della polemica nell’omiletica latina del IV-VI secolo. Convegno Internazionale
di Studi (Foggia, 11-13 settembre 2013), a cura di Marcello Marin e Francesca Maria
Catarinella, Bari, Edipuglia, 2014 (Armando Bisanti)
Tito Livio Frulovisi, Emporia, edizione critica, traduzione e commento a cura di Clara
Fossati, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2014 (Armando Bisanti)
Gianfranco Maglio, La coscienza giuridica medievale. Diritto naturale e giustizia nel
medioevo, Padova, CEDAM, 2014 (Antonella Maria Giovanna Modica)
Pietro Maranesi - Massimo Reschiglian, «Beato il servo che…». Intorno alle Ammonizioni di frate Francesco, Studio Teologico Interprovinciale S. Bernardino-Verona,
Atti della Settimana di studi Francescani Cavallino (VE), 1-6 Settembre 2013, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2014 (Maria Cesare)
Menegaldi In Ciceronis Rhetorica Glose, edizione critica a cura di Filippo Bognini,
Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2015 (Giada Boiani)
Obscurity in Medieval Texts, edited by Lucie Doležalová, Jeff Rider and Alessandro
Zironi, Krems, Institut für Realienkunde des Mittelalters und der frühen Neuzeit, 2013
(Armando Bisanti)
Francesco Petrarca, Rerum memorandarum libri, a cura di Marco Petoletti, Firenze,
Le Lettere, 2014 (Armando Bisanti)
Il Ritorno dei Classici Nell’Umanesimo. St udi in memoria di Gianvito Resta, a cura di
Gabriella Albanese, Claudio Ciociola, Mariarosa Cortesi, Claudia Villa, coordinamento editoriale e indici a cura di Paolo Pontari, Firenze, SISMEL- Edizioni del Galluzzo,
2015 (Armando Bisanti)
Daniele Solvi, I Santi Lebbrosi. Perfezione cristiana e malattia nell’agiografia del
Duecento, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2014 (Maria Cesare)
Studi sull’opera di Alberto Varvaro, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici
Siciliani, 2015 (Armando Bisanti)
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Attività OSM gennaio-dicembre 2016299
Abstracts, curricula e parole chiave
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Armando Bisanti
«Humanae ac divinae litterae». Gli scritti
di cultura medievale e umanistica di Mauro Donnini*
Nel giugno del 2013 la Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo
di Spoleto (CISAM) ha pubblicato, nella collana «Biblioteca del Centro per il Collegamento degli Studi Medievali e Umanistici in Umbria», diretta da Enrico Menestò,
un imponente vol. di più di 1000 pagine, contenente la maggior parte degli studi, dei
saggi, degli articoli e delle note critico-filologiche di Mauro Donnini sulla cultura e la
letteratura latina medievale e umanistica.
Mauro Donnini, prima insegnante di Latino e Greco nei licei classici di Perugia
e quindi, per molti anni,professore associato e quindi ordinario di Filologia Latina Medievale e Umanistica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo della stessa
città, ha dispiegato un’ampia e varia attività scientifica nel vasto campo della letteratura mediolatina e umanistica in Italia e in Europa. Entro una produzione che spazia
in ambiti di ricerca differenti e diversamente articolati, significativa attenzione è stata
conferita dallo studioso ad alcuni temi principali e ricorrenti, quali l’edizione critica
di testi fino ad allora inediti o mal editi; lo studio della lingua e dello stile degli scrittori medievali e umanistici; le tecniche di “riscrittura”, di “parafrasi” e, soprattutto, di
“versificazione” di testi prosastici (ma anche di rielaborazioni, in versi, di precedenti
testi poetici); l’analisi della tecnica del racconto (secondo una linea d’indagine molto
attiva, proficua e produttiva, oltre che “moderna”, in linea con le ricerche esperite da
Propp, Greimas e Segre); il rapporto fra gli scrittori medievali e umanistici e i loro
auctores classici; infine, gli studi e le indagini sulla cultura, la letteratura e l’agiografia
latina in Umbria fra Tardo Medioevo e Umanesimo. Tematiche, queste, tutte ben messe in risalto ed evidenziate da Donnini nei saggi di cui si compone il vol. del quale, fra
breve, tenterò di operare una rassegna, e, d’altra parte, già ben vive anche nelle sue più
impegnative monografie, e cioè, fra l’altro, l’edizione della parafrasi in versi latini dei
Dialogi di Gregorio Magno, allestita nel sec. XIII e attribuita al cosiddetto Anonimo
di Jumièges (Anonymus Gemeticensis), e quella del Teleutologium di Ubaldo di Sebastiano da Gubbio, redatto fra il 1326 e il 13271 (si tratta, pur sempre, di edizioni criti* Questa postilla prende spunto dalla pubblicazione del vol. di Mauro Donnini, «Humanae ac
divinae litterae». Scritti di cultura medievale e umanistica, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo
(CISAM), Spoleto (PG) 2013, pp. XX + 1076 (Biblioteca del «Centro per il Collegamento degli Studi
Medievali e Umanistici in Umbria», n. 25), ISBN 978-88-6809-016-6.
1
Anonimo di Jumièges, I «Dialogi» di Gregorio Magno. Parafrasi in versi latini (sec. XIII), a
«Mediaeval Sophia». Studi e ricerche sui saperi medievali
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che di testi poco e mal noti e fino ad allora assolutamente inediti, a riprova di quanto si
è detto poc’anzi circa l’attenzione dedicata da Donnini all’inedito e al raro).
Prima di intraprendere la presentazione e la disamina del vol. in questione, occorre dire subito che esso accoglie ben 46 saggi – fra edizioni, studi, saggi, articoli,
relazioni congressuali e note – suddivisi in sette sezioni tematiche (delle quali si darà
conto fra breve e che, d’altra parte, costituiscono i centri privilegiati dell’attività scientifica di Donnini), per un complesso – come si è detto in apertura di questa “postilla”
– di più di 1000 pagine. I saggi qui accolti sono proposti in ristampa anastatica e si
distendono, per gli argomenti da essi esibiti, lungo un arco cronologico d’interesse che
va dalla fine dell’Antichità classica fino all’Umanesimo e all’incipiente Rinascimento
(l’autore più recente fra quelli di cui lo studioso si occupa, se non vado errato, è l’eugubino Agostino Steuco, morto nel 1548); mentre, per quanto attiene alle date di pubblicazione, ci troviamo di fronte a un patrimonio di studi editi nel corso di 33 anni, dal
1979 (le due note sull’Accessus Ovidii epistularum e sulla Lectura Ovidii epistularum
del cod. Assisi, Biblioteca Civica, lat. 302) al 2012 (il saggio sulle sedimentazioni del
racconto della vigna di Nabot nella Historia Tudertine civitatis), a ulteriore testimonianza di una “lunga fedeltà”2 e di un impegno costante, inesausto e ininterrotto. E,
sempre in via preliminare, occorre rilevare l’importanza e l’opportunità di ripubblicare, in un unico corpus, gli scritti di Donnini, onde consentire agli studiosi di poter
disporre, tutti di seguito e tutti insieme, di interventi sparsi qua e là, in riviste, in atti di
convegni, in raccolte di studi in onore e in miscellanee non sempre e non tutti di facile
e immediato reperimento. Importanza e opportunità di ripubblicazione dei contributi
dello studioso che – sembra quasi superfluo rilevarlo – è dovuta anche, e soprattutto,
all’eccellente qualità scientifica di tutti gli interventi che qui vengono ripresentati, per
non dire dell’invidiabile chiarezza espositiva palesata da Donnini in tutti i suoi scritti,
da quelli più giovanili a quelli dell’età più matura e provetta.
Nella lettura e nella schedatura dei singoli contributi seguirò l’ordine secondo
il quale essi vengono via via accolti e ristampati nel volume. Trattandosi di una serie
cospicua di studi, mi limiterò, di volta in volta, a una schematica (ma, comunque, non
scheletrica) presentazione del singolo saggio, con le notizie più significative su di esso
e, laddove lo riterrò necessario, con la citazione di uno o più passi (molti di questi incura di M. Donnini, Roma 1988; Ubaldo da Gubbio, Teleutologio, a cura di M. Donnini, Firenze 1983.
Entrambi i volumi furono, a suo tempo, segnalati da C. Roccaro, rispettivamente in «Schede Medievali»
18 (1990), pp. 153-154; e in «Schede Medievali» 8 (1985), p. 210. Per il Teleutologium cf. anche il più
recente intervento di E. Bertin, Nuovi argomenti per l’idiografia di un testimone del «Teleutelogio» di
Ubaldo di Bastiano da Gubbio, in «Filologia Italiana» 4 (2007), pp. 79-88. Della versificazione dei Dialogi di Gregorio Magno si tornerà a parlare nel corso di questa rassegna (cf. infra, § 4.5). Si aggiungano,
tra le monografie, due volumi nei quali Donnini, ormai oltre un quindicennio fa, ha raccolto alcuni dei
suoi saggi precedenti (la più gran parte dei quali ora ripubblicati nel vol. oggetto di questa “postilla”):
M. Donnini, Testi e saggi di letteratura latina medievale e umanistica, Spoleto (PG) 1998; Id., «Ars
scribendi et narrandi». Aspetti di lingua, di stile e di narratologia in testi mediolatini, Spoleto (PG) 1999.
2
Mutuo qui il titolo di un celebre saggio di G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio
Montale, Torino 1974.
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«Humanae ac divinae litterae». Gli scritti di cultura medievale e umanistica...
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terventi, d’altronde, sono ben conosciuti dagli specialisti), e ancora con l’indicazione
completa, in nota, della sede originaria (rivista, atti di convegno, studi in onore, volume miscellaneo, etc.) in cui essi sono stati precedentemente pubblicati.
Un diverso modo di presentazione segue invece Giuseppe Cremascoli nel suo scritto introduttivo al vol. (Prefazione, pp. IX-XVI) – e così entriamo finalmente in medias
res –, laddove il più anziano studioso (fra l’altro ben vicino a Donnini per ambiti di ricerca e d’interesse, oltre che per reciproci rapporti d’affetto e di stima) delinea con grande
chiarezza e capacità di sintesi (quella chiarezza e capacità di sintesi che tutti noi, suoi più
giovani colleghi, gli riconosciamo) i contenuti della pubblicazione, articolando la disamina dei contributi in essa ospitati secondo le principali linee di indagine perseguite dallo
studioso (recupero di dati sull’interpretazione dei classici in epoca medievale; edizioni
critiche di testi inediti o rari; studio della lingua e dello stile degli scrittori mediolatini e
umanistici; rapporti con gli auctores, e così via) e osservando, fra l’altro, che «i saggi […]
raccolti sono attraversati da una categoria fondamentale della storia dello spirito, cioè
l’amore della parola, che si traduce nell’impegno a scrutarne l’intima forza nei testi scelti
come base di ricerche e studi» (p. IX); ancora, che essi «hanno come ambito di discorso la
letteratura dell’età di mezzo e dell’umanesimo nella varietà dei generi in cui si è espressa
lungo il corso dei secoli ed anche in testi inediti, portati alla luce in edizione critica» (p.
IX); e, infine, che «ricchissimo è […] l’ambito delle humanae ac divinae litterae in cui si
è mosso il Donnini nella sua carriera di studioso e di docente. Ne sono frutto i contributi
ai quali qui si è fatto cenno, e gli altri che si snoderebbero numerosi nell’eventuale elenco
di una bibliografia completa» (p. XVI).3
1. Come si accennava poco più sopra, la materia del vol. è suddivisa in sette sezioni: 1. Edizioni; 2. Saggi; 3. Lingua e stile; 4. Le versificazioni: le tecniche e i testi;
5. Il riuso delle auctoritates; 6. Analisi del racconto; 7. Note.
La prima sezione (Edizioni, pp. 1-251) comprende otto contributi, che qui di
seguito si passano in rassegna.
3
Purtroppo manca, nel vol., la bibliografia completa dello studioso (fino al 2013, anno di pubblicazione del vol. stesso). Fra i saggi di Donnini qui non accolti (alcuni dei quali riguardano, però, più la
letteratura tardoantica che quella medievale e umanistica), segnalo i seguenti: Annotazioni sulla tecnica
parafrastica negli «Evangeliorum libri» di Giovenco, in «Vichiana» 1 (1972), pp. 231-249; Alcune
osservazioni sul programma poetico di Sedulio, in «Rivista di Studi Classici» 26 (1978), pp. 427-436;
Sul «De vita et moribus philosophorum» di fra Marco Michele da Cortona, in «Studi Francescani» 77
(1980), pp. 263-283; La «Vita Lactantii» di fra Marco Michele da Cortona, in «Studi Francescani» 78
(1981), pp. 123-131; Tre fogli di Gualtiero Burleo nel codice Asis. lat. 570, in «Giornale Italiano di
Filologia» 33 (1981), pp. 135-139; Sul testo di Cesare e di Curzio Rufo nel «De pedestribus certaminibus» di Lilio Tifernate, in «Giornale Italiano di Filologia» 37 (1985), pp. 123-126; «Est ara porcorum
brevis, et non ara deorum» (Osb. Pan. p. 20 ed. Mai), in «Giornale Italiano di Filologia» 44 (1992), pp.
299-303; Su alcune «Allegoriae in universam Sacram Scripturam» dello Pseudo-Rabano Mauro, on
line in «Mediaeval Sophia» 11 (2012), pp. 104-118. Altri contributi qui non ripubblicati verranno via
via indicati infra, quando ciò sarà ritenuto necessario.
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Armando Bisanti
1.1. L’«Accessus Ovidii epistularum» del cod. Asis. Bibl. Civ. 302 (pp. 3-11).4
Fra i mss. poco o punto studiati della Biblioteca Comunale di Assisi va segnalato il cod. lat. 302, cartaceo del sec. XV, già sommariamente descritto dal Mazzatinti,5
che comprende tre testi di carattere scolastico: le Glose magistri Petri de Canephys de
Parma super Thebaida (ff. 6r-136v), la Lectura Ovidii epistularum (ff. 138r-238v) e il
Commentarium in Senecae declamationes (ff. 239r-273v).
Donnini si sofferma, in particolare, sull’Accessus Ovidii epistularum (ovvero le
Heroides) che si legge in apertura del commento ovidiano e occupa i ff. 138r-138v. Lo
studioso presenta e analizza l’accessus in questione (la cui ediz. critica viene riportata
in appendice, alle pp. 8-11), istituendo convincenti raffronti con altri testi relativi agli
accessus ovidiani e cercando di mettere in risalto la tecnica in esso utilizzata dall’anonimo autore: una tecnica che, nelle sue linee essenziali, non ha nulla di differente
rispetto alla maggior parte di quelle usate negli accessus relativi alle opere di Ovidio;
inoltre, «è bene avvertire […] che la stessa esigenza di chiarezza dovuta alla destinazione scolastica cui tali testi erano riservati, lo stesso elementare schematismo, le
stesse formule a volte perfino con identità di espressione non pregiudicano una certa
libertà e autonomia che si esplicano non solo nel togliere e aggiungere qualche dato
più o meno significativo, ma soprattutto […] nella capacità di ricercare spiegazioni
nuove o di fornire notizie che in alcuni casi sono rivelatrici anche di fantasiosa genialità» (pp. 7-8).6
1.2. Il carme «Ad honorem domini Ladislai incliti regis Apulie» di Bartolomeo
del Regno (pp. 13-20).7
Facendo seguito a un suo di poco precedente intervento – qui non riproposto in
volume –8 Donnini pubblica un inedito di Bartolomeo del Regno,9 ossia un lungo carme esametrico (189 versi) in onore di Ladislao d’Angiò Durazzo, re di Napoli (inc. Regia Fama volans magna fuit excita pennis), conservato soltanto nel ms. Vat. lat. 5386
della Biblioteca Apostolica Vaticana (ff. 2r-6r). L’edizione vera e propria del testo (pp.
4
Già in «Giornale Italiano di Filologia» 31.1 (1979), pp. 21-29.
G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, IV, Forlì 1894, p. 69.
6
Donnini pubblicò nello stesso anno, e sempre nel «Giornale Italiano di Filologia» un altro articolo sulla Lectura Ovidii epistularum del cod. 302 della Biblioteca Comunale di Assisi (qui ripubblicato
alle pp. 983-1003: cf. infra, § 7.1).
7
Già in «Giornale Italiano di Filologia» 38.3 (1986), pp. 235-242 (poi anche in M. Donnini, Testi
e saggi, cit., pp. 93-100).
8
Cf. M. Donnini, Il «De punctis» di Bartolomeo del Regno, in «Studi e Ricerche dell’Istituto di
Civiltà Classica, Cristiana e Medievale dell’Università di Genova» 7 (1986), pp. 73-84 (poi anche in
Id., Testi e saggi, cit., pp. 101-112).
9
Cf. G. Martellotti, s.v. Bartolomeo del Regno, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI,
Roma 1964, pp. 764-765 (poi in Id., Dante e Boccaccio e altri scrittori dall’Umanesimo al Romanticismo, a cura di V. Branca- S. Rizzo, con una premessa di U. Bosco, Firenze 1983, pp. 462-464: Martellotti, però, non faceva menzione del carme in oggetto); N. Marcelli, s.v. Bartholomaeus de Regno Apulie,
in C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), II.1, Firenze 2004, p. 49.
5
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17-20) è preceduta da una sintetica scheda introduttiva, nella quale lo studioso cerca di
individuare la cronologia – almeno approssimativa – del componimento (che dovrebbe
essere stato redatto intorno al 1408), delinea i contenuti e le tematiche in esso presenti,
ne rileva la sostanziale monotonia (dovuta a una sequela di lodi sperticate dell’illustre
destinatario, ripetute ad abundantiam), l’artificio e il convenzionalismo retorico: elementi, questi, che comunque sono perfettamente in linea con le caratteristiche di «quei
saggi di abilità versificatoria che i maestri bolognesi del tempo erano abituati a dare,
preoccupati non tanto di apparire originali, quanto piuttosto rispettosi delle regole delle varie poetrie» (p. 16).
1.3. Una prolusione inedita di Bartolino da Lodi (pp. 21-40).10
Il cod. B 116 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano, cartaceo del sec. XV,
trasmette ai ff. 91r-94r una prolusione in prosa di Bartolino da Lodi, dal lunghissimo
titolo Sermo editus per magistrum Bartholinum de Valvassoribus de Laude grammatice atque rhetorice doctorem 14° kalendas aprilis 1419 in gymnasio Caravatensi.
Essa, ancora inedita, viene ad aggiungersi agli altri due scritti già noti dello scrittore
lodigiano, ossia l’Oratio composita una cum metris pro principio facto super Ovidio
Metamorphoseos in Cremona in festo apostolorum Petri et Pauli 1405 e il Rhetoricale compendium.11 Si tratta di un discorso pronunciato dal maestro e grammatico
lombardo (già attivo a Bologna e a Cremona)12 in Milano il 19 marzo (terza domenica
di Quaresima) del 1419, nel quale egli, dopo aver enunciato i tre argomenti in cui intende articolare la propria prolusione – grammatice commendatio, actus disputativus e
gratiarum actio –, propone come theorema al primo argomento la frase della epistola
di san Paolo agli Efesini: Eratis aliquando tenebrae, nunc autem lux in Domino. La
prolusione appare, in buona sostanza, come una lunga presentazione delle canoniche
sette artes liberales (Grammatica, Retorica, Dialettica, Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia), alle quali, però, Bartolino aggiunge anche altre discipline, quali la
Filosofia, la Medicina, la Giurisprudenza e, infine, la Teologia. Per quanto attiene agli
aspetti compositivi del testo, Donnini insiste giustamente sulla ricca e costante presenza degli auctores, spesso esplicitamente citati (con l’espressa indicazione delle opere),
come Aristotele, Esopo, Catone, Cicerone, Orazio, Virgilio, Ovidio, Seneca, Lucano,
Valerio Massimo, Boezio, Boccaccio (con la citazione di un ampio passo del libro VI
del De casibus virorum illustrium), talvolta semplicemente allusi o tacitamente imitati
(come Marziano Capella e Benvenuto Rambaldi da Imola).
10
Già in «Archivio Storico Lodigiano» 105 (1986), pp. 34-55.
Su quest’ultimo testo cf., dello stesso M. Donnini, Bartolino da Lodi e il suo «Rhetoricale
compendium», in «Archivio Storico Lodigiano» 101 (1982), pp. 17-42 (qui non ripubblicato).
12
Cf. G. Cremaschi, Bartolino da Lodi professore di grammatica e di retorica nello studio di
Bologna agli inizi del Quattrocento, in «Aevum» 4 (1952), pp. 309-348; V. Neira Faleiro-J.Chr. Kriesel, s.v. Bartholinus de Valvassoribus de Lodi, in C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii
Aevi (500-1500), I.6, Firenze 2003, pp. 682-683 (che però non menzionano i due studi di Donnini sullo
scrittore lodigiano).
11
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La prolusione di Bartolino, come osserva lo studioso in conclusione della propria
analisi, «costituisce nel complesso un’esaltazione degli studi liberali intesi come fondamento della eruditio attraverso la quale l’uomo, di origine divina […], dotato di capacità intellettive […] e per natura desideroso di conoscere […], attua il passaggio dallo
stato ferino d’ignoranza alla pienezza della sua umanità […], fino a raggiungere, per
mezzo della Teologia, gradum deitatis» (pp. 24-25). Al saggio introduttivo segue l’edizione critica (anche in tal caso, quindi, un’editio princeps) del lungo Sermo (pp. 29-40).
1.4. Un codice trecentesco di fra Niccolò d’Arezzo, OSM, nella Biblioteca Comunale di Perugia (pp. 41-85).13
Si tratta senz’altro di uno dei più impegnati e compiuti fra i saggi presentati da
Donnini in questo volume. Lo studioso, in primo luogo, esamina il cod. D 25 della
Biblioteca Comunale di Perugia, già sommariamente (ed erroneamente) descritto dal
Mazzatinti nel 1895,14 e redige una scheda di presentazione accurata e completa, con
la giusta indicazione dei testi in esso accolti (tutti di stampo religioso, spirituale e/o
agiografico), ovvero una Nativitas sancti Stephani prothomartiris (ff. 1r-1v), una Nativitas beati Bartholomaei apostoli (ff. 2v-3r), una Conversio beate Hanne (ff. 3r-4r), i
Sermones attribuiti a un tale “Nicolaus de Arco” (ff. 4v-47v), le Ystorie (ff. 48r-62v, costituite da 45 brevi notizie storiche o mitologico-antiquarie, con evidente valore esemplificativo, attinte ad autori classici e cristiani, con relativa spiegazione spirituale), le
Moralitates super declamationes Senece (ff. 63r-69v), il Liber de passione Christi et
doloribus et planctibus matris eius (acefalo e anepigrafo ai ff. 69v-71v), le Materie (ff.
72r-98v, numerosi brevi testi riguardanti argomenti spirituali o di storia sacra) e, quindi,
le Questiones limbi (ff. 101r-102r), un Planctus Domine nostre (così genericamente
indicato dal Mazzatinti, laddove la corretta denominazione di esso è Incipit plantus
Domine nostre valde devotus, ff. 102r-107v) e l’Evangelium Nichodemi (privo però dei
primi 10 capp., ff. 107r-111r).
In primo luogo, è necessario correggere l’erronea attribuzione dei Sermones,
dovuti non a un più o meno fantomatico “Nicolaus de Arco” (come si legge nell’inventario pubblicato dal Mazzatinti), bensì al più noto “Nicolaus de Aretio”, ovvero il
frate servita Niccolò d’Arezzo, che, fra l’altro, viene esplicitamente e correttamente
menzionato nell’explicit degli stessi Sermones (f. 48r: Expliciunt Sermones […] scripti
per me fratrem Nicholaum de Aretio, Ordinis Servorum sancte Marie, die 16 februarii
1395). L’espressione scripti per me non deve, però, far pensare che ci troviamo di fronte a un autografo. Donnini, a tal proposito, propende per l’ipotesi che il ms. sia opera
di un amanuense (e ciò soprattutto per l’eleganza e la raffinatezza di esso), pervenuto
alla Biblioteca Comunale di Perugia, assai probabilmente, dal convento di Santa Maria
dei Servi della medesima città. Quanto a Niccolò d’Arezzo, si tratta del primo giovane
frate aretino dei Servi giunto al dottorato in Bologna (nel 1388), la cui figura va pian
13
14
Già in «Studi Storici dell’Ordine dei Servi di Maria» 40 (1990), pp. 7-51.
G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, V, Forlì 1895, p. 100.
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piano delineandosi con maggiore attenzione e approfondimento, alla luce dei vari studi
recentemente condotti sulla storia dell’Ordine e dei suoi componenti. In ogni modo,
il ms. perugino è di notevolissimo rilievo perché risulta l’unico che, allo stato attuale
delle conoscenze, riporti opere di Niccolò d’Arezzo.
Dopo questa necessaria sezione introduttiva, Donnini prende in esame due testi
del cod., ovvero il sermo sui sette dolori della Vergine e quello del Liber de passione
Christi et doloribus et planctibus matris eius (acefalo e anepigrafo nel ms., ma opera di
Ogerio di Lucedio). Il primo si configura appunto come un sermone che, a un certo punto, ingloba al suo interno un vero e proprio planctus Mariae, secondo una lunghissima e
autorevole tradizione studiata, fra gli altri, da Giovanni Cremaschi che, nel 1955, aveva
pubblicato un inedito planctus Mariae da lui scoperto nella Biblioteca di Bergamo.15
L’analisi del planctus perugino esperita da Donnini – che evidentemente non posso
ripercorrere qui in tutta la sua ampiezza – palesa, in primo luogo, come autore di esso
sia lo stesso Niccolò d’Arezzo e, in secondo luogo, come egli, per la strutturazione e
la composizione del suo planctus, si sia chiaramente ispirato – talvolta ad verbum – a
quello bergamasco scoperto ed edito da Cremaschi, nonché alle note Meditaciones de
passione Christi dello pseudo-Bonaventura: «L’autore – scrive Donnini al termine della
sua disamina – utilizza quasi integralmente testi sia lirici, sia discorsivi, cercando di
adattarli alla propria esigenza e spiritualità. Egli offre pertanto una nuova testimonianza
della fortuna del genere letterario del planctus Mariae all’interno del genere omiletico,
mostrando altresì come esso poteva vantare testi assunti a dignità di modello da tener
presente, da imitare, se non addirittura da copiare quasi alla lettera per attrarre di volta
in volta, in maniera sempre suggestiva, l’attenzione dell’uditore, del lettore, dello spettatore. Il sermo or ora esaminato testimonia, infatti, che alla fine del XIV sec., fra i modelli per opere di tal genere figurava non solo un testo molto noto come le Meditaciones
de passione Christi, composto nell’ultimo Duecento o nel primo Trecento, ma anche
uno meno celebre e di gran lunga più recente come il Planctus sacratissime Virginis
Marie matris Yhesu Christi di poco anteriore al sermo, almeno nella forma in cui ce lo
tramanda il codice di Bergamo» (pp. 64-65: l’ediz. critica del sermo di Niccolò d’Arezzo è allestita da Donnini e stampata in appendice al saggio, alle pp. 72-85).
Il secondo testo preso in analisi, come si è detto, è il Liber de passione Christi et
doloribus et planctibus matris eius di Ogerio di Lucedio, opera di origine cistercense
lungamente ed erroneamente attribuita a Bernardo di Chiaravalle (e come tale dubitativamente pubblicata dal Migne nella Patrologia Latina).16 Lo studioso conduce anche
in questo caso un’attenta disamina del testo in questione, mostrando come il ms. di
Perugia presenti un notevole numero di lezioni poziori rispetto all’edizione del Migne
– funestata spesso da veri e propri errori e fraintendimenti, che la rendono sovente
incomprensibile – onde, anche a questo proposito, «il codice perugino si rivela […]
15
423-443.
16
Cf. G. Cremaschi, “Planctus Mariae”: nuovi testi inediti, in «Aevum» 29 (1955), pp. 395-412,
PL, t. 182, coll. 1133-1142.
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non privo di interesse. Esso, infatti, oltre a essere utile ai fini della ricostruzione del
suo testo e a gettare luce su un aspetto particolare dell’attività letteraria di fra Niccolò
d’Arezzo […], aggiunge una ulteriore testimonianza alla storia della fortuna del componimento pseudo-bernardino» (p. 71).
1.5. Galla Placidia nelle fonti latine medievali, umanistiche e rinascimentali
(pp. 87-124).17
La figura dell’imperatrice Galla Placidia ha goduto di enorme fortuna nelle fonti
tardoantiche, per le quali «si possono delineare quadri di insieme piuttosto organici
ed unitari, contraddistinti ovviamente da interessi e scopi individuali o di gruppo o di
sensibilità culturali differenti» (p. 87). Nel Medioevo, nell’Umanesimo e nel Rinascimento, invece, le notizie su di lei riportate dalle varie fonti storiche e cronachistiche,
pur numerosissime e variegate, venuto meno l’interesse, da parte di storici e cronisti,
per le vicende della Roma della tarda età imperiale, «cominciarono ad essere ricopiate
senza alcun segno di compartecipazione e pian piano si dispersero e si frantumarono
anche in aree, in tempi e contesti culturali e sociali differenti, fino a perdere o ad alterare le tracce di provenienza e ad assumere il carattere di piatta ripetitività» (p. 87).
Alla luce di queste considerazioni preliminari, Donnini propone un’ampia escursione fra testi storici e cronistici medievali, umanistici e rinascimentali nei quali, in varia misura, ricorrano riferimenti – più o meno meditati e complessi – a Galla Placidia.
Il numero delle fonti messe a frutto dallo studioso è veramente cospicuo: si va, infatti,
da Paolo Diacono ad Agnello Ravennate, da Landolfo Sagace a Benedetto di sant’Andrea del Soratte, da Ermanno Contratto a Bernoldo di Costanza, da Mariano Scoto a
Eccheardo d’Aura, da Gregorio da Catino a Sigeberto di Gembloux, da Ottone di Frisinga a Romualdo di Salerno e a Goffredo di Viterbo (i testi dei secc. X-XII, in linea di
principio, manifestano una certa indifferenza nei confronti dell’imperatrice). Passando
al sec. XIII, la figura di Galla Placidia continua, in genere, a essere assai poco considerata da storici e cronisti (da Alberico delle Tre Fontane a Martino di Troppau, da
Ruggero di Wendower a Vincenzo di Beauvais, da Sicardo da Cremona ad Alberto Milioli); fa però eccezione, sotto tale punto di vista, Salimbene da Parma, che in un passo
della sua Cronica palesa apertamente la propria ammirazione per la figlia di Teodosio
il Grande. Più interessanti – nonché indizi di un differente approccio storiografico e di
un diverso punto di vista – risultano poi tre documenti ravennati pubblicati, nel sec.
XVIII, da Ludovico Antonio Muratori,18 il primo dei quali, soprattutto, merita una particolare attenzione. Si tratta di un testo da ricondurre nell’ambito della cancelleria di
Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna dal 1303 e 1321, che, nel confronto
con altre fonti, mostra, «in maniera evidentissima, la sua maggior intensità emotiva e
la tendenza del suo autore a dilatare ampiamente i temi ed i motivi fondamentali del
racconto rivestestendoli di un tono retorico ed epico-sacrale» (p. 101). Ancora per il
17
18
Già in «Studi Medievali» n.s., 35.2 (1994), pp. 695-732.
RIS, I, 2, pp. 567-574.
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sec. XIV si segnala, fra gli altri, Riccobaldo da Ferrara, mentre, per spostarci in avanti
verso l’Umanesimo, a Galla Placidia dedicano le loro attenzioni – anche in tal caso più
o meno approfondite – Pomponio Leto e il Platina, Matteo Palmieri, Iacopo Malvezzi
e, in principal modo, Biondo Flavio che, sul fondamento di Orosio, nelle sue celebri Decades redige uno dei più significativi profili di Galla Placidia cui sia possibile
imbattersi nel vasto campo della storiografia umanistica. E a Biondo Flavio faranno
seguito, in questo, sia Enea Silvio Piccolomini (papa Pio II), sia Marcantonio Coccio
(detto il Sabellico), sia Pandolfo Collenuccio.
Ma, tornando a Ravenna, nei primi decenni del sec. XVI si rinviene uno dei testi
più importanti – e anche dei più ampi e strutturati – per la delineazione biografica della
figura e dell’attività di Galla Placidia. Si tratta della Gallae Placidiae Augustae vita,
composta dal sacerdote ravennate Giovanni Pietro Ferretti, figlio dell’umanista Niccolò
Ferretti, connotata da una fortissima dimensione “agiografica” e conservata manoscritta
nei codd. Vat. lat. 5835 della Biblioteca Apostolica Vaticana (ff. 1r-6r) e Mob. 3.2.N. 2/5,
Mob. 3.2.F. 2/5, Mob. 3.3.C della Biblioteca Classense di Ravenna (tutti e tre copie del
Vat. lat. 5835). Donnini illustra la vita in questione e, in appendice al saggio, ne pubblica l’editio princeps (pp. 116-124), ovviamente sulla base del ms. vaticano.
1.6. L’“Oratio” inedita «Ad Carolum V pro republica christiana» di Agostino
Steuco (pp. 125-162).19
Viene illustrato e pubblicato in editio princeps, in questo saggio, un altro inedito
di particolare interesse storico e letterario, ossia l’Oratio ad Carolum V pro republica
christiana di Agostino Steuco (pseudonimo di Guido Stucchi, 1497/98-1548), originario di Gubbio, forse non molto noto ma assai prolifico scrittore della prima metà del
Cinquecento.20 Il cod. Vat. lat. 5313 della Biblioteca Apostolica Vaticana trasmette, ai
ff. 1r-11r, l’orazione in questione, indirizzata a Carlo V in occasione del convegno di
Lucca del 1541, durante il quale l’imperatore e il papa Paolo III Farnese affrontarono,
fra l’altro, la questione del pericolo costituito dalla presenza dei Turchi nei territori imperiali e nel Mediterraneo, soprattutto in seguito alla recentissima notizia della presa di
Buda e dell’imminente spedizione di Algeri. L’orazione, per questo motivo, si configura come un testo di innegabile importanza, da una parte perché aggiunge un piccolo
ma non insignificante tassello al corpus delle opere dello Steuco (fra le quali spiccano
soprattutto il De perenni philosophia e il Contra Laurentium Vallam de falsa donatione Constantini), dall’altra perché rappresenta un importante documento nel quale lo
scrittore, in questo caso insignito addirittura della carica di portavoce ufficiale della
Chiesa, cerca di convincere Carlo V a farsi promotore di una nuova crociata contro i
19
Già in Storici, filosofi e cultura umanistica a Gubbio tra Cinque e Seicento. Atti del Convegno
di Studi (Gubbio, 6-8 aprile 1995), a cura di P. Castelli-G. Pellegrini, Spoleto (PG) 1998, pp. 219-256
(poi anche in Id., Testi e saggi, cit., pp. 299-356).
20
Cf. la documentatissima scheda di E. Guerrieri, s.v. Augustinus Steuchus Eugubinus, in
C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), I.5, Firenze 2003, pp. 536-539.
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Turchi, costituendo, quindi, «una testimonianza preziosa dell’impegno profuso dal suo
autore in difesa di tutta la respublica christiana» (p. 128).
Orbene, Donnini pubblica in appendice al suo saggio, in editio princeps, il testo
della lunga oratio dello Steuco (pp. 152-162) e, poiché esso, oltre a essere inedito, non era
mai stato esaminato prima di allora, ne redige un’ampia e impegnata presentazione. Lo
studioso conduce, infatti, una accurata lettura del discorso pronunciato dallo scrittore di
Gubbio, seguendo passo dopo passo le argomentazioni avanzate, soffermandosi sui motivi portanti di esso, sui suoi elementi distintivi e caratterizzanti, sullo stile, sulla lingua,
sulle formule retoriche, sui rapporti con gli auctores. In particolare, l’orazione indirizzata
all’imperatore mostra – e ciò fin dalle prime battute di essa – la forte dipendenza dalle
consimili orationes pronunciate, durante il secolo precedente, dal cardinal Bessarione (lo
stesso Steuco confessa questo legame, proprio all’inizio del testo).21 Ciò si manifesta,
soprattutto, in «alcune analogie di fondo, in qualche caso espresse anche con un simile
linguaggio, segno evidente della volontà dello scrittore eugubino di accordare la propria
voce con quella di un celebre rappresentante della tradizione culturale precedente» (p.
150). Non solo, ma rispetto a molte altre opere dello Steuco, più legate a una dimensione
locale o addirittura municipalistica (quali, per es., il De nomine Eugubii, il De restituenda
navigatione Tiberis, il De revocanda in Urbem aqua Virgine), «l’Oratio ad Carolum V
ottempera ad esigenze di portata storica assai più vasta, che la collocano a buon diritto fra
gli scritti dello stesso autore testimoni della sua universalità» (pp. 150-151).
1.7. Un inedito di Antonio da Rho: la «Metrica commendatio summi pontificis
Martini V» (pp. 163-182).22
Il ms. B 116 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano, cartaceo del sec. XV
(già precedentemente esaminato da Donnini nel saggio su Bartolino da Lodi),23 riporta,
ai ff. 95r-97v, un lungo carme di 160 esametri, primo di una silloge di quindici componimenti poetici del frate minorita Antonio da Rho, intitolato Metrica commendatio
summi pontificis Martini V, dedicato a Bartolomeo della Capra e centrato sulla smaccata laudatio del nuovo papa Martino V, databile al 1418 e già segnalato da Rutherford
in un suo intervento del 1990.24 Donnini pubblica in appendice (pp. 177-182) il componimento, come sempre facendo precedere l’editio princeps da un saggio introduttivo
«Hortantur nos tempora, invictissime imperator, atque impellunt ut recolamus ea quae singularis vir cardinalis Bessarion, cum ad principes Italiae de pace componenda scriberet cladesque Christianis impendentes resque Graecorum eversas commemoraret, disseruit» (p. 152).
22
Già in «Franciscana» 4 (2002), pp. 149-168.
23
Cf. supra, § 1.3.
24
Cf. D. Rutherford, A Finding List of Antonio da Rho’s Works and Related Primary Sources,
in «Italia Medioevale e Umanistica» 33 (1990), pp. 74-108 (in partic., p. 103). Sulla produzione poetica
in lode di Martino V, cf. poi P. Casciano, «Il pontificato di Martino V nei versi degli umanisti», in Alle
origini della nuova Roma: Martino V (1417-1431). Atti del Convegno (Roma, 2-5 marzo 1992), a cura
di M. Chiabò [et alii], Roma 1992, pp. 143-161; e B. Roest, s.v. Antonius Raudensis, in C.A.L.M.A.
Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), I.4, Firenze 2001, pp. 401-404 (dove, però,
non vengono menzionati gli studi di Donnini).
21
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nel quale indugia sul contenuto di esso, sulla sua struttura, su determinati elementi caratterizzanti (il ricorso, sovente eccessivo, alla mitologia classica; l’utilizzo degli auctores, soprattutto Virgilio e, in subordine, Lucano; l’ornatus stilistico e compositivo),
per concludere che il carme «offre una testimonianza tutt’altro che trascurabile della
formazione culturale e dell’abilità versificatoria del francescano di Rho, nel quale si
avvertono da una parte la tendenza a non frenare i facili entusiasmi per il nuovo, consistente, nel caso specifico, nello smisurato amore per il mondo classico, avvertibile
nel continuo e stucchevole affastellarsi di riferimenti mitologici e di moduli espressivi
virgiliani e, in misura minore, lucanei, dall’altra il rispetto della tradizione e dell’educazione scolastica, visibile nell’osservanza delle regole codificate dalle varie artes».25
1.8.Un inedito glossario latino del XV secolo nella Biblioteca Comunale di Perugia (pp. 183-251).26
Il saggio – uno dei più recenti fra quelli accolti nel vol. – si inserisce autorevolmente
entro il rinnovato interesse, mostrato da più parti e da innumerevoli studiosi, nei confronti
della lessicografia mediolatina: basti pensare alle edizioni dei monumentali vocabolari
di Osberno di Gloucester e di Uguccione da Pisa, allestite tra la fine del secolo scorso e
gli inizi del nostro,27 nonché, per fare qualche altro esempio, ai numerosi ed eccellenti
interventi, in tal direzione, di Giuseppe Cremascoli28 e di alcuni suoi allievi.29 Donnini
pubblica l’inedito glossario latino quattrocentesco trasmesso anonimo dal cod. I 118 della
Biblioteca Comunale di Perugia, scritto direttamente da un primo compilatore (che ha
25
Donnini tornerà ad Antonio da Rho l’anno successivo, con un altro studio sulla sua produzione
poetica (cf. infra, § 7.6). Lo scrittore francescano è personaggio di discreto rilievo nell’ambito dell’Umanesimo italiano, autore di numerose opere e celebre, soprattutto, per le sue infiammate polemiche
contro molti colleghi, fra i quali il Valla, che gli indirizzò le roventi Raudensiane note: cf. M. Regoliosi, «Umanesimo lombardo. La polemica fra Lorenzo Valla e Antonio da Rho», in Studi di lingua e
letteratura lombarda offerti a Maurizio Vitale, I, Pisa 1983, pp. 170-179; Ead., «Le due redazioni delle
«Raudensiane note» e le «Elegantiae» del Valla», in Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, a
cura di R. Avesani [et alii], II, Roma 1984, pp. 559-573; Laurentii Valle Raudensiane note, a cura di
G. M. Corrias, Firenze 2007.
26
Già in «Studi Medievali» n.s., 49.1 (2008), pp. 287-355.
27
Cf. Osberno, Derivazioni, a cura di P. Busdraghi [et alii], sotto la direzione di F. Bertini e V. Ussani
jr., 2 vols., Spoleto (PG) 1996; Uguccione da Pisa, Derivationes, edizione critica princeps a cura di E. Cecchini [et alii], 2 voll., Firenze 2004. Si vd. anche F. Bertini, «Come affrontare oggi l’edizione critica di un
lessico latino medievale: le «Derivationes» di Osberno di Gloucester», in L’edizione dei testi mediolatini.
Problemi, metodi, prospettive. Atti della VIII Settimana Residenziale di Studi Medievali (Carini, 24-28 ottobre 1988) (= «Schede Medievali» 20-21 [1991]), Palermo 1991, pp. 93-100 (poi in Id., «Inusitata verba».
Studi di lessicografia latina raccolti in occasione del suo settantesimo compleanno raccolti da P. Gatti e C.
Mordeglia, Trento 2011, pp. 231-240); P. Gatti, Studi osberniani, Genova 2001; e la mia rassegna Studi
recenti su Osberno di Gloucester, in «Studi Medievali» n.s., 45.2 (2004), pp. 963-982.
28
G. Cremascoli, Saggi di lessicografia mediolatina, a cura di V. Lunardini, Spoleto (PG) 2011
(vi sono ristampati 20 saggi e 4 recensioni dello studioso, apparsi fra il 1966 e il 2009).
29
Cf., fra gli altri, Lexicon Monacense Anonymum (München, Bayerische Staatsbibliothek, lat.
17151, 17153, 17194), a cura di V. Lunardini, Firenze 2009 (con le mie segnalazioni, in «Bollettino di Studi Latini» 40,2 [2010], pp. 893-898; e, più in breve, on line in «Mediaeval Sophia» 7 [2010], pp. 288-292).
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vergato la più gran parte del testo) e, quindi, proseguito da un altro.
Si tratta di un’opera in via di allestimento e non completa, i cui lemmi investono
vari campi del sapere. Le spiegazioni si aprono, in genere, nei modi comunemente attestati dalla lessicografia e sono sovente strutturati per derivationem; le glosse sono di diversa
ampiezza e vanno da quelle estremamente brevi (limitate alla semplice spiegazione del
vocabolo attraverso un singolo termine di più facile comprensione) a quelle di maggiore
estensione che, a volte, assumono le dimensioni di un vero e proprio commento. Frequentissimi sono i casi di lemmi entro i quali è possibile individuare citazioni o riferimenti agli
auctores classici, con l’ovvia prevalenza di Virgilio (si veda, comunque, l’elenco stilato
dallo studioso a p. 186). In buona sostanza – conclude Donnini – il glossario perugino,
pur non rivelando strette interconnessioni o dipendenze dai più ampi e vulgati vocabolari
del Tardo Medioevo (dall’Elementarium di Papia alle Derivationes di Osberno di Gloucester, dalle Derivationes di Uguccione da Pisa al Catholicon di Giovanni Balbi da Genova) «non si discosta fondamentalmente dalle compilazioni che fin dall’antica tradizione
grammaticale continuavano a trasmettere notizie e questioni di vario genere con lo scopo
di spiegare le singole parole con altre più comuni, con espressioni capaci di evidenziare
sfumature e differenze, con l’etymologia, la derivatio, l’interpretatio nominum, la differentia verborum e con citazioni esemplificative di autori antichi e contemporanei. Esso
risulta pertanto utile alla storia del genere lessicografico, se non altro perché fornisce un
significativo esempio di rudimentale allestimento di un testo a uso privato mirante a facilitare, oltre alla conoscenza del lessico latino, l’acquisizione di contenuti rispondenti alla
cultura letteraria del tempo» (pp. 191-192).
L’editio princeps del glossario (pp. 194-251), trattandosi di un autografo, è caratterizzata dalla scrupolosa conservazione della grafia del ms., con le semplici correzioni degli errori dovuti a evidente disattenzione da parte del compilatore e la normalizzazione della punteggiatura e delle maiuscole secondo l’uso moderno. In apparato,
lo studioso indica quindi i loci precisi degli auctores, solo laddove essi siano esplicitamente menzionati e nei casi in cui i relativi testi trovino in essi riscontri piuttosto chiari
e consistenti e non generiche e vaghe allusioni.
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2. La seconda sezione (Saggi, pp. 253-447) comprende otto interventi, la stragrande maggioranza dei quali dedicati a scrittori umbri e marchigiani, secondo una
linea d’indagine assai feconda e caratteristica di Mauro Donnini, della quale si è detto
in apertura di questa rassegna.
2.1. Un umanista, una città: Francesco Maturanzio, Perugia al tempo della beata Colomba da Rieti (pp. 255-280).30
Francesco Maturanzio, umanista, cronista e poeta perugino (1443-1518),31 palesa spesso, nei propri componimenti in versi e in prosa, in latino e in volgare, un
sentito e sincero amore per la propria città, che si estrinseca sia nell’esaltazione della
gloria e della virtus di Perugia, dei suoi storici trascorsi, del suo patrimonio culturale,
dei suoi cittadini, sia nello sconforto e nella desolazione, da lui provati, nel vedere
invece come la propria patria sia costantemente funestata da lotte intestine, contrasti,
sciagure, stragi. Donnini propone un attento esame dei principali passi – ma potrebbero essere molto più numerosi, come egli stesso avverte – nei quali il Maturanzio
fornisce testimonianza del proprio amor di patria e, in particolare, si sofferma sulle
due elegie indirizzate a Niccolò Perotti, vescovo di Siponto, poeta e grammatico insigne nonché, per alcun tempo, governatore di Perugia,32 su un nutrito elenco di stralci
dall’epistolario (in particolare, su una epistola diretta a papa Innocenzo VIII, perché
possa autorevolmente intervenire a favore della città umbra dilaniata da insanabili
contrasti interni), su alcune orationes (soprattutto, sull’Oratio habita Perusiae pro incohandis studiis, pronunciata durante l’anno accademico 1474-1475, edita e illustrata
dallo stesso Donnini in un suo precedente contributo, qui non ripubblicato),33 nonché
sulla Cronaca della città di Perugia, in volgare umbro, riguardante gli avvenimenti
compresi fra il 1492 e il 1503.
Per quanto concerne la Cronaca, lo studioso trascrive e analizza il brano in cui
l’umanista narra della venuta, in Perugia, di Colomba da Rieti, già in odore di santità,34 del suo fattivo impegno nei confronti della città e degli eventi che fecero seguito
a tale arrivo. La figura di Colomba è, per il Maturanzio, la «testimonianza vivente di
un intenso impegno civile e religioso, un modello di santità attiva calata nella realtà
30
Già in Una santa, una città. Atti del Convegno Storico nel V centenario della venuta a Perugia
di Colomba da Rieti (Perugia, 10-12 novembre 1989), a cura di C. Casagrande-E. Menestò, Perugia
1990, pp. 35-60.
31
Sulla figura e l’opera dell’umanista cf., in generale, G. Zappacosta, Francesco Maturanzio
umanista perugino, Bergamo 1970; Id., Studi e ricerche sull’Umanesimo italiano, Bergamo 1972, pp.
65-156. Aggiornamento bibliografico in F. Contini, s.v. Franciscus Maturantius, in C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), III.4, Firenze 2010, pp. 446-447.
32
Cf., più di recente, l’intervento di F. Stok, I carmi di Francesco Maturanzio in onore di Niccolò Perotti, in «Studi Umanistici Piceni» 25 (2005), pp. 103-113.
33
M. Donnini, Per una riedizione dell’«Oratio» perugina in lode delle arti liberali di Francesco
Maturanzio, in «Giornale Italiano di Filologia» 16 (1985), pp. 259-266.
34
Il testo della Cronaca è pubblicata in «Archivio Storico Italiano» 16 (1851), pp. 3-243 (per il
passo in questione, cf. pp. 5-6).
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quotidiana della concitata vita cittadina, per la cui serenità ella prega, esorta e minaccia, spinta dall’amore per Perugia che vuol rendere migliore attraverso l’esortazione
alla pratica della pietas, indispensabile per la sua salvezza» (pp. 279-280). In conclusione, dal denso e perspicuo contributo di Donnini emerge a chiare lettere «l’impegno
sociale, non disgiunto da quello religioso, dell’insigne umanista, ispiratogli dal grande
amore verso la sua città e verso Dio, amore che, all’unisono con quello della beata
Colomba, reatina per nascita, ma perugina per adozione spirituale, costituisce l’ideale
punto di convergenza fra l’umanista e la santa» (p. 280).
2.2. Alla scuola di Grifone di Amelia maestro di Alessandro Geraldini (pp. 281-312).35
Quando, nel 1994, fu pubblicato per la prima volta questo contributo, gli studi e le
ricerche su maestro Grifone di Amelia (1428-1476) e sui componenti della famiglia Geraldini (in particolare Antonio e Alessandro) erano ancora quasi tutti di là da venire. In
questo, l’intervento di Donnini si configurava, oltre un ventennio fa, come precursore e
apripista – se mi si consente l’utilizzo di questo vocabolo – di un’ampia e nutrita serie di
indagini sui Geraldini e su maestro Grifone che sono state proposte in questi ultimi tempi, da parte di Francesco Bausi36 e, soprattutto, di Edoardo D’Angelo, che sul docente e
grammatico amerino ha pubblicato, nel 2011, un’importante monografia complessiva.37
Lo studioso si proponeva, quindi, di «trarre fuori dalla penombra la figura di
Grifone di Amelia, umanista fino ad oggi assai poco conosciuto e non debitamente
valorizzato, anche se si continua a definirlo il “Quintiliano di Amelia”» (p. 281). Per
far ciò, Donnini proponeva una dettagliata analisi della Vita Grifonis, scritta dal suo
concittadino e allievo Pietro Francesco Laurelio e conservata manoscritta nel cod. I
115 della Biblioteca Comunale Augusta di Perugia. Il Laurelio, come appare dalla disamina della sua biografia esperita da Donnini, si sofferma su ogni aspetto della figura,
del carattere, della cultura e dell’attività pedagogica del maestro, verso il quale nutre
una indefettibile devozione e un profondissimo affetto, non senza tener conto, nella
delineazione dei metodi d’insegnamento da lui praticati, delle fondamentali istruzioni
di Quintiliano.
E, a proposito di Quintiliano, ci si chiede fino a che punto possa ancor oggi essere considerata valida, e in quale misura, l’usuale definizione di Grifone quale “Quinti35
Già in Alessandro Geraldini e il suo tempo. Atti del Convegno Storico Internazionale (Amelia,
19-21 novembre 1992), a cura di E. Menestò, Spoleto (PG) 1994, pp. 124-156.
36
Fr. Bausi, s.v. Geraldini, Antonio, in Orazio. Enciclopedia Oraziana, III, Roma 1998, pp. 243244; Id., s.v. Geraldini, Antonio, nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LIII, Roma 1999, pp.
321-324. Cf. anche E. D’Angelo, Il carme di Antonio Geraldini d’Amelia per Francesco Sforza. Editio
princeps, in «Medioevo e Rinascimento» n.s., 20 (2009), pp. 209-236; Id., L’«Apostrophe ad exleges
Mauros» di Antonio Geraldini d’Amelia: poesia e diplomazia nell’Europa della “Reconquista”, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano» 113 (2011), pp. 251-282.
37
E. D’Angelo, Maestro Grifone e i suoi allievi. Cultura latina e scuola in Amelia alla metà del
Quattrocento, Spoleto (PG) 2011. Ma, più di recente, cf., dello stesso E. D’Angelo, «Dall’Umbria alla
corte di Spagna. L’opera agiografica di Alessandro Geraldini», in Estudios de filología e historia en honor
del profesor Vitalino Valcárcel, eds. I. Ruiz Arzalluz [et alii], Vitoria-Gasteiz 2014, vol. I, pp. 207-222.
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liano di Amelia”. In merito a tale questione, lo studioso rileva che, se da un lato è innegabile che il maestro umbro si sia largamente fondato, per la propria attività didattica,
sugli insegnamenti quintilianei (a più, riprese, fra l’altro, evidenziati dal Laurelio),
dall’altro è altrettanto innegabile che, in Grifone, vi è una componente cristiana che ne
sostanzia e vivifica la vita e l’opera. Onde la vulgata definizione risulta alquanto riduttiva. Si aggiunga poi, sempre riguardo all’azione pedagogica espletata dal maestro di
Amelia, che egli può essere certamente inserito nel novero dei grandi maestri umanisti
del Quattrocento, quali Francesco Barbaro, Maffeo Vegio e, soprattutto, Vittorino da
Feltre. Le somiglianze e le concordanze fra i metodi seguiti da Grifone e quelli seguiti da Vittorino sono palesi e lampanti, come emerge dalla lettura parallela della Vita
Grifonis del Laurelio, da una parte, e, dall’altra, delle numerose biografie di Vittorino,
a suo tempo edite da Eugenio Garin,38 quali il De Victorini Feltrensis vita di Sassolo
da Prato, la Vita Victorini Feltrensis di Francesco da Castiglione,39 il De vita Victorini
Feltrensis dialogus di Francesco Prendilacqua, il De vita Victorini Feltrensis commentarius di Bartolomeo Platina.40
L’ultima sezione dello studio è quindi rivolta all’identificazione di alcuni allievi
di Grifone, e cioè, oltre evidentemente al suo biografo Laurelio, i tre Geraldini di Amelia, Angelo, Antonio e Alessandro.41 Che essi siano stati suoi discepoli, lo si apprende,
infatti, dalla Vita Alexandri Geraldini scritta dal fratello Antonio, da alcuni versi che
quest’ultimo compose in onore del maestro e dalla più tarda Vita Alexandri Geraldini
redatta dal pronipote Onofrio Geraldini. È poi ben noto che, fra gli alunni di Grifone vi
sia stato, addirittura, Cristoforo Colombo, il cui progetto fu dal maestro, a quanto pare,
vivamente caldeggiato. In conclusione, si può quindi affermare che «la figura del dotto
e pio maestro di Amelia viene ora ad acquistare contorni assai nitidi, i quali connotano
un vero e proprio modello di esperienza pedagogica e di sapienza umana, religiosa e
civile. La conoscenza più approfondita di questo umanista aiuta notevolmente, pertanto, a far luce anche sulla vita culturale della sua città, che grazie a lui non rimase isolata
dal più vasto ed articolato panorama della cultura italiana, perché in questa città egli
attuò una forma di insegnamento attento alle più recenti impostazioni metodologiche,
ispirato in definitiva alle idee di Quintiliano fuse, però, in maniera armonica con le più
recenti idee pedagogiche cristiane» (pp. 311-312).
38
E. Garin, Il pensiero pedagogico dell’Umanesimo, Firenze 1958.
Su quest’opera – e in generale sul suo autore – cf. il fondamentale saggio di Fr. Bausi, Francesco da Castiglione fra Umanesimo e teologia, in «Interpres» 11 (1991), pp. 112-181 (poi rielaborato,
ampliato e fuso con altri studi in Id., Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano. Jacopo
Bracciolini. Bartolomeo Fonzio. Francesco da Castiglione, Roma 2011, pp. 367-521).
40
Quale testimonianza dei rapporti fra il Laurelio e il Platina ci rimane, d’altra parte, un epitafio,
recentemente edito e illustrato da E. D’Angelo, «L’epitafio per il Plàtina di Francesco Laurelio d’Amelia», ne Il miglior fabbro. Studi offerti a Giovanni Polara, a cura di A. De Vivo-R. Perrelli, Napoli
2014, pp. 353-362.
41
Su quest’ultimo, per un primo orientamento bibliografico, cf. L. Russo, s.v. Alexander Geraldinus,
in C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), I.2, Firenze 2000, pp. 166-167.
39
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Armando Bisanti
2.3. Note letterarie sul Monteluco (pp. 313-339).42
«Che nell’immaginazione degli antichi greci e latini la sacralità delle campagne,
dei boschi, delle spelonche, dei sentieri solitari e dei monti venisse comunemente
sancita dalla credenza che in questi luoghi abitassero dèi e dee particolari, non è certamente un mistero per chi abbia un minimo di familiarità con il mondo classico» (p.
313). La stessa cosa, evidentemente, avviene anche nel Medioevo – e, in molti casi,
pure nelle età successive – riguardo alle credenze che monti, colli, clivi, boschi e fonti
siano contraddistinti da un’aura di indubbia e misteriosa sacralità.
Alla luce di queste premesse, Donnini studia le testimonianze letterarie sul Monteluco (zona montuosa e boschiva nei pressi di Spoleto), dal Medioevo fino quasi ai
giorni nostri, come sempre sulla scorta di una vasta ricognizione di testi in latino e in
volgare, opera di autori che vanno dal Gregorio Magno dei Dialogi (in particolare,
la leggenda di Isaac Siro, narrata in Dial. II 8) a Pierfrancesco Giustolo, discepolo di
Pomponio Leto, segretario di Cesare Borgia e, fra l’altro, autore di un carme di 129
esametri, dedicato al Monteluco e intitolato Descriptio montis Spoleto imminentis ad
Clarelium Lupum (che viene minuziosamente e attentamente analizzato nella sua struttura e nei suoi modelli, in larga prevalenza rappresentati dalla poesia di Virgilio); da
Severo Minervio nei De rebus gestis antiquis monimentis Spoleti libri duo, a Michelangelo Buonarroti (che indugiava sul Monteluco in una lettera a Giorgio Vasari del
18 dicembre 1556); e, per spostarci via via in tempi a noi più vicini, dal francescano
Antonio da Orvieto, in un suo studio del 1717 sul francescanesimo in Umbria, ai De
rebus Spoleti varia, probabilmente della fine del sec. XVIII, conservati in un ms. miscellaneo presso l’Archivio della Porziuncola; nientemeno che da Wolfgang Goethe,
che parla di Spoleto e delle zone vicine, da lui visitate il 27 ottobre 1786, sia nel suo
Diario (1786), sia, in termini pressoché identici, trent’anni dopo nel Viaggio in Italia
(1816-1817), al poeta livornese Giovanni Marradi, che insegnò al Liceo “Giovanni
Pontano” di Spoleto dal 1885 al 1887; dal romanziere tedesco Richard Voss, che ricordò l’emozione da lui provata alla vista del Monteluco nell’opera Italia mia! (1910),
fino al poco noto romanzo Numi paesani, di Americo Brugnola, pubblicato nel 1921,
e alla monografia espressamente dedicata al Monteluco dallo studioso spoletino Carlo
Bandini, apparsa nel 1922.43
Donnini, in questo saggio, si muove con grande capacità e scioltezza non solo
nel prediletto ambito della letteratura latina classica, medievale e umanistica, ma anche
entro il vastissimo campo delle letterature moderne e contemporanee, sia italiane che
straniere. In conclusione, si può rilevare che, se il Monteluco «non vive […] nella più
alta letteratura, esso è piuttosto “vissuto” da non pochi cultori di essa, per la maggior
42
Già in Monteluco e i monti sacri. Atti dell’Incontro di Studio (Spoleto, 30 settembre - 2 ottobre
1993), Spoleto (PG) 1994, pp. 337-363.
43
Aggiungo che a Spoleto dedica nel 1904 un sonetto delle Città del silenzio Gabriele D’Annunzio, nel quale però non vien fatta menzione del Monteluco: cf. G. D’Annunzio, Spoleto, in Elettra
(Laudi del Cielo, del Mare, della Terra e degli Eroi), in Versi d’Amore e di Gloria, ed. diretta da L.
Anceschi, a cura di A. Andreoli-N. Lorenzini, vol. II, Milano 1984, pp. 386-387.
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parte di Spoleto o che in questa città e nel suo monte dimorarono sia pure per poco. I
loro scritti possono essere più o meno condizionati soprattutto dall’amor patriae, dalle
mode letterarie e da occasionali stati d’animo, ma non mancano certo di sincerità e se
anche non raggiungono le vette dell’arte, sono comunque la testimonianza di una certa
attrattiva che il Monteluco ha esercitato in virtù delle sue doti di maggior pregio: la
fascinosa bellezza e l’austera sacralità» (p. 339).
2.4. “Monstra” in testi mediolatini (pp. 341-370).44
Lo studioso propone una lunga rassegna dei monstra (nel senso, anche, di mirabilia, portenta, etc.) che è possibile individuare nell’ambito della letteratura mediolatina. La disamina esperita da Donnini, però, tralascia volutamente tutto il vasto settore
costituito dalla produzione di bestiarii e di enciclopedie – in quanto in essi si riscontrano notizie per lo più sclerotizzate e ripetitive – per concentrarsi, invece, su «opere che
riflettono meglio situazioni e atteggiamenti concreti dell’uomo di fronte al monstrum
in rapporto alla sfera del sacro e del profano, del reale e dell’irreale, della conoscenza
diretta e del sentito dire» (p. 342).
Prendendo le mosse dalla celebre – e poi divenuta, nel Medioevo, canonica e
istituzionale – definizione di portentum formulata da Isidoro di Siviglia (etym. XI 3),
Donnini traccia quindi un vasto diorama che tiene conto, in particolare, di alcuni testi-guida (se così posso esprimermi), quali il Liber monstrorum de diversis generibus,45
i molteplici componimenti legati alla leggenda di Alessandro Magno in Oriente (e
tutti, in vario modo, derivati dall’Historia de preliis), la Lettera del Prete Gianni,46 il
De nugis curialium di Walter Map (nel quale, fra l’altro, ricorre la menzione di Cola
Pesce, uomo-pesce la cui leggenda è narrata, fra gli altri, da Gervasio di Tilbury e
Salimbene da Parma),47 l’Historia Mongalorum di Giovanni di Pian del Carpine,48 e
ancora l’Historia Mongalorum e l’Itinerarium di Guglielmo di Rubruk,49 la Relatio
44
Già ne I «monstra» nell’«Inferno» dantesco: tradizioni e simbologia. Atti del XXXIII Convegno Storico Internazionale (Todi, 13-16 ottobre 1996), Spoleto (PG) 1997, pp. 43-72.
45
Liber monstrorum de diversis generibus. Libro delle mirabili difformità, a cura di C. Bologna,
Milano 1977.
46
La lettera del Prete Gianni, a cura di G. Zaganelli, Parma 1990 (su cui cf. la mia segnalazione,
in «Schede Medievali» 22-23 [1992], pp. 198-200).
47
Sulle origini e lo sviluppo della celebre leggenda, comunque, è ancor oggi fondamentale il
saggio di G. Pitrè, La leggenda di Cola Pesce, in Id., Studi di leggende popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane, Torino 1904, pp. 1-173 (rist. anast. a cura di Au. Rigoli, pref. di S. Lo Nigro,
Palermo 1978); cf. inoltre A. Seppilli, «Mito e circolazione della cultura. In margine alla leggenda di
Cola Pesce: “salto nell’acqua” e “vita nel mare”», in Id., Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti.
Persistenza di simboli e dinamica culturale, Palermo 1977, pp. 294-349; e A. Vàrvaro, Apparizioni
fantastiche. Tradizioni folcloriche e letteratura nel Medioevo: Walter Map, Bologna 1994, pp. 53-55.
48
Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei Mongoli, a cura di E. Menestò [et alii], Spoleto (PG)
1989 (su cui cf. la mia recens., in «Schede Medievali» 18 [1990], pp. 178-182; e il mio breve scritto – di
taglio divulgativo – Fra Giovanni da Pian di Carpine. Un missionario francescano e la sua «Historia
Mongalorum», in «Subasio» 11.4 [2003], pp. 12-15).
49
L’Itinerarium è ora pubblicato, in una splendida ediz. critica, con trad. ital. e commento, in
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Armando Bisanti
di Odorico da Pordenone, il Chronicon Bohemorum di Giovanni de’ Marignolli, il De
mirabilibus Indie di Pietro d’Ailly, giù fino al sec. XVI, con l’Itinerarium di Alessandro Geraldini, primo vescovo di Santo Domingo.50 Fra gli innumerevoli monstra sui
quali lo studioso si sofferma con particolare attenzione (e che qui, evidentemente, non
posso passare in rassegna) spiccano i giganti (soprattutto nel Liber monstrorum), le
Amazzoni (nella Lettera del Prete Gianni), Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno
(del quale, nell’Historia de preliis, si favoleggia che fosse addirittura antropofago) e
la balena, nella sua doppia connotazione di balena-isola e di balena-demonio (nella
Navigatio sancti Brendani e nei Chronica di Rodolfo il Glabro).51
Anche in questo caso, il panorama è tracciato da Donnini in maniera magistrale.
Il tema in oggetto, infatti, al di là della quantità notevole dei testi esibiti e analizzati, è
affrontato con una specifica attenzione agli elementi attinenti alla cultura e alla mentalità dell’Età di Mezzo. In conclusione, si può affermare che, «indipendentemente dai
generi letterari e dalle singole personalità, gli scrittori mediolatini, parlando di monstra, oltre a sognare, divertirsi e conoscere, volevano anche far sognare, divertire e far
conoscere, se non altro per liberarsi e liberare gli altri dalle paure generate dall’ignoto
e dal difforme, perché discorrere sui monstra significava anche esorcizzarli, combattere le superstizioni ad essi legate, usarli come mezzi per penetrare meglio nelle realtà
spirituali e materiali, prender coscienza, in definitiva, come il santo nel deserto, che
Deus solus debet timeri e che i mostri tentatori contemnendi sunt et ex toto abiciendi,
perché nihil possunt, vel phantasmatibus intimidant, e poter proclamare, come l’Ulisse
di Dante, di non essere stati fatti “a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”» (p. 369).
2.5. Sulla «Passio Domini nostri Yesu Christi» di Cherubino da Spoleto (pp.
371-390).52
Il ms. Z. 102 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano (sec. XV) contiene, ai
ff. 1-20, sei componimenti poetici del francescano Cherubino da Spoleto, in genere ben
più noto come predicatore che come versificatore.53 Il primo di essi, dal titolo Passio
Guglielmo di Rubruk, Viaggio in Mongolia (Itinerarium), a cura di P. Chiesa, Milano 2011 (anche in
questo caso, vd. la mia segnalazione, on line, in «Mediaeval Sophia» 12 [2012], pp. 326-329).
50
Su Alessandro Geraldini cf. supra, § 2.2. Per l’opera in questione, cf. Itinerarium ad regiones
aequinoctiali plaga consitutas Alexandri Geraldini Amerini episcopi civitatis Sancti Dominici apud
Indos Occidentales, Romae 1631 (rist. anast. a cura di E. Menestò, Todi [PG] 1992).
51
Per la Navigatio sancti Brendani disponiamo della recente ediz. a cura di Rossana Guglielmetti
(allestita sulla base dei materiali di lavoro lasciati incompiuti dal suo maestro Giovanni Orlandi): Navigatio sancti Brendani. Alla scoperta dei segreti meravigliosi del mondo, ediz. critica a cura di G. Orlandi-R. E. Guglielmetti, Firenze 2014. Per Rodolfo il Glabro, cf. Rodolfo il Glabro, Cronache dell’Anno
Mille (Storie), a cura di G. Cavallo-G. Orlandi, Milano 1989 (con la mia recens., in «Orpheus» n.s., 12
[1991], pp. 241-248).
52
Già in Studi sull’Umbria medievale e umanistica. Scritti in ricordo di Olga Marinelli, Pier
Lorenzo Meloni, Ugolino Nicolini, a cura di M. Donnini-E. Menestò, Spoleto (PG) 2000, pp. 219-238.
53
Per un sintetico orientamento bibliografico sullo scrittore, cf. A. Bisanti, s.v. Cherubinus Spo-
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Domini nostri Yesu Christi, è un lungo poemetto di ben 792 esametri, suddiviso in 12
capitoli ed evidentemente fondato sulla narrazione della passione e della morte di Gesù
che si legge nei Vangeli cui si aggiunge, in chiusura, un planctus della Vergine davanti
alla croce. Donnini, in primo luogo, riassume con ampiezza il componimento, per poi
fornire una lettura di esso attenta ai modi della riscrittura e dell’amplificatio dei modelli,
agli echi classici (soprattutto Virgilio, ma anche Orazio e Ovidio), alle figure retoriche
cui il poeta fa spesso ricorso, alle similitudini, alla tecnica della descriptio loci.
Si tratta, in conclusione, di una poesia che «permette di conoscere un nuovo
aspetto di Cherubino scrittore e di aggiungere un’interessante testimonianza alla storia
del contributo dato dalla sensibilità francescana all’Umanesimo umbro e non soltanto umbro. La Passio Domini nostri Yesu Christi del famoso predicatore francescano,
infatti, con il fine pratico di edificare ed ammaestrare le anime degli uomini colti del
tempo, non solo non si estranea dal più vasto ambiente culturale coevo, ma fa anche
avvertire, attraverso i sentimenti che la fede promuove nel poeta, quanta forza essa,
con i suoi entusiasmi di commozione, continui ad avere nella storia letteraria di quel
grande e profondo rivolgimento della civiltà italiana ed europea che anche della poesia
religiosa ha rinnovato spiriti e forme» (p. 390).
2.6. Le prose e gli inni in latino attribuiti a Iacopone da Todi (pp. 391-414).54
Le prose latine attribuite a Iacopone da Todi – ovvero il breve trattato Qualiter
homo potest cito pervenire ad cognitionem veritatis e i Dicta – furono pubblicate nel
1979, in ediz. critica, da Enrico Menestò.55 Da allora, sono mancate indagini relative
al loro stile e alla loro lingua. Ancor più difficile, in tal direzione, è la situazione in
cui versano gli inni latini attribuiti a Iacopone, non solo perché essi non hanno ancora
ricevuto un’ediz. critica, ma soprattutto perché, con l’ovvia eccezione del celeberrimo Stabat mater, essi sono assai probabilmente apocrifi. Nell’affrontare le questioni
concernenti lingua e stile di Iacopone prosatore e – assai dubitativamente – innografo,
Donnini prende le mosse proprio dagli inni e, in particolare, dai due più significativi,
ossia il Cur mundus militat sub vana gloria e lo Stabat mater speciosa. Ritenuti autentici da studiosi della levatura dell’Ozanam e del Raby,56 ma già tolti a Iacopone da
Natalino Sapegno,57 i due inni in oggetto sono sicuramente non iacoponici, come la
letinus, in C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), II.5, Firenze 2008, p.
588 (dove purtroppo non è menzione del contributo di Donnini, a me sfuggito quando compilai quella
scheda – e, in fondo, me ne dispiace un poco).
54
Già in Iacopone da Todi. Atti del XXXVII Convegno Storico Internazionale (Todi, 8-11 ottobre
2000), Spoleto (PG) 2001, pp. 299-322.
55
E. Menestò, Le prose latine attribuite a Jacopone da Todi, Bologna 1979.
56
A. F. Ozanam, I poeti francescani in Italia nel secolo XIII, Prato (FI) 1854, pp. 123-124; Fr. J.
E. Raby, A History of Christian-Latin Poetry from the Beginnings to the Close of Middle Ages, Oxford
19532, pp. 435-436.
57
N. Sapegno, La santa pazzia di Frate Jacopone e le dottrine dei mistici medievali, in «Archivum Romanicum» 7 (1923), pp. 349-372 (a p. 356).
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Armando Bisanti
disamina di essi svolta da Donnini comprova ad abundantiam:si tratta, infatti, di pure
esercitazioni scolastiche infarcite dei topoi più diffusi e vulgati e, nel caso specifico
dello Stabat mater speciosa, di una riscrittura quasi ad verbum dello Stabat mater
dolorosa, con la sostituzione del dolore di Maria per la morte in croce del figlio con la
gioia di Maria per la nascita del figlio.
Passando alle opere in prosa, lo studioso analizza con ampiezza l’epistola in
prosa latina da Iacopone inserita all’interno della lauda 68, indirizzata a Giovanni da
Fermo o della Verna, malato di quartana; e soprattutto un discreto numero di Dicta, dai
quali emerge con tutta evidenza come lo scrittore umbro, scientemente e consapevolmente, abbia in genere fatto ricorso al sermo humilis per la composizione delle proprie
opere in lingua latina. Tale scelta stilistica e linguistica non esclude, però, che egli,
laddove lo riteneva necessario e nei momenti di maggiore tensione mistica ed espressiva, non facesse ricorso alle armi della retorica, alle tecniche della disputatio, alle
più caratteristiche figure di suono e di significato, alla gradatio e alla similitudo. Una
innegabile componente retorica, nelle opere in latino attribuite al frate di Todi, che,
«sgorgando in lui con tanta immediatezza dalla sua formazione culturale, che è quella
dell’uomo di legge, non si configura come mezzo tecnico per conseguire benefici e riconoscimenti terreni, inconciliabili del resto con l’ideale della “santa pazzia” presente
nelle laude e nelle prose latine […], ma come naturale esigenza propria dei mistici, i
quali […] non frenano le ridondanze, le ripetizioni di termini e di concetti, l’impiego
di antitesi, di ossimori, di giochi di parole, di esempi, di gradationes, di metafore e di
similitudini per tentare di esprimere l’inesprimibile» (p. 414).
2.7. Per una rilettura dei «Triumphorum libri II» di Pacifico Massimi d’Ascoli
(pp. 415-429).58
Vive testimonianze della familiarità che l’umanista e poeta ascolano Pacifico Massimi (noto soprattutto per il famigerato e scollacciato Hecatelegium) ebbe con Braccio
Baglioni sono due poemetti encomiastico-celebrativi in esametri latini, i Triumphorum
libri II e i Draconidos libri III.59 In questo studio Donnini si dedica alla lettura e all’illustrazione del primo di questi due componimenti, in 386 versi, risalente con molta probabilità al 1459 (l’anno in cui il Massimi si trovava quale studente a Perugia).
I Triumphorum libri II, dedicati a Braccio, si caratterizzano per alcuni elementi
distintivi – peraltro abbastanza diffusi e correnti nella poesia umanistica latina dell’epoca – che vengono attentamente passati in rassegna dallo studioso: l’invocazione
incipitaria alla Musa, cui seguono la presentazione dell’“oggetto” del canto e l’augurio
di lunga fama alla poesia e di lunga vita al suo autore; le descriptiones di feste, tornei
e battaglie; la descriptio pulchritudinis (in questo caso dedicata a Margherita Montesperelli, amante del Baglioni); il topos modestiae, il topos della “navigazione”, il topos
58
Già in «Studia Picena» 71 (2006), pp. 93-107.
Entrambi i componimenti sono editi da G. B. Vermiglioli, Memorie di Jacopo Antiquarj e
degli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo XV, Perugia 1813, pp. 81-109.
59
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panegiristico del “sopravanzamento” (secondo il quale i moderni sono migliori degli
antichi), la formula del cedat; e, ancora, il motivo del locus amoenus, le similitudini, il
ricorso costante alle principali figure di suono e di significato. Quanto agli auctores riecheggiati dal Massimi, come sempre i più utilizzati e “allusi” sono Virgilio e Ovidio,
nei confronti dei quali il poeta quattrocentesco esercita una singolare tecnica di aemulatio. In ultima analisi, Pacifico Massimi rivela quindi, nel poemetto, «anzitutto il piacere di descrivere, evidente specie nella prolissità di alcune lodi e nella ripetitività di
alcuni vocaboli e immagini. La rilettura del carme, poi, avendo messo in risalto l’uso
di espedienti retorici, anche raffinati, e la riutilizzazione di moduli espressivi virgiliani
e ovidiani, effettuata a volte con ripresa di termini, ma non pedissequa, permette di
riconoscere al poeta ascolano l’abilità di conferire al dettato, a seconda dei momenti,
una patina di epica solennità, di bucolica delicatezza e di comprovata cultura ispirata
ai canoni letterari del suo tempo. Tutto ciò denota un’indubbia dimestichezza con la
versificazione latina e un gusto artistico che a volte non ha nulla da invidiare a quello
dei grandi poeti latini della stessa epoca» (p. 429).
2.8. «Arrianae hereseos damnatio» nei «Dialogi» di Gregorio Magno (pp. 431-447).60
Nei Dialogi di Gregorio Magno ricorrono – seppure non in maniera incisiva
– alcuni racconti agiografici testi a bollare e a condannare l’eresia ariana. In questo
saggio Donnini si propone di «analizzare questi racconti facendo attenzione specialmente alle strutture narratologiche, ai mezzi espressivi, ai temi e motivi letterari con
cui egli intende rendere più incisivo il proprio discorso» (p. 432). Si tratta di una
serie di narrazioni di vite e miracoli – come d’altronde è caratteristica costante in tutto lo scritto gregoriano – di cui sono protagonisti personaggi in vario modo seguaci
dell’arianesimo, uomini qualunque, re, vescovi, Goti, Visigoti, Ostrogoti, Vandali e
Longobardi, spaziando in un’area geografica che comprende Italia, Spagna e Africa.
Gregorio Magno, onde evidenziare la notevole e perniciosa diffusione dell’eresia ariana fra i barbari e far sì che appaia impellente e inderogabile la necessità di opporsi a
essa e di combatterla con ogni mezzo, e «ben conoscendo i destinatari dei suoi Dialogi,
piuttosto che offrire loro nozioni teoriche di natura storico-dottrinale volte a confutare
le idee dell’arianesimo, si preoccupa soprattutto di fare conoscere le nefande e crudeli
azioni degli ariani in modo da rendere più evidente, per contrarium, sempre attraverso
la loro condanna e sconfitta, l’esaltazione e la vittoria della vera fides espressa dall’ideale religioso biblico-monastico dei viri Dei, divenuti modelli di vita in quanto ardenti testimoni di una fede ispirata all’ideale della ascesi […] o vissuta fino al martirio
cruento […]» (p. 447).
60
Già in Gregorio Magno e l’eresia tra memoria e testimonianza. Atti dell’Incontro di Studio
delle Università degli Studi di Perugia e di Lecce con la collaborazione della Fondazione Ezio Franceschini e della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino (SISMEL) (Perugia, 1-2
dicembre 2004), a cura di A. Isola, Firenze 2009, pp. 63-79.
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Armando Bisanti
3. La terza sezione (Lingua e stile, pp. 449-616) ospita cinque contributi.
3.1. Appunti sulla lingua e lo stile del «Liber» della beata Angela da Foligno
(pp. 451-483).61
Ad Angela da Foligno viene comunemente attribuito, per convenzione, il Li62
ber, benché sia noto come esso sia stato compilato da diversi redattori, dei quali,
come della stessa Angela, mancano altri scritti sui quali istituire dei confronti per rilevare uguaglianze o similarità contenutistiche, linguistiche e stilistiche.63 L’unico dato
sicuro, a tal proposito, è che il compilatore della prima parte dell’opera, il Memoriale,
e fors’anche delle prime dodici Instructiones della seconda parte e della trascrizione in
latino di quanto la beata gli dettava in volgare e di quanto ella stessa, sempre in volgare, aveva detto a un giovinetto, è anche autore del prologo, dell’epilogo e di numerosi
altri interventi più o meno estesi, che ricorrono a più riprese all’interno del Liber. Il
fatto, poi, che di lui si ignorino l’identità e la formazione culturale, potrebbe rappresentare un ostacolo per qualsiasi ricerca vòlta allo studio della lingua e dello stile
dell’opera. In realtà, però, come afferma Donnini all’inizio di questo saggio – e come
poi prova indiscutibilmente alla luce di svariati approcci – l’ostacolo è più apparente
che reale, in quanto, in ogni modo, è possibile procedere ugualmente a una disamina
linguistica e stilistica delle parti del Liber di cui è responsabile questo ignoto scrittore,
al fine di evidenziarne le caratteristiche e di delinearne, meglio di quanto sia stato fatto
finora, la formazione culturale e letteraria.
Lo studioso, quindi, procede a una lunga disamina linguistica e stilistica di molteplici passi del Liber (il prologo, il racconto dei “venti passi” dell’ascesi mistica di
Angela, alcune instructiones), dalla quale emerge la predilezione, da parte del compilatore, per il sermo humilis, e ciò in osservanza a quanto prescritto ed esemplificato
dallo stesso san Francesco nei suoi scritti in latino (in ciò seguito da moltissimi discepoli e imitatori). Un sermo humilis, comunque, che, nel confronto con gli scritti del
santo di Assisi, risulta «contraddistinto soprattutto dallo stesso gusto realistico, dalla
stessa alternanza di termini riconducibili ora nell’area del sacro ora in quella del profano, ora di ascendenza biblica ora afferenti alla vita quotidiana o a quella sociale e,
per quanto concerne lo stile, evidenziano l’uso di frequenti coppie di termini, di figure
stilistiche, specie quelle miranti a suscitare effetti fonici particolarmente avvertibili
61
Già in Angela da Foligno terziaria francescana. Atti del Convegno Storico nel VII centenario
dell’ingresso della beata Angela da Foligno nell’Ordine Francescano secolare (1291-1991) (Foligno,
17-19 novembre 1991), a cura di E. Menestò, Spoleto (PG) 1992, pp. 182-213.
62
Cf. L. Thier-A. Calufetti, Il «Libro» della beata Angela da Foligno, Grottaferrata (RM) 1985.
63
Amplissima è la bibliografia generale e specifica che, in questi ultimi decenni, si è accumulata
su Angela da Foligno (per merito, anche, dei molteplici interventi di Claudio Leonardi, alcuni dei quali
ripubblicati in Id., Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, a cura Fr. Santi, Firenze 2004,
pp. 619-624; e in Id., Agiografie medievali, a cura di A. Degl’Innocenti - Fr. Santi, Firenze 2011, pp.
595-611). Per una prima, parziale informazione, cf. St. Brufani, s.v. Angela de Fulgineo, in C.A.L.M.A.
Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), I.3, Firenze 2001, pp. 263-264.
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nell’accumulo di commata e di cola, a volte persino con la rima, che costituiscono le
strutture portanti dello stilus Isidorianus e soprattutto della costante compaginatura
paratattica conseguita mediante la frequentissima ripetizione della copulativa et» (pp.
481-482). Onde è lecito concludere che, se «le componenti fondamentali del sermo e
dello stilus dell’intero Liber […] sono […] le stesse che connotano complessivamente
la lingua e lo stile del santo assisiate», non è del tutto azzardato «avanzare l’ipotesi
che proprio quest’ultimo abbia trasmesso ai suoi seguaci, e quindi anche ai redattori
del Liber angelano, oltre agli insegnamenti spirituali, persino le forme adeguate per
renderli più facilmente comprensibili» (p. 483).
3.2. L’“animae transformatio” nella «Instructio II» del «Liber» di Angela da
Foligno: esigenza didascalica ed espressività (pp. 485-505).64
Anche questo saggio è dedicato al Liber di Angela da Foligno, ma in una direzione differente – nonché più circoscritta – dell’intervento precedente. Donnini passa
in rassegna e analizza, qui, i vari passi dell’opera nei quali ricorre il motivo della
trasformazione dell’anima, soffermandosi, comunque, con maggiore ampiezza sulla
parte iniziale della Instructio II, al fine di dimostrare come il tema venga svolto in essa
alla stregua di un piccolo trattato, con mezzi espressivi capaci di fare presa su un largo
pubblico di lettori. Anche qui Angela – e insieme a lei, il compilatore della instructio
– appare come «la legittima erede spirituale di Francesco, in conformità all’opinione
[…] radicatasi nel suo cenacolo» e, «proprio perché figlia unigenita del padre fondatore e di conseguenza sua unica erede, avendo sperimentato, come lui, il momento
dell’unione mistica con Cristo crocefisso», ella «esorta all’imitazione di Francesco per
consolidarne la memoria e garantirne la continuità. Di questo ha voluto dare testimonianza anche il redattore della Instructio II» (p. 155).
3.3. Sul lessico giuridico nelle fonti altomedievali: polisemia ed esattezza di
significato in un latino fra letteratura e diritto (pp. 507-538).65
Questo e il contributo immediatamente successivo ci pongono di fronte a un
tema delle ricerche di Donnini che, pur non essendo fra i più ricorrenti, è comunque
indice di curiositas intellettuale, nonché di attenzione per i fatti linguistici emergenti
anche da testi che non possono esser certo considerati “letterari”, quali le fonti giuridiche o gli statuti umbri del sec. XIII. In questo primo saggio, lo studioso analizza
la presenza e il significato, in testi dell’Alto Medioevo fra i più diversi e disparati, di
determinati termini latini dalla precipua valenza giuridica, quali – fra gli altri – iustitia,
aequitas, iudicium, lex, rectitudo, satisfactio, compositio. Dalla disamina qui proposta,
64
Già ne Il «Liber» di Angela da Foligno e la mistica dei secoli XIII-XIV in rapporto alle nuove
culture. Atti del XLV Convegno Storico Internazionale (Todi, 12-15 ottobre 2008), Spoleto (PG) 2009,
pp. 135-155.
65
Già ne La giustizia nell’Alto Medioevo (secoli V-VIII). Atti della XLII Settimana di Studio del
Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1994), vol. II, Spoleto (PG) 1995, pp.
1209-1240.
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risulta «come nelle fonti altomedievali […] la polisemia dei termini giuridici non ne
pregiudichi la trasparenza. I vari legislatores, siano stati essi funzionari o letterati o
abbiano svolto entrambe le attività, mettevano quindi bene a frutto la loro formazione
scolastica e fondamentalmente basata sullo studio della grammatica e della retorica
per rendere la norma giuridica immediatamente comprensibile e più attraente sul piano
formale, nell’ambito, perciò, di un latino fra letteratura e diritto. Pluralità semantica,
dunque, ma coniugata con la proprietas verborum, che si esplica nel dare a ciascun
termine il significato che di volta in volta gli è dovuto, per far sì che ciascuna frase
venga compresa in ogni sua parte» (pp. 537-538).
3.4. La lingua degli statuti umbri del XIII secolo (pp. 539-569).66
In maniera parzialmente analoga al precedente, in questo secondo intervento
Donnini indugia sulla lingua del corpus degli statuti di Todi del 1275, di Perugia del
1279, di Spoleto del 1296. Si tratta di un corpus assai omogeneo, sia per quel che riguarda l’area politica e territoriale di riferimento, sia per quanto attiene al ristretto arco
cronologico. Gli studi sulla lingua – e anche sulla grafia – di tali documenti, quando
Donnini scriveva il suo articolo (vent’anni fa) erano ancora ben pochi (e non credo che
la situazione oggi sia cambiata in modo sensibile), onde le expertises proposte dallo
studioso risultano – qui come altrove, e spesso anche entro questo stesso vol. – di grande novità e di indubbia rilevanza.
Per sintetizzare, la lingua degli statuti tudertini, perugini e spoletini dell’ultimo
quarto del sec. XIII si configura, in definitiva, «come un diasistema i cui assi portanti sono costituiti dalla lingua scritta e da quella parlata», e i cui elementi ricorrenti
e caratterizzanti, soprattutto per quel che riguarda lo stile, sono rappresentati «dalla
ridondanza, dal frequente uso della sinonimia, dalla ripetizione ravvicinata di termini
e di espressioni più o meno ampie concettualmente simili, elementi comuni alla tradizione giuridica ormai da tempo cristallizzati in simili testi», nonché dalla presenza
di «volgarismi, colloqualismi e tecnicismi, genuina e fresca espressione di ogni realtà
storico-sociale» (p. 569).
3.5. Sul latino del Savonarola: problemi di stile (pp. 571-616).67
Si tratta del più vasto e impegnato fra gli studi accolti in questa sezione dedicata
alle questioni linguistiche e stilistiche dei testi mediolatini. Col Savonarola, in effetti,
siamo ben oltre il Medioevo – anzi, cronologicamente parlando, siamo forse anche al di
fuori dell’Umanesimo – ma il fatto che un medievista come Donnini si interessi a lui testimonia – se ve ne fosse ancora bisogno, dopo quanto si è detto a proposito di alcuni stu-
66
Già ne Gli statuti comunali umbri. Atti del Convegno di Studi in occasione del VII centenario
della promulgazione dello Statuto Comunale di Spoleto (1296-1996) (Spoleto, 8-9 novembre 1996), a
cura di E. Menestò, Spoleto (PG) 1997, pp. 337-367.
67
Già in Girolamo Savonarola: l’uomo e il frate. Atti del XXXV Convegno Storico Internazionale
(Todi, 11-14 ottobre 1998), Spoleto (PG) 1999, pp. 75-120.
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di già passati in rassegna e prima di ciò che si dirà nelle pagine seguenti in merito ad altri
interventi – l’apertura culturale, la curiositas intellettuale, la disponibilità dello studioso.
Ciò premesso, e non potendo tracciare un dettagliato resoconto del contributo in
questione – trattandosi di un saggio analitico, sarei costretto a fare l’analisi di un’analisi – basti rilevare come dal panorama delineato da Donnini emerga che la lingua e, in
particolare, lo stile delle prose latine redatte dal terribile frate durante la sua breve vita
terrena, siano caratterizzate da uno stilus humilis, dalla imitatio del latino biblico e, per
converso, da un conclamato – sebbene non sempre pienamente conseguito – rifiuto della retorica classica e, soprattutto, dell’eloquentia di Cicerone (contro il quale Savonarola si scaglia a più riprese, con quei toni veementi e irruenti che tutti ben conosciamo).
4. La quarta sezione (La versificazione: le tecniche e i testi, pp. 617-724) presenta, come la precedente, anch’essa cinque interventi.
4.1. Versificazioni: i testi (pp. 619-647).68
Donnini presenta qui un ampio diorama sulle versificazioni mediolatine di precedenti testi in prosa. Ovviamente, trattandosi di un corpus vastissimo, lo studioso si
limita a brevi informazioni su ogni singolo testo o autore, quantunque non manchino
qua e là, nella sua disamina, osservazioni spesso puntuali e talvolta illuminanti. I testi
e gli autori presentati sono raggruppati in sezioni tematiche: parafrasi bibliche (Giovenco, il De Sodoma e il De Iona, Paolino da Nola, Cipriano Gallo, Sedulio, lo Pseudo-Ilario, Mario Vittorio, Draconzio, Avito, Aratore, Beda, Sigfrido di Corbie, i Versus
in canticis canticorum, il De contentione Zabuli cum Averno, il De divite et paupere
Lazaro, Floro di Lione, Teodulfo d’Orléans, Walahfrido Strabone, Paolino d’Aquileia,
i ritmi De Iudith et Olofernum e Amplam regalis Susis dicta civitas, Williramo, Giovanni da Lodi, Lorenzo di Durham, Pietro Riga, Leonio di Parigi, Matteo di Vendôme,
Marbodo di Rennes, Ildeberto di Lavardin, Bonaventura da Bagnoregio, Andrea Sunone e Giraldo di Cambrai); testi agiografici (Paolino di Périgueux, Venanzio Fortunato,
Beda, Alcuino, Brun Candido di Fulda, Eirico d’Auxerre, la Passio sancti Leodegarii,
la Passio Iustini, Walahfrido Strabone, Eginardo, Erigero di Lobbes, Angelramo di
Saint-Riquier, Sigeberto di Gembloux, ancora Ildeberto di Lavardin,69 Enrico d’A-
68
Già ne Lo Spazio letterario del Medioevo. I. Il Medioevo latino, diretto da G. Cavallo-Cl. Leonardi-E. Menestò, vol. III. La ricezione del testo, Roma 1995, pp. 221-249.
69
Ma il giudizio negativo sulla Vita beate Marie egyptiace di Ildeberto di Lavardin, qui formulato da Donnini («la versificazione si attiene fedele allo snodarsi del racconto in prosa, ma è fin troppo
evidente il ricorso alla amplificatio nell’inserimento di lunghi discorsi e di osservazioni personali che
compromettono spesso l’efficace semplicità del modello, già falsata del resto dalla costante ricerca degli ornamenti retorici divenuti di abitudine nell’intera produzione di questo poeta», pp. 636-637), non
mi trova per nulla d’accordo (ed è uno dei pochissimi casi in cui dissento da quanto affermato da lui).
D’altronde, io stesso ho cercato di proporre una lettura assai più “cordiale” del poemetto agiografico
ildebertiano nel mio «La figura di Zosima, padre autorevole, nella leggenda di Maria Egiziaca», in Au-
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vranches, la Legenda sanctae Clarae, l’Anonimo di Jumièges); altri autori di vario
genere, epigrammatici, storici, epici, grammaticali, scolastici, favolistici (Prospero di
Aquitania, Aldelmo di Malmesbury, Sedulio Scoto, Ubaldo da Gubbio, il cosiddetto
Poeta Saxo, i Gesta Apollonii, la Coena Cypriani, Alessandro di Villedieu, Everardo
di Béthune, Giovanni di Beauvais, Alessandro Neckam).
In conclusione del suo ampio excursus, lo studioso scrive: «Le versificazioni di
testi in prosa, per quanto sul piano teorico sembrino risolversi agli occhi del lettore
moderno in un’operazione, per così dire, “sbagliata”, soprattutto per la mancanza di
originalità di fondo che svilisce la tensione espressiva del testo più antico, per il virtuosismo, per l’adozione di una forma asservita ai gusti della letteratura pagana anche
in temi cristiani e per una certa disarmonia nelle proporzioni, vennero in realtà tenute
in grandissima considerazione dai loro autori, dai committenti e dai destinatari, in virtù
delle funzioni ad esse sottese, rispondenti di volta in volta a ben precise esigenze. Allo
storico, poi, della cultura e della mentalità tali componimenti poetici offrono documenti di grande interesse se non altro perché concorrono a gettar luce sulla doctrina
dei vari versificatori e sulla fortuna dei corrispettivi testi in prosa in determinate epoche e località» (pp. 646-647).
4.2. Versificazioni: le tecniche (pp. 649-668).70
Il saggio costituisce, col precedente, un dittico pressoché inscindibile. Donnini
esamina le principali tecniche di versificazione durante il Medioevo latino, nonché alcune nuove forme metriche e ritmiche, l’utilizzo della rima, la metrica “tradizionale”,
la sequenza e il tropo, le artes versificandi e le poetrie del XII e XIII secolo.
4.3. Il racconto della Fuga in Egitto nella «Iosephina» di Jean Gerson (pp. 669-690).71
Facendo seguito ai numerosi e pregevoli interventi sulla poesia biblica dell’umanista francese Jean Gerson e, in particolare, sulla sua Josephina (poema esametrico composto nel 1418 e dedicato alla narrazione della vita e delle vicende di san
Giuseppe), proposti da Giovanni Matteo Roccati e da Antonio Placanica fra il 1989 e
il 2001,72 lo studioso presenta in questo saggio alcune osservazioni sulla tecnica compositiva utilizzata dallo scrittore nei versi relativi al racconto della fuga in Egitto della
Sacra Famiglia (vv. 107-214), esemplato sul Vangelo di Matteo (2, 13-14).
Donnini fornisce – secondo il suo metodo, consueto e ben sperimentato in tanti
altri contributi – un’ampia e approfondita disamina delle modalità e delle tecniche di
rielaborazione esperite dal Gerson rispetto all’ipotesto evangelico, fondate sul rimaneggiamento e sul caratteristico procedimento dell’amplificatio: basti pensare che il
ctor et Auctoritas in Latinis Medii Aevi Litteris – Author and Authorship in Medieval Latin Literature.
Proceedings of the VIth Congress of the International Medieval Latin Komitee (Benevento-Naples, November 9-13 2010), ed. by E. D’Angelo-J. M. Ziolkowski, Firenze 2014, pp. 69-83.
70
Già ne Lo Spazio letterario del Medioevo, cit., pp. 251-270.
71
Già in «Studi Medievali» n.s., 45.2 (2004), pp. 771-794.
72
Gli estremi bibliografici degli studi di Roccati e Placanica si leggono a p. 669, note 1-2.
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brevissimo passo di Matteo, composto da due sole sequenze (l’ordine dato dall’angelo
a Giuseppe e la sua pronta esecuzione da parte di quest’ultimo) per non più di cinque
righe a stampa nelle moderne edizioni, viene “diluito” dal poeta francese in più di
100 versi, contraddistinti dal gusto per la descriptio, dall’innesto, in essi, di riflessioni
personali, di sezioni dialogiche e tratti narrativi per lo più miranti a sottolineare i vari
stati d’animo dei personaggi e a delineare delicati quadretti caratterizzati, spesso, da
una specifica attenzione agli affetti familiari e alla poesia delle piccole cose.73 Gerson,
inoltre, fa ricorso «a vari registri, da quello lirico a quello psicologico, da quello umile
a quello solenne, tutti pervasi, comunque, dall’intento didascalico-edificatorio. Al fine
poi di elevare il tono della lexis egli ha attinto in varie occasioni alla poesia di Virgilio,
riadattandola liberamente alle nuove esigenze formali e spirituali. Ancor più rilevante
risulta il ricorso alla Scrittura, le cui espressioni più o meno ampie vengono parafrasate o paene ad verbum o ad sensum anche nelle parti della versificazione che non
mostrano alcun rapporto con le pericopi bibliche da cui esse sono scaturite» (p. 691).
L’analisi di Donnini, in conclusione, dimostra altresì che «la narratio poetica diventa
assai spesso spettacolo drammatico in cui si avverte l’appassionata compartecipazione
dello scrittore alle azioni ed ai sentimenti dei personaggi allo scopo di tener vivo […]
il culto della Vergine e di favorire la devozione a san Giuseppe che, come è noto, sarà
ufficializzata proprio grazie ad alcuni teologi parigini, in particolare a Gerson, e agli
ordini mendicanti, specie i Francescani» (p. 692).
4.4. L’inno V del «Peristephanon liber» di Prudenzio ed i «Versus de sancto
Vincentio» di Ildeberto di Lavardin: analogie e variazioni (pp. 693-712).74
Prendendo spunto da una suggestione avanzata, nel 1954, da Nino Scivoletto,75
lo studioso conduce un ampio e perspicuo esame parallelo dei Versus de sancto Vincentio di Ildeberto di Lavardin, in esametri leonini, e del suo riconosciuto modello,
ossia l’inno V del Peristephanon liber di Prudenzio, consistente, appunto, nella Passio
sancti Vincentii martyris, in dimetri giambici. Se Ildeberto di Lavardin – o chi per lui,
dal momento che i Versus rientrano fra le moltissime opere di dubbia attribuzione al
poeta francese – sottopone l’inno prudenziano a un processo di amplificatio, modifi73
In questo, la sezione del poemetto gersoniano analizzata da Donnini mi farebbe pensare, per
analogia di argomento e di trattazione, al Maria di Rosvita di Gandersheim, il primo dei suoi otto poemetti agiografici, all’interno del quale figura – come è noto – il racconto della fuga in Egitto di Giuseppe, Maria e Gesù (vv. 630-824: in Rosvita di Gandersheim, Poemetti agiografici e storici, a cura di L.
Robertini-M. Giovini, Alessandria 2004, pp. 60-68; cf. il mio La fuga in Egitto, la distruzione degli idoli, la conversione di Afrodisio (Rosvita, «Maria» 692-862), on line, in «Mediaeval Sophia» 10 [2011],
pp. 23-31). Solo che, piuttosto che sui Vangeli canonici, Rosvita si fondava sul Vangelo apocrifo dello
Pseudo-Matteo; né, d’altronde, Gerson poteva certo conoscere, nel 1418, gli scritti della canonichessa
sassone, scoperti da Conrad Celtis soltanto nel 1494 nel convento di Sant’Emmerano in Ratisbona.
74
Già ne La poesia tardoantica e medievale. Atti del II Convegno Internazionale (Perugia, 15-16
novembre 2001), a cura di A. M. Taragna, Alessandria 2004, pp. 109-128.
75
N. Scivoletto, Spiritualità medioevale e tradizione scolastica nel secolo XII in Francia, Napoli 1954, pp. 106-108.
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cando, aggiungendo e, qua e là, anche tagliando e sopprimendo, è in ogni caso da rilevare come il componimento ildebertiano (o pseudo-ildebertiano) rappresenti un segno
– uno dei tanti – dell’immensa fortuna goduta da Prudenzio durante tutto il Medioevo,
da parte di scrittori e poeti «che hanno letto e riletto la sua opera sempre con ammirato
interesse» (p. 712).76
4.5. I «Dialogi» di Gregorio Magno: una riscrittura in versi latini del XIII secolo (pp. 713-724).77
Donnini ritorna alla versificazione dei Dialogi di Gregorio Magno a opera del
cosiddetto “Anonimo di Jumièges” (Anonymus Gemeticensis), già da lui stesso pubblicata in ediz. critica nel 1988.78 Si tratta di una rielaborazione in 6756 esametri del
testo agiografico gregoriano (cui si aggiungono una praefatio di 19 versi e un epilogus
di 18), tramandata esclusivamente dal ms. A. 540 (510) della Bibliothèque Municipale
di Rouen, autografo (come da Donnini già dimostrato nella sua edizione del 1988), che
costituisce non solo un’importante testimonianza della fortuna dei Dialogi, ma anche
un significativo esempio di versificazione agiografica.79 In questo saggio lo studioso
mira a evidenziare alcuni aspetti della tecnica parafrastica utilizzata dall’anonimo, focalizzando la propria attenzione, in principal modo, su alcune omissioni, sostituzioni,
sviste o aggiunte, tanto più interessanti in quanto emergono entro un’opera che, in
linea di massima, si mantiene assai vicina al modello prosastico.
Fra i molti esempi proposti da Donnini – che, qui come in altri casi, non posso
ovviamente prendere in considerazione – il più illuminante mi sembra quello riguardante la citazione, al v. 1282 della versificazione (corpus ditat humum, celos quoque
spiritus), del v. 50 (qui celos anima, corpore ditat humum) del carm. min. 18 Scott
di Ildeberto di Lavardin,80 dedicato alla morte del maestro Berengario di Tours: fatto,
questo, già ben evidenziato dallo studioso in una sua ormai lontana nota del 1988 (qui
non ripubblicata).81 Ora – osserva Donnini – se si considera che in tutto il testo «questo
76
Per alcuni aspetti particolari della fortuna di Prudenzio nel Medioevo, mi sia consentito di
rimandare ad A. Bisanti, Prudenzio nel X secolo. A proposito di alcuni studi più o meno recenti, in
«Auctores Nostri» 5 (2007), pp. 39-64; cf. anche uno degli ultimi scritti (apparso postumo) di F. Bertini,
«L’“auctoritas” virgiliana e prudenziana nel Waltharius», in Auctor et Auctoritas in Latinis Medii Aevi
Litteris, cit., pp. 57-68.
77
Già in «Studi Medievali» n.s., 52.1 (2011), pp. 275-286.
78
Cf. supra, nota 1. Prima che da Donnini, l’opera era stata studiata, ma in modo alquanto sommario, da E. Bertaud, «Une traduction en vers latins des «Dialogues» de Saint Grégoire», in Jumièges.
Congrès Scientifique du XIIIe centenaire (Rouen, 10-12 juin 1954), Rouen 1955, pp. 625-635.
79
A tal proposito, nella sua segnalazione dell’ediz. del 1988, Roccaro scriveva che «il lavoro di
Mauro Donnini risulta […] particolarmente meritorio: e ciò non soltanto perché consente la fruizione
di un testo rimasto fino ad oggi inedito, ma anche perché contribuisce con la sua accurata ricostruzione
alla conoscenza di un ambiente storico-culturale di grande interesse, al cui interno questo scritto trova
la sua giusta collocazione» (C. Roccaro, recens. cit. [cf. supra, nota 1], p. 154).
80
Hildebertus, Carmina minora, rec. A. Br. Scott, Leipzig 1969, p. 8.
81
M. Donnini, Un’eco di Ildeberto di Lavardin nel «Dialogus Gregorii» dell’Anonymus Geme-
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costituisce l’unico riecheggiamento di uno scrittore precedente e che la formazione
scolastica del poeta parafraste emerge comunque dalla sua aggiunta di una prefazione
e di un epilogo contenenti motivi divenuti topici in simili contesti, il fatto che egli in
tutto il resto della parafrasi abbia cercato di restare fedele al modello […] fa maggiormente risaltare la sua viva ammirazione e il suo profondo rispetto nei confronti del
testo gregoriano. È allora evidente che l’anonimo parafraste ha voluto dare una veste
poetica ai Dialogi di Gregorio allo scopo di continuare a tenerne viva la gloria e di propagandare l’autentico ideale biblico-monastico dei viri Dei in essi celebrati» (p. 723).
5. La quinta sezione (Il riuso delle “auctoritates”, pp. 725-797) ospita sei interventi, tutti in genere abbastanza brevi e circoscritti.
5.1. Riecheggiamenti virgiliani nella «Vita sancti Marini» (pp. 727-741).82
La Vita di san Marino vescovo di Rimini è un testo agiografico che, dopo essere
stato oggetto di interesse da parte di vari studiosi fin dalle indagini di Paul Aebischer
del 1962, non ha invece, negli ultimi tempi, ricevuto le cure che indubbiamente merita.83 Fra l’altro, la promessa edizione critica a cura di Carlo Dolcini non ha visto la
luce,84 onde è necessario, per accostarsi a essa, rifarsi ancora al testo di Bonino Mombrizio, risalente al sec. XV.85 In questo saggio Donnini conduce un’accurata disamina
dei luoghi nei quali l’agiografo si è ispirato a Virgilio, mostrandosi scrittore dotato di
ottima cultura classica.
5.2. In margine alla “doctrina” e alla “ratio imitandi” dell’agiografo di san
Marino (pp. 743-749).86
A un anno di distanza dalla pubblicazione dello studio precedente sulla Vita sancti Marini, Donnini ritorna al testo agiografico con tre brevi note volte a far luce sulla
cultura dell’autore e sul modo in cui egli utilizza le fonti. La prima riguarda l’espres-
ticensis, in «Giornale Italiano di Filologia» 40 (1988), pp. 109-112.
82
Già in «Hagiographica» 1 (1994), pp. 101-115.
83
Cf. P. Aebischer, Essai sur l’histoire de Saint-Marin des origines à l’an Mille, Saint-Marin
1962. Ma cf. più recentemente, dello stesso M. Donnini, Una rilettura della «Vita Sanctorum Marini
et Leonis», in «Scuola Secondaria Superiore - Repubblica di San Marino. Annuario» (2011-2012), pp.
227-278 (qui non ripubblicato).
84
C. Dolcini, Ancora ipotesi sulle origini di San Marino. Storia e critica della «Vita sancti Marini», in «Romagna» 7 (1983), pp. 5-14.
85
Bonini Mombritii Sanctuarium seu Vitae sanctorum, II, Mediolani, s.d. [sed ante 1480], pp.
52r-55v (poi Parisiis 1910, pp. 95-102). Dopo la pubblicazione del saggio di Donnini – e anche del successivo, sul medesimo testo – la Vita sancti Marini è stata pubblicata, in ediz. critica, da Andrea Donati,
all’interno del suo vol. San Marino tra storia e leggenda. Da Omero a Pier Damiani, Rimini 2010, pp.
195-212 (introd.), 213-236 (testo e trad. ital.); cf. inoltre S. Donghi, I testimoni medievali della «Vita
sancti Marini». Analisi codicologica e paleografica, San Marino 2007.
86
Già in «Hagiographica» 2 (1995), pp. 137-143.
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sione classe Pontica (p. 96, l. 7),87 laddove l’agg. Pontica è da interpretarsi nel significato, ben attestato nella classicità e nel Medioevo, di “feroce”, “barbara”, “malefica; la
seconda, la similitudine delle api (p. 96, ll. 31-34), assai probabilmente derivata dalla
Vita Eligii episcopi Noviomagensis di Dadone e dalla Vita Willbrordi archiepiscopi
Traiectensis di Alcuino; la terza, la frase, pronunziata dallo stesso santo, nullum diei
perdidi in quo nihil boni fecerim (p. 96, ll. 52-53), che viene persuasivamente ricondotta alla celebre affermazione amici, diem perdidi dell’imperatore Tito nella biografia
svetoniana (Tit. 8,2).
5.3. Bibbia e storiografia (pp. 751-764).88
La Bibbia ha ricoperto un ruolo fondamentale nella cultura e nella produzione
letteraria del Medioevo – sembra addirittura superfluo ribadirlo – e anche nella storiografia dal VI al XIII sec. il suo influsso è stato assolutamente determinante. Affrontando il tema relativo, appunto, all’influenza che la Sacra Scrittura ha esercitato sulla
storiografia mediolatina, Donnini trascorre rapidamente e sinteticamente – ma, come
sempre, con esempi scelti con sagacia ed eccellenti osservazioni – su un gran numero
di testi particolarmente significativi di un panorama che, ovviamente, potrebbe essere
(ed è) ben più vasto e pressoché sterminato, quali i Chronica di Cassiodoro, il De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum di Jordanes, il De excidio et
conquestu Britanniae di Gilda, l’Historia Francorum di Gregorio di Tours, l’Historia
Gothorum di Isidoro di Siviglia, il De temporibus liber e il De temporum ratione di
Beda, l’Historia Romana e l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, la Vita Karoli di Eginardo, le Vitae Hludowici imperatoris di Tegano e del cosiddetto Astronomo,
il De gestis Karoli imperatoris di Notker di San Gallo, il De rebus gestis Aelfredi di
Asser di Sherborne, il Liber Pontificalis di Agnello Ravennate, l’Historia Langobardorum Beneventanorum di Erchemperto, l’Adbreviatio de gestis Langobardorum di
Andrea da Bergamo, l’Antapodosis di Liutprando di Cremona, le Historiae di Richero
di Reims, il Chronicon Salernitanum e il Chronicon di Benedetto di sant’Andrea del
Soratte e quindi, scendendo lungo i secoli successivi all’anno Mille, le Historiae Francorum di Aimoino di Fleury, il Chronicon di Thietmaro di Merseburg, il Chronicon di
Ademaro di Chabannes, la Vita Chuonradi imperatoris di Wipone, gli Annales di Lamberto di Hersfeld, i Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum di Adamo di Brema,
le Historiae di Rodolfo il Glabro, l’Historia di Orderico Vitale, gli anonimi Gesta
Francorum et aliorum Hierosolymitanorum, i Gesta Francorum Ierusalem expugnantium di Fulcherio di Chartres, i Gesta Dei per Francos di Guiberto di Nogent, l’Historia Hierosolymitana di Guglielmo di Tiro, il Chronicon Farfense di Gregorio da
Catino, il Chronicon di Alberico delle Tre Fontane e, per concludere, la Cronica di
Salimbene e la Cronica Ianuensis civitatis di Iacopo da Varazze.
87
88
Anche in questo studio Donnini utilizzava l’ediz. di Bonino Mombrizio (cit. supra, nota 85).
Già ne La Bibbia nel Medio Evo, a cura di G. Cremascoli-Cl. Leonardi, Bologna 1996, pp. 315-326.
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5.4. Suggestioni dei «Dialogi» di Gregorio Magno nella vita di san Felice di
Agnello Ravennate (pp. 765-770).89
In alcuni racconti inseriti da Agnello Ravennate nel suo Liber Pontificalis si avverte la presenza di motivi narratologici risalenti ai Dialogi di Gregorio Magno. Se tale
filiazione è già stata rilevata a proposito del miracolo relativo alla moglie del vescovo
Severo, la quale, da morta, si rigira su un fianco, nella tomba, per far posto al cadavere
della figlia (Lib. Pont. 15 ~ Dial. III 23), non è invece stato notato come due brevissimi racconti aventi per protagonista san Felice siano anch’essi derivati da analoghi
momenti narrativi dell’opera gregoriana. Si tratta di due aneddoti nei quali, rispettivamente, Felice smaschera un falso zoppo e mostra la propria generosità nei confronti di
alcuni marinai impostori, chiaramente ispirati al racconto in cui Benedetto, nei Dialogi
(II 14-15), smaschera l’inganno di re Totila e profetizza riguardo allo stesso sovrano
goto. Infatti, «oltre all’identico tipo di protagonista, costituito da un santo, in entrambi
gli scritti si riscontra […] un congruo numero di analogie, a cominciare da quelle consistenti nelle stesse sequenze narrative, seppur disposte in ordine inverso e contraddistinte da personaggi e situazioni differenti» (p. 766). Le corrispondenze fra Agnello e
Gregorio Magno, alla luce della disamina delle sequenze effettuata da Donnini, non
possono essere certo ritenute casuali, a riprova, fra l’altro, dell’enorme fortuna goduta
dai Dialogi nella tradizione agiografica ed esemplare successiva.
5.5. Intorno ad un’ascendenza di Cassiodoro nella «Vita sancti Athanasii» (BHL
735) (pp. 771-777).90
Nel cap. II della Vita maior sancti Athanasii (BHL 735), biografia di Atanasio
vescovo di Napoli (840-872),91 si legge un passo in cui viene rimarcata l’erudizione
nella lingua greca e in quella latina del padre, Sergio I, futuro duca di Napoli (840864). Donnini propone di individuare, quale modello del brano in questione, il passo
in cui Cassiodoro, nelle Institutiones (I 23,2), si sofferma sulla grandissima perizia
dell’abate Dionigi nella lingua latina. Anche in questo caso – come nella nota precedente e in altri interventi – i raffronti operati dallo studioso sono ineccepibili e pienamente convincenti.
5.6. Poeti paleocristiani, tardoantichi e medievali nella lessicografia latina dei
secoli XI-XIII (pp. 779-797).92
Fondandosi sui quattro grandi vocabolari dei secc. XI-XIII – l’Elementarium
di Papia, il Catholicon di Giovanni Balbi da Genova, le Derivationes di Osberno di
89
Già in «Hagiographica» 3 (1996), pp. 89-94.
Già in «Vetera Christianorum» 40 (2003), pp. 293-299.
91
Il testo agiografico è stato edito da A. Vuolo, Vita et translatio sancti Athanasii Neapolitani
episcopi (BHL 735 e 737) saec. IX, Roma 2001.
92
Già ne La poesia tardoantica e medievale. Atti del IV Convegno Internazionale di Studi (Perugia, 15-17 novembre 2007) = Atti in onore di Antonino Isola per il suo 70° genetliaco, a cura di C.
Burini De Lorenzi-M. De Gaetano, Alessandria 2010, pp. 355-373.
90
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Gloucester e le Derivationes di Uguccione da Pisa, questi ultimi due recentemente
pubblicati in ediz. critica,93 mentre di Papia e di Giovanni Balbi manca ancor oggi un
testo filologicamente attendibile – Donnini propone un’indagine sulle citazioni di poeti paleocristiani, tardoantichi e medievali che i quattro lessicografi inseriscono nelle
loro opere. Fra gli auctores e le opere via via esaminati, e dei quali variamente ricorre
mezione in Papia, Balbi, Osberno e Uguccione, figurano Ambrogio, Prudenzio, Prospero d’Aquitania, Sedulio, Draconzio, Boezio, Venanzio Fortunato, l’Ecloga Theoduli, Odone di Meung, il Novus Avianus Astensis, il Pamphilus, il Geta di Vitale di Blois,
il Facetus, Marbodo di Rennes, l’Aesopus attribuito al cosiddetto Gualtiero Anglico,
Alano di Lilla, Matteo di Vendôme, il Graecismus di Everardo di Béthune e il Doctrinale di Alessandro di Villedieu, Pietro Riga.
Le presenze – ma anche le assenze, le diminuzioni e gli incrementi delle citazioni – di questi poeti e di queste opere in versi in Papia, Balbi, Osberno e Uguccione
testimoniano, in ogni modo, di un’attenzione precipua, da parte dei compilatori dei
quattro lessici, nei confronti della scuola e dei programmi d’insegnamento in essa
condotti e degli autori che a scuola si leggevano, la maggior parte dei quali compaiono
nell’elenco che si è or ora stilato. I lessicografi medievali, «consapevoli che la lingua
è un’entità non statica, ma in continua evoluzione e fedeli interpreti del significato
corrente delle parole, hanno sapientemente fatto ricorso, per meglio illustrarle, anche
ad esempi metrici tratti da testi coevi ad essi particolarmente familiari in quanto letti
nella scuola» (p. 796). Insomma, per concludere, «le citazioni dei poeti paleocristiani,
tardoantichi e medievali nella lessicografia dei secoli XI-XIII, evidenziando l’emarginazione di alcuni di loro, la sopravvivenza in varia misura di altri e l’utilizzazione di
altri ancora fra quelli “moderni” […], concorrono a gettare ulteriore luce non solo sul
modus operandi dei singoli lessicografi e sulla loro doctrina, ma anche sul Fortleben
dei poeti citati e dei generi letterari da questi seguiti, sulla storia della scuola e sui
contorni della cultura del tempo notoriamente pervasa da straordinario fervore intellettuale, cui anche la lessicografia recò un contributo talmente valido da lasciare segni
profondi in epoca umanistica ed oltre» (p. 797).
6. La sesta sezione (Analisi del racconto, pp. 799-980) consta di otto interventi e,
insieme alla prima (quella dedicata alle edizioni di testi inediti o mal editi, delle quali
si è già detto più sopra), risulta la più ampia e corposa di tutto il vol., a riprova dell’interesse e dell’attenzione prestati da Donnini nei confronti di tali argomenti.
6.1. Il “racconto” sull’amore incestuoso in Pietro Pittore (pp. 801-810).94
All’interno del poemetto misogino De muliere mala, Pietro Pittore inserisce,
ai vv. 87-213, un lungo exemplum dal titolo De illa que impudenter adamavit filium
93
Cf. supra, nota 27.
Già in Semiotica della novella latina. Atti del Seminario Interdisciplinare «La novella latina»
(Perugia, 11-13 aprile 1985), a cura di L. Pepe, Perugia 1986, pp. 236-246.
94
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suum.95 Si tratta di un racconto – ovviamente destinato, dal poeta medievale, a uno
scopo didascalico e moralistico – centrato sul tema dell’amore incestuoso di una madre per il proprio figlio, scandito attraverso cinque sequenze che vengono individuate
e analizzate da Donnini: 1. la madre invita il figlio a giacere con lui; 2. il figlio rifiuta;
3. la madre accusa falsamente il figlio di aver tentato di usarle violenza; 4. il figlio è
riconosciuto colpevole; 5. Dio rivela la verità, salva il figlio e punisce la madre. Come
si vede anche da questo semplice schema, siamo di fronte a una struttura debitrice,
in gran parte, dei consimili racconti mitologici (in primis il mito di Fedra e Ippolito,
dove però si tratta di una matrigna e del figliastro) che possono leggersi nell’Ippolito di
Euripide, nella Phaedra di Seneca, in Apuleio (met. X, 2-12)96 e in Eliodoro (Etiop. I,
9, 4-17). Non solo, ma l’analisi del racconto mostra come siamo in presenza di un diffuso motivo narratologico, che potrebbe essere denominato “restaurazione dell’ordine
sociale costituito” (tema che, a sua volta, si articola in tre momenti: 1. affermazione di
un ordine sociale; 2. violazione dell’ordine; 3. ristabilimento dell’ordine).
In ogni modo, la disamina dell’exemplum di Pietro Pittore esperita da Donnini
mostra come il poeta mediolatino, lungi dall’ispirarsi ai modelli di Euripide, Seneca,
Apuleio ed Eliodoro – non tutti, fra l’altro, da lui immediatamente raggiungibili – sia
sia fondato, soprattutto, sulla celebre vicenda del casto Giuseppe e della moglie di
Potifar che si legge nel libro biblico del Genesi (39, 7-23) e che, in buona sostanza,
è all’origine (diretta o indiretta) di tutte le narrazioni di questo tipo (tanto è vero che,
com’è noto, essa ha dato il nome al diffuso motivo narratologico denominato appunto
“Potifar-Motiv”).
6.2. La «Passio» di santa Barbara: sedimentazioni e variazioni di motivi narratologici (pp. 811-834).97
La vicenda relativa alla passione e al martirio di santa Barbara ha conosciuto,
già a partire dalla versione greca del VI-VII sec.,98 una larga e costante fortuna nella
letteratura agiografica e devozionale medievale e umanistica, fino a Bonino Mombrizio (sec. XV). Fra le varie redazioni del racconto, particolarmente interessante, ai fini
di una disamina degli elementi narratologici presenti in esso, risulta la più antica fra le
95
Petri Pictoris Carmina nec non Petri de Sancto Audemaro Librum de coloribus faciendis,
hrsg. von L. van Acker, Turnhout 1972, pp. 105-116 (su cui cf. J. Stohlmann, Zur Überlieferung und
Nachwirkung der «Carmina» des Petrus Pictor, in «Mittellateinisches Jahrbuch» 11.1 [1976], pp. 5191). Il poemetto è quindi stato ripresentato, con trad. spagnola, da M. Puig Rodríguez Escalona, Poesía
misógina en la Edad Media Latina (ss. XI-XIII), Barcelona 1995, pp. 178-201.
96
Su cui cf. M. Donnini, «Apul. Met. X 2-12. Analogie e varianti di un racconto», in Letterature
classiche e narratologia. Atti del Convegno (Selva di Fasano [BR], 6-8 ottobre 1980), Perugia 1981,
pp. 145-160 (qui non ripubblicato).
97
Già in Santa Barbara nella letteratura e nel folklore, a cura del Centro di Studi Varroniani,
Rieti 1988, pp. 19-42.
98
Cf. C. Crimi, «Testi bizantini, editi ed inediti, su santa Barbara», in La Sicilia nella tarda antichità e nell’alto Medioevo. Religione e società. Atti del Convegno di Studi (Catania-Paternò, 24-27
settembre 1997), a cura di R. Barcellona-S. Pricoco, Soveria Mannelli (CZ) 1999, pp. 233-251.
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versioni latine, pubblicata da Pio Paschini nel 1927.99 È sulla base di tale versione che
Donnini conduce la sua lettura del testo agiografico, anche in questo caso indugiando
sulla struttura di esso, sui temi e i motivi narratologici in esso rilevabili e, soprattutto,
mettendo in ampio risalto due componenti fondamentali: da un lato, le evidenti somiglianze (dalle quali, però, non sono disgiunte altrettanto evidenti differenze) fra la
passione di santa Barbara e le precedenti passioni di santa Cristina e di santa Irene,100
nonché l’apocrifo vetero-testamentario Joseph et Aseneth; dall’altro, il fatto che tutte
e tre le passiones di Cristina, Irene e Barbara (e, in parte, anche Joseph et Aseneth)
rivelano fortissimi e innegabili rapporti (diretti o mediati) col mito classico di Danae,
rapporti che, già individuati nel lontanissimo 1696 dal Papebroch e quindi ribaditi nel
1892 dal Wirth, sono stati in seguito ritenuti poco attendibili e fondati dal Paschini
e dal Philonenko,101 e che invece Donnini ribadisce con determinazione e corrobora
attraverso una serie di raffronti assolutamente persuasivi e pienamente sottoscrivibili.
6.3. Motivi narratologici nella «Historia» di san Giuliano l’Ospitaliere (pp.
835-852).102
Il saggio, nella struttura complessiva e nell’articolazione delle osservazioni e
delle proposte, risulta molto simile al precedente (e, come quello, ottimo). Se in quel
caso si trattava dell’individuazione dei motivi narratologici all’interno del racconto
della passione e del martirio di santa Barbara, qui il testo sottoposto a verifica e ad
analisi è invece la Historia beati viri Iuliani martyris, pubblicata nel 1945 dal De
Gaiffier,103 il più ricco di dettagli fra gli innumerevoli scritti agiografici su san Giuliano
l’Ospitaliere, uno dei santi più celebri e venerati durante tutto il Medioevo.104
Dopo avere, per chiarezza di trattazione, presentato una breve sintesi della vicenda, lo studioso rileva, in prima battuta, come il tema fondamentale di essa – ossia
99
P. Paschini, Santa Barbara. Note agiografiche, Roma 1927, pp. 26-34.
Sulla tradizione agiografica mediolatina concernente santa Irene, cf. il recente, ampio studio
di R. E. Guglielmetti, Le vite latine inedite di santa Irene. Studio ed edizione critica, in «Filologia
Mediolatina» 18 (2011), pp. 159-279.
101
Cf. D. Papebroch, «Responsio ad exhibitionem errorum per adm. R.P. Sebastianum a s. Paulo», O.C., 24-7-1696, in Acta SS. Bollandiana apologeticis libris in unum volumen nunc primum contractis vindicata, Antverpiae 1755, p. 370; A. Wirth, Danae in christlichen Legenden, Wien 1892, pp.
105 ss.; P. Paschini, Santa Barbara, cit., p. 65; M. Philonenko, Joseph et Aséneth. Introduction, texte
critique, traduction et notes, Leiden 1968, pp. 110 ss.
102
Già in «Ars narrandi». Scritti di narrativa antica in memoria di Luigi Pepe, a cura di C. Santini - L. Zurli, Napoli 1996, pp. 159-176.
103
B. de Gaiffier, La légende de saint Julien l’Hospitalier, in «Analecta Bollandiana» 63 (1945),
pp. 145-219 (il testo si legge ivi, pp. 200-219). Molti anni dopo, lo stesso studioso ritornò sulla leggenda
giulianea: Id., La légende de saint Julien l’Hospitalier. Notes complementaires, in «Analecta Bollandiana» 94 (1976), pp. 5-17.
104
Per un quadro sintetico ma informato sulle varie opere agiografiche su san Giuliano – oltre che
per alcune selettive indicazioni bibliografiche – cf. quanto annota Giovanni Paolo Maggioni, in Iacopo
da Varazze, Legenda aurea, con le miniature del codice Ambrosiano C 240 inf., testo critico riveduto
e comm. a cura di G. P. Maggioni, trad. ital. coordinata da Fr. Stella, II, Firenze 2007, pp. 1506-1508.
100
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l’inconsapevole uccisione dei genitori, da parte di Giuliano – rinvii alla storia di Edipo, quantunque l’agiografo si muova con autonomia e libertà nei confronti del mito
classico, «facendolo accortamente rivivere in un altro genere letterario pervaso da una
nuova spiritualità» (p. 839). Ma altri temi narratologici innervano prepotentemente il
racconto, quali lo “scambio di persona”, la “composizione della famiglia del protagonista e la sua prospera situazione”, i “viaggi” compiuti dal santo, l’“amore” (temi,
questi ultimi due, che costituiscono gli assi portanti del romanzo antico), oltre alla
narrazione di fatti che, pur nella loro finzione, tradiscono e rivelano elementi della vita
reale, quali il “sogno”, la “tempesta”, il “banchetto” e, ancora, il “falso delinquente” e,
soprattutto, la “presentazione in incognito” (motivo articolato in tre fasi: 1. un re – o
un santo, o un dio – si presenta sotto mentite spoglie; 2. egli viene o non viene accolto
benevolmente; 3. riconoscimento), il “traghettamento” e la “caccia”.
In conclusione, non si può non essere d’accordo con Donnini, quando afferma
come occorra riconoscere all’anonimo agiografo «l’abilità con la quale egli, attingendo ad un ricco arsenale di motivi letterari di larghissimo impiego specie nella letteratura narratologica, abbia saputo innestarli nel racconto per creare nei lettori emozioni
capaci di tenerne sempre desta l’attenzione, assicurando così la ricezione del messaggio che egli intendeva trasmettere» (p. 851).
6.4. Le “passiones” dei martiri di Septempeda e di Osimo: analisi del racconto
(pp. 853-867).105
Marone, Sisinnio, Diocleziano e Fiorenzio sono i primi santi martiri del Piceno,
del primo dei quali si narra nei Gesta Nerei et Achillei il martirio presso un podere
nella cittadina di Septempeda, insieme ai due compagni Eutiche e Vittorino;106 mentre
gli altri, lapidati nella campagna di Osimo, sono accomunati nella medesima vicenda
narrata nella Passio sancti Anthimi.107 Donnini volge la propria attenzione sul modus
narrandi adoperato dai rispettivi agiografi, cercando di individuare i mezzi attraverso i
quali essi hanno inteso trasmettere i significati delle loro opere ai destinatari di esse. In
particolare – come si evidenzia alla fine della disamina dei due testi, ricca di esempi e di
osservazioni – gli autori di essi, «fedeli interpreti dei valori religiosi della tradizione locale, avrebbero insistito, nella loro opera di riscrittura di racconti precedenti […], sullo
strumento del martirio, in quanto convinti, come i loro predecessori, che esso, proprio
perché legava in modo ideale alla memoria del protomartire quella dei santi martiri da
loro esaltati, avrebbe continuato ad accrescerne notevolmente il prestigio» (p. 867).
105
Già in Agiografia e culto dei santi nel Piceno. Atti del Convegno di Studio svoltosi in occasione della 11a edizione del “Premio Internazionale Ascoli Piceno” (Ascoli Piceno, 2-3 maggio 1997),
a cura di E. Menestò, Spoleto (PG) 1998, pp. 41-55.
106
Il testo si legge in AA.SS. Maii, III, pp. 4-16.
107
Cf. M. Gr. Mara, Contributo allo studio della «Passio Anthimi», Roma 1964, pp. 47-69.
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6.5. L’“ars narrandi” nel «Carmen in honorem Hludowici» di Ermoldo Nigello
(pp. 869-934).108
Si tratta, a mio modo di vedere, non solo di uno dei più vasti e significativi fra
i contributi accolti nel vol. (ben 66 pp.), ma anche del più ampio e importante fra glistudi recentemente apparsi – o, almeno, fra quelli di mia conoscenza –sul De gestis
Hludowici imperatoris di Ermoldo Nigello, un lungo saggio destinato all’individuazione dei caratteri descrittivi del Carmen in honorem Hludowici e teso allo scopo di
far luce sull’arte narrativa di Ermoldo. Lo studioso analizza minuziosamente, con una
particolare attenzione verso gli elementi compositivi e stilistici, una gran quantità di
episodi del poema post-carolingio.109La disamina proposta da Donnini, articolata per
temi, trascorre sulla celebrazione di Ludovico il Pio (vv. 40 ss.) e sulla sua descriptio
fisica (vv. 806-847); sulla laudatio di Benedetto di Aniane (vv. 1184-1201); sulla visio
di Teutram (vv. 2534-2591); sul viaggio di Ludovico il Pio per raggiungere la città di
Vannes e liberarla dall’assedio e dai saccheggi dei Bretoni (vv. 1522-1559); sui discorsi – che, coerentemente col modulo epico, hanno nel poema una presenza rilevante
– quelli di Ludovico (vv. 942-1039, 1592-1593) e del condottiero bretone Murman
(vv. 1622-1627, 1648-1663); sulla festa preparata dall’imperatore in occasione della
visita del papa, a Reims (vv. 858-880); sulle battaglie e gli scontri epici, quali l’assedio
di Barcellona (vv. 302-347); sulle descrizioni di città, come, ancora, Barcellona (vv.
102-117); sulla fondazione della abbazia di Conques (vv. 230-241); sulle descrizioni
di opere d’arte (vv. 2062-2163) e di popoli (i Bretoni, vv. 1296-1311; i Franchi, vv.
1406-1411); sui duelli (vv. 1848-1871); sui temi, ancora una volta, della caccia (vv.
2362-2415) e del banchetto (vv. 2418 ss.); sulla descrizione di doni (vv. 2254-2277)
e, in generale, sulle similitudini che costellano il testo, quasi tutte ispirate all’aureo
modello virgiliano.
Le conclusioni che emergono dalla lunga analisi esperita da Donnini giovano a
mettere in risalto come «nella varietà dei motivi e tratti letterari e dei “generi” – storia,
etnografia, panegirico, epica, bozzetto di vita quotidiana, agiografia, autobiografia – risalti sempre l’arte narrativa di Ermoldo contraddistinta dal desiderio di raccontare con
precisione e con finalità ben chiare, desiderio avvertibile in tratti realistici, in spunti
intrisi di ironia beffarda o di agghiacciante tragicità, in momenti di esegesi, di insegnamento, di propaganda, di introspezione psicologica. Trattasi inoltre di un desiderio che
trasforma spesso il racconto in spettacolo ed evidenzia la viva partecipazione del poeta
che, per tener alto il tono del racconto, per dar vivacità e freschezza a temi e motivi,per
conferire forza a sentimenti e per assecondare i gusti di un pubblico pronto a cogliere i
legami che univano la nuova epica a quella tradizionale, ricorre assai spesso a citazioni
108
Già in «Studi Medievali» n.s., 47.1 (2006), pp. 111-176.
Un precedente, in tal senso (applicato però soltanto a un singolo episodio del poema), è rappresentato dal lavoro di Chr. Ratkowitsch, Die Fresken im Palast Ludwigs des Frommen in Ingelheim (Ermold.
Hlud. IV 181 ff.). Realität oder poetische Fiktion, in «Wiener Studien» 107-108 (1994-1995), pp. 553-581.
Ma, per una bibliografia – ovviamente indicativa – sul poeta post-carolingio, cf. R. Angelini, s.v. Ermoldus
Nigellus, in C.A.L.M.A. Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (500-1500), III.3, pp. 287-288.
109
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di autori letti, a scuola, a motivi topici, a figurae verborum, a figurae sententiarum, a
figurae grammaticae e ad un avveduto uso dell’aggettivazione,espedienti artistici tutti
ritenuti più che legittimi nel genus laudativum, di cui ancheil Carmen in honorem Hludowici di Ermoldo costituisce un mirabile esempio» (p. 934).110
6.6. Il mito di Ercole e Caco nelle cronache latine di Todi (secoli XIII-XIV) (pp.
935-946).111
Il celebre mito di Ercole e Caco, ben attestato nei classici latini (Verg. Aen. VIII
193-267; Prop. IV 9, 1-16; Ov. fast. I 543-578; Liv. I 7, 4-7), è presente anche nella
Historia Tudertine civitatis, anonima cronaca della città di Todi redatta nella seconda
metà del sec. XIII, nella Urbis Tuderis historia (secc. XIV-XV), attribuita a un tal
Quirino Colono (autore, ovviamente, del tutto immaginario), e nell’Exemplum historiarum Tudertinarum, epitome anonima composta probabilmente entro il sec. XV.112
Donnini trascrive e analizza i tre testi – il secondo dei quali brevissimo – spesso
indugiando in comparazioni fra l’uno e gli altri, evidenziando analogie e difformità
(anche in relazione con le fonti antiche usufruite dai tre compilatori) e rilevando come,
in essi, il mito di Ercole e Caco si presenti sovente in forme contaminate da notizie che
non trovano alcun riscontro né nei modelli classici né in altri cronisti medievali, ed è
quindi ben chiaro che tali “innovazioni” siano da assegnare ai singoli, anonimi autori
delle tre cronache, «secondo la ben nota abitudine dei letterati medievali di nutrire
scarso rispetto della “realtà storica” dei miti, al punto tale da trasformarli e da adattarli
alle nuove esigenze» (p. 945). Ed è significativo, in tale ottica, che il mito in questione,
nei tre cronisti, non riveste più la valenza di un aition di una cerimonia religiosa (come
negli auctores), bensì quella di un aition della fondazione di una città, Todi appunto,
che in tal modo si attribuiva, addirittura, allo stesso Ercole. In definitiva, «tutti e tre
i cronisti, facendo risalire la fondazione di Todi al più forte degli eroi, si ponevano
nella schiera di quei cultori del genere encomiastico-descrittivo, che, operando sul
piano della fantasia, facevano risalire le origini delle città da essi celebrate ad un esule
troiano o latino. E se si considera che il racconto mitico […] proclama indirettamente
l’esistenza di Todi ancor prima della fondazione di Roma, esso si carica anche di una
valenza antiromana di fortissima presa nell’orizzonte mentale della collettività cittadina» (pp. 945-946).
110
Ho ripreso qui – con poche modifiche – quanto da me già scritto ne «La poesia epico-storica
mediolatina (secc. VI-X). Caratteri generali, consistenza del “corpus” e stato della ricerca», in Medioevo oggi. Tra testimonianze e ricostruzione storica: metodologia ed esperienze a confronto. Convegno
di studio “In ricordo di Maria Rita” (Agrigento, Monastero di Santo Spirito, 26-27 ottobre 2007 =
«Schede Medievali» 48 [2010]), a cura di A. Musco, Palermo 2010, pp. 41-78 (in partic., pp. 59-60); e
quindi nel vol. L’epica latina altomedievale e il «Waltharius», Palermo 2010, pp. 57-58.
111
Già in «Studi Medievali» n.s., 50.2 (2009), pp. 739-750.
112
Cf. Le cronache di Todi (secc. XIII-XVI), a cura di G. Italiani [et alii], Firenze 1979.
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6.7. Motivi narratologici e forme letterarie nella «Historia Tudertine civitatis»
(secolo XIII) (pp. 947-969).113
Donnini torna, con questo saggio, all’Historia Tudertine civitatis (del quale si è
occupato nel saggio precedente e di cui tornerà a occuparsi nel successivo).114 In questo caso, piuttosto che indugiare su un singolo episodio del racconto – come nell’intervento precedente e, ancora, nel susseguente – lo studioso fornisce un contributo
volto alla lettura complessiva del testo, conducendo una puntuale disamina dei motivi
narratologici e delle forme letterarie che è possibile individuare, sceverare e analizzare all’interno dell’anonima cronaca. Il saggio, infatti, assume la configurazione di un
esame squisitamente “letterario” della Historia, secondo un procedimento che fino ad
allora non era mai stato condotto (mentre non erano mancati, su di essa, studi di carattere storico o topografico).115
Fra i motivi narratologici che Donnini individua e analizza, si segnalano qui
la “fondazione di città da parte di esuli troiani o latini sul suolo italico” (Hist. 7-14);
la “restaurazione dell’ordine sociale costituito” (Hist. 23-29); l’“ospitalità” (presente
in vari passi del testo); la “presentazione in incognito” (Hist. 67-128);116 le “nozze di
uno straniero con la figlia di un potente del luogo” (tema che ricorre a più riprese); il
“tradimento della propria città” (presente nel testo sia nella variante del “tradimento
per amore”, sia in quella di “tradimento per denaro”);117 l’“incursione notturna in un
campo nemico” (Hist. 151-155);118 lo “scontro militare” (Hist. 131-151). A tali motivi
narratologici – tutti contrassegnati dal gusto, da parte dell’anonimo cronista, per il
racconto e la descriptio – si uniscono altresì alcune forme letterarie, tese a ravvivare
la narrazione (dialoghi e discorsi dei personaggi, trascrizioni di ipotetiche epistole).
Dall’insieme delle considerazioni e dei sondaggi svolti da Donnini emerge come
113
Già in Todi nel Medioevo (secoli VI-XIV). Atti del XLVI Convegno Storico Internazionale
(Todi, 10-15 ottobre 2009), Spoleto (PG) 2010, pp. 791-813.
114
Il testo è pubblicato – con trad. ital. a fronte – ne Le cronache di Todi (secc. XIII-XVI), cit.,
pp. 64-93.
115
Cf. M. Grondona, Appunti sulle cronache antiche di Todi, in «Studi Medievali» n.s., 23.1
(1982), pp. 387-439.
116
Nell’Historia Senna, figlio di Remolo (sic!), entra da solo in abito da contadino nella città
di Eclis (l’antico nome di Todi) allo scopo di attingere notizie in incognito. Qui il motivo si qualifica,
dunque, secondo la variante della “regalità sotto mentite spoglie”, già ben presente nella letteratura mediolatina, per es. in Paolo Diacono e in Liutprando di Cremona: cf. C. Santini, «Regalità sotto mentite
spoglie (Liud. Crem. Antap. I 11)», in Letterature classiche e narratologia, cit., pp. 331-340.
117
Al tema narratologico del “tradimento per amore” attengono, fra gli altri, sia il mito classico
di Scilla sia la vicenda di Romilda narrata da Paolo Diacono (Hist. Lang. IV 37), per cui cf. il mio Scilla
e Romilda: due modelli per una lavandaia omicida. Sulla “tragedia” «Due lotrices» di Giovanni di
Garlandia, in «Studi Medievali» n.s., 49.2 (2008), pp. 657-677.
118
Basti pensare, fra i classici, alle sortite notturne di Ulisse e Diomede (Hom. Il. X 220-298),
di Eurialo e Niso (Verg. Aen. IX 314-445) e di Opleo e Dimante (Stat. Theb. X 347-448); mentre,
per l’epica mediolatina, è sufficiente ricordare l’episodio di Simmaco e Nicanore, nell’Alexandreis di
Gualtiero di Châtillon (IX 78-117: per cui vd. A. Bisanti, Simmaco e Nicanore. Amicizia ed eroismo
nell’«Alexandreis» di Gualtiero di Châtillon, in c.s.).
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l’Historia Tudertine civitatis «presenti, in definitiva […], un intreccio di miti, di leggende, di “storie” romanzate, di motivi narratologici, di forme letterarie e di espedienti stilistici capaci di vivacizzare la semplicità della narratio» (p. 968), in un testo
mediante il quale «l’anonimo dà prova di aver voluto celebrare Todi nella consapevolezza di scrivere qualcosa di nuovo, senza farsi scrupolo di stravolgere, assai spesso,
persino la tradizione, un qualcosa, dunque, che non sarebbe stato oggetto di studio o di
discussione dotta, ma soltanto mezzo di piacevole intrattenimento, lasciando comunque al lettore più attento il piacere di scoprire, dietro il velo di una scaltrita arte allusiva
[…], importanti riflessi di una precisa realtà topografica, politica e religiosa» (p. 969).
6.8. Sedimentazioni del racconto della vigna di Nabot nella «Historia Tudertine
civitatis» del XIII secolo (pp. 971-980).119
L’influenza dell’episodio biblico della vigna di Nabot (3 Reg. 21, 1-16) nella Historia Tudertine civitatis (già ricordata a proposito dei due contributi precedenti) viene
da Donnini ben documentata attraverso la rilevazione delle presenze, in entrambi i testi
– quello vetero-testamentario e quello tardo-medievale –, di alcune importanti e innegabili corrispondenze di struttura complessiva, oltre che d’espressione, di sintgami, di
sententiae, di immagini, di circostanze, di sensazioni. D’altra parte, occorre rilevare
che l’episodio biblico, sia per il suo evidente valore didascalico-moralistico, sia per
la sua brevitas, ben si prestava a costituire un exemplum per i rectores della cittadina
e del popolo di Todi, cui l’Historia era indirizzata; e, ancora, che «il racconto duecentesco, oltre a costituire una testimonianza della Bibbia quale ispiratrice di nuclei
e motivi narratologici di indubbia valenza pedagogica, contribuisce anche a gettare
luce sull’abilità dell’anonimo cronista nel tradurre allusivamente l’episodio biblico in
una fantasticheria, come ha fatto del resto in altre parti della stessa opera, peraltro non
prive anche queste di tratti di suggestiva lettura e di intenti moralizzatori» (p. 980).
7. La settima e ultima sezione (Note, pp. 981-1044) accoglie sei interventi, in
genere brevi o brevissimi.
7.1. La «Lectura Ovidii epistularum» del cod. Asis. lat. 302 (pp. 983-1003).120
Donnini riprende lo studio della Lectura Ovidii epistularum contenuta nel ms.
lat. 302 della Biblioteca Comunale di Assisi, il cui accessus era già stato da lui edito
in un contributo di poco precedente (ed è il contributo che apre il vol., e del quale si
è già detto).121 Qui lo studioso illustra con la dovuta ampiezza i vari aspetti del commento ovidiano (un testo, fra l’altro, di considerevole estensione, occupando ben 100
ff. del ms.), nel quale l’anonimo autore annota tutte le Heroides, a eccezione di quella
119
Già in «Studi Medievali» n.s., 53.1 (2012), pp. 83-92.
Già in «Giornale Italiano di Filologia» 31.3 (1979), pp. 209-229.
121
Cf. supra, § 1.1.
120
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di Saffo a Faone (her. XV) e di quella di Ipsipile a Giasone (her. VI), oltre che di altri
passi più brevi di altre epistole.
È un commento che, globalmente, si presenta molto dettagliato e informato –
anche sulla vita e sulle altre opere di Ovidio – contrassegnato, fra l’altro, da uno spiccato gusto per le digressioni di carattere mitologico (come d’altronde avviene nella più
gran parte dei commenti medievali a Ovidio), dalla frequenza di osservazioni che, sulla scia di una lunghissima tradizione di stampo “isidoriano”, propongono e sviluppano
etimologie assolutamente fantasiose, e «dalla presenza di molteplici note che vengono
ad aprire piccoli squarci su antichi e moderni costumi nazionali capaci senza dubbio di
tener desta l’attenzione dei giovani scolari interessati a problemi riguardanti gli aspetti
della vita quotidiana del passato e del presente» (p. 998). Assai pochi sono, invece, gli
auctores classici e medievali esplicitamente menzionati o allusi nel commento: infatti,
a parte Aristotele, Cassiodoro e Remigio d’Auxerre ricordati nell’accessus, troviamo
soltanto Boezio, Lucano e Orazio. Dall’insieme delle osservazioni avanzate da Donnini si può, comunque, concludere che «il testo esaminato si rivela quale ulteriore documento interessante per la storia della cultura medioevale che […] proprio attraverso
l’opera dei commentatori tiene desto in notevole misura il gusto per il mondo classico,
oggetto primario di studio nelle numerose scuole del tempo» (p. 1003).
7.2. Nota a Hildeb. «De nummo» 149-156 (pp. 1005-1009).122
Nel De nummo (o Quid suum virtutis) pseudo-ildebertiano (e come opera di
Ildeberto ancora presentato e studiato da Nino Scivoletto123 e quindi dallo stesso Donnini nella sua nota, laddove esso, invece, è con una certa verosimiglianza attribuibile
a Teodorico di Saint-Trond),124 ai vv. 149-156 si leggono quattro distici elegiaci nei
quali viene narrato un celebre episodio che vede protagonista il filosofo cinico Diogene, un aneddoto sul disprezzo della ricchezza e dei beni materiali che ha goduto di una
discreta fortuna nella letteratura e nella poesia mediolatina: esso, infatti, risulta attestato nell’anonimo De nugis philosophorum, in Tommaso di Cantimpré, nello Speculum morale di Vincenzo di Beauvais, nel De vita et moribus philosophorum di Walter
Burleigh e, infine, nel De vita et moribus illustrium philosophorum di fra Michele da
Cortona (prima metà del sec. XV).
122
Già in «Giornale Italiano di Filologia» 32.3 (1980), pp. 259-263.
N. Scivoletto, Spiritualità medioevale e tradizione scolastica, cit., pp. 85-105.
124
Cf. Quid suum virtutis. Eine Lehrdichtung des XI. Jahrhunderts, ed. A. Paravicini, Heidelberg
1980 (edizione apparsa pressoché contemporaneamente alla nota ildebertiana di Donnini, e della quale
lo studioso, evidentemente, non poté tener conto); P. Lendinara, Una nuova versione del «Quid suum
virtutis», in «Schede Medievali» 14-15 (1988), pp. 15-28. Per una messa a punto critico-bibliografica
sul problema attributivo del cosiddetto De nummo, cf. A. Bisanti, Ildeberto di Lavardin: vita, opere,
problemi attributivi, in «Quaderni Medievali» 59 (2005), pp. 310-328 (alle pp. 316-317).
123
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7.3. Sul commento a Persio del Perusinus H 63 (pp. 1011-1016).125
Il cod. H 63 della Biblioteca Comunale Augusta di Perugia (sigla Pe), corrispondente al n. 578 dell’inventario del Mazzatinti,126 è un ms. miscellaneo, cartaceo, dei
secc. XV-XVI, scritto a più mani e contenente, in massima parte, commenti ad autori
classici. Fra questi figura un inedito commento ai coliambi e alle satire di Persio, dal
titolo Commentarium in Persii poemata cum textu (ff. 45r-82v). Come la presentazione
e la disamina di esso, svolte da Donnini, mostrano chiaramente, si tratta di un’opera
non certo di grandissimo valore né di notevole rilievo nel vasto campo dei commenti
ai classici latini in generale e a Persio in particolare. Sono comunque assai rilevanti
– nonché indizio di ottima cultura, da parte dell’anonimo – i riferimenti a Guarino
Veronese (che viene citato ben otto volte, all’interno del testo) e alle Genealogie deorum gentilium del Boccaccio (utilizzate tre volte, sempre in relazione a personaggi del
mito, nella fattispecie Ipsipile, Fillide e Antiope).
7.4. Una silloge alfabetica dei «Proverbia Senece» nel cod. Asis. 369 (pp. 10171019).127
Nel suo saggio del 1973 sulla silloge alfabetica delle sententiae senechiane attinte al De providentia, al De constantia sapientis e al De ira, Gerard Meersseman affermava che, di essa, esisteva una sola attestazione, nel ms. 44 del Seminario di Treviri
(sigla T, ff. 113r-116r).128 In questa nota, Donnini segnala invece l’esistenza di un’altra
silloge quasi del tutto identica a quella del ms. trevirense (e, inoltre, ben più antica),
che si legge ai ff. 152r-152v del cod. Asis. 369 (sigla A), conservato nel Fondo Antico
della Biblioteca Comunale di Assisi. Le due sillogi di Proverbia Senece risultano strettamente imparentate, come emerge con chiarezza da alcuni paralleli istituiti e illustrati
dallo studioso; e, inoltre, occorre rilevare che «il testo di A è senza dubbio non privo
di interesse non solo perché aggiunge un altro testimone alla tradizione rappresentata
finora soltanto da T, fra l’altro molto più recente, ma soprattutto perché si rivela di
fondamentale importanza per la costituzione del testo della silloge stessa e per la sua
fortuna» (p. 1019).
7.5. Coordinate spazio-temporali di una microagiografia vescovile negli epitaffi
di Venanzio Fortunato (pp. 1021-1032).129
Il libro IV dei Miscellanea carmina di Venanzio Fortunato è aperto da dieci
brevi epigrammi funerari in onore di undici vescovi della Gallia merovingica. Donnini
fornisce una rapida disamina di questi componimenti – in realtà assai poco studiati –
125
Già in «Giornale Italiano di Filologia» 33.3 (1981), pp. 255-260.
G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti, V, cit., p. 153.
127
Già in «Studi Medievali» n.s., 24.1 (1983), pp. 367-369.
128
Cf. G. G. Meersseman, Seneca maestro di spiritualità nei suoi opuscoli apocrifi dal XII al XV
secolo, in «Italia Medioevale e Umanistica» 16 (1973), pp. 43-135 (a p. 72).
129
Già in Venanzio Fortunato tra Italia e Francia. Atti del Convegno Internazionale di Studi
(Valdobbiadene, 17 maggio 1990 - Treviso 18-19 maggio 1990), Treviso 1993, pp. 247-258.
126
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soffermandosi, in particolare, su alcuni elementi (in gran parte topici di questo genere
di letteratura) che li caratterizzano distintivamente, quali il disinteresse per le cose
materiali, legate alla breve permanenza del corpo sulla terra e la volontà di procurare
ricchezze spirituali; il richiamo a operare il bene e a fuggire il male; la contrapposizione fra il corpo, che rimane legato alla terra, e l’anima, che invece ascende al cielo; la
gioia del vescovo salito in Paradiso e la tristezza di coloro che restano pellegrini sulla
terra; e ancora, la munificenza verso i poveri, il fattivo impegno che i presuli hanno
profuso alle necessità della Chiesa per tenerne alto il prestigio, la stessa loro descriptio
fisica e spirituale.
Elementi, tutti, che concorrono a far sì che si possa mettere in risalto come Venanzio Fortunato, in queste sue composizioni, abbia teso a un prevalente intento agiografico:
«Non soltanto micro ricordi, dunque, ma piuttosto microagiografie che oltre a costituire
un’ulteriore documentazione per la storia della tipologia della santità vescovile dell’epoca
in cui vennero scritte, diventano anche fonte di conoscenza dei sentimenti del loro autore,
il quale vede appunto, nella vita dei vescovi da lui commemorati, l’esaltazione di una santità che gli è particolarmente cara, quella martiniana percepita nella componente fondata
sull’amore per il prossimo e sul patrocinio prestato alla città» (p. 1029).130
7.6. Antonio da Rho: un poeta orante per Filippo Maria Visconti (pp. 1033-1044).131
In questo, che è l’ultimo contributo ripresentato nel vol., Donnini ritorna, a distanza di un anno, alla figura e all’opera di Antonio da Rho, del quale aveva già illustrato e pubblicato, nel 2002, l’inedita Metrica commediatio summi pontificis Martini
V dedicata a Bartolomeo della Capra nel 1418.132 Ai ff. 27v-31r del cod. 793 della Biblioteca Trivulziana di Milano si legge un gruppo di nove poesie in esametri (con una
dedica), non precisamente databili, attribuibili allo scrittore francescano e ancora inedite. I componimenti in oggetto – tutti brevi o brevissimi – sono preceduti da un carme
di dedica all’umanista visconteo Pier Candido Decembrio (De icona Philippi Marie
Petro Candido, 12 vv.) e contengono preghiere in favore di Filippo Maria Visconti,
duca di Milano, rispettivamente alla Vergine (I. Ad beatam Virginem oratio, 16 vv.), a
san Giovanni Battista (II. Ad beatum Iohannem Baptistam, 11 vv.), a santa Elisabetta
(III. Ad beatam Helisabeth, 15 vv.), a sant’Antonio abate (IV. Ad beatum Antonium,
16 vv.), a san Pietro Martire (V. Ad beatum Petrum martirem, 22 vv.), a san Guiniforte
(VI. Ad beatum Guinifortum, 16 vv.), a san Sebastiano (VII. Ad beatum Sebastianum,
17 vv.), nonché una lode della festività dei santi Quirico e Giulitta (VIII. Exultatio
felicis et solemnis diei, 21 versi) e, infine, una preghiera a questi due ultimi santi (IX.
130
Dopo Donnini, alla poesia funeraria di Venanzio Fortunato (sebbene non a quella specificamente vescovile) ha dedicato, fra gli altri, alcuni interventi P. Santorelli, «L’«Epitaphium Eusebiae» di
Venanzio Fortunato (IV 28)», in La poesia cristiana latina in distici elegiaci. Atti del Convegno internazionale (Assisi, 20-22 marzo 1992), a cura di G. Catanzaro e Fr. Santucci, Assisi 1993, pp. 285-294;
Venanzio Fortunato, Epitaphium Vilithutae (IV 26), a cura di P. Santorelli, Napoli 1994.
131
Già in «Franciscana» 5 (2003), pp. 231-242.
132
Cf. supra, § 1.7.
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Ad beatos Iulitam et Quiricum, 6 vv.).
Donnini analizza attentamente le poesie, individuando nelle prime sette di esse
un’identica struttura quadripartita (1. invocazione; 2. notizie sul santo invocato; 3. richiesta di aiuto; 4. elogio del Visconti), il che ingenera uno schematismo che provoca
una monotona e artificiosa freddezza complessiva, accresciuta dalle frequenti ripetizioni di espressione e di dettato e da una invariabile fissità d’impianto. Anche in questo
caso – come già nella Metrica commediatio – Antonio da Rho ricorre di frequente alla
mitologia classica e al prediletto Virgilio, cui qui si affianca, quasi alla pari, Ovidio; e
anche in questo caso lo scrittore fa ampio e abbondante uso delle più note figure retoriche di suono e di parola. Siamo quindi, nel complesso, di fronte a un piccolo corpus
poetico certamente non di altissimo valore, le cui caratteristiche non si differenziano
da quelle di «tanti altri umanisti che, nell’esaltazione dei potenti del tempo, si preoccupavano soprattutto di fare sfoggio della loro doctrina e della loro abilità versificatoria,
dimostrabile quest’ultima in modo particolare attraverso l’uso di accorgimenti retorici,
nel tentativo di rendere il dettato più attraente e più adatto ai personaggi di volta in
volta celebrati» (p. 1044).
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