TROMBOFILIE CONGENITE E ACQUISITE Pier

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TROMBOFILIE CONGENITE E ACQUISITE Pier
TROMBOFILIE CONGENITE E ACQUISITE
Pier Mannuccio Mannucci
Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Milano e Centro
Emofilia e Trombosi Angelo Bianchi Bonomi, IRCCS Ospedale Maggiore di
Milano
Corrispondenza a:
P.M. Mannucci
Via Pace 9
20122 Milano
Tel. 02/55035421
Fax 02/5516093
e-mail: [email protected]
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Lo scopo di questa rassegna è quello di definire le sindromi note come stati
trombofilici, tracciare la sequenza delle conoscenze che hanno portato ad individuarne
sempre meglio le basi biochimiche e genetiche e descrivere brevemente quanto di esse
deve essere conosciuto dall’ematologo.
DEFINIZIONE DEGLI STATI TROMBOFILICI
Viene definita trombofilia la tendenza, determinata da cause congenite o acquisite,
al tromboembolismo venoso e/o arterioso, che tipicamente è caratterizzata e dalla
comparsa di manifestazioni cliniche anche in età giovanile (prima di 40-45 anni), senza
cause apparenti e con la tendenza a recidivare. Va sottolineato che l’esistenza di uno stato
trombofilico non esprime necessariamente la presenza continua di manifestazioni cliniche
trombotiche. Anche se il concetto di trombofilia implica l’alterazione dell’equilibrio del
sistema emostatico verso la trombogenesi, vi sono numerosi meccanismi compensatori
che rendono episodica la trombosi. Affinché questi meccanismi si alterino e si sviluppi
quindi la trombosi, è in genere necessario che più di un fattore trombofilico coesista.
Come infatti vedremo alcuni fattori trombofilici, specie quelli congeniti, sono frequenti
nella popolazione generale, e vi è quindi un’elevata possibilità che coesistano fra di loro o
con i fattori trombofilici acquisiti, rompendo così l’equilibrio emostatico e portando alle
manifestazioni cliniche.
Le Tabella 1 e 2 elencano le principali cause di trombofilia. Esse sono state divise in
congenite e acquisite, anche se come si è visto questa distinzione è semplicistica, nella
misura in cui le manifestazioni trombotiche sono spesso il risultato dell’interazione di
fattori trombofilici appartenenti ad ambedue le categorie. Questa rassegna si limiterà a
trattare gli stati trombofilici legati a cause congenite e, fra quelli acquisiti, la sindrome da
anticorpi antifosfolipidi. Questa scelta è basata sul fatto che oltre a essere
complessivamente più frequenti, queste due tipi di stati trombofilici sono quelli in cui si
sono registrati maggiori progressi nelle nostre conoscenze negli ultimi dieci anni.
1. LE TROMBOFILIE CONGENITE
La prima causa di trombofilia congenita, la carenza congenita di antitrombina, è
stata descritta nel 1965 in Norvegia in una famiglia caratterizzata dalla comparsa di
trombosi venose ed embolie polmonari che tendevano a recidivare in giovani di ambedue
i sessi. Si è dovuto attendere 16 anni per individuare altre cause. Nel 1981 e poi nel 1984
negli Stati Uniti sono state individuate la carenza di proteina C e la carenza di proteina S,
trasmesse con modalità autosomica dominante come la carenza di antitrombina. Più
recentemente, gruppi Svedesi, Olandesi e Italiani hanno dimostrato che ben 30-50% dei
casi di trombofilia congenita erano associati alla resistenza plasmatica all’azione
anticoagulante della proteina C attivata, determinata dalla mutazione Arg506Gln nel gene
del fattore V (generalmente conosciuta come fattore V Leiden dalla città dove è stata
descritta). Un altro fattore di ipercoagulabilità, che si è successivamente aggiunto alle
cause di trombofilia congenita è una mutazione puntiforme della protrombina che spiega
10-20% dei casi. Infine, una causa importante e frequente di trombofilia è
l’iperomocisteinemia, che è una frequente causa congenita e acquisita di
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tromboembolismo arterioso e venoso giovanile. Viene riportata alla fine del testo una
bibliografia essenziale, fatta prevalentemente di rassegne, a cui il lettore si può riferire per
maggiori dettagli e per ulteriori approfondimenti sulle trombofilie congenite 1-7.
LE BASI BIOCHIMICHE E MOLECOLARI
Carenze di anticoagulanti naturali. La frequenza della carenza di antitrombina nella
popolazione generale è stimata intorno a 1:2,000-1:5,000. La trasmissione del difetto è
autosomica dominante. La maggiore parte dei soggetti sono eterozigoti, con livelli
plasmatici di antitrombina fra 40% e 70% del normale (vedi in seguito).Quasi cento diverse
mutazioni sono state identificate come basi genetiche della carenza. In genere, le
mutazioni sono tali da impedire la sintesi della proteina da parte dell’allele mutato, come
delezioni, inserzioni e mutazioni nonsense. Vi sono anche mutazioni missense che non
arrestano la sintesi della proteina ma producono alterazioni nella sua conformazione e
stabilità. La frequenza della carenza di proteina C nella popolazione generale è di 1:5001:700. Circa 200 mutazioni sono state finora identificate. Sono frequenti le mutazioni che
arrestano la sintesi della proteina (frameshift, nonsense, delezioni), ma vi sono anche
singole sostituzioni aminoacidiche che evidentemente alterano il corretto
dimensionamento della proteina e la rendono più instabile. Non vi sono dati sulla
frequenza della carenza di proteina S nella popolazione generale. Finora, le mutazioni
identificate non raggiungono il numero di cento (singole sostituzioni aminoacidiche,
inserzioni, delezioni).
Fattore V e protrombina. La maggior parte dei casi di resistenza alla proteina C
attivata è associata a una sostituzione nucleotidica del gene del fattore V sito nel
cromosoma 1 (G1691A), che porta alla sostituzione di arginina in posizione 506 con
glutamina. Questa mutazione diversamente dalle carenze degli anticoagulanti naturali
determina un eccesso di funzione coagulante del fattore V. E’ assai frequente nella
popolazione generale Europea e Nord Americana di origine Caucasica, con un gradiente
dal Nord al Sud fra 10-15% in alcune regioni della Svezia, 2-3% nell’Italia Settentrionale,
fino a 1% nell’Italia Meridionale. La trasmissione della mutazione è autosomica
dominante.
La sostituzione nucleotidica di guanina con adenosina nella posizione 20210 della
regione 3’ non codificante del gene della protrombina ha una frequenza nella popolazione
generale assai alta e tipica di un polimorfismo (0.3-4%), con un gradiente di frequenza
geografica che appare inverso a quello del fattore V Leiden (più frequente nel Sud Europa
che nel Nord).Anch’essa determina un eccesso di funzione della protrombina, con
aumento dei livelli plasmatici. I portatori della mutazione hanno un aumento del rischio di
tromboembolismo venoso che varia da 2 a 7 volte quello dei controlli senza la mutazione,
rischio simile o leggermente inferiore a quello riscontrato per il fattore V mutato.
Iperomocisteinemia. L’omocisteina è un aminoacido sulforato presente nel plasma
dell’individuo normale in concentrazioni variabili fra 5 e 15 µmol/L. Nel metabolismo
dell’omocisteina sono coinvolti tre enzimi: la metilenetetraidrofolato reduttasi, enzima
chiave nel ciclo dell’acido folico, la metionina sintetasi il cui coenzima è la vitamina B12 e
la cistationina-β-sintetasi, che utilizza come cofattore enzimatico la vitamina B6. La
carenza o anormalità funzionale di questi enzimi e/o la carenza acquisita di cofattori
vitaminici determina un difettoso metabolismo dell’aminoacido e quindi il suo accumulo
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nel plasma in elevate concentrazioni, che determinano uno stato trombofilico con
meccanismi non completamente noti.
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MANIFESTAZIONI CLINICHE
Il più importante determinante della gravità e variabilità dei sintomi è lo stato di
omozigosi o di eterozigosi per l’allele mutato, che verranno quindi trattate separatamente.
Negli eterozigoti. Il sintomo più frequente è la trombosi venosa delle vene
profonde degli arti inferiori, che rappresenta circa il 90% di tutti gli episodi. La trombosi
delle vene degli arti superiori, invece, non è sintomo tipico delle trombofilie congenite e
quando si manifesta bisogna ricercare altre cause, spesso di natura locale. Altre trombosi
delle vene cerebrali o addominali sono più rare (5% di tutti gli episodi) ma di ben
maggiore gravità clinica. La tromboflebite superficiale costituisce il rimanente 5% di tutti i
sintomi.
Anche se circa metà degli episodi trombotici si sviluppano apparentemente in
maniera spontanea negli individui eterozigoti, nell’altra metà dei casi si devono ricercare e
si possono riconoscere delle concause contingenti. Fra queste, le più importanti sono
senz’altro la gravidanza/puerperio e l’assunzione di contraccettivi estroprogestinici. Lo
sviluppo di manifestazioni trombotiche durante la gravidanza/puerperio sembra essere
più frequente nelle donne carenti di antitrombina (31-44%), che in quelle con gli altri
difetti, incluso la mutazione del fattore V (10-28%).Il maggior rischio trombotico
determinato dell’assunzione di contraccettivi è stato ben documentato per tutti i difetti
ereditari, ma è stato particolarmente ben studiato nelle donne portatrici di mutazioni del
fattore V e della protrombina. Queste mutazioni aumentano di 6-10 volte il rischio di
sviluppare trombosi delle vene profonde della gamba rispetto alle donne che assumono la
pillola senza avere un difetto trombofilico, che a loro volta hanno un rischio trombotico da
4 a 6 volte superiore di donne che non usano la pillola e che non sono portatrici di
alterazioni trombofiliche.
Un’altra concausa contingente per lo sviluppo di trombosi negli individui con
trombofilia ereditaria è l’intervento chirurgico. Un’analisi retrospettiva condotta in Italia
in una numerosa casistica di individui con carenze degli anticoagulanti naturali ha
dimostrato un’alta frequenza di trombosi venosa dopo chirurgia addominale (21%) e dopo
chirurgia ortopedica e oncologica ad alto rischio (37%). Queste frequenze rilevate sono ben
più alte di quelle attese, indicando un’interazione fra i difetti trombofilici e la chirurgia nel
determinare un elevato rischio di trombosi. Fra le concause dello sviluppo di
manifestazioni trombotiche, ve ne sono anche di permanenti, come la presenza
concomitante di più di un difetto genico. Questa interazione non è rara, se si considera la
frequenza nella popolazione generale di difetti come le mutazioni dei fattori V e
protrombina e dell’iperomocisteinemia moderata.
Negli omozigoti. Nei difetti genetici degli anticoagulanti naturali, la relativa rarità
degli alleli mutati rendono assai poco frequenti i casi di omozigosi. L’omozigosi per la
carenza di antitrombina sembra essere incompatibile con la vita, salvo che per la varianti
con difettoso legame all’eparina, che sopravvivono ma presentano una grave tendenza
trombotica. Le omozigosi per la carenza di proteina C e proteina S sono state descritte con
maggiore frequenza, caratterizzate da gravi manifestazioni neonatali di necrosi ischemica
di molti organi viscerali, cute e sottocutaneo (purpura fulminans).
L’elevata frequenza nella popolazione generale delle mutazioni del fattore V e della
protrombina fa sì che le condizioni di omozigosi siano assai più frequenti che per i difetti
degli anticoagulanti naturali. Sulla base della frequenza degli alleli mutanti si può
calcolare che nella popolazione generale Italiana 1:4,000-5,000 individui sia omozigote. Per
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il fattore V, il rischio trombotico è stimato essere 11 volte superiore a quello degli
eterozigoti e 90 volte quello della popolazione senza mutazione. Negli omozigoti il rischio
di sviluppare trombosi prima di 33 anni è doppio che negli eterozigoti (40% contro 20%).
Alterazioni trombofiliche e trombosi arteriosa. Per quanto riguarda il
tromboembolismo arterioso, l’unico difetto trombofilico congenito associato con certezza a
un aumentato rischio è l’iperomocisteinemia moderata. In molti casi, l’iperomocisteinemia
sembra essere acquisita e legata a carenze dietetiche, soprattutto negli anziani. E’ assai
meno chiaro se i rimanenti difetti congeniti siano fattori di rischio di trombosi arteriosa,
perchè i dati sono contrastanti. Anche se alcuni studi sembrano dimostrare un ruolo
patogenetico delle mutazioni del fattore V e della protrombina, soprattutto nelle giovani
donne con fattori di rischio contingenti come il fumo, altri dati sono negativi o più spesso
semplicemente inconclusivi per il numero relativamente basso di individui studiati.
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DIAGNOSI DI LABORATORIO
Lo scopo dell’indagine di laboratorio è di identificare accuratamente la presenza di
uno o più dei difetti noti per essere causa di trombofilia congenita. Verrà discusso
soprattutto il problema di chi deve essere sottoposto all’indagine e quando; inoltre, quali
prove di laboratorio sono necessarie per la diagnosi e dove dovrebbero essere eseguite.
Chi e quando. Sono chiaramente da indagare individui che hanno una storia famigliare
di trombosi venosa. Altri fattori che indicano l’indagine sono l’età giovanile della
comparsa del primo sintomo trombotico (meno di 40-45 anni), la ricorrenza e anche il suo
manifestarsi in sedi inusuali (come nelle vene cerebrali, mesenteriche, portali).
Manifestazioni trombotiche nel periodo neonatale sono un’altra indicazione per
l’indagine, soprattutto per identificare eventuali omozigosi per la carenza di proteina C.
Vi sono situazioni cliniche in cui non è opportuno eseguire l’indagine, come per
esempio quando la trombosi venosa compare in età adulta o senile, soprattutto se si vi è
una causa contingente di trombosi come la chirurgia, un tumore, l’immobilizzazione
prolungata. In questi casi, la conoscenza dell’esistenza o meno di una causa congenita di
trombofilia non cambia l’approccio terapeutico. Inoltre, le prove diagnostiche di
trombofilia non vanno eseguite in individui sani senza storia personale o famigliare di
trombosi venosa quando essi siano esposti elettivamente a fattori di rischio trombotici
contingenti, come per esempio la gravidanza, la chirurgia ortopedica ad alto rischio e la
prolungata immobilizzazione. Lo stesso consiglio di non eseguire le indagini di
laboratorio indiscriminatamente vale anche per le donne che assumono i contraccettivi
orali, anche per mutazioni frequenti nella popolazione generale come quelle del fattore V e
della protrombina. La loro ricerca indiscriminata non è infatti giustificata dal rapporto
costo-beneficio. Lo studio di laboratorio è invece fortemente raccomandato nei famigliari
anche asintomatici dei casi indice già diagnosticati, perchè possono beneficiare della
instaurazione di profilassi antitrombotica in occasione di esposizione a rischi contingenti
di trombosi (vedi in seguito).
Quali e dove. Le prove di laboratorio scelte per stabilire una diagnosi di
trombofilia ereditaria dovrebbero essere specifiche, limitate nel numero e ben correlate al
problema clinico. In realtà, non esistono una o più semplici prove di laboratorio globali
che permettano di confermare o escludere tale diagnosi. Quelle attualmente disponibili
sono molteplici, laboriose e piuttosto costose. Per questi motivi, vanno eseguite solo in
individui a rischio.
LINEE DI GUIDA TERAPEUTICHE
La terapia delle trombofilie congenite comprende la prevenzione primaria delle
manifestazioni cliniche in portatori di difetti ma ancora asintomatici, la prevenzione
secondaria delle recidive in portatori dei difetti che hanno già avuto un episodio
trombotico e naturalmente la terapia degli episodi trombotici acuti.
Profilassi primaria. Come abbiamo visto, circa il 30-40% degli individui con difetti
degli anticoagulanti naturali non sviluppano mai manifestazioni cliniche nel corso della
loro vita. La percentuale di pazienti che rimangono senza trombosi è sicuramente più alta
per difetti come le mutazioni dei fattori V e II e l’iperomocisteinemia, come risulta
chiaramente dall’osservazione di centenari portatori sani della mutazione del fattore V.
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Inoltre, la durata della vita degli individui con carenza di proteina C e antitrombina non è
diversa da quella della popolazione generale. Né si può identificare in alcun modo chi è
destinato ad avere un episodio trombotico da chi rimarrà asintomatico. Per tutti questi
motivi la profilassi a vita con farmaci anticoagulanti non è giustificata nei portatori
asintomatici dei difetti trombofilici, poiché il rischio emorragico legato a questi farmaci è
superiore al rischio trombotico, e per il costo del controllo di laboratorio della terapia.
D’altre parte, la profilassi anticoagulante è chiaramente consigliabile quando un portatore
asintomatico viene esposto a fattori di rischio contingenti (come chirurgia, prolungato
allettamento e gravidanza/puerperio). Consigliata dunque la profilassi in questi casi, il
problema seguente è se sono sufficienti i farmaci e i dosaggi consigliati in individui senza
difetti trombofilici esposti agli stessi fattori di rischio contingenti, o se invece è necessaria
una profilassi più intensa in questi individui ad alto rischio per la loro ipercoagulabilità di
base. Le dosi profilattiche comunemente usate di eparina non frazionata o a basso peso
molecolare sembrano essere efficaci anche in questi individui. Naturalmente, la terapia
standard va potenziata quando questi individui sono sottoposti a interventi chirurgici
considerati a rischio trombotico particolarmente elevato (chirurgia ortopedica, chirurgia
dei tumori). Vanno considerate situazioni contingenti ad alto rischio trombotico anche la
gravidanza e soprattutto il periodo puerperale per almeno quattro settimane dopo il parto,
soprattutto nei pazienti con carenza di antitrombina. Per questi motivi, raccomandiamo
durante tutta la gravidanza la profilassi con eparina sottocutanea con le stesse dosi
raccomandate per la chirurgia maggiore a rischio basso o moderato. Nel puerperio, è
opportuno potenziare tale terapia, impiegando gli stessi schemi che si consigliano per la
chirurgia ortopedica ed oncologica ad alto rischio.
Profilassi secondaria. Come comportasi in un paziente che ha già avuto una
manifestazione trombotica e in cui è stato riscontrato il difetto trombofilico? Anche qui,
non vi sono studi conclusivi atti a dare risposte specifiche per questi pazienti rispetto a
quelli senza difetti. Con queste incertezze sul ruolo della trombofilia nel facilitare la
recidiva di trombosi, le raccomandazioni di gruppi esperti sono di eseguire la terapia
anticoagulante per 3-6 mesi dopo l’episodio acuto, come del resto si farebbe in pazienti
non trombofilici. In gruppi specifici di pazienti considerati a rischio particolarmente
elevato, viene raccomandata la terapia anticoagulante a vita. Appartengono senz’altro a
questo gruppo coloro che hanno avuto più di un episodio trombotico.
Un discorso a parte, sia in termini di prevenzione primaria che secondaria, va fatto
quando viene diagnosticata l’iperomocisteinemia. La somministrazione giornaliera di dosi
relativamente basse di acido folico, associato o meno alle altre due vitamine coinvolte nel
metabolismo della omocisteina (vitamina B6, vitamina B12), riduce i livelli plasmatici
dell’aminoacido, con basso costo e nessun effetto collaterale per il paziente. Le dosi
supplementari giornaliere di queste vitamine che sono raccomandate sono 0.5 mg di acido
folico, 0.5 mg di vitamina B12 e 50 mg di piridossina.
Trattamento degli episodi trombotici acuti. Il trattamento raccomandato del
tromboembolismo venoso in fase acuta è lo stesso che viene raccomandato in pazienti con
tromboembolismo venoso senza difetti trombofilici. Rimandando per maggiore dettagli
alle linee di guida della Società Italiana per lo Studio dell’Emostasi e della Trombosi
(http://www.airon.it/siset). Ricordiamo che è utile iniziare con eparina non frazionata o a
basso peso molecolare combinato subito con anticoagulanti orali, sospendendo il primo
trattamento quando viene raggiunto il range terapeutico con il secondo. Non vi è motivo
attualmente per raccomandare un intervallo terapeutico diverso da quello raccomandato
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usualmente, cioè INR fra 2.0 e 3.0. Per la durata ottimale della terapia anticoagulante,
vedere in precedenza.
2. LA SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI
La
sindrome da anticorpi antifosfolipidi è caratterizzata dalla presenza di
manifestazioni trombotiche, sia di tipo venoso che arterioso e da marcatori ematici: gli
anticorpi anticardiolipina e/o l’anticoagulante tipo lupus 8-6. I criteri diagnostici della
sindrome da anticorpi antifosfolipidi e dell’anticoagulante tipo lupus sono standardizzati.
Tuttavia la mancanza di test specifici rende ancor oggi difficile la diagnosi.
L’atteggiamento terapeutico risente delle difficoltà diagnostiche, dell’assai variabile
presentazione clinica e della relativa scarsità di studi controllati di adeguate dimensioni e
potere statistico.
GLI ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI
Gli antifosfolipidi sono un gruppo eterogeneo di immunoglobuline principalmente di
classe IgG, occasionalmente IgM o IgA, che interferiscono con i test di coagulazione
fosfolipidi-dipendenti, tipicamente con il tempo di tromboplastina parziale attivato che è
allungato (APTT) 8-10. La reattività antigenica di questi anticorpi può essere valutata con
metodi immunoenzimatici che utilizzano come antigene la cardiolipina (anticorpi
anticardiolipina), mentre la loro attività funzionale anticoagulante (anticoagulante tipo
lupus) può essere valutata con test di coagulazione fosfolipido-dipendenti (l'APTT, il
tempo di coagulazione con caolino o Kaolin clotting time, il silice clotting time, il test con
veleno di vipera Russell diluito). Peraltro questi anticorpi non sono diretti contro i
fosfolipidi, ma contro diverse proteine plasmatiche che partecipano ai meccanismi
coagulativi (β2-glicoproteina I, protrombina, proteina C, proteina S, trombomodulina e
annessina V) e che hanno in comune un’elevata affinità per le membrane ricche di
fosfolipidi anionici di cellule coinvolte nell’emostasi come le piastrine e le cellule
endoteliali. In particolare, è possibile identificare due sottogruppi di anticorpi con attività
anticoagulante lupica: quelli diretti contro la protrombina e quelli diretti contro la β2glicoproteina I 11. Nella maggiore parte dei casi, l’attività anticoagulante è dovuta alla
presenza contemporanea di entrambi gli anticorpi. In alcuni pazienti, è però possibile
osservare una prevalente attività anti-β2- glicoproteina I che si associa ad un aumentato
rischio di sviluppare complicanze trombotiche 11.
RISCHIO DI TROMBOSI
La sindrome da anticorpi antifosfolipidi può presentarsi sia in forma primitiva (o
idiopatica) che secondaria a patologie autoimmunitarie (lupus eritematode sistemico,
artrite reumatoide), malattie linfoproliferative, infiammatorie o in seguito all’assunzione
di farmaci (cloropromazina e procainamide). Le manifestazioni cliniche più frequenti della
forma primitiva sono costituite dalla trombosi, sia venosa che arteriosa, dagli aborti
spontanei ripetuti e dalla trombocitopenia 8-10. I pazienti con sindrome da anticorpi
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antifosfolipidi secondaria manifestano con elevata frequenza neutropenia ed anemia
emolitica autoimmune, riscontro generalmente assente nelle forme primitive. La frequenza
di trombosi è analoga sia nelle forme primitive che secondarie.
L’associazione tra trombosi ed anticoagulante lupico è stata per la prima volta segnalata
nel 1963 in un gruppo di pazienti con lupus eritematoso sistemico 12 ed confermata in
seguito in pazienti con o senza lupus. Nel 1983 sono stati pubblicati due studi che hanno
confermato l’associazione fra positività dei tests per l’anticoagulante lupico e/o gli
anticorpi anticardiolipina e la trombosi 13,14. La prevalenza di manifestazioni trombotiche è
di circa il 30% negli individui con la sindrome, con un incidenza di 7.5%/pazienti anno. Il
rapporto fra la frequenza di tromboembolismo venoso (trombosi venose profonde ed
embolie polmonari) e arterioso nei pazienti con sindrome da anticorpi anticardiolipina è di
circa 2 a 1.
Mentre non vi sono dubbi sull’associazione tra anticorpi antifosfolipidi,
poliabortività ed eventi trombotici venosi, per quanto riguarda le trombosi arteriose
(coronariche e cerebrali) vi sono dati contrastanti. Per esempio, lo studio di Hamsten et al
15 mette in evidenza un'associazione tra anticorpi anticardiolipina e infarto miocardico.
D’altra parte, nello studio di Sltenes et al 16, eseguito su pazienti sopravvissuti a un infarto
miocardico, gli anticorpi anticardiolipina non sono risultati un fattore di rischio
significativo per la mortalità e il reinfarto. Per quanto riguarda la patologia ischemica
cerebrale, il “Physicians Health Study”, uno studio caso-controllo di grandi dimensioni
eseguito in pazienti con eventi ischemici cerebrali 17, ha dimostrato che anticorpi
anticardiolipina con valori superiori al 95 percentile (>33 U) non sono fattori di rischio per
eventi ischemici cerebrali. D’altra parte, l’Antiphospholpid Antibody Stroke Study Group
ha dimostrato una significativa prevalenza di anticorpi anticardiolipina in pazienti con
manifestazioni ischemiche cerebrali 18. Nel complesso, l’espressione attraverso il calcolo
del rischio relativo della dimensione dell’associazione tra anticorpi antifosfolipidi e
trombosi arteriosa cerebrale (ictus, attacchi ischemici reversibili) dà valori di rischio
relativo varianti tra 2.3-10.6; il rischio relativo corrispondente per trombosi venosa varia
tra 2.7 e 11.9. Per quanto riguarda le complicanze ostetriche e presenza di anticoagulante
lupico, i dati pubblicati indicano una prevalenza che varia dal 5.2% al 48%.
SI PUO’ PREVEDERE IL RISCHIO TROMBOTICO?
Va innanzitutto ricordato che anche in una certa percentuale di soggetti sani è possibile
misurare anticorpi anti-cardiolipina
a basso titolo (<30-40 U), mentre l’attività
dell’anticoagulante lupico è di regola assente in tali individui. L’attività anticardiolipina
riscontrabile nei soggetti sani è per lo più legata all’isotipo IgM, mentre quella associata
alla patologia, sia che si tratti di anticorpi anticardiolipina che di anticoagulante lupico,
appartiene all’isotipo IgG. Nonostante i dati contrastanti che esistono nella patologia
ischemica arteriosa, la certa associazione fra anticorpi antifosfolipidi, trombosi venosa e
complicanze ostetriche pone al clinico il quesito se è possibile predire il rischio trombotico
in individui che presentano positività per i test di laboratorio senza aver avuto
manifestazioni cliniche. E’ altresì importante valutare il rischio secondario, cioè la
tendenza alla recidiva in soggetti che hanno già avuto manifestazioni cliniche. A tale
proposito la storia di una trombosi pregressa e valori di anticorpi anticardiolipina
superiori a 40 U sono risultati fattori predittivi di eventi vascolari. Sulla base di vari studi,
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i seguenti fattori di rischio vanno considerati nella storia clinica di un paziente con
anticorpi antifosfolipidi:
1. Eventi trombotici nel passato
2. Elevati titoli di anticorpi anticardiolipina (>40-60 U/ml)
3. Persistenza di tali anticorpi nel tempo
4. Isotipo IgG
5. Beta 2 glicoproteina I-dipendenza degli anticorpi
La presenza di uno o più di questi fattori permette di classificare orientativamente il
paziente in classe con moderato o elevato rischio trombotico. E’ chiaro che la decisione
terapeutica varierà a seconda dell’entità del rischio trombotico.
APPROCCIO TERAPEUTICO
Data l’eterogeneità degli anticorpi e la non esatta conoscenza del loro meccanismo
d’azione, le decisioni terapeutiche non possono essere basate soltanto sui dati
laboratoristici anche perché, come abbiamo visto, non esiste ancora nessun test capace di
distinguere con certezza nel singolo paziente la natura “benigna” o “maligna” di questi
anticorpi. Ogni caso va quindi considerato individualmente, tenendo conto dei fattori di
rischio sopramenzionati e facendo anche un accurato bilancio fra il rischio emorragico
legato al trattamento con farmaci anticoagulanti per un lungo periodo di tempo. In attesa
di sperimentazioni cliniche controllate, come lo studio WAPS attualmente in corso, si può
proporre la seguente strategia:
1. I soggetti asintomatici, anche se positivi sia per anticorpi anticardiolipina che per
l’anticoagulante lupico, non vengono trattati e vanno messi solo sotto osservazione. E’
opportuno peraltro instaurare in questi soggetti una profilassi antitrombotica con
eparina non frazionata o a basso peso molecolare quando essi vengono esposti ad altri
fattori di rischio trombotico (chirurgia, immobilizzazione, gravidanza) (vedi:
http//www.airon.it/SISET). Sconsigliabile l’assunzione di contraccettivi orali.
2. Nei soggetti con un primo episodio trombotico, l’intensità e la durata della terapia
anticoagulante sono incerti e dovrebbero essere decisi tenendo conto dei fattori di
rischio trombotico sopra descritti e degli eventuali fattori di rischio emorragico di
ciascun paziente (es. piastrinopenia, ipertensione arteriosa). I soggetti con più di un
episodio pregresso di trombosi venosa vengono messi in terapia anticoagulante orale
per un periodo di tempo indeterminato, mantenendo preferibilmente l’INR intorno a
3.00 (vedi: http//www.airon.it/SISET).
Non essendoci purtroppo studi solidi in donne con sindrome da anticorpi
antifosfolipidi in gravidanza, vi sono diversi protocolli di trattamento. Corticosteroidi,
aspirina e eparina da soli o associati tra di loro, sono stati valutati in diversi studi. Out et al
19, in uno studio non randomizzato, hanno evidenziato una frequenza del 21% di perdita
fetale in donne con anticorpi antifosfolipidi positivi non trattati, contro il 22% in quelle
trattate con basse dosi di aspirina o eparina, e il 36% in donne che prendevano solo
corticosteroidi. Più recentemente, uno studio clinico controllato ha indicato un migliore
risultato nelle donne trattate con eparina a basse dosi due volte al giorno più aspirina
rispetto a quelle trattate con aspirina da sola 20. Due studi clinici di limitato numero hanno
valutato la terapia associata, corticosteroidi + aspirina o eparina + aspirina, ottenendo gli
stessi risultati 21,22. Quindi, considerando gli effetti collaterali del corticosteroidi durante la
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gravidanza, riteniamo che la miglior scelta sia l’uso di basse dosi di aspirina e eparina
senza corticosteroidi, in attesa che uno studio randomizzato con adeguato numero dei
campioni dia una risposta definitiva.
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BIBLIOGRAFIA
1.
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(Bloom AL, Forbes CD, Thomas DP, Tuddenham EGD, eds). Churchill Livingstone,
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14
Tabella 1: Principali stati trombofilici congeniti e acquisiti
Stati trombofilici congeniti
Carenza di antitrombina III
Carenza di proteina C
Carenza di proteina S
Resistenza alla proteina C attivata legata alla mutazione del
gene del fattore V Arg506Gln (Fattore V Leiden)
Mutazione G20210A del gene della protrombina
Iperomocisteinemia
Stati trombofilici acquisiti
In associazione con stimoli fisiologici o farmacologici
. Gravidanza (in particolare il periodo post-parto)
. Stati post-operatori
. Immobilizzazione
. Traumi
. Età avanzata
. Uso di estrogeni ed estroprogestinici
Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
In associazione con altre condizioni cliniche (vedi tab. 2)
Iperomocisteinemia
15
Tabella 2: Malattie acquisite associate a trombofilia
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Tumori e chemioterapia antitumorale
Infusione di concentrati del complesso protrombinico
Sindrome nefrosica
Piastrinopenia indotta da eparina
Porpora trombotica trombocitopenica
Malattie mieloproliferative
Emoglobinuria parossistica notturna
Iperlipidemia
Diabete
Iperviscosità
Insufficienza cardiaca
Talassemia
16
TRASFERIMENTO GENICO: FINALITÀ TERAPEUTICHE IN
EMATOLOGIA
Lucio Luzzatto
Department of Human Genetics, Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, New York, NY 10021,
USA
Nella visione ematocentrica degli ematologi, la comprensione delle basi biologiche delle
malattie del sangue è sempre stata almeno un passo più avanti rispetto alle altre specialità
della medicina. Possiamo essere legittimamente orgogliosi del fatto che il termine
“malattia molecolare” è stato coniato per l’anemia falciforme, e che l’emoglobina è stata la
prima proteina oligomerica di cui si è risolta la struttura cristallografica. Inoltre, i geni
globinici furono i primi geni umani ad essere clonati, e i polimorfismi evidenziabili a
livello di DNA mediante l’uso di enzimi di restrizione furono scoperti analizzando questi
geni.
Se queste primizie sono state importanti a livello di genetica e fisiopatologia molecolare,
che cosa possiamo dire per quanto riguarda la capacità storica dell’ematologia ad
utilizzare i progressi della biologia di base per sviluppare nuovi approcci terapeutici? In
questo campo, abbiamo naturalmente luci ed ombre. Da un lato, l’anemia perniciosa è
stata razionalmente debellata con la scoperta della vitamina B12; l’anemia della
insufficienza renale cronica è stato il primo esempio di una malattia specifica controllata
mediante l’uso di un fattore di crescita – l’eritropoietina ricombinante. D’altro canto,
dobbiamo riconoscere che scarsi progressi sono stati compiuti nel trattamento della
sferocitosi ereditaria da quando la splenectomia fu introdotta su base empirica; e il
trattamento dell’anemia falciforme è tutt’altro che soddisfacente, malgrado la sua base
molecolare sia nota sin dal 1956. In effetti, i primi veri passi avanti in questo campo sono
stati l’idrossiurea e il trapianto di midollo allogenico, entrambi inizialmente introdotti in
terapia con scopi completamente diversi.
Al momento attuale, una delle sfide più importanti alla nostra ambizione è di porre a
disposizione dei malati ematologici i progressi della genetica molecolare e dell’ingegneria
genetic: in altre parole, utilizzare il trasferimento genico per scopi terapeutici (Huber &
Lazo, 1994; Culver, 1996; Jain, 1998). Gli ematologi dovrebbero essere pronti per questo
compito. Infatti, le basi razionali per la correzione di una malattia ematologica ereditaria
sono state poste da tempo in termini relativamente semplici, e possono essere sintetizzate
nei punti seguenti:
1. Ottenere il gene normale in forma pura
2. Introdurre il gene nelle cellule staminali
3. Ottenere l’integrazione del gene in modo idoneo alla sua espressione persistente
4. Ricostituire l’emopoiesi con le cellule così trasdotte.
17
È opportuno considerare brevemente a che punto siamo nel superare queste tappe, e dove
si sono presentati i problemi limitanti per l’adozione del trasferimento genico a scopo
terapeutico.
1. L’identificazione ed il clonaggio di geni responsabili di malattie ereditarie si sono rivelati
più semplici del previsto, grazie alla tecnologia della PCR ed al progetto genoma umano:
in effetti, la maggior parte di questi geni sono oggi disponibili. Per contro, la
delucidazione dei meccanismi di regolazione dei geni tessuto-specifici ha rivelato livelli
multipli di complessità, soprattutto per geni, come quelli globinici, che hanno livelli
estremamente elevati di espressione, e la cui espressione non è solo funzione del lignaggio
cellulare, ma anche dello stadio ontogenetico dell’organismo. Che i geni per l’α e la β
globina non sono geneticamente concatenati è stato chiaro sin dagli anni ‘60 (ben prima
che fossero mappati a due diversi cromosomi). Da allora, una delle caratteristiche più
interessanti del sistema è la perfetta stechiometria della sintesi delle catene
α=e=(γ=+=β=+=δ),=====che non può essere spiegata semplicemente da meccanismi che agiscono
in cis. Questo quesito è reso ancora più affascinante dalla scoperta inattesa che la struttura
fine del cluster genico dell’α globina (Higgs et al., 1998) è profondamente diversa da
quello della β globina (Grosveld et al., 1998) sebbene entrambi abbiano in comune
l’esistenza di una locus control region (LCR). È chiaro che, allo scopo di rendere efficace la
terapia genica, capire in dettaglio i meccanismi di regolazione estremamente sofisticati che
operano in questi complessi genici è altrettanto cruciale che conoscere la struttura dei geni
stessi (Rivella & Sadelain, 1998). Da questo punto di vista è probabile che risulti più facile
manipolare geni dalla regolazione più semplice, come quelli aventi livelli di espressione
assai più modesta, con scarsa o nulla specificità di espressione (ad esempio, i cosiddetti
housekeeping genes: Mason, 1998).
2. Per quanto riguarda l’introduzione di un gene nelle cellule bersaglio, la “vettorologia” si
è sviluppata in molte direzioni diverse. Per le cellule emopoietiche, i retrovirus restano
all’avanguardia. Dall’analisi della loro struttura sappiamo che spesso sono stati capaci di
incorporare geni appartenenti alle cellule ospiti, il genoma delle quali mostra segni
abbondanti di quanto spesso il trasferimento abbia avuto luogo in senso inverso: vale a
dire, materiale genetico è stato reintrodotto dai retrovirus, che possono essere considerati
dei professionisti del trasferimento genico. In effetti, da numerosi esperimenti in vitro e in
vivo si è confermato che i retrovirus sono dotati di una elevata efficienza di trasduzione e
di integrazione permanente. Nel nostro sforzo continuo di integrare biologia e medicina,
non è sorprendente che siamo attratti dall’idea di adottare e adattare a fini terapeutici i
prodotti di una così lunga storia evolutiva. Il genoma retrovirale è piccolo: perciò, in
particolare nel caso dei geni globinici, una seria difficoltà fisica consiste nel comprimere
nello spazio disponibile tutti gli elementi strutturali e regolativi necessari.
3. Malgrado le difficoltà alle quali si è accennato, in vari casi i primi due punti sono stati
affrontati e risolti. Al contrario, ottenere espressione continua è spesso risultato
problematico. Forse la sorpresa maggiore è stata non che l’integrazione non garantisce
l’espressione, ma piuttosto che l’espressione può avvenire inizialmente, per poi spegnersi
in seguito. In alcuni casi questo fenomeno indica un vero blocco trascrizionale nella cellula
in cui il gene era inizialmente trascritto. Ma nel caso delle cellule emopoietiche, una
possibilità probabilmente più comune è che cellule che esprimono il gene sono state
rimpiazzate da cellule che non lo esprimono. In ogni caso, è chiaro che abbiamo bisogno di
passi in avanti in questo senso. Un punto importante è comprendere se questo problema è
18
meno severo per geni molto meno finemente regolati. Numerose forme di anemia
emolitica congenita sono dovute alla deficienza negli eritrociti di uno degli enzimi della
glicolisi o del metabolismo ossido-riduttivo: per la maggior parte di questi malattie
emolitiche siamo ora gunti ad una buona conoscenza delle basi molecolari.
4. L’ultimo punto cruciale è la ricostituzione del sistema emopoietico da parte delle cellule
trasdotte. All’inizio degli anni ’80, quando il trapianto di midollo progrediva rapidamente
da esperimento piuttosto avventuroso a terapia standard per molte malattie ematologiche,
poteva sembrare che il problema cellulare fosse più facile da risolvere del problema
molecolare: in effetti, non è stato così. Sebbene migliaia di pazienti vivano da anni grazie
ad un sistema linfo-emopoietico ricostituito da cellule staminali proprie o di un donatore,
ancora non disponiamo di una metodologia attendibile di analisi delle cellule staminali
che non sia il trapianto stesso. Inoltre, dal momento che le cellule staminali sono in
numero limitato e si dividono piuttosto di rado, esse sono letteralmente bersagli elusivi
per l’integrazione retrovirale. Al momento, possiamo identificare tre problemi tecnici
collegati tra loro. (a) Ottenere un numero cospicuo di cellule staminali. (b) Mettere a punto
un protocollo che consenta la massima frequenza di trasduzione senza compromettere le
caratteristiche staminali delle cellule che vengono trasdotte. (c) Selezionare in vitro o in
vivo le cellule staminali trasdotte. Da questo punto di vista, uno degli sviluppi recenti più
vistosi è stata la introduzione di vettori basati su lentivirus. Diversamente dai retrovirus
murini ‘classici’, i lentivirus hanno la capacità di attraversare la membrana nucleare, e
perciò di raggiungere l’integrazione anche prima che la cellula abbia un ciclo di divisione.
Se divenisse facile trasferire geni anche in poche cellule che siano veramente cellule
staminali, possiamo immaginare che tutte le malattie genetiche curabili mediante trapianto
allogenico di midollo dovrebbero essere ugualmente curabili mediante correzione
genetica delle cellule staminali seguita da trapianto autologo di midollo.
Come esempio di questo tipo di terapia genetica verranno presentati dati in vitro ad in vivo
inerenti ad uno studio pre-clinico della glucoso 6-fosfato deidrogenasi (G6PD). È ben noto
che la enzimopenia G6PD (una delle più frequenti anomalie genetiche in molte
popolazioni, compresa quella Italiana) è spesso del tutto asintomatica e comunque
clinicamente benigna. Tuttavia, alcune mutazioni della G6PD sono responsabili di forme
di anemia emolitica cronica non-sferocitica che posson essere gravi e per le quali non esiste
sinora un trattamento definitivo. Abbiamo trasdotto cellule di midollo osseo di topo con
sopranatanti acellulari contenenti un alto titolo di vettori retrovirali (pseudotipati con la
glicoproteina G del Virus della Stomatite Vescicolare), nei quali la trascrizione della G6PD
umana (HG6PD) è promossa o dal LTR del virus murino MPSV, o da un promotore ibrido
LTR-G6PD, che contiene una isola CpG tipica di geni housekeeping. L’integrazione di un
gene perfettamente funzionante è stata dimostrata grazie alla espressione stabile (per oltre
18 mesi) di HG6PD nelle cellule di sangue periferico di topi che hanno ricevuto trapianti di
cellule trasdotte, ed in topi che hanno ricevuto trapianti secondari (oltre 11 mesi). Il livello
di espressione della HG6PD, misurato attraverso il dosaggio diretto dell’attività
enzimatica, era dello stesso ordine di quello della G6PD endogena del topo. Con gli stessi
vettori abbiamo anche trasdotto cellule staminali ‘mobilizzate’ ottenute da sangue
periferico umano, che sono poi state trapiantate in topi NOD-SCID.
* * *
Infine, è da notare che, sia nell’ematologia sia in altri settori, negli ultimi anni la direzione
degli sforzi che mirano ad utilizzare il trasferimento genico a fini terapeutici ha avuto la
19
tendenza a virare dalle malattie ereditarie verso quelle acquisite. E’ chiaro che si tratta in
generale di situazioni fondamentalmente diverse. Nel primo caso siamo di solito di fronte
ad una condizione recessiva dovuta alla perdita della funzione di un determinato gene, ad
esempio un difetto di un enzima o di un fattore della coagulazione: ci attendiamo pertanto
che una correzione anche solo parziale può avere un impatto clinico importante. Nel
secondo caso las situazione è assai variabile; ma per quanto riguarda le malattie
neoplastiche ci troviamo di fronte specialmente nel caso di un tumore, ci si trova di fronte
ad una popolazione di cellule nelle quali una o più mutazioni somatiche hanno prodotto
un acquisto di funzione che produce il fenotipo maligno. Perciò, un intervento di
correzione genetica che non si estenda al 100% delle cellule avrà quasi certamente, anche
nel migliore dei casi, un effetto solo temporaneo; e dobbiamo ammettere che al momento
attuale le tecniche di trasferimento genico in vivo non hanno un tale livello di efficienza.
Ciò malgrado, sono in corso numerosi tentativi di utilizzare il trasferimento genico in
modo ingegnoso come parte del trattamento delle leucemie e di tumori maligni. Un raro
caso di successo già conseguito a livello clinico è il recente uso di cellule T geneticamente
modificate che sono state utilizzate per controllare la ricaduta in leucemia mieloide cronica
dopo trapianto allogenico, e poi eliminate mediante l’utilizzo di un appropriato farmaco
quando insorge la minaccia di graft-versus-host disease.
RINGRAZIAMENTI
Alcune parti di questo articolo sono liberamente tradotte, grazie alla cortesia del Dr
Antonello Di Cristofano, da Luzzatto (1998a), che contiene ulteriori riferimenti
bibliografici. Per i dati sullo studio della G6PD ringrazio i colleghi del mio laboratorio Ana
Rovira, Maria De Angioletti, Olga Camacho Vanegas, Delong Liu, Vittorio Rosti,
Humilidad Gallardo. Per anni di collaborazione e per la Fig. 1 ringrazio il Dr Michel
Sadelain e il Dr Rosario Notaro.
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Fig. 1. Varietà di applicazioni possibili del trasferimento genico in cellule ematopoietiche
per il trattamento di malattie diverse. I dischetti indicano schematicamente cellule
staminali (*) e cellule progenitrici in successione gerarchica. Le cellule bersaglio ideali
variano in relazione agli scopi terapeutici ed a quali malattie intendiamo trattare. Ad
esempio, il supplemento temporaneo di cellule mieloidi’ si riferisce alla possibilità di
proteggere da neutropenia pericolosa per un periodo limitato di tempo un paziente
sottoposto a chemioterapia intensiva, mediante l’uso di cellule progenitrici relativamente
mature rese resistenti al chemioterapico in questione (ad esempio, methotrexate) mediante
trasferimento genico (ad esempio, della diidrofolato reduttasi).
Tabella 1
Vari usi del trasferimento genico per ottimizzare la risposta immune nel trattamento di malattie
neoplastiche
Obiettivo principale
Cellula
bersaglio
Gene
trasferito
Vettore
Stadio di
avanzamento
Riferimento bibliografico
Controllo della GVHD
Linfociti T
HSV-TK
Retrovirus
Clinico, positivo
Bonini et al., 1997
Ottimale presentazione
dell’antigene
Cellule
dendritiche
CD2
Retrovirus
Pre-clinico
Szabolcs et al., 1998
IL-2
Retrovirus
Clinico,
risultati dubbi
Zier & Gansbacher, 1996
CD80
Lipofezion
e
Pre-clinico
Kwon et al, 1997
MG-CSF
Retrovirus
Clinico
Dranoff, 1998
Stimolazione di azione
citotossica
Cellule
neoplastiche
Attivazione immune
ottimale
Linfociti T
CD28
Retrovirus
Pre-clinico
Krause et al., 1998
Immunizzazione attiva
senza antigene
?Cellule
dendritiche
MAGE
DNA
Pre-clinico
Ross et al, 1997
(da Luzzatto, 1998b)
22
GENETICA MOLECOLARE DEI LINFOMI NON-HODGKIN
R. Dalla-Favera
Columbia University, New York NY 10032, U.S.A.
Derivazione cellulare.
I
linfomi
Non-Hodgkin
(LNH)
derivano
nella
maggioranza dei casi (85%) da linfociti B a fenotipo maturo (LNH-B), e meno
frequentemente, da linfociti T (15%). I sottotipi piu' frequenti di LNH-B
hanno origine da B linfociti del centro germinativo (CG) come dimostrato
dall' espressione di markers fenotipici caratteristici del CG e dalla
presenza
di
mutazioni
nelle
regioni
variabili
(V)
dei
geni
delle
Immunoglobuline (Ig), un fenomeno che richiede il transito nel CG. Il
linfoma mantellare rappresenta un' eccezione in quanto non presenta IgV
mutate e deriva quindi da linfociti pre-CG (Gaidano e Dalla-Favera, 1997).
Lesioni genetiche.
I
LNH
presentano
un
assetto
genomico
relativamente
stabile,
non
caratterizzato
dalla
marcata
iperploidia
ed
instabilita'
sub-clonale
tipica
di
altri
tipi
di
tumori
umani,
in
particolare
quelli
a
derivazione
epiteliale
(colon/retto,
mammella,
polmone, prostata) (Gaidano e Dalla-Favera, 1997). I LNH non sembrano
inoltre presentare difetti nella funzione di "mismatch repair" del DNA che
sono invece comuni in altre neoplasie solide (Gamberi et al., 1997).
Analogamente a quanto osservato in altri tumori umani, la patogenesi
molecolare dei LNH-B si ritiene originare dall' accumulo progressivo di
lesioni a carico di proto-oncogeni e geni oncosoppressori. Il meccanismo
piu'
comune
di
lesione
genetica
e'
rappresentato
dalle
translocazioni
cromosomiche che, nel caso dei LNH, causano la espressione anomala di vari
proto-oncogeni
tramite
un
meccanismo
di
sostituzione
delle
regioni
regolatrici.
Negli ultimi 15 anni lo studio della genetica molecolare dei LNH si e'
focalizzato
sull'
identificazione
dei
proto-oncogeni
coinvolti
nelle
traslocazioni cromosomiche. Tali studi hanno contribuito a sviluppare una
classificazione
molecolare
dei
LNH
che
riflette,
in
parte,
la
loro
classificazione su base morfologica e immunofenotipica (Tavola 1). Si puo'
notare che in alcuni tipi di linfoma (e.g. Mantellari, Burkitt) la presenza
della
traslocazione
cromosomica
caratterizza
la
totalita'
dei
casi,
rappresentando un marker diagnostico e biologico di malattia. Viceversa,
in altri tipi di LNH-B (e.g. Diffuso/grandi cellule) la lesione e' presente
solo in una frazione dei casi, a dimostrare una eterogeneita' biologica che
non
puo'
essere
riconosciuta
dalle
attuali
tecniche
diagnostiche.
23
Tavola 1.
Sommario
della
distribuzione
cromosomiche
nei
vari
sottotipi
di
proto-oncogeni coinvolti e proteine da essi codificate.
delle
LNH-B,
principali
translocazioni
con
relativa
frequenza,
LNH-B TRANSLOCAZIONE (% casi) ONCOGENE PROTEINA
Linfoplasmacitoide t(9;14) (50%) PAX-5 Fattore di
trascrizione
Follicolare t(14;18) (70-90%) BCL-2 Anti-apoptosi
Diffuso/grandi cellule t(3; vari) (30-40%) BCL-6 Fattore di
trascrizione
t(11;18) (30%) BCL-2 Anti-apoptosi
Mantellare t(11;14) (100%) BCL-1 Ciclina D1
Burkitt t(8;14), t(8;22), t(2;8) (100%)c-MYC Fattore di
trascrizione
MALT t(1;14) (?) BCL-10 Anti-apoptosi
Dati completi e referenze in Gaidano e Dalla-Favera, 1997
Il ruolo patogenetico di
transgenici esse determinano
quello del rispettivo tumore
dimostrato
che
nessuna
di
per se a causare il tumore
genetiche.
L'
identita'
di
progressione
tumorale
queste lesioni e' dimostrato dal fatto che in topi
l' insorgenza di LNH a fenotipo simile a
umano. Gli stessi modelli sperimentali hanno
queste
traslocazioni
cromosomiche
e'
sufficiente
ma richiede l' accumulo di addizionali lesioni
queste
lesioni,
e
quindi
il
meccanismo
di
dei
LNH
rimane
sconosciuto.
Ruolo di BCL-6.
Il
proto-oncogene
BCL-6
e'
stato
identificato
grazie
al
suo coinvolgimento nelle traslocazioni tra la banda cromosomale 3q27 e vari
partner cromosomici che si osservano nei LNH diffusi/grandi cellule e in un
numero limitato di linfomi follicolari (<10%) (Ye et al, 1993; LoCoco et
al.
1994).
Varie
osservazioni
indicano
che
oltre
a
rappresentare
la
lesione primaria in questi tumori, BCL-6 svolge un ruolo importante nello
sviluppo di tutti LNH derivati dal CG. Il gene BCL-6 codifica per un
fattore di trascrizione tipo "zinc-finger" che, nella linea linfoide B, e'
espresso solo nel CG (Chang et al. 1996; Cattoretti et al., 1995). La
proteina BCL-6 e' necessaria per lo sviluppo del CG in quanto topi mancanti
di BCL-6 non producono CG (Ye at al., 1997). L' espressione di BCL-6 e'
regolata dai segnali necessari per il transito di una B cellula nel CG e la
sua maturazione a cellula-memoria o plasmacellula, cioe' l' antigene (Niu
24
et al., 1998) e l' attivazione del recettore CD40. A sua volta BCL-6
modula la risposta a IL-4 regolando negativamente i geni bersaglio del
fattore di trascrizione (STAT-6) attivato da IL-4. La funzione biologica
di BCL-6 nel GC non e' nota, ma osservazioni iniziali indicano un ruolo nel
prevenire l' apoptosi. Nei LNH il gene BCL-6 e' affetto da due tipi di
lesioni: i) traslocazioni cromosomiche che ne sostituiscono il "promoter"
impedendo lo "spegnimento" del gene (Ye et al., 1995) ; ii) mutazioni del
"promoter" che si trovano sia in cellule del CG normale che in LNH a
fenotipo CG (70% dei diffusi/grandi cellule, 50% follicolari, 35% Burkitt)
(Migliazza et al., 1995; Pasqualucci et al., 1998); in questi ultimi
osservazioni preliminari indicano che alcune mutazioni contribuiscono ad
alterare
l'
espressione
del
gene.
In conclusione, indipendentemente dalla presenza di lesioni strutturali, la
proteina
BCL-6
e'
espressa
in
tutti
i
disordini
linfoproliferativi
a
fenotipo
CG
e
puo'
essere
considerata
un
marker
nella
diagnosi
differenziale dei sottotipi a derivazione CG di LNH, LNH associati a HIV
(Gaidano et al, 1994; Carbone et al., 1998a), e linfomi di Hodgkin
(Carbone et al., 1998b). L' espressione in questi tumori e il suo ruolo
nello sviluppo della struttura da cui essi derivano, il CG, suggeriscono la
possibilita'
che
BCL-6
possa
rappresentare
uno
specifico
bersaglio
terapeutico.
Bibliografia
Carbone et al. Differential Expression of BCL-6, CD138/Syndecan-1, and
Epstein-Barr Virus-Encoded Latent Membrane Protein-1 Identifies Distinct
Histogenetic Subsets of Acquired Immunodeficiency Syndrome-Related
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histogenetic subtypes of Hodgkin's disease. Blood 92:2220-2228, 1998b.
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region of the BCL-6 gene in B cell lymphoma. Proc. Natl. Acad. Sci. USA
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25
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26
CLASSIFICAZIONE DEI LINFOMI MALIGNI: L’ISTOPATOLOGIA
QUALE GUIDA ALLA TERAPIA.
SA Pileri, G Fraternali Orcioni, S Ascani, M Milani, L Leoncini*, B Falini**
Servizio di Anatomia Patologica ed Ematopatologia - Istituto di Ematologia ed Oncologia Medica
“L. & A. Seràgnoli” - Ospedale S. Orsola - Università di Bologna. *Istituto di Anatomia Patologica
– Università di Siena. **Istituto di Ematologia – Università di Perugia (Italia).
***
Revised European-American Lymphoma Classification:
principi generali
In 1991, un gruppo di ematopatologi Europei ed Americani, nessuno dei quali
precedentemente coinvolto nella formulazione di una classificazione, decise di fondare
l’International Lymphoma Group (ILSG) con l’intento di discutere i problemi connessi con
l’ordinamento dei linfomi maligni. Dopo due studi pilota dedicati ai linfomi mantellari (1)
ed alla malattia di Hodgkin a prevalenza linfocitaria (2), il gruppo ritenne che esistessero i
presupposti per affrontare il più complesso tema della classificazione dei tumori del
tessuto linfatico, nell’intento di superare gli ormai ventennali contrasti fra la scuola
Americana e quella Europea (3-13).
Nell’Aprile del 1993, venne discussa la bozza di una nuova classificazione, poiché
tutti i membri dell’ILSG convennero che gli schemi al momento in uso - la Working
Formulation (WF) e l’Updated Kiel Classification (UKC) (11-13) - non potevano essere
migliorati, nè identificati quale standard internazionale. In particolare, il principio
informatore utilizzato nella costruzione della WF rappresentava la sua principale
limitazione (13): infatti, lo schema era stato ideato quale semplice sistema di traduzione fra
le classificazioni esistenti alla metà degli anni ’70 (3-9). La WF rappresentava, quindi, un
compromesso, il quale: 1) non prevedeva la distinzione fra linfomi di derivazione B e Tlinfocitaria e 2) comportava tanto la frammentazione di categorie omogenee di tumori
(vedi le fome centrofollicolari), che l’istituzione di gruppi estremamente eterogeni (quali i
27
linfomi misti a piccole e grandi cellule, di tipo diffuso). Inoltre, la banca dati impiegata per
la costruzione della WF consisteva in 1.000 casi, tutti trattati sulla base dei protocolli in uso
all’inizio degli anni ’70 e classificati in funzione del tipo di crescita, delle dimensioni
cellulari e della sopravvivenza cruda, senza l’impego di altre colorazioni al di fuori della
ematossilina-eosina e la conoscenza dei dati molecolari e dei principali parametri clinici
(quali: lo stadio, la presenza di sintomi sistemici, il reperto di malattia “bulky”, l’esistenza
di un picco monoclonale nel siero, la disseminazione leucemica, etc.).
La UKC (11,12), pur risultando molto più raffinata rispetto all WF, grazie alla sua base
immunologica, presentava anch’essa alcuni importanti limitazioni: a) l’esclusione dei
linfomi extranodali (che rappresentano circa il 40% dei tumori linfoidi), b) la definizione
del grado di malignità sulla base soltanto degli aspetti citologici, c) la bassa riproducibilità
nell’applicazione dei criteri diagnostici ad alcune categorie (14-16).
Sulla base di quanto emerso in letteratura e delle nuove cognizioni acquisite fra la
fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, l’ILSG convenne che: 1) il miglior approccio alla
classificazione dei linfomi fosse la semplice elencazione di reali entità clinico-patologiche,
identificate mediante l’impiego di tutti i possibili mezzi diagnostici; 2) tale elenco dovesse
comprendere tutti i tumori di provata origine linfoide (inclusi il plasmocitoma, la malattia
di Hodgkin e le leucosi acute); 3) i linfomi andassero distinti in 3 grandi categorie: a cellule
B, a cellule T/NK e di Hodgkin; 4) le prime due categorie dovessero essere ulteriormente
suddivise in forme di derivazione dai precursori e dagli elementi periferici; 5) la
definizione di ciascuna entità derivasse dalla combinazione della morfologia con il
fenotipo, il genotipo, il quadro clinico e, quando possibile, la controparte normale. La base
metodologica utilizzata dai membri dell’ILSG nella formulazione del nuovo approccio
classificativo fu rappresentata dall’accordo nell’interno del gruppo, sia nella descrizione di
ciascuna entità, che nell’attribuzione a questa del carattere di forma acclarata o
provvisoria. In particolare, l’indicazione di “entià provvisoria” venne riservata ai tumori
linfoidi, descritti in letteratura con sufficiente dovizia di particolari da rappresentare delle
probabili entità clinico-patologiche, ma per i quali - nell’ambito dell’ILSG - non esisteva
sufficiente esperienza o completa unanimità di vedute. La proposta scaturita da tale lavoro
fu denominata come “Revised European-American Lymphoma (REAL) Classification” e
pubblicata su Blood nel settembre del 1994 (17).
La classificazione, pur facendo in parte riferimento ad entità già descritte in letteratura,
presentava importanti elementi di originalità: 1) era stata generata mediante il consenso
fra il più ampio gruppo di ematopatologi, che mai avesse affrontato il problema
dell’ordinamento dei linfomi maligni; 2) comprendeva le forme sia nodali che extranodali;
3) non forniva alcuna indicazione circa il grado di malignità. Quest’ultimo punto merita
alcune note di commento. Sulla base di quanto descritto in letteratura e della propria
personale esperienza, i membri dell’ILSG convennero sul concetto che l’indice di
aggressività del processo varia significativamente in base alla categoria istologica e, nella
stessa categoria, tra i diversi pazienti. Tale variabilità è influenzata da una serie di fattori
pato-biologici, fra i quali: la citocinesi (intesa quale sommatoria della proliferazione e della
delezione cellulare), l’attivazione di oncogeni, la produzione di geni ibridi di fusione, lo
sviluppo di resistenza pleiotropa, il microambiente, la correlazione con alcuni agenti
infettivi (vedi lo Helicobacter Pylori ed il virus dell’epatite C), etc. (18-35). Per tutte queste
ragioni, i membri dell’ILSG preferirono evitare la definizione aprioristica di gradi di
malignità, basati sulla sola morfologia o sulla mera analisi statistica, quest’ultima fornendo
informazioni limitate alla storia naturale od alla risposta media alla terapia, senza alcuna
28
ricaduta sulla previsione di vita nel singolo paziente, né sulla scelta di trattamenti ad hoc
(c.d. tailored therapy) (36,37).
Questi concetti hanno trovato conferma, sia nel corso di un Workshop organizzato a
Lugano il 1° giugno di quest’anno, che in uno studio retrospettivo presentato in occasione
della VII International Conference on Malignant Lymphomas (Lugano, 2-5 giugno 1999)
(38,39). In particulare, nel corso di quest’ultimo sono stati reclutati 1.093 pazienti,
suddivisi in 3 categorie (a decorso indolente, aggressivo e molto aggressivo), sulla base di
criteri clinici precedentemente proposti in letteratura (39). La valutazione del decorso della
malattia nell’ambito di ciascuna categoria in funzione dell’istotipo ha chiaramente
dimostrato come il raggruppamento clinico fosse del tutto inadeguato: ad esempio, la
sopravvivenza a 5 anni dei linfomi “aggressivi” variava dal 78% per le forme a grandi
cellule anaplastiche al 14% per il linfoma mantellare, con valori intermedi del 38% e del
68% per il linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso e per il linfoma follicolare di grado 3,
rispettivamente (39).
Reazioni alla REAL Classification
La REAL Classification (REALC) ha determinato reazioni contrastanti, sia fra i
patologi che fra i clinici (40-49). Infatti, se da un lato alcuni hanno apprezzato il suo
messaggio innovativo, volto ad una ricerca ad impronta più marcatamente biologica ed
alla definizione di terapie più efficaci, altri hanno lamentato la mancanza di un
background epidemiologico e di un processo di validazione, relativo al grado di
riproducibilità inter- ed intra-personale.
Nel marzo del 1994, in occasione della prima presentazione della REALC al
National Cancer Institute (Bethesda, USA), gli oncologi proposero uno studio per la sua
validazione coinvolgente diversi Centri in varie parti del mondo. Il primo scopo del
progetto era quello di raffrontare l’applicabilità e la riproducibilità della REALC (17) con
quelle della WF (13) e dell’UKC (11,12). Fra gli altri obiettivi, si poneva la definizione:
a) dell’incidenza di ciascun istotipo nelle diverse aree geografiche;
b) del reale valore diagnostico delle informazioni cliniche e dell’immunofenotipo;
c) della rilevanza clinica dell’analisi immunoistochimica;
d) della riproducibilità inter- ed intra-personale nell’identificazione di tutte le
entità comprese nella classificazione.
Al progetto, iniziato nel 1995 e terminato nel 1996, hanno contribuito 9 Centri
(Omaha, Vancouver, Capetown, London, Bellinzona/Locarno, Lyon, Hong Kong,
Würzburg, Gottingen) con un totale di 1.379 casi, selezionati sulla base dei seguenti criteri:
a) pazienti affetti da linfomi all’esordio, non precedentemente trattati; b) insorgenza della
malattia fra il 1° gennaio 1988 ed il 31 dicembre 1990; c) composizione casistica
rappresentativa dell’incidenza delle varie forme linfomatose nelle diverse aree
geografiche; d) disponibilità di materiale adeguato per la diagnosi e la classificazione del
tumore; e) esistenza di studi immunofenotipici; f) completezza dei dati clinici (con
particolare riferimento ad: età, sesso, etnia, data e sede della biopsia, interessamento
nodale/extranodale, stadio, presenza di “bulky disease”, dati di laboratorio, quadro
immunologico, “international prognostic index”, terapia iniziale, risposta al trattamento e
follow-up).
29
I Centri in questione vennero visitati da un gruppo di ematopatologi di provata
esperienza (Jacques Diebold, Kenneth A. Mac Lennan, Hans-Konrad Müller-Hermelink,
Bharat Natwani e Dennis Weinsenburger), dei quali uno soltanto membro dell’ILSG
(HKMH), che provvidero a classificare i casi selezionati sulla base dei criteri della REALC
(17), dell’UKC (11,12) e della WF (13). L’analisi statistica dei dati prodotti fu eseguita da
James R. Anderson and Pascal Roy. In particolare, lo studio previde 4 diversi livelli
diagnostici: a) visione dei preparati istologici, incluse le biopsie osteo-midollari, alla luce
di dati clinici di minima (età, sesso, sede della biopsia e stadio); b) integrazione del quadro
istopatologico con i dati immunoistochimici e genotipici; c) revisione del giudizio scaturito
dai passi a e b alla luce delle informazioni cliniche complete; d) rivalutazione del 20% dei
casi, disponendo di tutti gli elementi clinico-patologici.
L’esistenza di 4 diagnosi concordanti su 5 venne considerata quale espressione del
consenso fra i membri del gruppo. Al termine di ogni giorno, i casi controversi furono
oggetto di una discussione collegiale ad un microscopio a testata multipla.
I risultati dello studio, pubblicati su Blood (50), vennero discussi ad un Meeting
Internazionale, organizzato ad Omaha nel settembre del 1997. Questi dimostrarono come
per la REALC (17) l’indice di concordanza fra la diagnosi del singolo patologo e quella
finale emessa dal gruppo (86%-95%) fosse di 20 e 40 punti superiore a quelli ottenuti con
l’impiego dell’UKC (11,12) e della WF (13), rispettivamente. Inoltre, la morfologia risultò
di per sè diagnostica per un numero limitato di categorie (leucemia linfatica cronica
B/linfoma a piccoli linfociti B e linfoma della zona marginale, extranodale), essendo
indispensabile per il sicuro riconoscimento delle restanti il ricorso alla caratterizzazione
immunofenotipica e/o alla biologia molecolare. La conoscenza delle informazioni cliniche
apparve essenziale per la formulazione della sola diagnosi di linfoma a grandi cellule B
primitivo del mediastino.
Per ciò che attiene al dato epidemiologico, il tipo di linfoma di più comune
osservazione a livello mondiale risultò quello a grandi cellule B di tipo diffuso (30%),
seguito del centrofollicolare (22%), dal linfoma della zona marginale extranodale (8%),
dalla leucemia linfatica cronica B e del linfoma a cellule T periferiche NAS (7%), dal
linfoma mantellare (5%), dal linfoma di Burkitt (3%) e dai linfomi a grandi cellule
anaplastiche, linfoblastico T ed a grandi cellule B del mediastino (2%).
Di estremo interesse risultò anche l’analisi delle curve di sopravvivenza relative alle
diverse categorie della REALC (17): infatti, i linfomi a cellule B periferiche di piccola taglia,
che nell’UKC (11,12) e nella WF (13) sarebbero stati tutti inclusi nell’ambito del basso
grado di malignità, dimostrarono una grande variabilità in termini di sopravvivenza ad 8
anni: 80% per il linfoma della zona marginale, extranodale, 50% per la leucemia linfatica
cronica B e 18% per il linfoma mantellare. Un’analoga osservazione venne fatta anche per
le forme a grandi cellule, che sarebbero state diagnosticate come alti gradi di malignità sia
nella WF (13) che nell’UCK (11,12) (sopravvivenza ad 8 anni: 80% per il linfoma a grandi
cellule anaplastiche, 50% per il linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso e meno del 20%
per le forme a cellule T periferiche).
Inoltre, prendendo i pazienti portatori dello stesso istotipo e stratificandoli in base
al valore dell’IPI (0,1 vs. 4,5), si rilevarono importanti differenze statistiche: ad esempio gli
indici di sopravvivenza per il linfoma mantellare erano pari al 59% ed al 12%
rispettivamente, mentre per il linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso i due valori
corrispondevano al 72% ed al 22%. Di particolare interesse, appare il fatto che altri studi
sulla REALC, condotti contemporaneamente ed indipendentemente rispetto a quello del
NCI, hanno fornito risultati del tutto sovrapponibili (51-54).
30
Il progetto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
Nel 1994, la Society for Hematopathology e la European Association of
Haematopathology diedero vita ad un progetto comune, volto allo sviluppo di una
classificazione delle neoplasie del sistema emolinfopoietico per conto della World Health
Organization (WHO). Per tale motivo vennero istituti uno “steering committee”, costituito
da membri di entrambe le Società, e 10 Comitati ad hoc per l’inquadramento delle
neoplasie mieloidi, linfoidi ed istiocitarie, comprendente la decrizione delle singole entità
ed i relativi criteri diagnostici. Più di 50 patologi provenienti da ogni parte del mondo
furono coinvolti nel progetto. A questi, fu affiancato un Comitato di riferimento composto
da 40 ematologi ed oncologi di fama internazionale, con l’intento di valutare l’approccio
classificativo elaborato dai patologi in funzione anche della sua utilità pratica. Dopo una
serie di meetings, nel novembre del 1997 venne organizzata una “Consensus Conference”
presso la Airlie House (Virginia, USA). La REAL Classification (17) fu adottata quale
modello non solo per l’ordinamento delle neoplasie linfoidi, ma anche dei tumori mieloidi
ed istiocitari. In particolare, per ciò che attiene ai linfomi maligni, lo schema finale
approvato dai partecipanti alla Conferenza corrisponde alla REALC, con alcune modifiche
marginali (Tabella 1) (55).
Le variazioni relative ai linfomi di derivazione dai linfociti B possono essere così
sintetizzate:
1) la “leucemia prolinfocitica B” è stata scorporata dalla leucemia linfatica cronica B
(LLC-B) a causa della sua maggiore aggressività, del più alto numero di elementi
neoplastici circolanti, delle piccole differenze fenotipiche e della minore aspettativa di vita
(17); tuttavia, è stato confermato il concetto proprio della REALC, secondo il quale la LLCB può andare incontro ad una crisi prolinfocitoide, con significativo aggravamento del
decorso (17);
2) il termine “immunocitoma” è stato sostituito da quello “linfoma
linfoplasmocitico”, al fine di evitare le ambiguità nel suo uso, legate ai differenti significati
31
ad esso attribuito dalla REALC (17) e dall’UKC (11,12): infatti, l’immunocitoma
linfoplasmocitoide dell’UKC fa parte dello spettro morfologico della LLC-B nella REALC,
a causa della costante espressione di CD5 e CD23, mentre l’immunocitoma
linfoplasmocitico dell’UKC corrisponde all’immunocitoma linfoplasmocitoide della
REALC; nella WHO Classification, il termine di “linfoma linfoplasmocitico” è attribuito ad
un tumore costituito da piccoli linfociti e plasmacellule, che producono IgM, così come
osservato nella sindrome di Waldenström;
3) la denominazione di “linfoma extranodale della zona marginale del MALT” è
stata limitata alle neoplasie essenzialmente formate da elementi di piccola taglia, poiché
esistono dati in letteratura i quali indicano come nelle forme gastriche la presenza di
grandi cellule in quantità superiore al 5% della popolazione esaminata o raccolte in gruppi
costituiti da più di 20 unità indichi la perdita di sensibilità alla terapia anti-Helicobacter
pylori (35); pertanto, le neoplasie con una quota di grandi cellule eccedente i valori sopra
indicati debbono essere diagnosticate quali “linfomi a grandi cellule B di tipo diffuso”;
4) sulla base di quanto apparso in letteratura a partire dal 1994 (56,57), le entità
“linfoma della zona marginale, nodale” e “linfoma della zona marginale, primitivo della
milza” sono state convertite da “provvisorie” ad “acclarate” e tenute distinte dalle forme
che traggono origine dalla zona marginale del MALT;
5) il “linfoma centrofollicolare” [definito dalla t(14;18), dalla sovraespressione del
prodotto di bcl-2 e dalla positività per la molecola CD10 (17)] è stato ridenominato
“linfoma follicolare”; nella pratica clinica, i gradi I e II sono stati accorpati; la presenza di
aree diffuse a grandi cellule B nel contesto di una forma follicolare di grado III è stata
ritenuta meritevole di una specifica menzione [terminologia consigliata: linfoma
follicolare, grado 3/3 (P%), con linfoma diffuso a grandi cellule B (P%)], richiedendo un
approccio terapeutico più aggressivo;
6) la sottoclassificazione dei linfomi a grandi cellule B di tipo diffuso è stata
mantenuta come opzionale; in particolare, in funzione di futuri trials clinici, le seguenti
forme (quelle sottolineate non sono riportate nella REALC) (17) sono state oggetto di
specifica menzione: centroblastica (bcl-6+/syndecan-1/CD138-), immunoblastica (bcl-6/syndecan-1/CD138+), anaplastica e ricca in linfociti T e/o istiociti reattivi, (58-60)
(compresa la granulomatosi linfoimatoide) (61); sono state inoltre indicate alcune varietà
con peculiari modalità di presentazione: primitiva del mediastino/timica, (51,62-64),
intravascolare (65,66) e con primitivo versamento sieroso (67,68);
7) l’entità provvisoria della REALC “linfoma Burkitt-like” è stata abolita; tuttavia, la
definizione di “linfoma di Burkitt” è stata modificata, sì da includere 2 sottotipi istologici
(tipico ed atipico, quest’ultimo corrrispondente a quelle neoplasie molto aggressive, che
morfologicamente ricordano il linfoma di Burkitt e che come questo vanno trattate) e 3
varietà cliniche (endemica, non endemica e connessa ad uno stato di immunodeficienza)
(69).
Per ciò che attiene ai linfomi T, le pricipali differenze dello schema della WHO
rispetto alla REALC possono essere così sintetizzate:
1) il termine “leucemia linfatica cronica T/leucemia prolinfocitica T” è stato
sostituito da quello di “leucemia prolinfocitica T” nell’intento di sottolineare l’aggressività
del processo, anche se non tutti i casi soddisfano ai criteri morfologici per porre diagnosi
di “leucemia prolinfocitica” (70);
32
2) il “linfoma T angiocentrico” della REALC (17) è stato ridenominato “linfoma
extranodale a cellule NK/T di tipo nasale”, in quanto il carattere angiocentrico del
processo non è sinonimo della sua derivazione dai linfociti T (61): il termine “di tipo
nasale” è più appropriato, in considerazione del fatto che nei Paesi orientali - nei quali è
piuttosto frequente - il tumore si sviluppa a livello delle strutture nasali, mentre nella
popolazione occidentale può occorrere indifferentemente, tanto nelle aree centrofacciali
che in altra sede extranodale (71,72);
3) le entità “linfoma T epato-splenico a cellule γ/δ” e “linfoma T sottocutaneo, similpanniculitico” (17), sono passate da “provvisorie” ad “acclarate”;
4) è stata aggiunta la categoria “leucemia aggressiva a cellule NK”;
5) nell’ambito dei “linfomi a cellule T periferiche, non altrimenti specificati (NAS)”,
è stata inserita la distinzione fra forme nodali (raramente citotossiche) ed extra-nodali
(generalmente citotossiche), rimenendo opzionale l’identificazione di sottotipi citologici;
6) i “linfomi a grandi cellule anaplastiche” (LGCA) sono stati suddivisi in
“sistemici” e “cutanei”, dal momento che i secondi mancano della t(2;5) e dell’espressione
della proteina ALK, hanno un decorso indolente ed appartengono ad uno spettro di
condizioni, fra le quali si inserisce la paulosi linfomatoide, elemento questo che richiede
l’esatta conoscenza delle informazioni cliniche per il preciso inquadramento di ciascun
caso (73); per le forme sistemiche, è stata suggerita l’opportunità di ricercare in ogni caso
la proteina ALK, esistendo delle precise indicazioni circa il fatto che il decorso della
malattia risulta più favorevole nelle forme positive (32,74);
7) l’entità provvisoria “LGCA, Hodgkin-like” è stata abolita, in quanto: a) il LGCA
può mostrare aggregazione nodulare e reazione fibrotica, tanto da simulare la malattia di
Hodgkin (MH) a sclerosi nodulare (SN), b) la MHSN può risultare molto ricca in cellule
neoplastiche, sì da ricordare il LGCA (75); nei casi problematici, l’espressione della
molecola CD15, associata o meno a quella dei marcatori di linea B, e la mancanza, sia di
riarrangiamento dei geni che codificano per il “T-cell receptor” (TCR) che del gene ibrido
NPM/ALK, depongono per la MH, mentre la negatività per CD15, la positività per
marcatori T o la proteina ALK e la presenza di riarrangiamenti per il TCR o NPM/ALK
orientano per il LGCA; i casi rimasti irrisolti mediante l’impiego combinato della
morfologia, dell’analisi fenotipica e della biologia molecolare dovrebbero essere indicati
come “inclassificabili” ed essere sottoposti ad una nuova biopsia o ad un trattamento
efficace, vuoi per la MH, vuoi per il LGCA (75).
In termini pù generali, i partecipanti alla Consensus Conference hanno convenuto che: a)
non esiste la necesssità di una specifica classificazione per i linfomi primitivi della cute, nè
33
dell’immunodepresso, essendo la conoscenza dei dati clinici sufficienti per il corretto
trattamento dei singoli pazienti, b) il raggruppamento dei linfomi su base clinica è
controindicato, potendo rendere più difficile l’identificazione di caratteristiche peculiari di
un certo processo, c) una lista breve dei linfomi è inopportuna, essendo la maggior parte
degli oncologi d’accordo su di una elencazione completa, nella quale le entità più frequenti
risultino semplicemente evidenziate (Table 1).
Conclusioni
Hopwood afferma che “la necessità di classificare rappresenta un istinto
connaturato con la natura umana: analogamente alla predisposizione a peccare, esso ci
accompagna nel corso della nostra vita dalla nascita fino alla morte” (76). Talvolta, in
passato, questa tendenza ha dato luogo a classificazioni estremamente complesse, le quali
venivano meno allo scopo stesso di una classificazione, che è quello di risultare utile per la
diagnosi e la terapia. La REAL Classification e quanto da esso scaturito rappresentano un
esempio di come i patologi possano positivamente cooperare e comunicare con i clinici,
così facilitando l’ampliamento dell’orizzonte cognitivo: è auspicio generale che questo tipo
di collaborazione possa continuare a lungo in futuro, divenendo sempre più stretto, con
beneficio per la ricerca e la cura del malato.
Ringraziamenti
Il presente testo è stato realizzato con fondi A.I.R.C. e M.U.R.S.T.
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Tabella 1: La REAL Classification modificata secondo le linee della “WHO Consensus
Conference”.
Neoplasie dei linfociti B
Neoplasie dei precursori dei linfociti B
Leucemia/linfoma linfoblastico di derivazione dai precursori B
Neoplasie a cellule B mature (periferiche)
Leucemia linfatica cronica B/linfoma a piccoli linfociti B
Leucemia prolinfocitica B
Linfoma linfoplasmocitoide
Linfoma splenico di derivazione dagli elementi B della zona marginale (± linfociti villosi)
Leucemia a tricoleucociti
Mieloma plasmacellulare/plasmocitoma
Linfoma extranodale di derivazione dagli elementi B della zona marginale del MALT
Linfoma mantellare
Linfoma follicolare
Linfoma nodale di derivazione dagli elementi B della zona marginale (± elementi
monocitoidi)
Linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso^
Linfoma di Burkitt/leucemia di Burkitt^
Neoplasie a cellule T/NK
Neoplasie dai precursori dei linfociti T
Leucemia/linfoma linfoblastico di derivazione dai precursori T
Neoplasie a cellule T/NK mature (periferiche)
Leucemia prolinfocitica T
Leucemia a linfociti T, ampi e granulati
Leucemia a cellule NK, aggressiva
Leucemia/linfoma a cellule T dell’adulto (HTLV-1+)^
Linfoma extranodale a cellule T/NK di tipo nasale
38
Linfoma T enteropatico
Linfoma T epatosplenico, a cellule
Linfoma T sottocutaneo, simil-panniculitico
Micosi fungoide/sindrome di Sézary
Linfoma a grandi cellule anaplastiche, primitivo della cute
Linfoma a cellule T periferiche non altrimenti specificato (NAS)^
Linfoma T angioimmunoblastico
Linfoma a grandi cellule anaplastiche, primitivo, sistemico^
Malattia/linfoma di Hodgkin
A prevalenza linfocitaria
Di tipo classico
A sclerosi nodulare^
Varietà ricca in linfociti
A cellularità mista
A deplezione linfocitaria
* Il carattere sottolineato indica gli istotipi di più frequente osservazione.
^ Per ragioni di chiarezza e di concisione, viene omessa l’indicazione di varianti
morfologiche e/o cliniche.
39
IN VIVO PURGING OF CIRCULATING CD34+ PROGENITOR CELLS
IN LOW-GRADE LYMPHOMA WITH RITUXIMAB AND HIGH-DOSE
CHEMOTHERAPY.
A.M. Gianni, M. Magni,* M. Di Nicola,* L. Gandola,* F. Lombardi,* G. Dastoli,* P.
Matteucci,* L. Devizzi,* M. Bregni,* S. Campana,* P. Corradini, A. Pileri,* C. Tarella.*
Istituto Nazionale Tumori e Università degli Studi, Milan; Roche SpA, Milan; Cattedra di
Ematologia, Turin, Italy.
***
Purpose.
With the aim to overcome the limitations of ex vivo bone marrow purging, we have
assessed the ability of the anti-CD20 monoclonal antibody rituximab, given in combination
with high-dose chemotherapy, to eradicate PCR-detectable disease, and to enable the
harvesting of large amounts of uncontaminated peripheral blood progenitor cells (CPC) in
pts with low-grade lymphoma (in vivo purging).
Patients and methods.
From 4/97 to 12/98, 24 consecutive pts entered the study. Eligibility included age
≤60 years, a diagnosis of untreated mantle cell lymphoma or of refractory/early relapsed
follicular lymphoma, CD20 expression by tumor cells, histologic bone marrow infiltration,
and availability of a molecular marker for minimal residual disease detection. The study
included three consecutive series of pts, whose treatment was dictated exclusively by the
availability of rituximab. Thus, the first 10 pts and the last 4 pts enrolled received
rituximab, while the remaining 10 consecutive pts served as controls. Overall, 7 pts in the
rituximab group, and 3 control patients had a diagnosis of mantle cell lymphoma.
Eligible pts received 2 to 4 courses of standard-dose chemotherapy, followed by one
course of high-dose cyclophosphamide (CTX, 7 g/m2) plus GM-CSF and/or G-CSF and,
three weeks later, by a second high-dose course of cytarabine (AraC, 1.5-2 g /m2 Q12H for
6 days) with CPC and growth factor infusion. The patients allocated in the rituximab
group received two i.v. doses of the antibody at 375 mg/m2, approximately on day 2 and
day 12 after the last infusion of high-dose cyclophosphamide and cytarabine, respectively.
CPC were obtained by leukapheresis when the CD34+ cell count reached ≥50/µL. The
intention was to collect, after cyclophosphamide, a PCR-negative leukapheresis product
containing a minimum of 11 x 10e6/kg CD34+ cells. In case of PCR-positive products,
additional leukaphereses were performed after cytarabine. If still PCR-positive, ex vivo
immunological purging with anti-CD19 monoclonal antibody was performed, using a
Miltenyi SuperMACS device.
40
Results.
At the time of this report, 20 overall pts have completed their treatment, and are
thus evaluable for clinical response. The CR rate was 100% in the rituximab arm (11/11
pts), and 78% in the control arm (7/9 pts). After a median follow-up of 11 months (range:
4-21), no pt relapsed. Two pts died of toxicity within 100 days following discharge after
their second transplant (1 reactivation of hepatitis C in the control arm, and 1 cardiac
arrhythmia in the rituximab arm), for a total toxic death rate of 10% (2/20 evaluable pts).
The results of in vivo purging are summarized as follows:
Rituximab
Controls
P
% PCR-neg harvests post-CTX
36
20
NS
% PCR-neg harvests p- CTX & AraC
93
40
<0.01
% PCR-neg harvests p- CTX & AraC & ex vivo purgi not applic.
80
PCR-neg CD34+ x10e6/kg (median & range)
28.3 (0-75.6) 15.9 (0-53.1) 0.01
Conclusion.
We showed that rituximab, in combination with one or two courses of an effective
high-dose anti-lymphoma therapy, allowed the harvesting of large amounts of tumor-free
progenitor cells in 13 out of 14 evaluable pts, notably including all 7 pts with mantle cell
lymphoma. The role of rituximab clearly emerged from comparison with the control
group. In fact, only 4 of the 10 pts receiving chemotherapy only yielded a PCR-negative
harvest (P <0.01), while the remaining 6 required ex vivo purging that was successful in 4.
In addition, the total amount of PCR-negative progenitors harvested from the rituximabtreated pts was significantly superior (P=0.01). In conclusion, this in vivo purging strategy
compares very favorably with ex vivo purging in terms of feasibility, costs, and overall
success rate in harvesting an amount of uncontaminated CD34+ cells (i.e. ≥11x10e6/kg),
fully adequate to support more that one cycle of subsequent myeloablative chemotherapy.
41
MIELODISPLASIE AD ALTO RISCHIO E LEUCEMIE ACUTE
Mandelli Franco, Latagliata Roberto.
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia, Università
“La Sapienza” di Roma.
INTRODUZIONE
Il progressivo invecchiamento della popolazione nei paesi occidentali ha
determinato un aumento consistente dell’incidenza di molte patologie
dell’anziano1. Questo fenomeno è particolarmente evidente anche per le
Leucemie Mieloidi Acute (LAM) e le Sindromi Mielodisplastiche (SMD),
affezioni entrambe comuni soprattutto in soggetti di età > 60 anni.
L’interesse di molti ricercatori si è concentrato negli ultimi anni su queste
patologie emergenti, portando ad importanti nuove acquisizioni dal punto di
vista biologico ma non a sostanziali miglioramenti della prognosi. A tutt’oggi
infatti, le terapie disponibili nei pazienti più giovani (polichemioterapie
intensive seguite da procedure trapiantologiche di tipo autologo od allogenico)2
non sono quasi mai proponibili a pazienti anziani per l’elevata tossicità: d’altro
canto, i trattamenti concepiti specificamente per i pazienti anziani
(polichemioterapie a dosaggi ridotti senza procedure trapiantologiche
successive, agenti differenzianti, basse dosi di chemioterapici)
hanno
3-4
modificato solo marginalmente la storia naturale di queste patologie .
Nel presente lavoro verranno discussi i dati attualmente disponibili sulle
LAM e le SMD ad alto rischio, con particolare riferimento alle peculiarità
biologiche di queste patologie nell’anziano, ai criteri di selezione per le diverse
opzioni terapeutiche ed ai risultati ottenuti.
CARATTERISTICHE DEL “PAZIENTE ANZIANO”
Il paziente anziano, indipendentemente dalla malattia ematologica da cui
è affetto, presenta delle caratteristiche fisiologiche legate all’invecchiamento. E’
stata dimostrata con l’età (soprattutto dopo i 70 anni) una progressiva riduzione
dell’attività clonogenica delle cellule staminali normali, con passaggio
dall’emopoiesi policlonale dei giovani ad un’emopoiesi oligoclonale: questo
reperto, senza conseguenze in condizioni normali, può spiegare la prolungata
citopenia post-chemioterapia che si osserva negli anziani11. Inoltre molte
42
funzioni organiche, in particolare l’emuntorio renale e la reattività
immunologica, subiscono dai 70 - 75 anni in poi un calo fisiologico che si
manifesta clinicamente solo in condizioni di stress per l’organismo (ad esempio
in corso di aplasia post-chemioterapia)12.
Negli anziani con problemi ematologici, inoltre, spesso coesistono altre
patologie d’organo che condizionano la scelta terapeutica: più di un terzo dei
pazienti con SMD o LAM di età > 60 anni è affetto da cardiopatie, da problemi
respiratori cronici o da epatopatie più o meno gravi13.
Considerando globalmente i dati sopra riportati, sembra opportuno
mantenere il limite dei 60 anni utilizzato in letteratura per definire il paziente
“anziano”. Tuttavia, una ulteriore suddivisione fra i pazienti di età inferiore e
superiore ai 70 anni potrà in futuro risultare utile, poichè in questi ultimi il peso
dei fattori legati all’invecchiamento è molto più evidente e condiziona
notevolmente la scelta del programma terapeutico.
Sarebbe molto importante, anche se non facile, valutare il paziente anziano
tenendo conto dell’età biologica piuttosto di quella anagrafica.
CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DELLE LAM E DELLE SMD AD ALTO
RISCHIO NELL’ANZIANO
Le LAM dell’anziano non presentano aspetti morfologici peculiari
rispetto ai giovani, ma se ne discostano per alcune caratteristiche cliniche e
biologiche. Dal punto di vista clinico, infatti, è maggiore l’incidenza di LAM
secondarie a SMD ed è presente una quota di pazienti (10%) con LAM
“oligoblastiche” o “smouldering”; queste ultime, di eccezionale riscontro nei
giovani, sono caratterizzate da una blastosi midollare < 40%, da una citopenia
con pochi blasti nel sangue periferico e da un decorso clinico relativamente
meno aggressivo5.
Le peculiarità biologiche delle LAM negli anziani sono importanti perchè
permettono di spiegare almeno in parte la minore responsività alle
chemioterapie intensive di queste forme rispetto ai pazienti giovani. Tre
differenze principali vanno segnalate:
1) la trasformazione leucemica colpisce un precursore più immaturo (più
frequentemente CD34+) rispetto ai giovani, con un coinvolgimento più esteso
della proliferazione e differenziazione. Come conseguenza, spesso anche gli
eritrociti e le piastrine del paziente appartengono al clone leucemico, mentre nei
giovani sono prodotti dalle cellule staminali normali residue6. Si spiega così
l’alta incidenza negli anziani di “remissioni clonali” con elevato rischio di
recidiva, in cui le cellule ematiche apparentemente normali derivano dal clone
leucemico.
2) le alterazioni cariotipiche più frequenti nelle LAM dell’anziano sono
caratterizzate da perdita di materiale genetico ed appartengono al gruppo “a
cattiva prognosi” (del 5q-/monosomia 5, del 7-/monosomia 7, alterazioni
cariotipiche complesse). Viceversa, sono estremamente rare (< 2%) le
traslocazioni cromosomiche bilanciate [t(8,21), inv(16), t(15,17)], associate ad
una buona prognosi, che sono più frequenti nei pazienti giovani7.
43
3) l’espressione della P-glicoproteina (P-gp), codificata dal gene della
resistenza pleiotropica (MDR) e legata alla resistenza in vitro ed in vivo a
numerosi farmaci antiblastici di corrente impiego nel trattamento delle LAM, è
più frequente nei pazienti anziani rispetto ai giovani8.
Per quanto concerne le SMD ad alto rischio, il problema centrale è una
loro corretta definizione che le distingua dalle SMD a basso rischio,
caratterizzate da un decorso cronico con scarsa tendenza all’evoluzione
leucemica. In sintonia con la classificazione FAB, rientrerebbero nella
definizione di alto rischio le SMD con blastosi midollare > 10%: tuttavia
esistono anche altri parametri biologici e clinici (alterazioni cariotipiche,
citopenie) il cui valore prognostico è ampiamente dimostrato. Allo stato attuale
pertanto, sembra opportuno basare la definizione di SMD ad alto rischio su una
valutazione multiparametrica, come quella proposta negli ultimi anni da
numerosi sistemi a punteggio (o scoring systems). Fra questi il più adeguato
sembra essere l’International Prognostic Scoring System (IPSS)9, elaborato da un
gruppo cooperativo internazionale su una vasta casistica e successivamente
validato, che prende in considerazione la blastosi midollare, le alterazioni
cariotipiche ed il numero di citopenie periferiche. In base a tale sistema
classificativo, le SMD ad alto rischio sono quelle con un punteggio superiore ad
1.
Così definite, le SMD ad alto rischio sono un gruppo relativamente
omogeneo, caratterizzato da una percentuale > 70 - 80% dei casi di evoluzione
in LAM nel corso della loro storia naturale ed una sopravvivenza mediana
inferiore all’anno. Possono pertanto considerarsi a tutti gli effetti strettamente
legate alle LAM dell’anziano, con le quali condividono le principali
caratteristiche clinico-biologiche (pancitopenia periferica, target leucemico
indifferenziato, prevalenza di alterazioni cariotipiche a cattiva prognosi)10.
CRITERI DI SELEZIONE PER LA SCELTA TERAPEUTICA NEL PAZIENTE
ANZIANO
Vi è un accordo generale sulla necessità di selezionare accuratamente i
pazienti anziani con LAM o SMD ad alto rischio, per un loro corretto
inserimento nell’approccio terapeutico più adatto. Nonostante i notevoli
progressi sugli aspetti biologici di queste malattie e sul loro significato
prognostico, la selezione è ancora oggi legata soprattutto alla valutazione
clinica del paziente. La maggior parte degli autori prende in considerazione i
seguenti criteri di esclusione dalle chemioterapie intensive:
- Età > 75 o 80 anni
- Performance Status (PS) > 3 secondo la classificazione WHO (ma in alcuni
studi vengono esclusi anche i pazienti con PS = 3)
- Presenza di cardiopatie sintomatiche, nefropatie o epatopatie (tuttavia i valori
di creatinina, GPT e bilirubina utilizzati per escludere i pazienti sono spesso
diversi nei vari studi)
- Pazienti affetti da LAM con pregressa fase mielodisplastica > 6 mesi (solo in
alcuni studi).
44
CHEMIOTERAPIA INTENSIVA
Chemioterapia intensiva nelle LAM
Le percentuali di inclusione in schemi di terapia intensiva dei pazienti anziani
affetti da LAM variano nei diversi Centri dal 39% al 72% (Tab.1): questa ampia variabilità
dipende soprattutto dai criteri di selezione impiegati e dalla impossibilità di valutare il
numero totale dei pazienti.
TAB.1
PERCENTUALE DI PAZIENTI ANZIANI TRATTATI INTENSIVAMENTE
OSPEDALE/AREA
GEOGRAFICA
PERIODO DI
TEMPO
Ematologia “La Sapienza”Roma
Ospedale S. Matteo-Pavia
Ospedale Hotel-Dieu-Parigi
Ospedali Cardarelli e Cervello
Napoli e Palermo
Ospedale S. BartolomewLondra
Ospedale S. Eugenio-Roma
Inghilterra del Nord
1980 - 1986
PAZ. TRATTATI
INTENSIVAMENTE
(%)
29/74 (39.2%)
1980 - 1988
1980 - 1989
Non riportato
52/103 (50%)
108/235 (45.9%)
72/100 (72%)
1978 - 1986
88/115 (77%)
1987 - 1993
1988 - 1991
92/159 (57.8%)
82/200 (41%)
La chemioterapia intensiva di induzione nelle LAM degli anziani si basa
sugli stessi farmaci correntemente impiegati nei pazienti giovani. Con
l’associazione standard Citosina-Arabinoside (Ara-C) + Daunorubicina (DNR)
(schema 3 + /) è stato possibile ottenere negli anni’80 una Remissione Completa
(RC) nel 30-52% dei pazienti, a fronte di percentuali di resistenza e di decessi in
induzione variabili rispettivamente dal 15 al 41% e dal 22 al 54% (Tab.2)14-15-16-17.
TAB.2
SCHEDULA “3 + 7” : RISULTATI
ETA’
N. RC (%)
MEDIA PTS
NA
Reiffers
(1980)
Rai (1981)
69
19
69
22
Yates (1982)
> 60
68
Arlin (1990)
> 60
51
10
(52.6%)
10 (45%)
RES
(%)
DI (%)
3
6
(16%) (31.4%)
6
6
(27.5% (27.5%)
)
21 (31%)
10
37 (54%)
(15%)
19 (37%)
21
11 (22%)
(41%)
DFS
OS
MEDIAN MEDIAN
A
A
(mesi)
(mesi)
NR
7.5
NR
NR
12
NR
7.5
2
45
Per migliorare questi risultati sono stati compiuti numerosi tentativi,
schematicamente divisibili in 4 gruppi:
1) Variazioni del dosaggio dei farmaci. La riduzione del dosaggio della DNR da
45mg/m2 a 30mg/m2 ha dato risultati contrastanti: 2 studi randomizzati degli
anni’80 mettevano in evidenza una superiorità significativa della dose ridotta
verso la dose standard di DNR16-18, mentre un recentissimo studio tedesco ha
riportato percentuali di RC significativamente migliori usando un dosaggio di
DNR di 60mg/m2 nei confronti di 30mg/m2(Tab.3)19. Una possibile spiegazione
di queste osservazioni apparentemente contraddittorie è nel miglioramento
della terapia di supporto osservato negli ultimi 15 anni, con conseguente
riduzione dei decessi in induzione; bisogna comunque sempre tenere presente
la diversa selezione dei pazienti da trattare.
TAB.3
DOSI ATTENUATE DI DNR VS STANDARD: RISULTATI
ETA’
N.
SCHEMA DI
MEDIA PTS TRATTAMEN
NA
TO
Yates
(1982)
> 60
73
68
Kahn
(1984)
> 70
20
20
Buch
ner
(1997)
66
170
170
3 + 7 (DNR
30mg/m2)
3 + 7 (DNR
45mg/m2)
DAT Attenuato
DAT Standard
TAD (DNR
60mg/m2)
TAD (DNR
30mg/m2)
RC
(%)
RES
(%)
34
(47%)
21
(31%)
6
(30%)
5
(25%)
88
(52%)
76
(45%)
9
(12%)
10
(15%)
9
(45%)
3
(15%)
48
(28%)
41
(24%)
DI
(%)
DFS
OS
MEDIA MEDIA
NA
NA
(mesi)
(mesi)
12
NR
30
12
NR
(41%)
37
(54%)
NR
5
5
NR
1
(25%)
12
(60%)
NR
NR
34
NR
NR
(20%)
53
(31%)
L’impiego delle alte dosi di Ara-C (HiDAC) (2-3 g/m2) da sole od in
associazione si è rivelato estremamente tossico negli anziani, soprattutto a
livello neurologico, senza un sostanziale aumento delle RC (Tab.4)20-21-22-23.
TAB.4
HiDAC: RISULTATI
ETA’
MEDIA
NA
Preisler
(1987)
Lazaru
s
(1989)
N.
SCHEMA DI
PTS TRATTAMENT
O
> 70
23
66
21
RC
(%)
RES
(%)
DI
(%)
HiDAC 2-3 g/m2 10
2
11
twice for 6 days (43%) (9%) (48%)
7
5
9
HiDAC (3 g/m2
(42.8 (23.8 (33.4
twice
%)
%)
%)
for 4-5 days)+
DNR
DFS
OS
MEDIA MEDIA
NA
NA
(mesi)
(mesi)
9.2
2.8
9
6
46
Petti
(1989)
61
125
Feldma
n
(1997)
70
53
50
32
43
HiDAC (3 g/m2
(34.4 (40%) (25.6
twice
%)
%)
for 2-3 days)+
ASNasi
27
15
11
HiDAC (3 g/m2
(51%) (28%) (21%)
for 5 days)+
Mitox
9
5
6
8
2) Impiego di nuovi agenti intercalanti. L’Idarubicina (IDA) ed il Mitoxantrone
(Mitox) sono stati confrontati alla DNR in numerosi studi negli ultimi 15 anni.
Nonostante alcune promettenti osservazioni iniziali in studi-pilota non
randomizzati, cinque studi randomizzati di gruppi cooperativi non hanno
messo in evidenza differenze significative in termini di RC, sopravvivenza
libera da malattia (DFS) e sopravvivenza globale (OS) (Tab.5)17-24-25-26-27.
TAB.5
STUDI DI FASE III: IDA/MITOX VERSUS DNR
ETA’
MEDIA
NA
Arlin
(1990)
N.
PTS
> 60
48
51
Mandell
i
(1991)
62
124
125
Wiernik
(1992)
> 60
38
45
Reiffers
(1996)
>55<75
112
108
Lowenb
erg
(1998)
68
247
242
TERAPIA RC (%)
DI
INDUZIO
NE
Mitox+Ara 22 (46%)
C
19 (37%9
DNR+Ara
C
IDA+AraC
50
DNR+Ara
(40.3%)
C
49
(38.2%)
IDA+AraC 19 (50%)
DNR+Ara 20 (44%)
C
IDA+AraC
76
DNR+Ara
(67.9%)
C
66
(61.1%)
Mitox+Ara
115
C
(46.6%)
DNR+Ara 92 (38%)
C
RES (%)
15 (32%)
21 (41%)
DFS
MEDIA
NA
(mesi)
11 (22%)
10
11 (22%)
8
27
(21.7%)
49
(39.2%)
NR
NR
47
(37.9%)
27
(21.6%)
NR
NR
13
(11.6%)
26 (24%)
23
(20.5%)
16
(14.9%)
52
(21.1%)
36
(14.9%)
80
(30.2%)
114
(47.1%)
DI (%)
OS
MEDIA
NA
(mesi)
3.3
2
10
9.5
3
5.5
NR
NR
3.4
3.2
14
11
10.5
9
9
9
10
9
3) Aggiunta di un terzo farmaco all’associazione standard. La 6-Thioguanina (6TG) è stata generalmente impiegata con la DNR e l’Ara-C nello schema DAT (o
TAD): tuttavia, in diversi studi non randomizzati (Tab.6)28-29-30-31 ed in uno
studio randomizzato32, non si sono osservate differenze significative nei
confronti dei risultati ottenuti con l’associazione standard 3+7.
TAB.6
SCHEMI DAT/TAD: RISULTATI
ETA’
MEDIA
NA
N. SCHEMA DI
PTS TRATTAME
NTO
RC
(%)
RES
(%)
DI
(%)
DFS
MEDIA
NA
OS
MEDIA
NA
47
Foon
(1981)
Rees
(1986)
Johnson
(1996)
Rees
(1996)
> 60
33
3+7+7
25 (76%)
NR
NR
(mesi)
14
(mesi)
22
> 60
305
1+5+5
NR
NR
12.5
8
> 60
61
3+7+7
146(49.5
%)
38 (62%)
9 (15%)
NR
< 12
> 60
167
3 + 10 + 10
80 (48%)
14
(23%)
33
(20%)
54
(32%)
NR
7
L’impiego dell’Etoposide (VP-16) come terzo farmaco è più recente: i risultati
preliminari di uno studio cooperativo dell’EORTC riportano una percentuale
interessante di RC (61%), senza tuttavia miglioramenti della DFS e dell’OS33.
4) Impiego dei Fattori di Crescita (GF). L’avvento in terapia dei GF alla fine
degli anni’80 ha creato nuove speranze di poter migliorare i deludenti risultati
della chemioterapia intensiva negli anziani. I meccanismi d’azione dei GF che si
intendeva sfruttare erano due:
a) accorciamento della durata della neutropenia post-chemioterapia con
riduzione delle complicanze infettive correlate (somministrazione dei GF dopo
la chemioterapia);
b) aumento della sensibilità delle cellule leucemiche alla chemioterapia
mediante “reclutamento” nel ciclo cellulare delle sottopopolazioni blastiche
quiescienti (somministrazione dei GF precedente e contemporanea alla
chemioterapia).
Sulla base dei numerosi studi randomizzati disponibili con l’impiego del
Granulocyte-Macrophage Colony Stimulating Factor (GM-CSF) o del
Granulocyte CSF (G-CSF) si possono trarre le seguenti conclusioni (Tab.7)34-35-3637-38-39:
- in tutti gli studi la neutropenia è stata di più breve durata nei pazienti
sottoposti al GF, ma il numero di infezioni e la percentuale di morti in
induzione sono risultati identici (ad eccezione dello studio della Rowe);
- la percentuale di RC è stata la stessa in tutti gli studi (ad eccezione dello studio
di Dombret, in cui è risultata significativamente superiore soprattutto nei
pazienti con cariotipo sfavorevole);
- la DFS e l’OS sono risultate uguali in tutti gli studi, ad eccezione degli studi di
Rowe e di Witz (ma in quest’ultimo solo nei pazienti di età < 65 anni).
Pertanto, non sembra esserci attualmente una chiara indicazione per l’impiego
dei GF nella terapia delle LAM dell’anziano, se non in particolari sottogruppi di
pazienti.
TAB.7
CHEMIOTERAPIA + FATTORI DI CRESCITA: RISULTATI
ETA’
MEDIA
NA
Rowe
(1995)
64
N.
PT
S
SCHEMA
DI
TERAPIA
GF
RC
(%)
RES
(%)
DI
(%)
11
7
3+7
(DNR
60mg)
GMCSF
Placebo
36
(60%)
25
(44%)
NR
NR
NR
NR
DFS
MEDIA
NA
(mesi)
8.5
9.6
OS
MEDIA
NA
(mesi)
10.6
4.8
48
Stone
(1995)
69
38
8
3+7
(DNR
45mg)
GMCSF
Placebo
Lowenbe
rg
(1997)
68
31
8
3+7
(DNR
30mg)
GMCSF
Placebo
Witz
(1998)
66
24
0
IDA+AraC
(IDA 8mg)
GMCSF
Placebo
Dombret
(1995)
71
17
3
4+7
(DNR
45mg)
G-CSF
Placebo
Godwin
(1998)
68
21
1
3+7
(DNR
45mg)
G-CSF
Placebo
99
(51%)
106
(54%)
88
(56%)
89
(55%)
69
(63%)
74
(60%)
62
(70%)
430
(47%)
43
(41%)
52
(50%)
42
(22%)
44
(23%)
47
(30%)
51
(32%)
21
(19%)
29
(24%)
13
(15%)
28
(33%)
NR
NR
52
(27%)
45
(23%)
22
(14%)
21
(13%)
20
(18%)
19
(16%)
13
(15%)
17
(20%)
NR
NR
8.2
10.4
9.4
9.4
< 12
< 12
10
9.8
23
11
6
5
39% at
2yrs
27% at
2yrs
9
8
8
9
6
9
Una volta ottenuta la RC, nei pazienti anziani c’è il problema di quale sia
la terapia post-remissionale ottimale. I numerosi approcci impiegati negli ultimi
20 anni (mantenimento, consolidamento, intensificazione con le HiDAC) hanno
dato risultati insoddisfacenti, con DFS ed OS mediane generalmente inferiori ad
1 anno: un recente studio randomizzato ha dimostrato che negli anziani la DFS
non è influenzata dal dosaggio dell’Ara-C nella terapia post-remissionale40. Nel
tentativo di migliorare questi risultati, è stato proposto l’impiego
dell’autotrapianto da cellule staminali periferiche, ma i primi risultati
disponibili indicano che solo pochissimi pazienti possono essere trattati con tale
procedura, sia per una raccolta inadeguata di cellule che per la tossicità delle
precedenti chemioterapie33.
Chemioterapia intensiva nelle SMD ad alto rischio
Nei pazienti anziani affetti da SMD ad alto rischio, le percentuali di
inclusione in schemi di terapia intensiva sono inferiori (< 15%) rispetto alle
LAM dell’anziano per almeno 3 motivi: a) età mediana più elevata rispetto ai
pazienti affetti da LAM (> 70 anni verso 64 anni), b) tendenza da parte di molti
medici ad aspettare un’eventuale evoluzione della SMD in LAM prima di
iniziare uno schema di terapia intensiva, c) considerare le SMD ad alto rischio (e
le LAM evolute da SMD) come patologie più refrattarie alla chemioterapia
rispetto alle LAM “de novo”.
La valutazione dei risultati terapeutici è resa difficile da 2 ordini di
motivi:
1) a differenza delle LAM dell’anziano, non esistono studi di chemioterapia
intensiva nelle SMD ad alto rischio condotti specificamente in pazienti anziani,
ed i dati relativi ai pazienti > 60 anni vanno estrapolati;
2) le casistiche comprendono il più delle volte sia pazienti in fase displastica che
pazienti già evoluti in LAM.
49
Dall’esame degli studi più recenti (Tab.8)41-42-43-44 si possono trarre alcune
considerazioni generali:
- anche nelle SMD ad alto rischio l’età > 60 anni è un fattore prognostico
sfavorevole;
- mentre le percentuali di RC sono simili a quelle delle LAM dell’anziano, la
DFS e l’OS sono inferiori (generalmente < 6-8 mesi).
TAB.8
CHEMIOTERAPIA INTENSIVA NELLE SMD AD ALTO RISCHIO: RISULTATI
ETA’ N. SCHEMA DI
MEDIA PT TRATTAME
NA
S
NTO
Estey (1995)
> 60
Economopo
ulos
(1996)
Invernizzi
(1997)
Estey (1999)
> 60
>65
65
RC
(%)
RES
(%)
DI
(%)
IDA+AraC
Fluda+AraC+
/-G-CSF
18
IDA+AraC
+ GM-CSF
27
(57%)
NR
NR
9
(50%)
8
1
10
2
(20%)
32
(51%)
47
IDA+AraC
62 Fluda+IDA+
AraC
+/-G-CSF+/ATRA
7
1
(70%) (10%)
NR
NR
DFS
OS
MEDIA MEDIA
NA
NA
(mesi)
(mesi)
6
5
8
12.5
NR
5
9
7
CHEMIOTERAPIE AD AGGRESSIVITA’ INTERMEDIA
Molti pazienti anziani, non essendo elegibili per una chemioterapia
intensiva a causa dell’età o di patologie associate di media gravità, sono stati
trattati con chemioterapie ad aggressività intermedia, con la finalità comunque
di ottenere una RC.
In tale ambito, sono stati impiegati 3 diversi approcci: a) basse dosi di AraC
(LoDAC); b) monochemioterapie; c) associazione di farmaci antiblastici per os.
Il ruolo delle LoDAC, impiegate ampiamente negli anni’80 per un loro
presunto meccanismo differenziativo, è stato molto ridimensionato negli ultimi
anni, sia nelle LAM che nelle SMD ad alto rischio: ampi studi hanno infatti
messo in evidenza un’elevata tossicità da prolungata fase aplastica, con basse
percentuali di risposte (< 25-30%) ed una sopravvivenza mediana < 6 mesi45-4647. Nelle SMD ad alto rischio, sono stati condotti 2 studi randomizzati
sull’associazione LoDAC + GM-CSF o IL-348-49: non è stata però dimostrata
alcuna efficacia aggiuntiva di queste citochine rispetto alle LoDAC da sole. In
questo ambito resta da valutare l’associazione LoDAC + ATRA, che in alcuni
piccoli studi su pazienti anziani affetti da LAM ha mostrato promettenti
risultati 50.
50
L’IDA per os è stata impiegata sia da sola che in associazione ad altri
farmaci in schemi ambulatoriali. I risultati nelle LAM dell’anziano sono
incoraggianti, ed uno studio randomizzato ha mostrato la superiorità di uno
schema orale comprendente l’IDA nei confronti dello schema TAD51: tuttavia
l’IDA per os ha comunque una tossicità elevata con aplasia prolungata e con la
necessità di ospedalizzazione in quasi tutti i pazienti, rientrando perciò più
propriamente fra gli approcci intensivi. Anche nelle SMD ad alto rischio l’IDA
per os ha messo in evidenza una efficacia solo ad alte dosi52 con elevata
tossicità, mentre a basso dosaggio è risultata inefficace53.
L’azacitidina54-55, il melphalan56 e l’alfa-interferone57 sono stati impiegati
prevalentemente in pazienti anziani con SMD ad alto rischio con discrete
percentuali di risposta (intorno al 40% dei pazienti trattati): tuttavia si tratta di
studi con un numero ridotto di pazienti (< 50) che necessitano di trovar
conferma in più ampie casistiche.
TERAPIA DI SUPPORTO E PALLIATIVA
Questo approccio terapeutico è riservato alle seguenti categorie di
pazienti anziani:
- pazienti affetti da LAM o da SMD ad alto rischio non elegibili ad altri approcci
terapeutici per condizioni cliniche particolarmente scadute (PS > 2) o gravi
patologie associate: la sopravvivenza mediana in questi casi è generalmente < 4
mesi.
- pazienti affetti da LAM oligoblastiche o SMD ad alto rischio senza gravi
citopenie periferiche: in questi casi la terapia di supporto può garantire una
discreta sopravvivenza mediana (> 6 mesi - 1 anno) e deve essere una scelta
obbligata perchè vantaggiosa.
La terapia di supporto e palliativa ha in ogni caso come obiettivo
principale una buona qualità di vita. Purtroppo non sono disponibili studi
specificamente rivolti a questo approccio, se non marginalmente: perciò non vi
è un preciso accordo su molti aspetti importanti (quando iniziare una
chemioterapia palliativa, quali sono i farmaci più efficaci, secondo quale schema
e quanto a lungo devono essere somministrati, quale può essere il ruolo di
un’assistenza domiciliare). D’altro canto, con il progressivo invecchiamento
della popolazione e l’insorgenza sempre più frequente di LAM e SMD in
pazienti molto anziani (> 80 anni), nei quali è quasi sempre opportuna una
terapia di supporto e contenimento58-59, sarà richiesto un maggiore
approfondimento con studi clinici controllati di questo approccio terapeutico.
PROSPETTIVE FUTURE: L’INSEGNAMENTO DELLA LEUCEMIA ACUTA
PROMIELOCITICA
Alle soglie del nuovo millennio è un dato di fatto che le LAM e le SMD
ad alto rischio degli anziani sono patologie ancora incurabili. Tuttavia, è
possibile delineare alcune direzioni future:
51
- nelle forme in cui si sono comprese le alterazioni molecolari ed il
meccanismo della trasformazione neoplastica, è stato possibile cambiare
radicalmente la prognosi anche negli anziani. E’il caso della Leucemia Acuta
Promielocitica (LAP), in cui è stato possibile clonare il gene ibrido PML/RARa
prodotto dalla traslocazione t(15,17) e trattare questi pazienti con l’acido alltrans retinoico (ATRA), primo esempio nelle LAM di terapia mirata su una
lesione molecolare specifica. Con l’ATRA in associazione alla chemioterapia è
possibile ottenere la RC in > 90% dei casi ed una DFS > 60% a 5 anni nei
pazienti giovani; tali risultati, anche se un po' inferiori, sono stati ottenuti anche
nei rari pazienti di età > 60 anni, annullando quasi completamente il significato
prognostico sfavorevole dell’età che esiste nelle altre forme di LAM60. Il primo
obiettivo nel prossimo futuro è perciò una migliore comprensione dei
meccanismi di trasformazione neoplastica nelle LAM e nelle SMD, per avere
nuovi target a cui mirare con terapie specifiche.
- la chemioterapia intensiva dà risultati più o meno favorevoli in base alle
caratteristiche biologiche dei pazienti (alterazioni cariotipiche, espressione della
P-gp), indipendentemente dalle condizioni cliniche del paziente all’esordio8. Il
secondo obiettivo è perciò il passaggio da una selezione clinica ad una selezione
biologica dei pazienti elegibili.
- vi sono alcuni nuovi promettenti approcci terapeutici ancora in fase di
valutazione clinica: l’anticorpo monoclonale anti-CD33 (nelle LAM e nelle SMD
ad alto rischio), l’amifostine (nelle SMD ad alto rischio) ed i revertanti della Pgp (in entrambe le patologie). Il terzo obiettivo è l’esatta comprensione del
ruolo di questi nuovi approcci.
BIBLIOGRAFIA
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56
I LINFOMI NON-HODGKIN AGGRESSIVI DELL’ANZIANO:
PROGNOSI E TERAPIA
Sante Tura
Istituto di Ematologia e Oncologia Medica “Seràgnoli”, Università di Bologna
Grazie al progressivo miglioramento dei presidi diagnostico-stadiativi ed a causa
del costante aumento di incidenza della patologia linfomatosa in generale e negli individui
di età superiore ai 60 anni in particolare, i linfomi non-Hodgkin dell’anziano occupano
oggi un posto di sempre maggior rilievo in campo oncoematologico. Ciò è soprattutto
vero per le forme aggressive, per le quali tanto la prognosi quoad vitam quanto le strategie
terapeutiche devono quotidianamente essere investigate in pazienti ancora in buone
condizioni fisiche, ma per i quali l’età di per se è stata identificata come fattore prognostico
sfavorevole. Quest’ultima considerazione può essere spiegata compiutamente solo
tenendo conto di alcune variabili che spesso sfuggono al processo decisionale relativo a
questi pazienti: la possibilità di una maggior tossicità legata al trattamento e quella di una
biologia della malattia in qualche modo più aggressiva. Fino ad un recente passato ne è
derivata una sostanziale riluttanza a stadiare completamente, quando non addirittura a
completarne l’iter diagnostico, ed a trattare con intento curativo cospicue coorti di pazienti
ultrasessantenni.
Durante il corso degli ultimi 15 anni si è assistito da un lato all’evolversi di un trend
sempre meno caratterizzato dall’atteggiamento mentale paziente anziano-trattamento
palliativo da parte del medico e dall’altro dal conseguimento di risultati via via sempre
più incoraggianti sia in termini di ottenimento della remissione completa che di
incremento della sopravvivenza libera da malattia a 5 anni.
E’ evidente che, prima ancora di addentrarsi in una disamina sul come trattare il
paziente anziano portatore di linfoma aggressivo, non si possa prescindere
dall’identificarlo correttamente.
Quali sono i pazienti anziani portatori di linfoma ?
In termini di co-morbidità e di raffronto fra età biologica ed età anagrafica, esistono
dati in supporto del fatto che l’aspettativa di vita per i pazienti anziani, a fronte di una
certa frequenza di malattie associate all’età, resta piuttosto alta, essendo pari a circa 15
anni per i settantenni, ad 8 anni per gli ottantenni ed a 5 anni per i novantenni. Ne
consegue che, nel caso specifico dei linfomi aggressivi, un approccio terapeutico a
carattere potenzialmente curativo dovrebbe essere visto come adeguato nella maggior
parte dei casi. In questo senso, ovviamente, un’attenta e possibilmente standardizzata
valutazione dell’età biologica attraverso l’impiego di scale specifiche (per esempio: RDRS2
di Linn, SPMSQ di Pfeiffer, ADLA di Katz) dovrebbe essere perseguita vigorosamente,
invece di continuare a basarsi empiricamente sulla più immediata ma pur sempre meno
indicativa età anagrafica.
57
In termini farmacocinetici, va ricordato che il fisiologico processo di invecchiamento
si associa ad alterazioni significative della distribuzione del grasso corporeo e dell’acqua,
nonché del più o meno accentuato peggioramento della funzione epatica e renale. Nel caso
specifico dei pazienti anziani con linfoma aggressivo poi, bisogna tenere conto
dell’aumentata tossicità da farmaci (per esempio cardiotossicità da antracicline, tossicità
polmonare da bleomicina ed ematologica da adriamicina, metotrexate, etoposide e
vinblastina, nonché la maggior severità dei processi mucositici); in aggiunta, il rischio di
reazioni avverse a farmaci può aumentare fino a 7 volte, per lo più per mancanza di
specifiche informazioni relative alla compatibilità farmaco-paziente, piuttosto che per
problemi legati alla collaborazione del paziente stesso.
In termini psicosociali, le relazioni familiari ed una sostanziale integrazione del
paziente anziano nel contesto sociale influenzano sempre e comunque la possibilità di
trattarlo nella maniera più consona ed adeguata. Nello stesso tempo, va da sé, che la
lucidità ed il livello culturale del paziente giocano a loro volta un ruolo determinante sul
potenziale livello di collaborazione.
Quanto al rapporto medico-paziente in termini di attitudine reciproca, con tutto il fardello
di considerazioni legate talora al pregiudizio e talora alla realtà, si osserva non di rado che
il paziente anziano tende ad essere privato di qualsiasi trattamento di potenziale successo
nonostante una sostanziale assenza di controindicazioni maggiori. Più spesso, peraltro,
questo paziente viene sottotrattato e meno spesso riferito ad un centro specializzato o
curato con un approccio multidisciplinare rispetto ai pazienti più giovani.
Possono essere trattati come i pazienti più giovani ?
Quando e dove, in passato, si è ritenuto di potere o di dovere trattare i pazienti
anziani con linfoma aggressivo, l’età senile è stata fissata più spesso oltre i 60 anni e
logicamente, prima di sperimentare approcci polichemioterapici per così dire ad hoc, si è
tentato di curare i malati con le stesse armi in uso per i pazienti al di sotto di quell’età.
Risultati contraddittori sono stati ottenuti quando si consideri la percentuale di casi
in cui si è riusciti ad indurre la remissione completa. Se da un lato, infatti, schemi come
CHOP ed alcuni CHOP-like si rivelavano statisticamente più efficaci nei pazienti giovani
che negli anziani, utilizzando protocolli di polichemioterapia di terza generazione quali il
CAP/BOP od il MACOP-B tali differenze scemavano. Ancora più evidente era la scarsità
di rilevanza del fattore età quando si procedeva alla valutazione della sopravvivenza
libera da malattia, in quanto solo alcuni protocolli CHOP-like evidenziavano differenze a
vantaggio della coorte di pazienti più giovani. Al contrario però, in termini di
sopravvivenza globale, tutti i protocolli di polichemioterapia mostravano chiari vantaggi
per i pazienti più giovani, come del resto poteva essere facilmente prevedibile a
prescindere dal più o meno evidente successo iniziale del trattamento.
A questo punto si rese necessario analizzare più minuziosamente un parametro che,
se da un lato interessa qualunque coorte di pazienti, per quelli anziani diventa
imprescindibile ai fini di un completo inquadramento nosografico della malattia e di ogni
suo potenziale tipo di terapia: la mortalità correlata al trattamento. Se Armitage già nel
1984 poteva sottolineare in tutta la sua evidenza tale problema, quantificandolo in un 30%
dei casi trattati con lo schema CHOP, gli studi che si sono succeduti per circa un decennio
hanno dimostrato che, utilizzando i protocolli aggressivi in uso per i pazienti più giovani,
58
anche in condizioni di terapia di supporto ottimale, non si riusciva a ridurre la mortalità
trattamento-associata al di sotto del 10%.
Ne è scaturita una intensificazione della ricerca clinica volta a disegnare regimi di
chemioterapia efficaci e possibilmente meno tossici al fine di impiegarli esclusivamente
per i pazienti anziani con linfoma aggressivo (1-8).
Cosa ci hanno insegnato i trials randomizzati ?
Gli schemi di polichemioterapia disegnati appositamente per i pazienti anziani con
linfoma aggressivo si caratterizzano per due peculiarità fondamentali: l’essere di più breve
durata ed il non contenere metotrexate e doxorubicina allo scopo di ridurre incidenza ed
intensità di mucositi e cardiomiopatia. Gli schemi concepiti allo scopo di non rinunciare
comunque al contributo delle antracicline si sono poi avvalsi a seconda dei casi di
mitoxantrone, pirarubicina, aclarubicina od idarubicina.
Negli ultimi 5 anni diversi studi randomizzati sono stati portati avanti con l’intento
di identificare modalità terapeutiche alternative ed efficaci. Nel 1994 Kitamura (9) ha
paragonato 3 coorti di pazienti ultrasessantacinquenni (in totale 420) trattati
rispettivamente con gli schemi THP-COP, LD-CHOP e THP-COPE. Nessuna differenza
statisticamente significativa è stata riscontrata in termini di percentuale di remissioni
complete, mentre il primo schema si è caratterizzato per una sopravvivenza globale a 3
anni appena significativamente superiore. E’ seguito lo studio di Sonneveld (10), in cui
oggetto della comparazione erano gli schemi CHOP e CNOP. A fronte di differenze
statisticamente significative a favore del primo in termini di percentuale di remissioni
complete indotte e di sopravvivenza globale a 3 anni, irrilevanti si osservavano le
differenze relative alla dose-intensity ed alla sopravvivenza libera da malattia. Nello stesso
anno, questa volta su pazienti ultrasessantenni, Meyer (11) dimostrava non esservi alcuna
differenza significativa, in termini di remissioni complete, dose-intensity e sopravvivenza
libera da progressione a 2 anni, fra i pazienti trattati secondo lo schema CHOP e quelli che
ricevevano una sua versione modificata nei dosaggi e somministrata settimanalmente.
Bastion (12) e Tirelli (13), ambedue su coorti di pazienti prevalentemente ultrasettantenni,
hanno infine confrontato rispettivamente il primo gli schemi CVP e CTVP, il secondo
quelli CHOP e VMP. Nel primo caso l’aggiunta della pirarubicina è stata efficace, in
termini statistici, sia per ciò che concerne le remissioni complete che in termini di
sopravvivenza globale a 5 anni. Nel secondo la significatività statistica in favore dello
schema CHOP è stata evidenziata in termini di risposta globale, remissioni complete,
sopravvivenza libera da progressione e globale entrambe a 2 anni.
Limitatamente alle forme localizzate in stadio I o II, è doveroso citare gli studi di
Vose (14) e di Oguchi (15). Nel primo caso, pazienti ultrasettantenni sono stati trattati
alternativamente con lo schema CAP-BOM per 6 cicli, con lo schema CAP-BOM per 3 cicli
+ radioterapia sulle sedi di malattia, oppure solo con la radioterapia sulle sedi di malattia,
con una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni pari rispettivamente al 35%, 47% e 10%.
Nel secondo studio, peraltro non randomizzato, pazienti ultrasessantacinquenni
ricevevano radioterapia sia sulle sedi di malattia (40 Gy) che sulle altre (30 Gy) dopo una
polichemioterapia secondo lo schema ACOP o MACOP-B. Questo trattamento aggressivo
ha comportato risultati estremamente interessanti: 100% di remissioni complete, con una
sopravvivenza globale a 5 anni pari all’82% ed una sopravvivenza libera da malattia a 5
anni pari al 70%.
59
I fattori di crescita possono essere d’aiuto ?
Il passo successivo, virtualmente obbligato, è stato quello di verificare se, al di là dei
costi, l’impiego dei fattori di crescita emopoietici potesse servire a ridurre la tossicità senza
sacrificare l’efficacia dei trattamenti polichemioterapici.
I primi studi randomizzati disegnati in tal senso risalgono al 1994, quando Bertini
(16) e Zagonel (17) testarono l’impiego del G-CSF in associazione rispettivamente con gli
schemi P-VEBEC e CHVmP/VB. Nel primo caso i pazienti che ricevettero il fattore di
crescita ottennero un vantaggio statisticamente significativo in termini di incidenza della
neutropenia e di dose intensity, ma non per ciò che riguarda la percentuale di remissioni
complete ottenute e la sopravvivenza libera da ricaduta. Nel secondo il vantaggio
statistico si concretizzò, oltre che in termini di incidenza della neutropenia, anche in
termini di ritardi della chemioterapia e degli episodi infettivi. Nessun vantaggio, al
contrario, è stato osservato per quanto concerne le remissioni complete ottenute.
Uno studio più recente (18), non randomizzato, merita infine di essere citato perché
Gomez ha deciso di associare al classico schema CHOP il GM-CSF invece del G-CSF. I dati
più interessanti emersi sono un 62% di remissioni complete, un 95% relativo alla dose
intensity ed un 43% di cicli di chemioterapia durante i quali si è sviluppata una
neutropenia febbrile; la mortalità legata al trattamento si è attestata intorno all’8%.
L’esperienza di Bologna
Il primo tentativo di disegnare un protocollo polichemioterapico ad hoc per pazienti
anziani con linfoma ad alto grado di aggressività presso l’Istituto Seràgnoli risale ai primi
anni ’90, con risultati pubblicati nel 1993 (19). Con l’obiettivo di aumentare il tasso di
remissioni complete senza per questo perdere in sicurezza e fattibilità, fu messo a punto lo
schema VNCOP-B, un regime MACOP-B-like che si caratterizza per la sua minor durata,
le dosi ridotte e, soprattutto, per la sostituzione di adramicina e metotrexate
rispettivamente con mitoxantrone e VP-16. L’aggiunta in tutti i casi di G-CSF completava
lo schema terapeutico predisposto per questo studio pilota. Dei 29 pazienti arruolati
presso il nostro istituto, 22 ottennero la remissione completa (76%) e 5 la remissione
parziale (17%), con una sopravvivenza libera da ricaduta calcolata a 5 anni pari al 59% (13
pazienti su 22). Ciò ha costituito la base di partenza per allestire uno studio prospettico
multicentrico e randomizzato volto a comparare l’efficacia dello schema VNCOP-B
immodificato, ma eseguito rispettivamente con o senza l’ausilio del fattore di crescita. Il
trial ha coinvolto 12 centri italiani dal marzo 1993 al giugno 1995 ed ha portato
all’arruolamento di 149 pazienti valutabili (20).
I 77 pazienti arruolati nel braccio G-CSF e i 72 che non hanno ricevuto il fattore di
crescita sono stati stratificati senza il riscontro di sostanziali differenze in termini di: età
(pressochè identici range e mediana) e distribuzione per sesso, sintomi sistemici, stadio
all’esordio, malattia bulky all’esordio, elevata LDH, performance status, interessamento
extranodale, istologia.
Quanto ai risultati clinici, nessuna reale differenza è stata riscontrata in termini di
dose-intensity (95% vs 85%) e di ottenimento della remissione completa (60% vs 58%) o
parziale (23% vs 22%), mentre altamente significative sotto il profilo statistico sono
60
risultate le differenze in termini di incidenza della neutropenia (23% vs 55%; p = 0,00005) e
degli episodi infettivi (p = 0.004).
Recentemente abbiamo rivisitato l’intera casistica di pazienti trattati con VNCOP-B
negli studi da noi coordinati durante il periodo 1992-1997 (21). Si tratta complessivamente
di 350 pazienti di età compresa fra 60 ed 87 anni (mediana 69), perfettamente ripartiti fra i
due sessi e nei due terzi dei casi senza sintomi sistemici all’esordio. Circa il 40% dei
pazienti si era presentato in II ed in IV stadio, mentre il restante 20% era esordito in III
stadio. Poco meno di un terzo dei pazienti mostrava almeno una localizzazione “bulky”
all’esordio ed altrettanti un incremento patologico della LDH. Un interessamento
extranodale è stato osservato in circa il 60% dei pazienti, 18% dei quali con infiltrazione
midollare. Da un punto di vista istologico infine, la metà dei casi riguardava linfomi
centroblastici, mentre progressivamente meno rappresentati erano nell’ordine gli
immunoblastici, gli anaplastici a grandi cellule ed i linfomi a cellule T periferiche.
In termini di risultati clinici, ben l’83% dei pazienti ha ottenuto una remissione
completa (58%) o parziale (25%), con una sopravvivenza libera da malattia mediana pari a
36 mesi (range: 9-72). Da notare che il numero delle remissioni complete non differiva
sostanzialmente stratificando i pazienti in 3 gruppi secondo l’età: 60-69, 70-79 e >80 anni.
L’analisi statistica univariata ha permesso di identificare nell’esordio “bulky”
(p<0,02), nel cattivo performance status (p<0,01) e nello stadio avanzato (p<0,01) fattori
prognostici sfavorevoli al conseguimento della remissione completa. Quella multivariata,
invece, ha segnalato l’importanza della malattia localizzata, o stadio iniziale (p<0,001), e
del buon performance status (p<0,0002) ai fini dell’ottenimento di una più lunga
sopravvivenza, tanto globale quanto libera da ricaduta. Altamente significativa in
rapporto con la prognosi dei pazienti si è infine rivelata la loro stratificazione in gruppi
secondo i criteri dell’ IPI (p = 0,001).
Il VNCOP-B è un regime polichemioterapico che consente di ottenere nei pazienti
anziani con linfoma aggressivo una percentuale di remissioni complete solo leggermente
inferiore rispetto ai pazienti più giovani.
I pazienti che grazie a questo schema ottengono la remissione completa hanno
buone probabilità di sopravvivere a lungo termine.
Non vi è a tutt’oggi alcuna evidenza di tossicità severa o permanente ad esso
associata.
Più in generale, l’uso di trattamenti disegnati “su misura” per i pazienti anziani, sia
attraverso modifiche posologiche e farmacologiche che l’impiego di fattori di crescita
emopoietici, permette di ottimizzare l’approccio terapeutico e di ottenere una remissione
completa in più della metà dei pazienti trattati, con prospettiva di guarirne oltre un terzo.
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63
ONCOEMATOLOGIA NELL’ANZIANO:
IL MIELOMA MULTIPLO
M. Boccadoro, A. Pileri
Divisione Universitaria di Ematologia, Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista, Torino.
Il mieloma multiplo è una neoplasia della linea B linfocitaria, la cui età di incidenza
è intorno ai 65-70 anni1. La sopravvivenza mediana è di circa 3 anni con la terapia
convenzionale mentre risulta prolungata a circa 5 anni con le terapie ad alte dosi2; 3.
L’età è uno dei criteri discriminanti per la scelta della terapia più idonea. Vi è ormai
accordo che tutti i pazienti giovani debbano essere avviati a terapie ad alte dosi, mentre
tali terapie risultano più difficilmente applicabili a pazienti anziani in cui spesso si
associano altre patologie. E’ però difficile definire cosa si intenda per paziente anziano.
Infatti, su casistiche selezionate, terapie ad alte dosi sono state applicate anche a pazienti
fino a 70 anni di età con risultati del tutto paragonabili a quelli ottenuti in pazienti più
giovani4. Tuttavia si può affrontare il problema in modo inverso, cercando di definire cosa
si intenda per paziente giovane valutando l'età mediana dei pazienti inseriti in una serie di
studi sulle alte dosi. In generale in questi studi l’età mediana è inferiore a 50 anni: 231
pazienti con età mediana di 50 anni sono stati trattati con trapianto autologo dal gruppo di
Barlogie3, 63 pazienti con età mediana di 44 anni sono stati trattati da Fermand5, e 334
pazienti con età mediana di 49 anni sono stati iscritti nel Registro Europeo6. L’unica
eccezione è lo studio randomizzato francese di Attal, che ha arruolato 100 pazienti avviati
ad una procedura trapiantologica e la cui età mediana era di 57 anni; il 42% dei pazienti di
età compresa tra 60 e 65 anni però non è riuscito a completare l’iter terapeutico previsto a
causa dell’elevata tossicità2. Nel nostro centro negli ultimi 4 anni sono stati 37 i pazienti
affetti da mieloma multiplo avviati al trapianto autologo: 34 (92%) di età inferiore a 55
anni e 3 (8%) di età compresa tra i 55 e i 70 anni. Dall’insieme di questi dati si può dunque
concludere che nel mieloma multiplo, al di fuori di singoli pazienti selezionati, per anziani
si debbano intendere pazienti con età superiore ai 55 anni.
I pazienti giovani vengono attualmente avviati a terapie ad alte dosi, anche se è
ancora da definire quali sottogruppi di pazienti maggiormente beneficino di queste
procedure ed ancora debba essere eseguito uno studio prospettico su grandi numeri e
sulla base di nuovi parametri prognostici7. Al contrario non è ancora definito quale sia il
miglior trattamento per il paziente anziano. Sempre dall’analisi dei dati della letteratura
risulta che oltre i 70 anni il golden standard per ora rimane la terapia convenzionale, che si
è dimostrata efficace nel 50% dei pazienti anziani con una buona tollerabilità e un
allungamento della sopravvivenza. E’ quindi evidente che la fascia di età più critica è
quella compresa fra i 55 ed i 70 anni in cui è necessario definire nuove strategie
terapeutiche più efficaci del trattamento convenzionale ma meno tossiche dei trattamenti
ad alte dosi riservati ai pazienti giovani.
Alla fine degli anni ottanta la disponibilità di fattori di crescita emopoietici ha
permesso la mobilizzazione nel sangue periferico di un elevata quantità di cellule
progenitrici dal midollo emopoietico (denominate Peripheral Blood Progenitor Cells,
PBPC)8. Queste cellule possono essere raccolte, conservate a 4°C o in azoto liquido e
64
reinfuse dopo terapie con Melphalan ad alte dosi. Grazie al supporto di PBPC il periodo di
mielosoppressione si è decisamente ridotto: la granulocitopenia durava mediamente
quattro settimane dopo alte dosi senza supporto, circa tre settimane dopo terapia ad alte
dosi e trapianto di midollo ed infine meno di due settimane dopo alte dosi e supporto di
PBPC. Inoltre la mortalità del trapianto è scesa a meno del 2%. Le PBPC sono risultate una
valida alternativa al midollo osseo per una serie di vantaggi: assenza di anestesia generale,
procedura meno invasiva, possibilità di raccolta anche in casi di midolli fibrotici e una
significativa minore durata della pancitopenia in seguito alla reinfusione. Il più rapido
recupero ematopoietico risulta in un minor uso di antibiotici ev, in un minor fabbisogno
trasfusionale e infine una riduzione del periodo di ospedalizzazione. Quindi l’uso delle
PBPC oltre ad un benefecio clinico si associa ad un vantaggio economico9.
L’uso delle PBPC ha consentito di estendere l’applicazione delle terapie ad alte dosi
a patologie come il mieloma multiplo in cui i pazienti risultano comunque più anziani
rispetto ad altre patologie onco-ematologiche. La mobilizzazione delle PBPC è stata
modificata nel mieloma multiplo rispetto agli schemi inizialmente adottati per i pazienti
affetti da linfoma al fine di ridurre la tossicità ma ancora permettere una adeguata
raccolta. Dopo infusione di ciclofosfamide (7 g/m2) e G-CSF alla dose di 5 µg/kg è
possibile osservare mediamente la comparsa nel sangue periferico di 126 cellule
CD34+/ l. L’uso di ciclofosfamide alla dose di 3 g/m2 seguita da una dose doppia di GCSF (10 µg/kg) ha consentito un’analoga mobilizzazione di PBPC (102 CD34+/ l),
permettendo inoltre di eseguire l’intera procedura in regime di Day Hospital in pazienti di
età inferiore a 70 anni.
Questi studi preliminari hanno permesso di definire un nuovo protocollo
terapeutico: lo schema CM10. Tale schema prevedeva la raccolta di PBPC dopo
ciclofosfamide 3 g/m2 , seguita da Melphalan 60 mg/m2 e reinfusione di PBPC non
criopreservate ma stoccate per 48 ore ad una temperatura di 4°C. Ogni ciclo veniva
ripetuto ad una distanza di 6 mesi l’uno dall’altro per un totale di 3 cicli. Questo primo
studio pilota condotto su 30 pazienti in fase di recidiva, con età mediana di 63 anni, si
proponeva di valutare la fattibilità e la tossicità di una dose di Melphalan doppia rispetto
alla dose convenzionale utilizzata a scopo palliativo in fase terminale. Lo schema CM
presentava una tossicità ematologica analoga a quella di un gruppo storico di controllo
trattato con Melphalan 30 mg/m2 ev seguiti da solo G-CSF. Da rilevare che a seguito di 3
dosi “intermedie” di Melphalan, nonostante si trattasse di un gruppo di pazienti in fase di
recidiva, il 30% dei pazienti raggiungeva la CR. La durata di remissione risultava inoltre
prolungata rispetto ai pazienti trattati con 30 mg/m2 di Melphalan seguiti da solo G-CSF.
Tali risultati sono stati ottenuti su pazienti selezionati ed in uno studio non randomizzato.
Tuttavia la percentuale di CR raggiunta risulta nettamente superiore a quanto fino ad ora
segnalato con le terapie convenzionali. Sulla base di questi dati il Gruppo Italiano per lo
Studio del Mieloma Multiplo ha iniziato uno studio nazionale multicentrico che ha
permesso di arruolare, da dicembre 1994 a maggio 1997, 68 pazienti alla diagnosi, con età
mediana di 65 anni (manoscritto sottomesso). I risultati confermano che la dose-intensity
del Melphalan possa essere aumentata grazie alla reinfusione di PBPC con una tossicità
accettabile. La ripetizione dello schema CM riduce pero’ la capacità di mobilizzazione:
questa è moderata al secondo ciclo, ma diventa consistente al terzo (CD34+ x 106/Kg: 2.8
al primo ciclo, 2.3 al secondo, 1.5 al terzo) e tale da non consentire una adeguata raccolta.
Sulla base di questa considerazione si è ritenuto opportuno eseguire una singola
mobilizzazione con ciclofosfamide seguito da due o tre procedure di staminoaferesi. Le
65
cellule staminali così raccolte venivano suddivise in più sacche criopreservate in azoto
liquido, potendo cosi’ essere utilizzate sia alla diagnosi che in recidiva.
In un secondo studio pilota abbiamo valutato la tossicità e l’efficacia di un
protocollo (MEL100) con dosi intermedie di Melphalan (100 mg/mq) con supporto di
cellule staminali ripetuto ogni due mesi in pazienti alla diagnosi di età superiore ai 55
anni11. Questo protocollo prevede due cicli DAV (Desametasone, Adriamicina e
Vincristina) in regime di Day Hospital, un ciclo con Ciclofosfamide 4 g/mq e successiva
mobilizzazione di cellule staminali periferiche. Le raccolte di PBPC sono risultate
sistematicamente contaminate da cellule tumorali12, ma non si è osservata alcuna
correlazione tra il numero di plasmacellule reinfuse e l’andamento clinico dei malati, per
cui al momento non viene effettuata alcuna purificazione in vitro13. A 4 settimane dalla
Ciclofosfamide viene somministrato il Melphalan 100 mg/mq e reinfuse le cellule
staminali precedentemente criopreservate. Il MEL100 viene ripetuto ogni 2 mesi per un
totale di 2 cicli nei pazienti che raggiungono la remissione completa e per un totale di 3
cicli per chi è in remissione parziale dopo il secondo ciclo. Da novembre 1993 a novembre
1997 sono stati arruolati 71 pazienti, di cui l’89% ha completato il programma. L’età
mediana dei pazienti arruolati è di 64 anni (range 55-75). Dopo il secondo MEL100 24
pazienti hanno raggiunto la remissione completa e hanno quindi interrotto il trattamento;
63 pazienti sono risultati elegibili per il terzo ciclo. I cicli sono stati nel complesso ben
tollerati e l’aplasia ha avuto una durata inferiore alla settimana in tutti i pazienti. Il tempo
mediano intercorso tra il primo e il secondo ciclo è stato di 2.3 mesi e tra il secondo e il
terzo di 2.2 mesi. La frequenza di remissioni parziali è stata di 36% dopo i DAV, 43% dopo
la Ciclofosfamide, 77% dopo il primo MEL100, 86% dopo il secondo MEL100, 88% dopo il
terzo MEL100. La frequenza di remissioni complete è stata di 2% dopo i DAV, 3% dopo la
Ciclofosfamide, 19% dopo il primo MEL 100, 34% dopo il secondo e 47% dopo il terzo.
Nonostante l’aumento della dose di Melphalan e l’età mediana dei pazienti non si sono
avuti decessi correlati al trattamento.
Dopo un follow-up mediano di 30 mesi il 55% dei pazienti sono vivi in remissione,
il 30% sono recidivati, il 4% sono in progressione di malattia e l’11% sono dispersi. Tra i
pazienti recidivati il 13% sono deceduti per progressione di malattia. Pur non essendo un
protocollo randomizzato, i risultati appaiono interessanti: questo gruppo di pazienti è
stato confrontato con 71 pazienti analoghi per età e 2-microglobulina trattati con MP ed è
risultata superiore sia la sopravvivenza libera da eventi (34 mesi vs 17.7 mesi, p<0.001) che
la sopravvivenza mediana (>56 mesi vs 48 mesi, p<0.01). Questo studio ci permette di
affermare che il MEL100 è valida alternativa terapeutica per i pazienti che per età o per
condizioni cliniche scadute non sono arruolabili in un protocollo ad alte dosi
autotrapiantologico. Non essendo ancora definita la superiorità di queste terapie a dosi
“intermedie” rispetto alla terapia convenzionale nel paziente anziano in termini di risposte
e di sopravvivenza, è il Gruppo Italiano per lo Studio del Mieloma Multiplo ha iniziato
uno studio randomizzato (M97G).
E’ fortemente probabile che gli studi in corso confermeranno che le terapie
ad alte dosi risultano indicate per tutti i pazienti con MM con età fino a 70 anni: alte dosi
“convenzionali” (Melphalan 200 mg/m2 ) per pazienti al di sotto dei 55 anni e dosi
“intermedie” per pazienti più anziani. Questa tendenza di applicare le alte dosi a quasi
tutti i pazienti con mieloma multiplo è confermata da una valutazione delle scelte
terapeutiche effettuate nei i pazienti venuti alla nostra osservazione negli ultimi 4 anni: i
pazienti di età compresa tra i 55 e i 70 anni nel 60% dei casi hanno ricevuto una terapia a
dosi “intermedie” con supporto di cellule staminali periferiche, nel 38% dei casi sono stati
66
trattati con terapia convenzionale e nel 2% dei casi hanno ricevuto un trapianto autologo
convenzionale.
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68
TRANSPLANTATION OF HEMATOPOIETIC STEM CELLS FROM
UNRELATED VOLUNTEER DONORS
Claudio Anasetti, M.D.
Immunogenetics Program, Clinical Research Division, Fred Hutchinson Cancer Research Center,
Seattle, Washington 98109.
Address Correspondence to:
Claudio Anasetti, M.D.
Fred Hutchinson Cancer Research Center
1100 Fairview Ave. N.
Seattle, WA 98109
Phone (206) 667-7115
Fax (206) 667-5255
E-Mail [email protected]
ABSTRACT
Transplantation of hematopoietic stem cells from human leukocyte antigen (HLA)compatible unrelated volunteer donors have become feasible for more than 70% of
patients without a family match. Chronic myeloid leukemia is the most common
indication for unrelated donor marrow transplantation. The 5-year survival for patients up
the age of 50 years has improved to 75% with transplantation in the chronic phase within
the first year from after diagnosis, the selection of a closely matched donor, and the
prophylactic use of fluconazole and ganciclovir. However, graft failure, and acute and
chronic graft-versus-host disease (GVHD) remain frequent causes of morbidity and death.
The incidence of graft failure is correlated with multiple Class I HLA-A, B, and C
mismatching in the donor. The risk of grades III-IV acute GVHD is highest with Class II
HLA-DRB1 and DQB1 mismatching in the recipient. Refractoriness to glucocorticoid
therapy is the dominant factor predisposing to chronic GVHD. Mismatching for a single
Class I or Class II allele has no effect on survival, but mortality is increased by
simultaneous mismatching for Class I and Class II alleles. Transplantation of marrow from
an HLA-matched, unrelated donor is safe and effective therapy for selected patients with
hematological malignancy. Since fully matched donors will not available for many
patients, the challenge is developing methods for marrow transplantation that can
decrease morbidity and improve survival despite genetic disparity between donor and
recipient.
OVERVIEW
69
Transplantation of marrow stem cells from healthy individuals was initially
employed for treatment of patients with marrow failure or advanced leukemia, and
successful engraftment was achieved only by selecting a twin donor or a sibling donor
identical for human leukocyte antigens (HLA) (1). Subsequent studies of partially HLAmatched related donors demonstrated that the degree of HLA incompatibility correlated
with the incidence of graft failure and graft-versus-host disease (GVHD) (2, 3). In patients
with hematologic malignancy, transplants from relatives incompatible for multiple HLA
loci have been associated with lower survival than transplants from HLA-identical siblings
(3). These results demonstrated that HLA is the major histocompatibility complex in man
and provided the basis for testing the use of HLA compatible unrelated donors for
patients without a family match. Since less than 30% of patients in developed countries
have an HLA-matched sibling, the only chance of finding a compatible donor for most
patients in need of an allogeneic stem cell transplant is through the identification of an
HLA-compatible unrelated volunteer.
Unrelated donor transplants have become feasible and successful thanks to the
identification of HLA genes and their functional products (4), the development of precise
and efficient HLA typing methods using DNA technology (5), and the development of a
network of registries containing more than five million HLA-typed donors worldwide (6).
More than two thousands patients with acute and chronic leukemias, lymphoma,
myeloma, myelodysplasia, aplastic anemia, congenital errors of metabolism and
immunodeficiency syndromes are transplanted each year in the world using marrow or
blood stem cells from unrelated volunteers. Many patients have achieved complete
immunological tolerance and have become long-term survivors (7,8). A higher incidence
of GVHD, however, was found in unrelated than in sibling transplants despite matching
for HLA-A, B, and DR, indicating that the methods used initially for the assessment of
histocompatibility were inadequate (8,9).
HISTOCOMPATIBILITY
HLA antigens are cell surface molecules encoded by Class I A, B, C and Class II DR,
DQ, and DP genes that are located on human chromosome 6. The function of HLA
molecules is to bind and present antigenic peptides to T lymphocytes, one determinant
step in the initiation of the immune response. To bind the variety of ever changing
environmental antigens, the HLA complex has evolved to become the most polymorphic
set of known human genes. T cells from one individual react vigorously to mismatched
HLA molecules on the surface of antigen-presenting cells from another individual.
Polymorphic specificities of HLA-A, B, C, DR and DQ antigens have been routinely
typed by alloantisera. A serologically defined specificity, however, does not necessarily
represent a unique allele. Analysis of HLA-B27 molecules by gene sequencing, for
example, has revealed that there are at least seven distinct alleles, defined B*2701-2707,
each of which encode a unique primary amino acid sequence that can be distinguished by
T cells (10). Hybridization of sequence specific oligonucleotide probes (SSOP) to
polymerase chain reaction (PCR)-amplified DNA has proven to be a powerful method for
identifying polymorphisms of Class II loci. Typing with panels of SSOPs can reveal
specific alleles indistinguishable by serological typing. A single incompatibility for DRB1
70
or DQB1 alleles distinguished by SSOP but not by serology (for example: DR4/DRB1*0401
versus DR4/DRB1*0402) is associated with a significant increased risk of acute GVHD in
either unrelated or related marrow transplants (8, 11). There is as yet insufficient data to
assess the relevance of DP mismatching to GVHD development after unrelated donor
transplants.
The relevance of Class I allele mismatching to clinical marrow transplantation has
first been suggested by the occurrence of marrow graft rejection in a case where an
unrelated donor was mismatched only for HLA-B*4402 versus B*4403 two alleles that
differ by a single amino acid residue but are serologically indistinguishable. Anti B*4403specific CTL (cytotoxic T lymphocytes) were found in the patient's blood following
rejection of the B*4403-positive donor graft (12). Initial data using sequencing of PCRamplified DNA have indicated that mismatching for Class I HLA-A, B and C alleles is a
risk factor for marrow graft failure and death (13,14). These observations have
demonstrated that serological typing methods are not adequate for identifying all HLA
antigens relevant to marrow transplantation. At this time, HLA Class I gene typing is
becoming a routine technique in many tissue typing laboratories.
Theoretical considerations have suggested that pairs of unrelated individuals are
more likely to have disparity for non-HLA minor histocompatibility genes than occurs
between related individuals (15).
Unfortunately, only two non-HLA minor
histocompatibility genes has been well characterized in humans: the male-associated gene
H-Y, and HA-1 (16,17). Functional assays may test reactivity of donor T cells against nonHLA minor histocompatibility determinants of the recipients, and vice versa (18). Both
functional and genetic assays may help to select more closely matched donors, but they
have not yet been widely implemented for donor selection.
REGISTRIES OF HLA TYPED VOLUNTEER DONORS
Because of the enormous polymorphism of HLA-A, B and DR genes, the probability
of matching two random individuals for both alleles at all three loci is small. The success
of matching is higher than expected, however, because of non-random association
between the individual alleles of one HLA locus with alleles of the other loci on the same
chromosome, a phenomenon termed linkage disequilibrium. As for racial traits, HLA
types are associated with the ethnic background of the individual person, and populations
living in different geographic areas demonstrate variable degrees of HLA polymorphism
that correlate to some extent with the ethnic heterogeneity of the population. Therefore,
the probability of matching a patient with a donor in a pool of unrelated volunteers
depends on the number of donors in the pool, the ethnic heterogeneity of the population
and the donor pool, the relationship of the patient with the ethnic composition of the
donor pool, and the HLA diversity of the ethnic groups. The problem of finding a suitable
donor becomes especially complex when intergroup marriages have occurred.
The United States of America represent an example of great complexity. In 1986 it
was predicted that a marrow donor registry containing at least 100,000 volunteers was
needed to find an HLA-A, B and DR match for at least 50% of patients (19). The United
71
States National Marrow Donor Program (NMDP) began search operations in September
1987. Initially the donor registry contained HLA data for approximately 18,000
volunteers. By 1998, the NMDP registry contained more than 3.4 million donors typed for
HLA-A and B and more than 1.5 million also typed for DR. The NMDP network includes
105 donor centers, 111 marrow collection centers and 76 transplant centers located in 40
different states and 10 countries. In addition, NMDP maintains cooperative donor search
agreements with other national networks in Australia, Austria, Canada, United Kingdom,
France and Switzerland which combine more than 500,000 additional donors. This
international donor search agreement expands the pool of HLA typed unrelated
volunteers that can be accessed through the NMDP to more than 4 million. By 1998 more
than 7,000 patients have been transplanted through NMDP.
DONOR SEARCH
The probability of finding an HLA-A, B, DR match at the initial search has increased
from 10-15% in 1987 to 80% in 1998 and has crossed the 50% mark, just when the number
of HLA-A, B, and DR-typed volunteers was 100,000. Some patients also find a match
through DR typing of HLA-A and B matched donors.
By molecular typing,
approximately 2/3 of HLA-A, B, DR matched donors are also identical for the HLA-DRB1
allele (8). All but 3% of patients find at least one HLA-A and B matched donor. Since 80%
of the donors in the registry are Caucasian, the probability of finding a match is highest for
Caucasians and lower for other racial groups which are represented in North America and
the NMDP as minorities.
The time interval from the initiation of the search to transplant varies according to
the patient's HLA type and diagnosis but currently averages 3-4 months. This long search
time is a concern especially for patients with marrow failure or acute leukemia. A
substantial amount of this time is necessary for contacting donors to provide blood
samples for additional typing. With recent advances in molecular HLA typing technology
and with the establishment of a repository containing donor DNA it may no longer be
necessary to call in specific donors for complete typing. These changes might decrease the
duration of the donor search.
RESULTS OF UNRELATED DONOR TRANSPLANTS
Engraftment
One of the mechanisms for failure of unrelated donor grafts is immunological
rejection of donor hematopoietic cells by recipient T cells that recognize incompatible HLA
determinants (12). It has also been proposed that recipient natural killer cells might
mediate rejection of marrow grafts by destroying donor hematopoietic cells incompatible
for HLA Class I determinants (20,21). Consistent with this hypothesis, we found that the
risk of graft failure is increased by HLA-A, B and C mismatching of the donor (13,14).
A matched case-control study was designed in Seattle to evaluate the role of HLA-C
disparity assessed by DNA sequencing methods in 21 patients who experienced graft
failure (cases) following transplantation with unmanipulated marrow (13). The donor was
72
unrelated, either HLA-A, B serologically matched, DRB1 matched (n = 14) or single locus
mismatched (n = 7) with the recipients. Graft failure was more frequent in patients with
CML than patients with any other diagnosis. For each case, two patients who successfully
engrafted were selected as controls based on similarity for factors known or suspected to
influence engraftment. The estimated odds ratio (OR) of graft failure for an HLA-C
mismatch relative to match was 5.2 (95% CI: 1.4, 19; p=0.01). Serologically undetectable
HLA-A or HLA-B allele disparity was also associated with graft failure. The association
between HLA-C disparity and graft failure remained significant even after accounting for
the contribution of HLA-A and B allele disparity (OR 4.0; 95% CI: 1.1, 15; p=0.03).
A subsequent study utilized DNA amplification and sequencing to identify the
HLA-A, B, and C alleles of 300 patients with CML and their donors (14). Graft failure
occurred in 3/146 (2%) HLA-A, B, C, DRB1 and DQB1 compatible transplants, and in no
cases of transplants incompatible only at DRB1 or DQB1. The incidence of graft failure
was increased with multiple Class I A, B, or C mismatching (9/31 cases, 29% incidence; OR
10.5, 95% CI: 2.2 to 49.8; p=0.003) or Class I A, B or C combined with Class II DRB1 or
DQB1 mismatching (4/34 cases, 12% incidence; OR 10, 95% CI: 1.7 to 58.4; p=0.01). These
results show that mismatch for HLA-A, B and C alleles that are not appreciated by
serological typing is biologically important. Furthermore, data indicate that mismatching
for a single Class I HLA allele does not increase the risk of graft failure in patients
receiving conditioning with cyclophosphamide plus whole body irradiation. However,
mismatching for multiple Class I HLA alleles or mismatching for Class I and Class II HLA
alleles combined significantly increases the risk of graft failure.
Additional factors associated with an increased incidence of graft failure are
sensitization of the recipient against donor antigens, a less intense conditioning regimen
before transplantation, a less intense post transplant immunosuppression, lower marrow
cell dose, and by depletion of donor T lymphocytes from the marrow inoculum. The use
of hematopoietic growth factors can accelerate engraftment, but their utility in decreasing
the risk of graft failure and improving outcome of unrelated transplants remains
unproven (22). Conversely, the use of blood stem cells is expected to improve the
probability of engraftment, especially in HLA incompatible transplants that are depleted
of T cells (23).
Acute GVHD
Clinical GVHD results from an immune reaction of mature donor T lymphocytes
contained in the marrow inoculum against histocompatibility determinants of the
recipient. This reaction is directed towards normal tissues such as skin, gastrointestinal
mucosa and hepatic biliary tract, and also against normal as well as malignant
lymphohematopoietic cells. Human clinical trials evaluating T cell-depleted marrow
transplants have found a reduction in incidence of GVHD but also an increase in the
incidence of graft failure and relapse of malignancy (24). Current studies are evaluating
whether less complete removal of donor T cells or T cell subset depletion can be sufficient
to prevent GVHD without increasing the risk of graft failure and leukemia relapse. Initial
data from the Milwaukee transplant team reported favorable results when a low degree
(1.5 log) of T cell depletion was achieved by in vitro treatment of marrow cells with the
anti-T cell receptor antibody T10B9 and complement in recipients of unrelated donor
grafts (25,26).
73
The alternative approach for GVHD prevention is to deliver post-transplant
immunosuppression. The first large series of successful unrelated transplants was
reported after the introduction of combination therapy with cyclosporine and
methotrexate used in 1985. The incidence of moderate to severe acute GVHD was
significantly higher in HLA matched unrelated transplants (79%) than in HLA matched
sibling transplants (35%) (9). In a subsequent study of patients less than 36 years of age,
the probability of moderate to severe acute GVHD was 95% in 42 transplants mismatched
for one A, B or D/DRB1 locus compared to 70% in 70 HLA-A, B, D/DRB1 matched
unrelated donor transplants (p=<0.05) (27). Since post transplant immunosuppression
with cyclosporine and methotrexate is insufficient to control GVHD in most unrelated
transplants, alternative modalities for GVHD prevention are being explored.
The extent to which unrecognized mismatching for alleles that encode DR1-18
contribute to the increased risk of acute GVHD and overall survival was initially
investigated in patients receiving transplants from HLA-A, B, DR serologically matched
donors (11). DRB1 alleles were typed by SSOP hybridization methods and selected alleles
were confirmed by DNA sequencing. Of the 365 pairs, 306 were matched and 59 were
mismatched for DRB1. The probability of moderate to severe acute GVHD was 47% for the
matched and 70% for the mismatched patients. Compared to mismatched patients, the
estimated relative risk (RR) of GVHD for matched patients was 0.58 (95% CI: 0.40, 0.84).
DRB1 matching decreased the risk of transplant-related mortality (RR 0.65; CI: 0.44, 0.96)
and was associated with decreased overall mortality (RR 0.7; CI: 0.5, 0.99). Acute GVHD
and survival after unrelated marrow transplantation are significantly improved by
matching DRB1 alleles of the donor and recipient.
A further study to address the relevance of DQB1 matching was conducted in 449
HLA-A, B, and DR serologically matched transplants (28). Molecular typing of HLADRB1 and DQB1 revealed 335 DRB1 and DQB1 matched pairs; 41 DRB1 matched and
DQB1 mismatched pairs; 48 DRB1 mismatched and DQB1 matched pairs; and 25 DRB1
and DQB1 mismatched pairs. The conditional probabilities of grades III-IV acute GVHD
were 42%, 61%, 55%, and 71%, respectively. The relative risk associated with a single
locus DQB1 mismatch was 1.8 (CI: 1.1, 2.7; p=0.01), and the risk associated with any HLADQB1 and/or DRB1 mismatch was 1.6 (CI: 1.2, 2.2; p=0.003). The dominant role of
incompatibility for HLA-DRB1 and DQB1 in the development of acute GVHD has
remained even after accounting for mismatching at HLA-A, B, and C alleles (14). These
results provide evidence that matching donors and recipients for DRB1 and DQB1 can
further decrease the incidence of GVHD. Therefore, prospective matching of patients and
donors for DRB1 and DQB1 alleles is warranted.
Chronic GVHD
Beyond 100 days from transplantation, GVHD may involve skin, oral mucosa, eyes,
liver and lungs and assume features resembling scleroderma, biliary cirrhosis and
obliterative bronchiolitis. Approximately 35% of patients transplanted with unmodified
marrow grafts show manifestations of chronic GVHD on day 100. These patients and an
other 35% who develop chronic GVHD after day 100 require continued
immunosuppressive treatment. The incidence of chronic GVHD is increased in recipients
of female grafts, and in patients with acute GVHD who fail to achieve a complete and
74
sustained response to glucocorticoids (29). Approximately 30% of all patients do not
develop chronic GVHD, and in this situation, immunosuppression can be terminated by 56 months after transplantation.
The median time for successful withdrawal of
immunosuppressive therapy is 18 months, but 3% of patients continue to require some
degree of immunosuppression four years or more after transplant (8). The duration of
therapy for chronic GVHD is increased in patients older than 20 year old, in recipients of
HLA-incompatible grafts, and in male patients transplanted from a female donor (29).
Twenty-five to 30% of all patients die from complications of chronic GVHD while
receiving immunosuppressive therapy. Mortality is increased in patients with history of
glucocorticoid-resistant acute GVHD, and in those patients with serum bilirubin greater
than 2 mg/dl or platelet count less than 100,000/ L at the onset of chronic GVHD (29). By
one year after transplantation 75% of surviving patients have recovered a good
performance status and by four years 95% have done so. Permanent disability may be
caused by side effects of glucocorticoid therapy, cataract formation, osteoporosis, and
avascular bone necrosis or by complications of chronic GVHD such as scleroderma and
chronic obstructive pulmonary disease (29).
Opportunistic Infections
Immune reconstitution is severely impaired by acute and chronic GVHD and by
prolonged immunosuppressive treatment. Repopulation by mature T cells and recovery
of immunoglobulin production is extremely slow after unrelated donor transplantation.
Immunodeficiency and glucocorticoid therapy predispose patients to opportunistic
infections, predominantly with aspergillus and cytomegalovirus (CMV). Disseminated
aspergillus has an incidence of approximately 15% and is associated with more than 90%
mortality in unrelated transplants. No improvement has been achieved in the prevention
or treatment of aspergillus infection over the last several years. CMV seropositive patients
have an increased incidence of CMV disease and CMV-associated mortality after
transplantation compared to CMV seronegative patients (7, 27). The risk is also slightly
increased in seronegative patients transplanted from seropositive donors. Controlled
clinical trials have shown that ganciclovir can prevent cytomegalovirus disease in CMV
seropositive recipients of allogeneic marrow transplants (30). Post transplant prophylaxis
or preemptive therapy with ganciclovir at the first evidence of CMV reactivation can
significantly decrease CMV morbidity and mortality in seropositive recipients of marrow
transplants from unrelated donors (31). Prophylaxis with fluconazole has also improved
survival by decreasing the risk of disseminated Candida Albicans infection and the use of
amphotericin B (31,32).
Recurrent Malignancy after Transplantation
The probability of relapse after transplantation depends predominantly on the
diagnosis, stage of disease, and tumor load at the time of transplant (33,34). There is a
trend however, for a lower probability of relapse in patients transplanted from an
unrelated donor than patients transplanted from a HLA-matched sibling (9). This trend is
particularly apparent in patients transplanted for CML in chronic phase. The data from
Seattle indicate a 5% probability of relapse in unrelated transplants compared to 18% in
HLA matched sibling transplants. Data from Milwaukee indicates a 5% relapse
probability in unrelated transplants compared to approximately 50% in HLA matched
siblings treated with the same T cell depletion regimen (35). There is also a further
75
reduction in the probability of relapse after transplantation by using an HLA incompatible
as opposed to a HLA compatible unrelated donor (34).
Survival
The probability of survival after transplantation depends predominantly on the
diagnosis and stage of the disease at the time of transplant. Chronic myelogenous
leukemia is the most common indication for unrelated donor transplantation and
therefore provides the largest homogeneous group of patients for analysis. In a study of
CML patients transplanted in Seattle from 1985 through 1994, the probability of diseasefree survival at 5 years was 56% for 196 patients transplanted in first chronic phase, 45%
for 17 patients in second chronic phase, 42% for 71 patients in accelerated phase and 6%
for 35 patients in blast phase (8). Survival was 74% at 5 years in patients transplanted in
chronic phase within the first year of diagnosis (31). These data, therefore demonstrate
better survival for patients transplanted early in the course of the disease. Over the last 10
years, survival has improved thanks to the use of antiviral and antifungal prophylaxis,
and the selection of better matched donors (14,31,32,36). Multiple Class I mismatching
(hazard ratio [HR] 3.5, 95% CI: 2.1 to 5.9; p<0.001) or Class I combined with Class II
mismatching between donor and recipient (HR 3.3, 95% CI: 2.0 to 5.5; p<0.001) correlated
with increased patient mortality. Thus, molecular-based methods for pretransplant
assessment of Class I and Class II compatibility should be utilized for the selection of
unrelated marrow donors.
Results for patients with acute leukemia are less favorable, because until now most
patients treated with unrelated transplantation have had advanced disease. Survival has
exceeded 50% in patients with high risk AML or ALL transplanted in the first remission
(34,37). Risk factors for an increased risk of transplant-associated mortality are older
patient age, positive patient CMV serology in absence of ganciclovir prophylaxis, low
marrow cell dose, and lack of compliance with post-transplant immunosuppression (7, 8,
34). HLA mismatch has been associated with worse survival in one study (7) but not in
another (34). This apparent discrepancy likely reflects different levels of precision in HLA
typing and different criteria for matching among transplant centers (7, 34).
CONCLUSION
Use of an HLA-compatible unrelated donor has become standard practice for patients who
need an allogeneic marrow transplant and lack a HLA-compatible family member.
Current efforts are directed towards improving the probability of finding a donor by
expanding the size and the genetic heterogeneity of donor registries, decreasing the search
time by implementing more efficient strategies for donor typing, and improving outcome
by selecting better matches. Clinical studies are investigating new approaches for GVHD
prevention and treatment. Improved treatment protocols could make unrelated marrow
transplantation safer and simpler, thereby allowing this therapeutic approach to be
exported from few selected highly specialized centers to a larger number of marrow
transplant units worldwide.
ACKNOWLEDGMENT
76
This work was supported by grants AI 33484, CA 18029, CA 18221, CA 15704, HL 36444
and AR 39153.
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80
Trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore familiare HLA
aploidentico incompatibile per tre loci.
M.F. Martelli, F. Aversa, A. Tabilio, A. Velardi
Un impiego piu’ ampio del trapianto di cellule staminali emopoietiche allogeniche
nel trattamento di pazienti con malattie ematologiche e’ frenato dalla disponibilita’ di
donatori HLA compatibili nell’ambito dei consanguinei o del registro di volontari
geneticamente non correlati (1, 2, 3).
D’altro canto, quasi tutti i pazienti che possono beneficiare di un trapianto, ma che
non hanno un donatore compatibile, dispongono almeno di un potenziale donatore tra i
familiari HLA aploidentici incompatibili per tre loci. Simili coppie donatori-riceventi sono
usualmente incompatibili in ambedue le direzioni “host versus graft” e “graft versus
host”. Queste alloreazioni sono in gran parte mediate in vivo dai linfociti T, ma anche
l’alloreattivita’ delle cellule Natural Killer (NK) puo’ avere un ruolo nell’esito clinico dei
trapianti incompatibili per un intiero aplotipo (4). In particolare, nel contesto di un
trapianto incompatibile per tre loci, le cellule NK del donatore e/o del ricevente possono
essere responsabili di tre situazioni :
1. un potenziale effetto “graft versus host” quando il ricevente non esprime gli alleli
MHC riconoscibili dai recettori inibitori (KIR) delle cellule NK del donatore;
2. un potenziale effetto “host versus graft” mediato dalle cellule NK, quando il
donatore non esprime gli alleli MHC riconoscibili dai KIR delle cellule NK del
ricevente;
3. nessuna alloreattivita’ NK quando gli alleli mismatched del donatore e del ricevente
sono riconosciuti dai KIR sia del donatore che del ricevente.
Nel corso degli anni ’80, tutti i tentativi clinici di effettuare trapianti da donatore
incompatibile per tre loci dettero esito negativo a causa dell’elevatissima incidenza di
GvHD severa nei trapianti non manipolati (T-repleti) (5,6) e, per converso, di rigetto dei
trapianti il cui inoculo era stato sottoposto ex vivo ad intensa T deplezione (7,8).
Attorno alla fine degli anni ’80, risultava evidente che, nei modelli sperimentali, il
trapianto incompatibile T depleto poteva essere effettuato con successo, attraverso
opportune modificazioni del regime di condizionamento e/o della composizione
dell’inoculo.
Ad esempio, si dimostro’ che la risposta del sistema immunologico residuo
dell’ospite era superabile tramite l’impiego, accanto alla TBI, di agenti anti cellule T a
bassa tossicita’ extramidollare, quali l’ATG, gli anticorpi monoclonali anti-T (9) e la
Fludarabina (10). L’attecchimento di un trapianto T depleto incompatibile poteva, poi,
essere migliorato addizionando alla TBI farmaci mieloablativi come il Busulfano, il
Dimetilmyleran (11) e il Tiotepa (12).
Per quanto riguarda la composizione dell’inoculo e’ merito precipuo di Y. Reisner
l’aver dimostrato nel modello sperimentale murino che l’impiego di megadosi di cellule
staminali incompatibili T-depletate consentiva di ottenere l’attecchimento nella piu’ parte
dei riceventi anche in condizioni sperimentali particolarmente difficili, ad esempio in topi
81
presensibilizzati con linfociti del donatore, o in animali il cui sistema immune era
parzialmente ricostituito prima del trapianto tramite l’aggiunta di un certo numero di
timociti maturi dell’ospite (13) e infine in topi irradiati con dosi subletali (6.5 Gy) in cui un
numero rilevante di T linfociti sopravviveva dopo l’irradiazione (14).
Nel 1993, il nostro gruppo, sulla base delle conoscenze derivanti dai modelli
sperimentali, ha disegnato un regime di condizionamento in cui, successivamente
all’irradiazione corporea totale (8 Gy in un’unica frazione ad alto dose rate), venivano
impiegati Tiotepa (10 mg/Kg), Ciclofosfamide (60 mg/Kg/die per due giorni), ATG (5
mg/die per 5 giorni) con lo scopo di potenziare l’effetto mieloablativo e
immunosoppressivo (15). Inoltre, poiche’ nei modelli sperimentali una dose elevata di
cellule staminali si era rivelata come uno dei fattori piu’ importanti nel promuovere
l’attecchimento di un trapianto incompatibile T-depleto, venne impiegato un inoculo
contenente un elevatissimo numero di cellule CD34+ (circa 10x106/Kg). Per raggiungere
questo livello, vennero impiegati, accanto al midollo osseo, progenitori ematici circolanti
raccolti dal sangue periferico dopo stimolo con G-CSF. Sia il midollo osseo che le cellule
mononucleate periferiche erano depletate dei T-linfociti con la metodica della E
rosettazione e agglutinazione con la lectina soybean. L’inoculo conteneva in media un
quantitativo di cellule CD3+ pari a 2x105/Kg di ricevente.
Questo primo studio pilota, effettuato tra il 1993 e il 1995, comprendeva 36 pazienti
affetti da Leucemia Acuta Mieloide (LAM) e Linfoide (LAL), con eta’ mediana di 23 anni.
La stragrande maggioranza dei casi era ad alto rischio vuoi per recidiva leucemica posttrapianto vuoi per mortalita’ trapianto-relata. L’80% dei pazienti raggiunse un
attecchimento primario e stabile. Nonostante che non venisse impiegata alcuna terapia
immunosoppressiva post trapianto, l’incidenza della GvHD (20%) era fortemente ridotta a
confronto di un trapianto incompatibile non manipolato. Un importante punto da
sottolineare e’ che in un precedente gruppo di pazienti sottoposti allo stesso regime di
condizionamento, ma che erano stati infusi con una dose convenzionale di cellule
staminali midollari incompatibili T-depletate, si verifico’ il rigetto in tutti i riceventi.
In sintesi, questo studio dimostro’ per la prima volta che nell’uomo - come nel topo
- una megadose di inoculo rappresenta un fattore cruciale nel consentire il superamento
della barriera di istocompatibilita’.
Negli anni successivi, si e’ tentato di ridurre la tossicita’ extra ematologica del
regime di condizionamento, sostituendo la Ciclofosfamide con la Fludarabina, nella dose
di 40 mg/m2/die per 5 giorni. L’impiego della Fludarabina, da noi per la prima volta
proposta nel trapianto di cellule staminali allogeniche, fa seguito a studi nel modello
murino in cui si dimostro’ che Fludarabina + TBI determinava un’azione
immunosoppressiva analoga a quella della Ciclofosfamide + TBI (10).
Allo scopo di eliminare completamente la GvHD, si decise di ridurre il numero dei
T-linfociti nell’inoculo midollare a 3 x104/Kg, quantitativo inferiore di un log a quello
utilizzato nello studio pilota precedente (2 x 105/Kg). Per la T-deplezione ex vivo delle
cellule mononucleate del sangue periferico venne impiegata la E-rosettazione seguita da
immunoselezione delle cellule CD34+, con il sistema Ceprate.
Il secondo studio pilota, condotto tra il 1995 e il 1997, comprendeva 43 pazienti con
eta’ media di 22 anni, affetti da LAM e LAL, la piu’ parte dei quali ad alto rischio per
mortalita’ trapianto-relata e per recidiva leucemica. Otto dei 43 pazienti avevano
recidivato dopo un trapianto autologo (16).
82
Per quanto concerne l’inoculo, in 28 pazienti vennero infusi sia il midollo osseo che
i progenitori circolanti : l’inoculo finale conteneva una mediana di 10 milioni di cellule
CD34+ e di 3.5 x104 cellule CD3+/Kg. Quindici pazienti ricevettero solo progenitori da
sangue periferico con una composizione dell’inoculo affatto simile in termini di cellule
CD34+ e CD3+.
La stragrande maggioranza (95%) dei pazienti raggiunse un attecchimento primario
e stabile, con una ricostituzione emopoietica molto veloce sia in termini di granulociti
neutrofili che di piastrine. Un’analisi in PCR del DNA polimorfismo evidenzio’ un
completo chimerismo del donatore nel sangue periferico e nel midollo osseo di tutti i
pazienti. In due casi di rigetto un trattamento immunosoppressivo addizionale con
Ciclofosfamide e ATG, seguito da un trapianto T-depleto da un differente membro della
famiglia, consenti’ di ottenere un attecchimento stabile.
Nessun caso di GvHD sia acuta che cronica complico’ il decorso di questi trapianti
da donatori incompatibili per tre loci, nonostante che non venisse praticata alcuna terapia
immunosoppressiva post trapianto. Infine la tossicita’ extraematologica del regime di
condizionamento si rivelo’ oltremodo modesta (nessun caso di VOD ; 5% di incidenza di
mucosite severa e di distress respiratorio acuto), ove si consideri che la stragrande
maggioranza dei pazienti era stata pesantemente pretrattata.
In sintesi questi risultati testimoniano del pieno raggiungimento di tutti gli obiettivi
originari dello studio :
a. alta incidenza di attecchimenti in pazienti trattati con un regime di condizionamento
a bassa tossicita’ extraematologica ;
b. completa prevenzione della GvHD in pazienti che non erano stati sottoposti ad
alcuna profilassi immunosoppressiva post trapianto.
Diciotto pazienti vennero trapiantati solo con cellule staminali da sangue
periferico. A paragone dei soggetti che avevano ricevuto midollo osseo e cellule staminali
periferiche, sia l’incidenza di attecchimento che la velocita’ di ricostituzione emopoietica
rimasero invariate, il che indica come l’aggiunta di midollo osseo alle cellule staminali
periferiche non sia essenziale per l’attecchimento.
Un’altra riflessione emergente da questi dati e’ che cellule staminali purificate,
infuse in alto dosaggio, facilitano, di per se’ stesse, l’attecchimento. Successivamente a
questa ipotesi - e a riprova di questo concetto - Y. Reisner e coll. hanno dimostrato che
cellule umane CD34+ - purificate con la stessa metodologia impiegata nel trapianto clinico
- determinano in una cultura mista linfocitaria una riduzione specifica della frequenza di
precursori citolitici diretti contro i loro antigeni di istocompatibilita’, ma non contro cellule
stimolatorie di una terza parte (17). In altri termini, le cellule CD34+ sono in grado di
indurre una tolleranza specifica, come altre cellule veto o facilitanti. Una possibile
spiegazione per questo effetto veto puo’ essere costituita dal loro peculiare fenotipo che
presenta antigeni MHC di classe I e II, in assenza delle molecole di costimolo B7, il che
renderebbe le cellule T anergiche alle molecole MHC di classe I e II.
Un altro aspetto degno di menzione e’ che i fattori che hanno condizionato l’alta
percentuale di attecchimento , in assenza di GvHD, vale a dire il regime di
condizionamento ed i numeri di cellule CD34+ e CD3+ nell’inoculo, sono tra loro
strettamente legati, nel senso che variazioni nell’uno implicano di conseguenza anche
variazioni negli altri. Un esempio puo’ essere rappresentato dal recente studio clinico
condotto da R. Handgretinger e coll. in Germania. In bambini affetti da Leucemia Acuta,
trapiantati da donatori aploidentici, vennero riportati un’alta incidenza di attecchimenti e
83
nessun caso di GvHD (18). Il regime di condizionamento, basato esclusivamente sulla
chemioterapia (Tiotepa, Busulfano, Ciclofosfamide e ATG) e’ sicuramente meno
immunosoppressivo di un condizionamento quale quello da noi utlizzato caratterizzato
dalla presenza di TBI in unica frazione ad alto dose rate. D’altro canto, l’inoculo conteneva
circa il doppio di cellule CD34+ (20 milioni/Kg contro 10 milioni/Kg) di quanto utilizzato
nel nostro studio, poiche’ i pazienti della casistica tedesca, essendo bambini, avevano un
basso peso corporeo.
Un altro esempio puo’ essere costituito dal numero di T-linfociti nell’inoculo che
rappresenta la dose soglia per la GvHD. Nella nostra esperienza l’impiego di un
quantitativo di T-linfociti pari a 3x104/Kg non e’ stato seguito da nessun caso di GvHD. Si
deve pero’ sottolineare la presenza dell’ATG nel regime di condizionamento. Dacche’
l’emivita plasmatica dell’ATG e’ di sei giorni, il farmaco puo’ aver contribuito a ridurre
l’incidenza della GvHD, esercitando un’azione di deplezione in vivo dei T-linfociti
presenti nell’inoculo midollare.
E’ ampiamente noto come i problemi maggiori della T-deplezione siano
rappresentati dall’aumentata incidenza di recidive leucemiche post-trapianto, (dovuta alla
mancanza di un effetto GvL, GvHD-relato) e dal deficit immunologico post-trapianto con
relativa aumentata incidenza di infezioni.
Nel nostro studio, la piu’ parte delle recidive sono state osservate nei pazienti con
LAL, particolarmente in quelli in recidiva, al momento del trapianto, fenomeno questo
piu’ che atteso in un simile gruppo di soggetti ad alto rischio. Per contro, nei 32 pazienti
con LAM trapiantati nel corso del primo e del secondo studio, tra il 1993 e il 1997, la
probabilità a sei anni di recidiva leucemica fu del 22%, un valore molto basso ove si
consideri che circa la meta’ dei pazienti erano in recidiva al momento del trapianto, la piu’
parte in recidiva chemioresistente.
Questi dati indicano un effetto GvL specifico nei riguardi della LAM.
Recentemente, A. Velardi e coll. hanno suggerito che l’alloreattivita’ NK possa avere un
ruolo nell’azione GvL (4). Come gia’ sottolineato, in molte coppie donatore-ricevente i
recettori inibitori (KIR) per l’MHC delle cellule NK del donatore non riconoscono come
self gli alleli di classe I del ricevente. Di conseguenza le cellule NK del donatore sono
capaci di lisare le cellule linfoemopoietiche del ricevente. In questi casi si e’ dimostrato che
la ricostituzione del repertorio NK nel ricevente - per almeno 3-4 mesi dopo il trapianto e’ caratterizzata dalla presenza di un quantitativo significativo di cloni NK alloreattivi nei
riguardi del paziente. Questi cloni sono in grado di lisare in maniera molto efficace cellule
di LAM e di LMC prelevate dai pazienti e criopreservate prima del trapianto. Per contro
l’azione litica non si esplica nei riguardi delle cellule della piu’ parte dei casi di LAL. I
livelli di espressione di LFA-1 -una molecola di adesione essenziale per la formazione del
coniugato cellula effettrice -cellula target e per l’attivazione delle cellule effettrici sembrano indicare il grado di suscettibilita’ alla lisi NK (alta espressione nelle cellule
sensibili della LAM e della LMC, bassa espressione nella piu’ parte dei pazienti con LAL).
A riprova di questa ipotesi, va sottolineato come sino al momento attuale non si sia
osservata alcuna recidiva nei pazienti con LAM o con LMC trapiantati da donatori
potenzialmente NK alloreattivi. I cloni alloreattivi NK lisano con la stessa efficienza anche
le cellule linfoemopoietiche normali (linfociti stimolati con PHA, linee linfoblastoidi B) del
ricevente, criopreservate prima del trapianto, per cui e’ ipotizzabile che l’alloreattivita’ NK
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abbia un ruolo anche nella prevenzione del rigetto, contribuendo ad eliminare il sistema
immune residuo dopo il condizionamento.
Nessuno dei pazienti sviluppo’ segni clinici di GvHD acuta o cronica, pur
presentando in circolo un significativo numero di cellule NK alloreattive. Questa
osservazione non deve destare sorpresa poiche’ lo stesso fenomeno - seppur in senso
opposto - e’ stato descritto nel cosiddetto modello murino di resistenza ibrida, dove le
cellule NK di un ricevente F1 sono in grado di rigettare il trapianto di midollo osseo dei
genitori, ma non trapianti di cute o altri organi (19).
Il maggior problema clinico, nei pazienti adulti, ma non nei bambini, e’
rappresentato dalla lentezza con cui avviene il ripristino di un’efficiente immunita’ contro
virus, batteri e funghi, dovuta ad un ritardo nella ricostituzione del sistema T-immune.
Nonostante una profilassi antivirale e antifungina, il 71% delle morti non-leucemiche
(quindi il 70% della mortalita’ trapianto-relata che e’ pari al 49%) e’ dovuto ad infezioni
batteriche e fungine. Questa incidenza di infezioni fatali puo’ sembrare alta, ma e’
necessario prendere in considerazione che la piu’ parte dei pazienti del nostro studio
aveva una lunga storia di malattia ed era stata pesantemente pre-trattata, con conseguente
alta incidenza di colonizzazioni batteriche e fungine prima del trapianto. Ad esempio, vi e’
una differenza notevole nell’incidenza di infezioni letali tra pazienti con pregresse storie di
severe infezioni batteriche e/o fungine prima del trapianto e pazienti a minor rischio : nei
pazienti non colonizzati la mortalità dovuta ad infezioni era pari al 13%.
Inoltre va sottolineato come questa relativa immunoincompetenza non sia una
caratteristica unica dei trapianti incompatibili per tre loci. Ad esempio simili condizioni di
immunodeficienza e gli stessi tipi (e incidenza) di infezioni sono stati del tutto
recentemente riportati in soggetti adulti che avevano ricevuto un trapianto di midollo
osseo T-depleto da donatori HLA-compatibili non correlati geneticamente (20). E del resto
analoghi problemi contraddistinguono il decorso di pazienti con GvHD sottoposti a
trapianto convenzionale (T-repleto) da donatori non correlati.
E’ ampiamente noto che, nei primi 6-8 mesi dopo il trapianto, la ripopolazione T
linfoide di un paziente adulto e’ essenzialmente sostenuta dall’espansione di T-linfociti
maturi del donatore presenti nell’inoculo midollare. Anche nei trapianti convenzionali
compatibili, il repertorio delle cellule T rimane piu’ o meno severamente compromesso
sino all’avvento di cellule CD4+, CD45RA+RO- che verosimilmente rappresentano il
prodotto della maturazione intratimica. E’ ovvio che nei trapianti intensamente Tdepletati, come quelli che forzatamente devono essere effettuati nel caso di donatori
incompatibili, il ritardo della ricostituzione dei livelli e delle funzioni dei linfociti T e’
ancora piu’ accentuato.
L’ostacolo potrebbe essere superato trasferendo, dopo il trapianto, cellule T mature
del donatore, previa deplezione ex vivo delle cellule T alloreattive. Questi linfociti T non
alloreattivi possono essere diretti (oppure no) contro specifiche sorgenti di infezione (ad
esempio Candida, Aspergillo, Cytomegalovirus e Toxoplasma). Al momento attuale, il
recupero delle funzioni immunitarie appare tuttavia piu’ rapido di quanto da noi
pubblicato nel 1998. Vari fattori potrebbero aver contribuito a tale fenomeno. In primo
luogo, con il sistema Meltenyi e’ possibile trapiantare un numero maggiore di cellule
CD34+ (e, verosimilmente, anche piu’ funzionali data la relativa rapidita’ della procedura
di purificazione). A questo riguardo, e’ stato proposto come l’infusione di alti numeri di
cellule CD34+ possa promuovere un piu’ rapido recupero di cellule T (18). In secondo
luogo, poiche’ dati in vitro indicano che il gancyclovir potrebbe esercitare effetti
immunosoppressivi, esso e’ stato sostituito nella profilassi anti-CMV con il foscarnet.
85
Dacche’ e’ stato dimostrato (Roncarolo MG et al, dati non pubblicati) che il G-CSF induce
la produzione, da parte delle cellule presentatnti l’antigene, della citochina
immunosoppressiva IL10 (che e’ in grado a sua volta di impedire la presentazione
antigenica e l’attivazione delle risposte immuni), il G-CSF non viene piu’ somministrato ai
pazienti dopo il trapianto, il che, del resto, non sembra aver prodotto conseguenze
negative nell’attecchimento. Gli effetti immunoregolatori connessi a tale decisione
terapeutica sono attualmente in fase di studio. Infine, mentre e’ possibile che vari fattori ne
siano responsabili, una chiara indicazione di un migliorato recupero delle funzioni
immuni post-trapianto e’ fornita anche dal fatto che le complicanze infettive appaiano al
momento attuale in diminuzione.
Nonostante i problemi sovraesposti, nei 32 pazienti con LAM, trapiantati tra il 1993
e il 1997, nel corso del primo e secondo studi pilota, si e’ osservata una probabilita’ di
sopravvivenza “event-free” a sei anni pari al 33%. Ove si consideri che 14 dei 32 soggetti
erano in recidiva al momento del trapianto, e’ evidente come simili risultati non
potrebbero essere raggiunti da nessun altra forma di trattamento disponibile al momento
attuale. La probabilita’ di sopravvivenza dei pazienti con LAL e’ inferiore, essenzialmente
per una piu’ alta incidenza di recidiva, caratteristica di questi pazienti adulti ad altissimo
rischio. In conclusione, i risultati in termini di mortalita’ trapianto-relata e di
sopravvivenza “event-free” non appaiono dissimili da quelli riportati in pazienti affetti da
Leucosi Acuta, in analogo stato di malattia, sottoposti a trapianto convenzionale (o Tdepletato) da donatori geneticamente non correlati. Pertanto il trapianto da donatore
familiare aploidentico incompatibile per tre loci deve essere oramai considerato una realta’
clinica, da impiegare nel trattamento dei pazienti con Leucosi ad alto rischio, che non
dispongono di un donatore compatibile o che necessitano di un trapianto urgente. Per
contro, questa strategia non puo’ essere raccomandata nei pazienti con LAL
chemioresistente o nei pazienti con una storia clinica recente di severe infezioni batteriche
e/o fungine . Infine, la possibilita’ di prevenire pressocche’ totalmente due importanti
complicanze quali la GvHD e il rigetto rappresenta un’importante tappa per future
applicazioni del trapianto da familiare incompatibile in pazienti di eta’ avanzata affetti da
Leucosi Acute e nel trattamento di affezioni ematologiche non neoplastiche.
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TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE
CONDIZIONAMENTI NON MIELOABLATIVI
DOPO
Andrea Bacigalupo Dipartimento di Ematologia, Ospedale San Martino
GENOVA
INTRODUZIONE
Le basi del trapianto di midollo osseo (TMO) sono state poste nel topo negli anni 5060, e queste sono alcune delle tappe importanti di quel percorso scientifico:
1)
il midollo dato per via venosa è efficace nel ricostituire gli spazi midollari altrettanto
del midollo dato per altra via(van Bekkum et al,1956)
2)
il midollo come organo immunocompetente puo’ generare una risposta
immunologica contro il ricevente, o malattia trapianto verso ospite (GvHD) (van
Bekkum et al, 1967)
3)
la reazione immunologica GvHD è determinata da fattori genetici (Uphoff et al,
1957)
4)
il methotrexate (MTX) riduce o previene la GvHD (Lorenz et al, 1951)
5)
la ciclofosfamide (CY) da sola produce immunosoppressione sufficiente per
l’attecchimento (Santos et al, 1969)
La ciclofosfamide (CY) era stata impiegata da George Santos a Baltimora come
condizionamento per il TMO: il protocollo consisteva in quattro somministrazioni
giornaliere di CY alla dose di 50 mg/kg/dose per un totale di 200mg/kg (Santos et al,
1969). Il protocollo venne presto impiegato anche a Seattle, primo centro a pubblicare dati
nell’uomo (Thomas et al, 1972, Storb et al, 1974).
Va fatta subito una considerazione: in quel periodo, la ciclofosfamide non veniva impiegata
a questi dosaggi, e pertanto la dose di 200mg/kg veniva considerata una dose molto
elevata, o addirittura una dose limite. A riprova di questo fatto una dose di CY superiore a
1.55 gr/m^2 produceva una cardiotossicità 25% di pazienti (letale nel 12%) contro un 3%
per una dose inferiore (letale in 0%) (Goldberg et al, 1986). Anche nell’animale la
cardiotossicità è praticamente assente sino a 200mg/kg, e poi la curva s’impenna
rapidamente; per cui a 220mg/kg il 20% degli animali muore della tipica cardiotossicità
irreversibile da CY. La dose limite quindi è 200 mg/kg o 6-7 gr/m^2..
Nonostante una parte dei pazienti aplastici (40%) diventasse lungo sopravvivente
con ripresa ematologica trilineare, molti pazienti andavano in corso a rigetto del midollo:
su 73 pazienti della analisi del 1977, 21 pazienti avevano rigettato (29%) (Storb et al, 1977).
Tra questi alcuni rari casi evidenziavano ricostituzione ematologica autologa anche
completa (Barrett et al, 1979)
Questa fu un’osservazione cruciale per due motivi:
1)
dimostrava che la CY alla dose di 200mg/kg, non era mieloablativa,
88
2)
in secondo luogo suggeriva il coinvolgimento del sistema immunologico del
ricevente nella patogenesi della malattia.
TRAPIANTO NON MIELOABLATIVO
Il termine di condizionamento non mieloablativo è stato impiegato da Rainer Storb
alla fine degli anni ’70 appunto per indicare questo il protocollo usato nell’Anemia
Aplastica (AA) ovvero ciclofosfamide 200 mg/kg (CY200) (Storb et al, 1978)
Recentemente, sono stati proposti protocolli di condizionamento prevalentemente
immunosoppressivi, per eseguire trapianti in pazienti in età avanzata, e superare la barriera
della TRM : ci si riferisce a questi trapianti con il termine di minitrapianti o trapianti senza
mieloablazione. In realtà l’anemia aplastica ci offre un ottimo modello umano di trapianto
non mieloablativo, con esperienza ventennale e identificazione di effetti collaterali a breve e
a lungo termine.
Lezioni dal TMO non mieloablativo nelle anemie aplastiche
1. Un condizionamento non mieloablativo è in grado di indurre attecchimento persistente
delle cellule del donatore (engraftment) in percentuale variabile fino al 100%.
2. L’attecchimento completo si associa spesso, ma non sempre, alla presenza di GvHD
cronica
3. L’incremento della intensità del condizionamento per aumentare il grado di
attecchimento si associa con un aumento delle complicazioni a breve e a lungo termine
4. Una eccezione a questa regola è l’impiego di una immunosoppressione pre-TMO non
tossica: al posto della irradiazione linfonodale per esempio la globulina antilinfocitaria
(ALG)
5. L’attecchimento parziale (mixed chimerism) è compatibile con una funzione
emopoietica conservata
6. È possibile che in alcuni pazienti si determini una condizione di “dipendenza” dalla
terapia immunosoppressiva, in assenza della quale, il trapianto viene perso
7. Non vi è rischio di tumore secondario
8. La tossicità dipende dall’età: tanto piu’ giovane il paziente, tanto inferiore
E cosa succederebbe se usassimo il condizionamento CY200 per malattie ematologiche
neopastiche? Possiamo anticipare
- una riduzione delle complicazioni a breve termine
- una riduzione delle complicazioni a lungo termine, inclusi i tumori secondari
- una elevata percentuale di ricadute leucemiche
Purtroppo mentre quest’ultime sono “trattabili” nelle aplasie, nelle emoblastosi,
finirebbero per non modificare il corso naturale della malattia.
Per superare questo ostacolo, senza aumentare l’aggressività del condizionamento, sarebbe
necessario impiegare dosi midollari enormi, che nell’uomo sono ancora oggi poco
praticabili (la dose di 20-40x10^6 cellule midollari impiegata nel topo con condizionamenti
non mieloablativi, equivale nell’uomo a 40 volte la dose che comunemente usiamo in
clinica, quindi a circa 120x10^8 cellule midollari/kg).
Idealmente per eseguire un trapianto senza mieloablazione occorre
89
-forte immunosoppressione pre-TMO
-elevatissimo numero di cellule staminali
-elevato numero di linfociti (anche se un numero elevato di linfociti espone al rischio di
GvHD acuta, e quindi l’impiego di linfociti trasdotti con geni suicidi potrebbe essere utile)
-modica immunosoppressione post-TMO, possibilmente di breve durata (per evitare il
rischio di dipendenza)
Primi risultati clinici dei trapianti senza mieloablazione
I primi risultati dei trapianti senza mieloablazione o minitrapianti nelle emoblastosi,
confermano queste previsioni: la tossicità è limitata, persistono alcune complicanze come la
GvHD specie per la estrema variabilità e intensità dei condizionamenti.
Fludarabina- ciclofosfamide (FLU-CY)
Il protocollo di Houston fludarabine- ciclofosfamide originariamente sviluppato per
la terapia delle leucemie linfatiche croniche resistenti, si è rivelato estremamente
immunosoppressivo e capace di indurre chimerismo in un elevato numero di pazienti. A
Genova, abbiamo utilizzato questo protocollo in 19 pazienti con varie malattie
ematologiche: abbiamo confermato un buon livello di attecchimento, specie nelle malattie
croniche e nelle aplasie midollari, ma la recidiva leucemica è un problema che andrà
affrontato. La nostra impressione è che nelle leucemie acute, specie se avanzate sia
inefficace.
In altri Centri hanno impiegato la FLU in associazione con basse dosi di busulfano
(Jerusalem, S Slavin), con basse dosi di melphalan (Londra, S McKinnon), basse dosi di
tiotepa (Milano, P Corradini), con alte dosi di ciclofosfamide (Bethesda, J Barrett). I risultati
sono globalmente incoraggianti ma molto preliminari.
Irradiazione total corporea (TBI) 2 Gy
Protocollo sviluppato da Rainer Storb a Seattle nel modello canino, ora attivo
nell’uomo con profilassi della GvHD ciclosporina e micofenolato mofetil (MMF): nei primi
30 casi si è osservato un buon livello di chimerismo, ed un buon controllo della malattia
specie in pazienti con malattie croniche
Irradiazione total corporea (TBI) 1 Gy
Il gruppo di P Quesenberry sta utilizzando una dose molto piccola di TBI (1 Gy) che
nel topo riduce dell’80% il compartimento staminale: i primi due pazienti preparati con TBI
1 Gy e ATG
Irradiazione timica e ciclofosfamide.
Protocollo di Boston (G Spitzer) con 7 Gy di irradiazione timica e CY 150 mg/kg con
ATG. Sembra induca un certo grado di chimerismo e 15 pazienti sono entrati nello studio,
in prevalenza linfomi non Hodgkin recidivati.
1.
2.
3.
4.
5.
Prime conclusioni
Le prime conclusioni in accordo con un recente Workshop sono le seguenti:
il termine minitrapianto è improprio e piu’ appropriato sarebbe trapianto con
condizionamento di ridotta intensità
il minitrapianto è una terapia sperimentale: la tossicità è limitata, ovvero ridotta rispetto
ad un trapianto convenzionale, ma non assente
non conosciamo la efficacia dei minitrapianti nella cura di malattie neoplastiche
il minitrapianto puo’ essere proposto a pazienti altrimenti non elegibili per un trapianto
allogenico convenzionale
pazienti con leucemia acuta non sono probabilmente buoni candidati
90
6. pazienti con malattie croniche (CLL, CML, linfomi) possono essere trattati
7. è dubbio l’effetto nei tumori solidi, ma dovrebbe essere esplorato
8. sarà necessario seguire attentamente questi pazienti per valutare effetti a breve e lungo
termine
9. la grande esperienza acquisita con le aplasie midollari trattate con la ciclofosfamide sola,
puo’ dare indicazioni importanti su alcuni di questi effetti a breve e lungo termine. Fra
queste il rapporto fra intensità del condizionamento, numero di cellule staminali e di
linfociti trapiantati, intensità della immunosoppressione in vivo post-trapianto: queste
variabili determinano il grado di attecchimento, del chimerismo e la stabilità della
funzione ematopoietica
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92
LA B-LEUCEMIA LINFATICA CRONICA: CARATTERISTICHE
BIOLOGICHE
Federico Caligaris-Cappio, Massimo Geuna, Daniela Gottardi,
Luisa Granziero, Paola Circosta, Paolo P. Ghia.
Cattedra di Immunologia Clinica, Università di Torino, Divisione
Universitaria di Immunologia Clinica, Ospedale Muriziano Umberto
I;
Torino
e
Laboratorio
di
Immunologia
Oncologica,
I.R.C.C.
Candiolo (TO).
La Leucemia Linfatica Cronica a B cellule (B-LLC) è la leucemia più frequente nel
mondo occidentale con un’incidenza di 50 casi/100.000 dopo i 70 anni (1). Non é associata
con l’esposizione a sostanze chimiche, né a radiazioni ionizzanti e neppure é più comune
in soggetti con sindromi da immunodeficienza. Piuttosto, si evidenzia una suscettibilità
genetica. La B-LLC é infatti rara nelle popolazioni dell’est asiatico e nei giapponesi
emigrati negli USA, mentre é assai più frequente nelle popolazioni caucasiche e negre. E’
stata anche documentata una tendenza famigliare con il caratteristico fenomeno
dell’anticipazione: infatti esistono famiglie in cui la malattia appare nelle generazioni
successive ad un’età sempre più precoce.
Tre sono le caratteristiche biologiche fondamentali della B-LLC (2): 1) rappresenta il
prototipo delle neoplasie caratterizzate da difetti nell’induzione dell’apoptosi; 2) i pazienti
sviluppano una severe immunodeficienza, ed in particolare una marcata
ipogammaglobulinemia che peggiora con il progredire della malattia; 3) i pazienti hanno
un’elevata prevalenza di fenomeni autoimmuni caratterizzati dalla produzione di
autoanticorpi (autoAb) che sono policlonali e diretti contro autoantigeni (Ag) espressi
unicamente dalle cellule ematiche (3). Questi autoAb sono responsabili di citopenie
autoimmuni talora assai severe.
L’origine e le caratteristiche della cellula neoplastica.
La cellula neoplastica é un piccolo, fragile linfocita maturo le cui caratteristiche
fenotipiche sono molto simili a quelle dei B linfociti che si osservano nella zona mantellare
(MZ) dei follicoli linfatici secondari (4). La caratteristica distintiva della B-LLC é la coespressione della molecola CD5 con livelli di immunoglobuline di superficie (sIg) molto
bassi (e talora non evidenziabili). Si tratta in genere di IgM + IgD e solo eccezionalmente si
osservano IgG o IgA.
L’ipotesi comunemente accreditata é che la B-LLC derivi dalla trasformazione
neoplastica di B linfociti CD5+ anergici e autoreattivi localizzati nei follicoli linfatici degli
organi linfatici secondari (4). Quest’ipotesi deriva da una serie di osservazioni: a) le sIg
monoclonali espresse sulla membrana dei B linfociti neoplastici hanno un’attività
93
autoanticorpale policlonale generalmente a tipo fattore reumatoide; b) livelli di sIgM bassi
come sulla superficie delle cellule di B-LLC si trovano unicamente nei B linfociti normali
anergizzati dall’incontro con un autoAg; c) i B linfociti CD5+ normali si trovano nella MZ
dei follicoli linfatici secondari e spesso producono autoAb naturali, polireattivi e a bassa
affinità codificati dallo stesso repertorio di geni V delle Ig che si osservano nella maggior
parte dei casi di B-LLC.
In circa la metà dei casi di B-LLC i geni V delle Ig presentano mutazioni somatiche (5-8).
Questo significa che, almeno in questi casi, la cellula di origine é un linfocita B memoria
che ha incontrato l’Ag nei centri germinativi. I restanti casi non presentano mutazioni
somatiche e dunque la cellula di origine é un linfocita B naive che non ha incontrato l’Ag.
Inoltre, é stato documentato che le B-LLC non mutate sono anche caratterizzate dall’avere
percentuali molto più elevate di B linfociti CD38+ (8). Questa dicotomia ha una rilevante
implicazione clinica dal momento che la prognosi delle LLC naive é significativamente più
severa di quella delle LLC memoria (7, 8).
La quasi totalità delle cellule di LLC é nella fase G0 del ciclo cellulare. Tuttavia, queste
cellule resting esprimono sulla superficie una serie di molecole, tra cui CD23 e CD27, che
in altre circostanze indicano un’attivazione cellulare. Inoltre, esprimono lo mRNA per la
quasi totalità delle citochine testate e producono e secernono numerose citochine (9). Il
ruolo di queste citochine nella storia naturale della malattia é tuttavia oscuro. Alcune,
quali TGF-β e IFN-γ possono essere responsabile di circuiti autocrini negativi che
contribuiscono a ostacolare il processo di apoptosi. Altre, quali TNF-α e CD23 solubile
sono state proposte quali possibili fattori di crescita autocrini. Tuttavia, nessuna citochina
é individualmente capace di forzare il blocco in G0 e le cellule di B-LLC non sono in grado
di rispondere ai mitogeni che causano la proliferazione dei B linfociti normali. In altri
termini, le cellule di B-LLC presentano uno stato di attivazione frustrata oltre al quale
sono incapaci di procedere.
E’ verosimile che un ruolo importante nel determinare questa situazione sia giocato dal
B cell receptor (BCR). Il BCR é un complesso multimerico di membrana formato dalle sIg e
dall’eterodimero Igα/Igβ (CD79a/CD79b) che traduce lo stimolo recepito dalle sIg nel
segnale biochimico che porta all’attivazione e proliferazione cellulare. Il domain
extracellulare di CD79b é assente nella maggior parte dei pazienti con B-LLC (10). Una
variante troncata di CD79b deriva per un meccanismo di splicing alternativo e manca
dell’esone 3 che codifica per la porzione extracellulare della molecola (11). Questa variante
di splicing é stata trovata in numerosi linee cellulari B ed in tutti i casi di B-LLC analizzati,
suggerendo che il meccanismo di splicing alternativo possa essere implicato nel causare i
ridotti livelli di BCR sulla superficie delle cellule di B-LLC (12). E’ ragionevole ritenere che
questi ridotti livelli possano essere responsabili della difettiva trasduzione del segnale che
é propria delle cellule di B-LLC e le accomuna ai B linfociti anergici. In accordo con questa
possibilità anche altre molecole, quale CD22, che sono collegate con il BCR in quanto ne
amplificano il segnale, sono assenti o debolmente espresse dalle cellule di B-LLC.
E’ sorprendente come una cellula resting ed anergica quale la cellula neoplastica di BLLC abbia un’intrinseca instabilità genetica e presenti numerose aberrazioni genomiche
(13-18). Le anormalità predominanti portano o ad una perdita o ad un incremento di
materiale genico. Le traslocazioni sono rare e, quando presenti, portano a perdita di
materiale genico piuttosto che alla creazione di un gene di fusione o all’iperespressione di
94
un oncogene suggerendo che i geni patogeneticamente rilevanti si comportino come geni
oncosoppressori.
La fluorescence in situ hybridisation (FISH) rivela la presenza di anomalie citogenetiche
in una percentuale di casi che arriva fino all’80% (13-18). Le anomalie più comuni sono
delezioni e traslocazioni in 13q e la trisomia del cromosoma 12. E’ interessante osservare
che i casi con mutazioni somatiche dei geni delle Ig hanno la delezione 13q14, mentre i casi
germ line hanno la trisomia del cromosoma 12. Mutazioni o delezioni di p53 al 17p13.3
sono state riportate nel 15% circa dei pazienti e delezioni nelle bande 11q22-q23 sono
presenti nel 20% dei pazienti. Inoltre, il braccio lungo del cromosoma 11 a livello di 11q22q23 ospita il gene mutato nell’atassia-teleangectasia (ATM) (19). I soggetti con AT sono
omozigoti per ATM, cioé le mutazioni interessano ambedue gli alleli. Il fatto che questi
pazienti abbiano un’aumentata suscettibilità a sviluppare neoplasie linfoidi ha portato ad
analizzare ATM nei pazienti con B-LLC dimostrando che numerosi pazienti hanno
mutazioni in ATM (19, 20). Dal momento che, in taluni casi, il gene ATM é mutato nella
linea germinale si é sviluppata l’ipotesi che i soggetti eterozigoti per ATM possano essere
predisposti a sviluppare una LLC (20).
Il problema dell’apoptosi
La progressione della LLC é influenzata in maniera decisiva da un’apoptosi assente o
difettiva (2). Gli studi sulla capacità che le cellule di B-LLC hanno di evitare l’apoptosi
sono essenzialmente incentrati sulla famiglia Bcl-2 21-23). Infatti, e pur in assenza della
traslocazione t(14;18) tipica del linfoma follicolare, la proteina Bcl-2 cioé il classico antidoto
all’apoptosi é iperespressa nelle cellule di B-LLC. Inoltre, le cellule di B-LLC esprimono
elevati livelli anche di Bcl-xL e Bax, mentre Bcl-xS é presente soltanto in tracce ed in una
ridotta percentuale di casi. Pertanto, il pattern di espressione dei geni della famiglia Bcl-2
é fortemente squilibrato in favore della soppressione dell’apoptosi (2). Un’altra molecola
di notevole interesse é Fas (CD95) (24). Le cellule di LLC sono generalmente Fas negative
e, quand’anche rese Fas positive da un processo di attivazione in vitro sono generalmente
resistenti all’apoptosi mediata da Ab anti-Fas. Peraltro, nei casi in cui si osserva una
sensibilità all’azione apoptogena di Ab anti-Fas questa sembra essere indipendente
dall’espressione di Bcl-2.
Il meccanismo che sottende la iperespressione di Bcl-2 é sconosciuto e, al momento
attuale, l’ipotesi più credibile é che l’iperespressione rappresenti la conseguenza di un
stimolo fornito dal microambiente sotto forma di citochine, quali IL-4, IFN- e IFN- .
Questa possibilità é sottolineata dal fatto che in vivo le cellule di B-LLC si accumulano in
maniera progressivamente inarrestabile; al contrario, quando vengono coltivate in vitro
vanno rapidamente incontro a morte per apoptosi. Questo paradosso suggerisce che
l’accumulo in vivo (conseguenza della difettiva apoptosi) sia da mettere in relazione ad
una interrelazione tra la cellula neoplastica ed il microambiente, interrelazione che
verrebbe a mancare in vitro. Numerose osservazioni sperimentali (25, 26) sostengono in
maniera convincente il ruolo dei T linfociti e delle cellule stromali nell’amplificare un
microambiente capace di inibire l’apoptosi dei B linfociti neoplastici. A sua volta, il deficit
di apoptosi crea un milieu intracellulare che favorisce la progressione della malattia
attraverso una aumentata sopravvivenza, l’incapacità di obbedire ai checkpoints del ciclo
cellulare e la induzione della resistenza ai farmaci citostatici ed alla radiazioni. Le
interazioni tra clone linfocitario e microambiente sono bidirezionali, sono regolate da
molecole di adesione e rese attive dalla produzione di citochine e chemochine.
95
I dati relativi al problema dell’apoptosi nella LLC portano a tre sostanziali conclusioni:
1) la propensione che le cellule di LLC hanno ad andare spontaneamente in apoptosi in
vitro rappresenta un problema nell’interpretazione dei tests in vitro utilizzati per valutare
l’attività proapoptotica di nuovi farmaci; 2) l’esagerata sopravvivenza ed il progressivo
accumulo delle cellule di B-LLC appare essere selettivamente favorita dalla loro
interazione con cellule del microambiente; 3) Bcl-2 é certamente rilevante, ma
verosimilmente non rappresenta la risposta ultima e definitiva alla domanda su quali
molecole e quali geni sono coinvolti nel controllo dell’apoptosi nella B-LLC.
Le cellule di B-LLC e la presentazione dell’Ag
L’immunodeficenza e l’autoimmunità sono probabilmente due aspetti correlati e
riconducibili al possibile ruolo dei B linfociti di B-LLC come Ag-presenting cells (APC) (4).
Le stesse cellule neoplastiche che si accumulano paiono rappresentare il maggior ostacolo
alla produzione di Ab normali e dunque il fattore che determina la progressiva
immunocompetenza (2, 27). Almeno quattro osservazioni sono in favore di questa
possibilità: 1) le cellule di B-LLC secernono elevate quantità di TGF- che é un potente
inibitore della proliferazione B linfocitaria; 2) esse rilasciano anche alti livelli del recettore
solubile del recettore della IL-2 che potrebbe adsorbire la IL-2 circolante e dunque regolare
negativamente l’azione dei T linfociti helper; 3) i B linfociti normali attivati sono eccellenti
APC, mentre i B linfociti anergici hanno una capacità APC nettamente ridotta che può
però essere ripristinata dai segnali forniti dai linfociti T helper. I bassi livelli di sIg, le
difettosa espressione di BCR e la mancata espressione delle molecole costimolatorie CD80
e CD86 spiega l’incapacità delle cellule di B-LLC a funzionare come APC; 4) l’accumulo di
cellule neoplastiche CD40+ che regolano negativamente l’espressione del CD40 ligando
(CD154) sulla superficie dei T linfociti helper interferisce in modo decisivo con
l’espletamento di una corretta B/T cognate interaction Ag-specifica (27).
Se la B-LLC é caratterizzata dall’accumulo monoclonale di B linfociti CD5+ anergici e
autoreattivi capaci di produrre autoAb naturali polireattivi, diventa conseguente
domandarsi perché le manifestazioni autoimmuni che occorrono in così alta percentuale
sono invece causate da autoAb policlonali e perché gli autoAb patogeni hanno un
bersaglio antigenico ristretto alla linea emopoietica, essendo diretti quasi esclusivamente
contro Ag propri della membrana eritrocitaria (anemia emolitica autoimmune) o
piastrinica (piastrinopenia autoimmune). La policlonalità degli autoAb patogeni di per se
stessa garantisce che essi non vengono prodotti dal clone neoplastico. Inoltre, questi
autoAb sono di classe IgG, monoreattivi e ad alta affinità (3).
Un’interpretazione che consente di mettere insieme i diversi pezzi del puzzle é fornita
dalla possibilità che, in un contesto appropriato, le cellule di B-LLC possano fungere da
APC capaci di presentare ai B linfociti normali residui Ag selettivamente ristretti (4). In
vitro, la stimolazione mediante CD40L del CD40 espresso sulla superficie dei B linfociti di
B-LLC regola positivamente l’espressione di CD80 e CD86 e trasforma i B linfociti
neoplastici anergici CD80-, CD86- in APC CD80+, CD86+ assai efficienti (27). E’ verosimile
che in vivo le cellule di B-LLC possano, nell’appropriato microambiente, essere attivate dal
sistema CD40-CD40L a diventare efficienti APC. E’ intuitivo pensare che il microambiente
più appropriato a questo tipo di attivazione sia il microambiente splenico. Una delle
funzioni fondamentali della milza é quella emocateretica, cioè il sequestro e la rimozione
delle cellule ematiche senescenti e/o anormali. Ne consegue che le cellule di B-LLC che si
accumulano progressivamente nella milza finiscono per essere incessantemente esposte ad
un gran numero di prodotti di degradazione di cellule ematiche anucleate (eritrociti e
96
piastrine) rimosse dal circolo dal sistema reticoloendoteliale splenico. Non é quindi
irragionevole ipotizzare (4) che nel microambiente splenico le cellule di B-LLC vengano a
contatto con forme solubili di strutture di membrana eritrocitaria e/o piastrinica e, previa
attivazione da parte dei T linfociti attraverso il sistema CD40/CD40L, acquisiscano la
capacità di presentare questi prodotti di degradazione di membrana (autoAg) ai B linfociti
residui normali. Questi potrebbero essere stimolati a produrre autoAb monoreattivi,
patogeni, specificamente mirati contro le strutture di membrana self. Questa ipotesi non
solo può spiegare la ristretta specificità degli autoAb patogeni della B-LLC, ma, dal
momento che le cellule rimosse dalla milza nell’espletamento della funzione emocateretica
sono anucleate, può anche spiegare perché gli autoAb che caratterizzano le malattie
autoimmuni sistemiche, quali Ab anti nucleo e anti-DNA, siano tipicamente assenti nella
B-LLC e perché malattie autoimmuni sistemiche nella B-LLC siano praticamente assenti.
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97
Leucemia linfatica cronica: dalla chemioterapia convenzionale ai nuovi
farmaci
C. Bernasconi e G. Pagnucco
Istituto di Ematologia, Università di Pavia, IRCCS Policlinico S. Matteo
La leucemia linfatica cronica (LLC) è una malattia linfoproliferativa clonale
caratterizzata dall’accumulo nel midollo, nel sangue e negli organi linfoidi periferici, di
linfociti B piccoli, morfologicamente maturi, scarsamente proliferanti e in vario grado
funzionalmente incompetenti. Tali cellule esprimono alti livelli delle proteine antiapoptotiche BCL-2 e BCL-XD e bassi livelli della proteina pro-apoptotica BAX (1).
Nonostante ciò la LLC è una malattia estremamente eterogenea, sia per la varietà, alla
diagnosi e durante le fasi evolutive, delle espressioni citologiche e immunofenotipiche sia
per l’estrema variabilità del decorso clinico, da forme praticamente asintomatiche, in cui la
sopravvivenza senza trattamento è simile a quella della popolazione sana di pari età, a
forme particolarmente aggressive, in cui l’evolutività e la scarsa risposta terapeutica
determinano un andamento ingravescente e infausto a breve termine.
Tale eterogeneità ha spinto vari studiosi a ricercare criteri utili nell’orientare le scelte
terapeutiche e volti ad individuare gruppi omogenei di pazienti sui quali l’effetto della
terapia possa essere giudicato, utilizzando criteri oggettivi per la valutazione delle
risposte. Le importanti implicazioni di questo approccio sono la disponibilità fin
dall’esordio di criteri diagnostici e di una serie di fattori prognostici di sicura importanza e
la necessità, durante il decorso clinico, di definire con precisione che cosa si intenda per
malattia attiva o in progressione. Il National Cancer Institute-Sponsored Working Group on
CLL ha recentemente pubblicato delle linee guida per la diagnosi e il trattamento della
LLC estremamente utili a tale riguardo (2). É poi da sottolineare che la prima decisione
terapeutica nella LLC non riguarda le modalità di trattamento, ma se i pazienti debbano
essere trattati fin dal momento della diagnosi.
Diagnosi, fattori di prognosi e indicazioni per iniziare la terapia
I requisiti minimi per la diagnosi di LLC sono stati individuati in una linfocitosi nel
sangue periferico (conta linfocitaria assoluta di 5000 per mm3 o superiore) con linfociti di
aspetto maturo e immunofenotipo caratterizzato dall’espressione di SIg a bassa intensità
monoclonali (più frequentemente IgM o IgM e IgD) e degli antigeni pan-B CD19 e CD20,
dell’antigene CD23 e dalla coespressione dell’antigene CD5 (2). Tale impostazione
restrittiva nella diagnosi immunofenotipica, oltre a permettere la diagnosi differenziale
della LLC rispetto alle altre malattie linfoproliferative croniche in fase leucemica, consente
l’inclusione nei trials clinici e negli studi biologici di gruppi di pazienti omogenei, con i
conseguenti indiscutibili vantaggi nella interpretazione dei risultati ottenuti.
98
Oltre allo stadio clinico, definito secondo Rai (3,4) e Binet (5), i fattori prognostici più
utili sono i seguenti: 1) il tempo di raddoppiamento linfocitario (<12 mesi, cattiva
prognosi); 2) il pattern diffuso di infiltrazione linfocitaria del midollo nella biopsia ossea
(cattiva prognosi); 3) il livello sierico di β-2microglobulina (livello elevato, cattiva
prognosi); 4) il livello sierico di CD23 solubile (livello elevato, cattiva prognosi).
Dighiero e coll. (6) hanno recentemente pubblicato i risultati di due studi
randomizzati condotti tra il 1980 e il 1990, dimostrando che iniziare precocemente la
terapia con chlorambucil, da solo o in associazione al prednisone, in pazienti affetti da
LLC con malattia indolente (stadio A), non prolunga la sopravvivenza. Per tale motivo
l’inizio della terapia citotossica va procrastinato fino a quando non compaia almeno una
delle seguenti evidenze di malattia attiva o in fase di progressione: 1) presenza di sintomi
generali correlati alla malattia (sintomi B, grave astenia); 2) linfoadenomegalie ed
epatosplenomegalia in rapida progressione o massive; 3) tempo di raddoppiamento
linfocitario inferiore a 12 mesi; 4) stadio III o IV di Rai; 5) anemia o trombocitopenia
autoimmuni.
Chlorambucil: dall’impiego convenzionale alle alte dosi
Il chlorambucil (CLB) è l’agente più frequentemente utilizzato, singolarmente o in
associazione al prednisone (PD), nel trattamento della LLC, e resta tuttora il farmaco di
riferimento in questa patologia. Impiegato in associazione con PD, al dosaggio
convenzionale di 0,08-0,16 mg/kg/die negli schemi di somministrazione continua e di 0,41,2 mg/kg/die ogni 2/4 sett. negli schemi intermittenti, consente di ottenere percentuali
di risposta globale del 38-75% e di RC del 10% circa, senza significative differenze di
sopravvivenza (7-14).
Recentemente, pur confermando l’indicazione alla terapia corticosteroidea per il
trattamento delle complicanze, è stata dimostrata l’assenza di significativi vantaggi
dell’impiego di PD in associazione con CLB da studi che hanno specificatamente
affrontato questo problema (15) e da una recente metanalisi (16). L’impiego di routine del
PD non ha quindi motivazioni vista la scarsa attività antineoplastica e le frequenti
controindicazioni in una popolazione di età avanzata.
Nella LLC in fase avanzata l’uso del CLB a dosi elevate (12-15 mg/die) e con
somministrazione giornaliera continua per periodi di 3-4 sett. (8) o fino al raggiungimento
della RC o di tossicità di grado 3 o per un periodo massimo di 6 mesi (11) consente di
ottenere una dose intensity molto superiore a quella degli schemi convenzionali. Con tale
modalità innovativa di impiego del CLB (HD-CLB), seguita da mantenimento con basse
dosi per prolungati periodi, Jaksic e coll. hanno riportato in studi multicentrici
randomizzati percentuali di risposta e mediane di sopravvivenza significativamente
superiori a quelle ottenute sia con CLB+PD a dosi standard secondo lo schema di Sawitsky
(11) sia con la polichemioterapia CHOP a basse dosi secondo lo schema del Gruppo
Cooperatore Francese (17). Inoltre, nello studio randomizzato di fase II condotto
dall’EORTC in pazienti con LLC in fase avanzata non pretrattata attualmente in corso, le
percentuali di risposta e la sopravvivenza a 2,5 anni ottenute con HD-CLB non sono
risultate inferiori a quelle della fludarabina (18).
Nella LLC indolente i risultati di due studi randomizzati condotti dal Gruppo
Cooperatore Francese dimostrano che l’inizio precoce di un trattamento con CLB da solo o
99
in combinazione con PD, anche se può ritardare la progressione della malattia, non
determina alcun vantaggio in termini di sopravvivenza, rispetto a differire il trattamento
al momento della progressione in stadio B o C (6).
Polichemioterapia
La polichemioterapia è stata impiegata nelle forme avanzate di LLC sia come terapia
di salvataggio che come terapia primaria, nel tentativo di dimostrare una superiorità
rispetto al CLB, con risultati deludenti (Tab.1).
L’associazione COP o CVP (ciclofosfamide, vincristina, prednisone) ha consentito di
ottenere un tasso di risposta del 52% in pazienti non pretrattati e del 31% in pazienti
pretrattati (19). La superiorità di questa combinazione rispetto all’associazione CLB+PD
non è stata dimostrata, nonostante le migliori percentuali di risposta ottenute, in nessuno
degli studi prospettici randomizzati condotti in pazienti in stadio avanzato (9,14,15,20).
Uno dei risultati più importanti dello studio francese CLL 80 riguardante il confronto
tra regime CHOP modificato (mini-CHOP) e regime COP è stata la dimostrazione che
l’aggiunta dell’adriamicina a basse dosi (25 mg/m2) porta un effettivo vantaggio
terapeutico nello stadio C, con tassi di sopravvivenza a 3 anni di 71% vs 28% e
sopravvivenze mediane di 62 vs 22 mesi rispettivamente (21). Va tuttavia ricordato che
nello studio ECOG è stata ottenuta negli stadi III e IV di Rai una sopravvivenza mediana
di 49 mesi con un regime COP intensificato (20). Recentemente il regime CHOP è stato
confrontato in studi randomizzati dai Gruppi Cooperatori Danese (22), Francese (23) e
Svedese (24) con l’associazione CLB+PD in pazienti di stadio B e C, ottenendo percentuali
di risposta più elevate, ma non vantaggi in termini di sopravvivenza. Il confronto tra HDCLB e mini-CHOP in 228 pazienti con malattia avanzata o in progressione non pretrattata
ha evidenziato percentuali di risposta significativamemte migliori (89,5% vs 75%) e una
più lunga sopravvivenza mediana (68 mesi vs 47 mesi) con l’HD-CLB (17).
Negli studi condotti all’MDACC per verificare l’efficacia delle antracicline le risposte
sono state valutate utilizzando sia i parametri clinici e ematologici periferici che la biopsia
ossea. Le percentuali di RC ottenute nei pazienti non pretrattati sono state migliori con il
CAP (25) rispetto al POACH (26) (ciclofosfamide, adriamicina, vincristina,
citosinarabinoside, prednisone) (43% vs 21%) ma la sopravvivenza mediana è risultata
identica (5 anni). Con il regime POACH soltanto il 6% dei pazienti pretrattati ha
conseguito la RC.
Con il protocollo M-2 utilizzato all’MSKCC nella LLC in fase avanzata e basato
sull’impiego combinato di più agenti alchilanti (ciclofosfamide, BCNU, melphalan,
vincristina, prednisone) sono state per la prima volta dimostrate delle RC midollari
immunofenotipiche (27). Le percentuali di RC ottenute nei pazienti non pretrattati e
pretrattati sono state 32% e 0% rispettivamente. In uno studio similare condotto in Italia
(MINA) basato sul protocollo M-2 ed utilizzante il peptichemio al posto del BCNU è stato
riportato il 35% di RC (28).
100
Analoghi delle purine
Gli analoghi purinici sono stati introdotti a metà degli anni ’80 nei protocolli di
ricerca clinica per la dimostrata attività nella LLC e nei disordini linfoproliferativi
indolenti. La fludarabina (FAMP) è stato quello più estensivamente utilizzato. La 2clorodeossiadenosina (2-CDA) solo più recentemente è stata studiata nelle varie modalità
di somministrazione, intravenosa, sottocutanea e orale. La 2'-deossicoformicina (DCF o
pentostatina) è risultata fin dall’inizio di limitata efficacia nella LLC.
L’efficacia della FAMP impiegata come singolo agente nel trattamento della LLC in
pazienti in recidiva di malattia e/o refrattari a precedenti terapie con agenti alchilanti è
risultata evidente sin dalla prima esperienza terapeutica riportata da Grever e coll. (29) ed
è stata confermata dagli studi di fase II condotti su un ampio numero di pazienti
all’MDACC (30,31,32), presso altre Istituzioni (33,34,35,36) e da uno studio multicentrico
prospettico randomizzato di fase III confrontante FAMP e CAP (14). Nella maggior parte
di questi studi la FAMP, alla dose di 20-30 mg/m2/die per 5 gg. ogni 3/4 sett., ha
consentito di ottenere risposte globali superiori al 45%. Negli studi più rappresentativi
sono state inoltre riportate percentuali di RC (30,31,32,41) del 10-14% e di RC nodulari
(30,31,32) del 15-25%, verificate con analisi immunofenotipica in citometria a flusso e del
riarrangiamento dei geni delle Ig (37). L’aggiunta di PD non ha migliorato le risposte nè
ha modificato la sopravvivenza e ha comportato una maggior incidenza di infezioni
opportuniste (31). Con l’impiego di uno schema terapeutico a minor dose intensity (30
mg/m2/die per 3 gg. ogni 4 sett.) sono state ottenute percentuali di RC (10%) e di risposta
globale (46%) paragonabili, una sopravvivenza tendenzialmente migliore, una minore
incidenza di infezioni e una inferiore riduzione dei linfociti CD4+ nei primi 3 mesi di
terapia (32). I fattori prognostici condizionanti sfavorevolmente la risposta e la
sopravvivenza sono stati: entità del pretrattamento, refrattarietà a precedente terapia con
alchilanti, stadio e età avanzati (38). Il tempo mediano di progressione dei pazienti
pretrattati rispondenti è risultato di 21 mesi. La tossicità più importante nei pazienti
pretrattati è stata la mielotossicità, più frequente nei pazienti pesantemente trattati o con
malattia di stadio avanzato o di età avanzata, e l’ immunodepressione, osservata in tutte le
categorie di pazienti, con aumentato rischio di anemia emolitica autoimmune grave (39).
L’impiego a dosi standard della FAMP nel trattamento iniziale della LLC sintomatica
o in progressione come singolo agente (40) o in associazione con PD (31) ha consentito di
ottenere, presso l'MDACC in 174 pazienti, percentuali di RC e di risposta globale del 29%
e del 78%, rispettivamente, con un tempo mediano di progressione di 33 mesi (41). Tali
risultati hanno aperto la strada a studi comparativi di fase III della FAMP vs terapia
convenzionale (CLB o polichemioterapia) con l’intento di rispondere al quesito della
terapia di prima linea di elezione nella LLC. I risultati dei due studi prospettici
randomizzati recentemente conclusi sono riportati nella Tab. 2. Nello studio del Gruppo
Cooperatore Francese 100 pazienti non pretrattati in stadio avanzato hanno ricevuto
terapia con FAMP a dosi standard o secondo lo schema CAP per 6 cicli (42); lo studio
Intergruppo Nordamericano è stato condotto su 385 pazienti con malattia attiva
impiegando la FAMP a dosi standard o il CLB alla dose di 40 mg/m2 ogni 4 sett. (43). In
entrambi gli studi sono state ottenute migliori percentuali e durate di risposta con la
101
FAMP rispetto al CLB o al CAP, ma non è stato osservato un prolungamento della
sopravvivenza. Lo studio randomizzato FAMP a dosi standard vs CAP vs CHOP del
Gruppo Cooperatore Francese condotto su pazienti in stadio B e C non è ancora concluso;
all’ultima analisi ad interim sono stati per ora osservati risultati significativamente migliori
della FAMP in termini di risposta e di sopravvivenza soprattutto nei confronti del CAP
(44).
La 2-CDA impiegata in infusione continua alla dose di 0,1 mg/kg/die per 7 gg. in 90
pazienti con malattia in progressione e resistenti al trattamento di prima linea ha
consentito di ottenere una risposta globale del 44% con il 4% di RC e una durata mediana
di risposta di 4 mesi (45). In uno studio europeo condotto su 52 pazienti, utilizzante criteri
per definire la RC diversi da quelli specificati nelle linee guida del NCI (2), sono state
riportate una risposta globale del 58% con 31% di RC e una durata mediana attuariale
della risposta di 20 mesi (46). In pazienti non pretrattati utilizzando varie modalità di
somministrazione, infusione continua (47) o infusione di 2 ore alla dose di 0,12 mg/kg/die
per 5 gg. (48,49) o orale alla dose di 10 mg/m2 per 5 gg. ogni 4 sett. (50), sono state
ottenute risposte globali del 75-80% con 25-47% di RC e effetti a lungo termine sulla
progressione e sulla sopravvivenza ancora da determinare. Le principali tossicità
riscontrate sono state la mielodepressione e l’immunodeficienza T-cellulare con il relativo
spettro di infezioni.
La 2-DCF appare meno efficace. Nella metanalisi relativa a quattro studi di fase II, in
113 pazienti affetti da LLC in stadio avanzato nella grande maggioranza pretrattati, viene
riportato un tasso di risposta globale del 25% (range 18-35%), con risposte quasi
esclusivamente rappresentate da RP anche nei pazienti non pretrattati (51).
Terapie innovative emergenti
Associazioni tra analoghi purinici e alchilanti
Nonostante l'elevata efficacia della FAMP come agente singolo, la recidiva resta un
evento costante. Per tale motivo e per la mancanza di una significativa tossicità
extraematologica, vengono attualmente sperimentate combinazioni con altri farmaci, sulla
base di evidenze di effetti additivi o sinergici, con l’intento di migliorare le percentuali di
risposta, ottenendo un maggior numero di RC. In particolare la potente inibizione
esercitata dalla FAMP sui meccanismi di DNA repair costituisce il razionale per la sua
associazione con farmaci il cui meccanismo di azione è quello di alterare la struttura del
DNA. Questo tipo di approccio comporta tuttavia una maggiore mielotossicità e una
riduzione della dose totale degli agenti utilizzati nella combinazione.
All’MDACC, in 24 pazienti resistenti sia agli alchilanti che alla FAMP, l’impiego
della combinazione di FAMP, alla dose di 30 mg/m2/die per 3 gg., e di ciclofosfamide,
alla dose di 300 mg/m2/die per 3 gg., ha consentito di ottenere una risposta globale del
38% con il 4% di RC (53). Un risultato di grande interesse considerato il fatto che, prima
dell’introduzione di tale associazione nessun trattamento si era dimostrato efficace in tale
categoria di pazienti.
Il terzo braccio dello studio Intergruppo Nordamericano, contemplante la
combinazione CLB+FAMP in pazienti non pretrattati, è stato chiuso per l'eccessiva
mielotossicità e in quanto la percentuale di risposta osservata era risultata sovrapponibile
a quella ottenuta con la sola FAMP (52). Il potenziale terapeutico dell’associazione di
102
ciclofosfamide e FAMP in pazienti con LLC non trattata è stato valutato da una serie di
studi di fase II prevedenti o l’impiego della ciclofosfamide a dosi ridotte senza (53) e con il
supporto di G-CSF (53,54) in combinazione con la FAMP o l’uso sequenziale dei due
singoli agenti impiegando la ciclofosfamide ad alte dosi come terapia di consolidamento
con l’intento di incrementare le risposte ottenute con la FAMP (55). Con l’impiego in
combinazione si è osservata una rapida e importante riduzione della massa tumorale
accompagnata da citopenie e infezioni, limitate dall’impiego del G-CSF e dalla profilassi
antibatterica e antivirale. Il problema delle infezioni opportuniste si è rivelato
particolarmente importante con l’associazione di pentostatina, CLB e PD (56),
probabilmente in relazione all’uso del cortisone e alla mancata profilassi antibatterica e
antivirale. I risultati preliminari di tali associazioni (Tab. 3) sono promettenti e richiedono
di essere verificati in studi di fase III per trarre conclusioni definitive sul loro impiego in
prima linea.
Anticorpi monoclonali
Un nuovo approccio biologico nel trattamento della LLC è costituito dall’impiego di
anticorpi monoclonali chimerici diretti verso antigeni espressi dalle cellule leucemiche.
Tali anticorpi sono realizzati mediante ingegneria genetica in modo tale da presentare la
porzione variabile di origine murina e quella costante di origine umana, hanno una
emivita prolungata e sono in grado di determinare la distruzione delle cellule a cui si
legano attraverso l’attivazione del complemento, delle cellule citotossiche e dei
meccanismi molecolari dell’apoptosi. Due di tali anticorpi, il CAMPATH-1H e l’IDECC2B8 (rituximab), sono attualmente attivamente studiati nella LLC.
Il CAMPATH-1H si lega in modo specifico all’antigene CD52, espresso da più del
95% dei linfociti T e B, cellule della LLC-B comprese. I risultati degli studi in cui il
CAMPATH-1H è stato impiegato in pazienti non precedentemente trattati o pesantemente
pretrattati affetti da LLC sono riassunti nella Tab. 4 (57-62). Nello studio multicentrico
europeo condotto su 29 pazienti pretrattati è stata ottenuta una risposta globale del 42%
(57). Dai primi studi effettuati è emerso che tale anticorpo agisce preferenzialmente su
sangue periferico, midollo osseo e milza, e che è meno efficace nei linfonodi. Le tossicità
osservate comprendono, oltre a quella autolimitante correlata all’infusione, neutropenia e
immunosoppressione T-cellulare, che può essere particolarmente severa soprattutto in
caso di impiego per periodi prolungati, determinando l’insorgenza di infezioni
opportuniste. L’impiego del CAMPATH-1H dopo FAMP per un periodo di tempo limitato
a 4-6 sett. con lo scopo di eliminare la malattia residua è risultato altamente efficace e privo
di complicazioni (58).
L’IDEC-C2B8 si lega in modo specifico all’antigene CD20, espresso in modo variabile,
ma più frequentemete a bassa intensità, da oltre il 95% dei pazienti affetti da LLC. Si
ritiene che, in analogia a quanto riportato nel linfoma linfocitico, l’alto tumor burden e
l’espressione dim del CD20 possano avere nella LLC un impatto sfavorevole sulla risposta.
I dati disponibili relativi al suo impiego nella LLC sono comunque per ora molto limitati.
Nello studio di fase I-II con dose escalation condotto all’MDACC in pazienti recidivati o
refrattari è stata ottenuta una risposta globale del 38% (63).
Trapianto di cellule staminali emopoietiche
La possibilità di ottenere RC con l’impiego della FAMP da sola o in combinazione
con altri agenti ha portato a prendere in considerazione anche nella LLC l’approccio
trapiantologico, soprattutto nei pazienti giovani con indici prognostici sfavorevoli in cui
103
sia stata ottenuta una buona risposta alla terapia di salvataggio e, più recentemente, come
consolidamento della RC dopo terapia di prima linea, con lo scopo di migliorarne
l’aspettativa di vita. Diversi studi di fase II hanno dimostrato la fattibilità sia del trapianto
allogenico che del trapianto autologo nei pazienti con LLC (64).
Le esperienze di trapianto allogenico finora riportate sono ancora limitate e non del
tutto incoraggianti, sebbene siano state ottenute RC prolungate verificate anche a livello
molecolare in pazienti con LLC recidivata e refrattaria, per l’alta morbilità e mortalità
correlate al trapianto. Nella casistica retrospettiva policentrica di 135 pazienti raccolta
dall’International and European Bone Marrow Transplantation Registry la mortalità da
trapianto è stata del 47% e a 3 anni sono risultate una sopravvivenza del 48% e una
sopravvivenza libera da leucemia del 44% (65). Esperienze monoistituzionali hanno
tuttavia riportato mortalità da trapianto nettamente inferiori, ipotizzando un possibile
effetto del pretrattamento con FAMP nel diminuire la severità della GVHD acuta (66). Più
recentemete è stata dimostrata la fattibilità di allotrapianti con l’impiego di regimi non
mieloablativi (transplants-lite o minitrapianti) anche nella LLC (67); se l’inferiore tossicità e
l’efficacia di tali procedure fosse corroborata da ulteriori studi, le indicazioni al trapianto
allogenico potrebbero essere estese ad una più ampia fascia di pazienti.
L’introduzione delle tecniche di mobilizzazione di cellule staminali periferiche
unitamente alla diffusione di nuove metodiche di purging e di selezione delle cellule
CD34+ ha dato un particolare impulso all’impiego del trapianto autologo nella LLC.
Inoltre la possibilità che le RC ottenute con terapia ad alte dosi e dimostrate a livello
molecolare con tecniche particolarmente sensibili, quali la PCR con oligonucleotidi
paziente-specifici, siano correlate ad un miglior andamento clinico, sta creando grandi
attese sul possibile effetto di queste procedure nel modificare la storia naturale della LLC
(68). Nella casitica retrospettiva policentrica di 97 pazienti raccolta dall’International and
European Bone Marrow Transplantation Registry le cellule staminali periferiche sono state
utilizzate nel 53% dei pazienti, la mortalità da trapianto è stata del 12% e a 3 anni sono
risultate una sopravvivenza dell’80% e una sopravvivenza libera da leucemia del 56% (65).
Nonostante oltre 170 pazienti affetti da LLC siano stati sottoposti ad autotrapianto, il suo
ruolo nella strategia terapeutica deve essere ancora stabilito (64). Inoltre sono emerse
diverse problematiche, quali l’identificazione della soglia minima di contaminazione del
trapianto clinicamente significativa, il ruolo del purging e il significato clinico della
leucemia minima residua prima e dopo il trapianto, che potranno avere una risposta solo
nel contesto di studi clinici randomizzati.
Nuovi farmaci
Diversi nuovi farmaci potenzialmente utili nel trattamento futuro della LLC stanno
entrando in trials clinici di fase I e II (69):
- UCN-01: derivato idrossilato della staurosporina, potente inibitore della protein-chinasi
C.
- Briostatina: prodotto naturale, attivatore della protein-chinasi C.
- Flavopiridolo: flavone sintetico, potente inibitore delle chinasi ciclina-dipendenti.
- GW 506-U78: profarmaco dell’ara-G.
Prospettive di terapia genica
In uno studio di terapia genica di fase I (70) è stata utilizzata l’infezione ex vivo delle
cellule leucemiche con il vettore adenovirale Ad-CD154 codificante CD40-ligand
ricombinante (CD154), per rendere le cellule della LLC piu efficienti nella presentazione
104
dell’antigene, attraverso un’accresciuta espressione di CD54, CD80 (B7-1), CD86 (B7-2),
CD54, CD70 e CD95, e indurre la generazione in vitro di linfociti T citotossici autologhi
(CTL) anti cellule leucemiche, infette e non infette. La reinfusione di queste cellule nel
paziente può pertanto determinare una risposta immune anti-leucemica con potenziale
terapeutico. Tale strategia è già stata applicata in 3 pazienti ottenendo risposte cliniche
significative e con tossicità accettabile.
Conclusioni
La fludarabina è l’agente singolo che ha consentito di ottenere il maggior numero di
risposte globali e di RC documentate anche a livello molecolare nel trattamento della LLC.
Nella pratica clinica tali risultati, sebbene non vi siano ancora evidenze di un
significativo miglioramento della durata di sopravvivenza rispetto ad altri tipi di terapia,
hanno condizionato l’impiego sempre più indiscriminato della fludarabina come farmaco
di prima scelta per il trattamento iniziale della LLC. É meglio tuttavia che la decisione di
iniziare la terapia venga presa individualmente, paziente per paziente, scegliendo tra
fludarabina e agenti alchilanti, in relazione agli end-points terapeutici e alla tossicità
potenziale di ciascun trattamento, valutando la categoria di rischio definita secondo i
criteri di Rai modificati (4) e le indicazioni per iniziare il trattamento stabilite dalle linee
guida NCI (2).
Nella ricerca clinica tali risultati hanno contribuito in modo determinante al
superamento del concetto radicato di "contenimento della malattia" rappresentato
dall’impiego degli schemi a dosaggio standard di chlorambucil, aprendo la strada
all’introduzione di nuovi farmaci e a nuove strategie terapeutiche per aumentare le RC,
controllare ed eradicare la malattia residua e vincere i meccanismi intrinseci di resistenza
farmacologica, con intenti curativi.
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Tab. 1 – Risultati dei principali studi clinici randomizzati
chlorambucil verso polichemioterapia nella LLC.
109
Autore
Terapie studiate
Stadio di
malattia
N. paz.
RC (%)
RC+RP
(%)
Differenze di
sopravvivenz
a
Montserrat et al.,
1985
CLB+PD vs COP
Stadio C
96
8 vs 2
59 vs 31
No
FCG, 1990
CLB vs COP
Stadio B
291
13 vs 20
59 vs 61
No
Catovsky et al.,
1991
CLB vs COP
Stadio B e C
176
n.s.
33 vs 62
No
Raphael et al., 1991
CLB+PD vs COP
Stadio III,
IV e II in
progr.
122
25 vs 23
72 vs 82
No
Hansen et al., 1991
CLB+PD vs CHOP
Stadio B e C
157
25 vs 55
61 vs 71
No
Jaksic et al., 1997
HD-CLB vs CHOP
Avanzato
sec. TTM
228
59 vs 30
89 vs 75
Migliore per
HD-CLB
(P<.001)
CLB=chlorambucil; PD=prednisone; CHOP=ciclofosfamide,
adriamicina,vincristina, prednisone; TTM=Total Tumor Mass score
system; COP=ciclofosfamide, vincristina, prednisone; HDCLB=chlorambucil ad alte dosi continuo; n.s.=non specificato
Tab. 2 – Risultati degli studi comparativi fludarabina verso chemioterapia nella LLC
non trattata.
Periodo di reclutamento
Jhonson et al., 1996
Rai et al., 1996
Maggio 1990 – Giugno 1992
Ottobre 1990 – Dicembre 1994
FAMP
CAP
N. pazienti
52
RC (%)
P
P
FAMP
CLB
48
166
173
23
17
27
3
RP (%)
48
43
43
40
RC+RP (%)
71
60
0,26
70
43
0,0001
2,8+
0,57
<0,001
2,75
1,4
0,0002
Durata mediana di remissione
(anni)
110
Sopravvivenza globale mediana
(anni)
5+
4,35
0,087
5
4,7
0,21
FAMP=fludarabina; CAP=ciclofosfamide, doxorubicina, prednisone; CLB=chlorambucil
Tab. 3 – Risultati preliminari
della terapia con fludarabina e
agenti alchilanti in pazienti con
LLC non trattati.
Autore
Agenti utilizzati
N.
pazienti
RC (%)
RC+RP (%)
Rai et al., 1995
FAMP+CLB
91
n.s.
34
Weiss et al.,
1996
FAMP, HD-CTX
sequenziali
18
33
89
O’Brien, 1998
FAMP+ CTX
20
44
94
Flinn et al., 1998 FAMP+CTX+G-CSF
20
50
100
Oken et al.,
1998
40
44
87
DCF+CLB+PD
FAMP=fludarabina,
CLB=chlorambucil, n.s.=non
specificato, CTX=ciclofosfamide, HDCTX=ciclofosfamide ad alte dosi,
DCF=pentostatina, PD=prednisone
Tab. 4 – Riepilogo degli studi con CAMPATH-1H come
agente singolo.
Autore
N.
pazienti
Via di
somm.
Rai et al., 1993
13
EV
Durata
terapia
(sett.)
Precedent
i terapie
Profilassi
antibiotica e
antivirale
RC (%)
16
Si
No
23
111
RC+R
69
Österborg et al.,
1996
9
EV
6-18
No
No
33
89
Rawstron et al.,
1997
10
EV
6
Si
Cotrimoxazolo
, fluconazolo
50
70
Österborg et al.,
1997
29
EV
6
Si
No
4
43
Bowen et al., 1997
6
SC
6-12
Si
Cotrimoxazolo
, acyclovir
0
50
6
EV, SC
6-18
Mista
No
33
83
6
EV
4-6
Si
Cotrimoxazolo
, acyclovir
83
83
Dyer et al., 1997
EV=endovena, SC=sottocute, CMV=cytomegalovirus, VZV=varicella zoster virus,
HSV=herpes simplex virus, PCP=polmonite da Pneumocystis carinii
112
ALTE DOSI E AUTOTRAPIANTO NELLA LEUCEMIA LINFATICA
CRONICA
Ignazio Majolino, Rosanna Scimè, Stefania Tringali e Alessandra Santoro
Divisione di Ematologia e Trapianti di Midollo Osseo,
Azienda Ospedaliera V.Cervello, Palermo
La leucemia linfatica cronica (LLC),
la più diffusa forma di leucemia nei paesi
occidentali, è caratterizzata dalla proliferazione clonale e dall’accumulo di B-linfociti che
esprimono gli antigeni CD19, CD20, CD5 e, debolmente, Ig di superficie. Da un punto di
vista molecolare, il clone neoplastico è contraddistinto da riarrangiamenti genici, specifici
di ogni singolo paziente, a carico della catena pesante delle immunoglobuline. L'età media
alla diagnosi è di 65 anni. Il 40% dei pazienti ha meno di 60 anni e solo il 10-15% meno di
50.1
Il decorso clinico è variabile con forme indolenti o “smouldering,” che non richiedono
trattamento ed in cui la sopravvivenza è sovrapponibile a quella della popolazione
generale 1, e forme più aggressive con sopravvivenza inferiore a 3 anni. Lo stadio clinico,
che è espressione diretta dell'estensione della malattia, rappresenta il fattore prognostico
più rilevante 2, 3. Tuttavia, altri parametri biologici hanno mostrato rilevanza prognostica
indipendente: tra questi il tempo di raddoppiamento linfocitario 4, il pattern di
infiltrazione midollare 5, la presenza di anomalie cromosomiche 6, 7 e la risposta alla
terapia.
Dalla terapia convenzionale alle alte dosi
La diagnosi di LLC non comporta automaticamente la necessità di un trattamento. Per
le forme “attive” le terapie convenzionali, sia con chlorambucil che con associazioni polichemioterapiche (ad esempio ChOP) possono determinare risposte ematologiche e cliniche
anche di luinga durata, ma che raramente si traducono in vere remissioni complete 8.
113
L’introduzione della fludarabina ha determinato un significativo incremento del numero
di risposte, sia complete che parziali 9, con un vantaggio anche nei confronti di schemi
contenenti ciclofosfamide e antracicline 10, 11 . La fludarabina appare capace di produrre e
mantenere lunghe remissioni cliniche, ritardando il tempo alla progressione. Ma ciò si
traduce solo in un modesto aumento della sopravvivenza 12.
Parallelamente all’introduzione della fludarabina è iniziata l’esperienza con alte dosi
seguite da trapianto autologo, dapprima solo in pazienti a prognosi sfavorevole ed in
stadio avanzato. Il miglioramento delle tecniche trapiantologiche e l’impiego delle cellule
staminali circolanti (CSC) ha consentito una riduzione della mortalità e della morbilità
legate alla procedura.
dell’allogenico,
Michallet
Confrontando i dati del trapianto autologo con quelli
e
coll
13
mostrano
per
quest’ultimo
una
mortalità
trapiantologica particolarmente elevata (50%), che rende poco attraente questa opzione
nonostante la bassa probabilità di recidiva.
Esperienze di autotrapianto
Negli ultimi anni Il registro EBMT ha registrato una crescita rapida del numero di
trapianti autologhi per LLC. Infatti, dei 193 autotrapianti riportati nel periodo 1988-1998
solo l’1% è stato effettuato prima del 1990, ed oltre il 50% dopo il 1995 13.
Ad oggi sono riportati oltre 170 pazienti con LLC trattati con alte dosi di chemioradioterapia seguite da autotrapianto, la maggior parte nell’ambito di protocolli locali.
L’analisi retrospettiva EBMT li comprende quasi tutti 13. Nella tabella 1 abbiamo raccolto i
dati relativi alle esperienze più numerose sinora pubblicate, omettendo il lavoro basato sui
dati di Registro EBMT. Quasi tutti reclutavano pazienti in stadio avanzato (B o C di Binet),
fino a 65 anni di età e con lungo intervallo dalla diagnosi, ma con malattia ancora
responsiva al trattamento. Il regime mieloablativo di più frequente impiego era TBIciclofosfamide 14-16, immediatamente seguito da BEAM e da busulfano-melphalan 17,
18. La sorgente di cellule staminali era inizialmente il midollo osseo, ma più recentemente
sono state impiegate le CSC. Una forma di purging era applicata nella metà degli studi. La
mortalità riportata era ragionevolmente bassa (da 0 a 13%). La probabilità di remissione
completa dopo il trapianto oscillava nelle varie casistiche tra il 50-80%. Solo in pochi studi
è disponibile un follow-up molecolare, che pur utilizzando metodi di differente sensibilità,
mostra indiscutibilmente che è possibile ottenere la negativizzazione molecolare del
midollo osseo in più della metà dei casi (Fig 1), un dato che è naturalmente in relazione
114
con la sensibilità del metodo impiegato 18, 19. Nei paragrafi che seguono verranno
analizzati aspetti particolari della tecnica di autotrapianto nella LLC.
Mobilizzazione e collezione di CSC nella LLC
Negli studi di autotrapianto sinora riportati la sorgente di cellule staminali è stata in
prevalenza il midollo osseo. Solo recentemente sono state adottate tecniche di
mobilizzazione dei progenitori emopoietici con chemioterapia e fattori di crescita. Appare
consolidato il dato che la LLC è una condizione in cui la mobilizzazione è più difficile che
in altre patologie. Le ragioni possono risiedere nella natura stessa della malattia, che
presenta midollo costantemente invaso, nel numero e tipo dei trattamenti precedenti ed
infine nella contemporanea raccolta di linfociti neoplastici.
Dreger e coll (Dreger P., personal communication) in 53 pazienti con LLC utilizzavano
per la mobilizzazione la combinazione Dexa-BEAM impiegata per indurre una risposta
clinica. Avevano l’11% di fallimenti. Con 3 leucaferesi ottenevano una mediana di 18 x
106/kg CD34, ma il 90% dei pazienti erano vergini da trattamento. L’intervallo dalla
diagnosi era conseguentemente breve. Scimè e coll 20 in un campione di 17 pazienti
prevalentemente già trattati, ma con malattia sensibile alla fludarabina o al Dexa-BEAM,
mobilizzavano le CSC con ciclofosfamide 4 g/m2 seguita da G-CSF 5 µg/kg. Con un target
di >1 x 106/kg CD34 avevano 3 fallimenti, uno dei quali dovuto ad assenza di un picco
determinabile di CD34. La mediana di CD34 raccolte era di 2.2 x 106/kg (0.5-4.3 ). Il
numero di progenitori era significativamente superiore nella classe di pazienti in
remissione completa al momento della mobilizzazione. Meloni et al 17 utilizzavano in 20
pazienti la classica mega-dose di ciclofosfamide (7g/m2) seguita da G-CSF, ed avevano 4
fallimenti nella mobilizzazione. Sulla base di questi dati è pertanto preventivabile una
percentuale di fallimenti del 10-20%. E’ probabile che una diversa selezione dei pazienti
porti ad un miglioramento dei risultati.
Purificazione dei progenitori
Sebbene non vi siano dati certi sull’utilità del purging, la LLC è certamente una malattia
in cui la contaminazione del campione midollare o periferico è costante. Tutti i ricercatori
pertanto vorrebbero poter impiegare una sorgente di progenitori sicura, ma poche
esperienze sono ad oggi disponibili in questo campo. Pionieri nella purificazione nella
LLC sono i ricercatori del Dana-Farber di Boston 14, 19. Utilizzando midollo osseo
autologo ed un cocktail di anticorpi monoclonali (anti-CD20, -CD10), essi ottenevano una
negativizzazione PCR in 11 dei 28 campioni processati. I pazienti erano tutti rispondenti,
con malattia minima al momento della collezione. Una tecnica diversa, di selezione
positiva delle CD34 con anticorpi monoclonali legati a colonna, era impiegata in almeno
due studi pubblicati, quello di Paulus e coll 21, e quello di Scimè e coll 20. Nel primo di
questi venivano utilizzati in sequenza, con il sistema Isolex , due step di selezione, la
prima positiva e la seconda negativa. Gli autori ottenevano un recupero complessivo di
115
CD34+ del 40% con una deplezione di cellule leucemiche di circa 6 log. Nella seconda
esperienza il recupero di CD34 era complessivamente deludente (30%), e ciò sembra da
attribuire alla cattiva performance del sistema Ceprate in confronto ad Isolex.
Complessivamente si otteneva una deplezione di 2.7 log di cellule CD5/CD20+, ma non si
otteneva mai una negativizzazione molecolare dei campioni aferetici.
Alte dosi, risultati clinici
E’ ancora presto per definire l’utilità clinica delle alte dosi con autotrapianto nella LLC.
Infatti gli studi sinora pubblicati sono fondati su casistiche limitate, e sono disomogenei
per selezione dei pazienti, sorgente delle cellule staminali e loro purificazione, regimi di
mobilizzazione e di condizionamento, durata del follow-up ed eventuali terapie successive
al trapianto. Tuttavia, l’interesse nel trattamento ad alte dosi ed il suo impiego nella LLC
fanno sì che un numero crescente di pazienti sono ormai avviati a questa procedura, che
può considerarsi ormai fattibile e sicura (tab.2). Limitatamente ai pazienti in fase avanzata
di malattia, e tenendo come criterio quello della chemiosensibilità, si può considerare
avviabile al trapianto autologo il 50% circa di essi, 22. Dei pazienti elegibili, il 70% circa
ottiene una collezione di PBSC adeguata ad un trapianto sicuro (>1 x 106/kg CD34). Il
recupero ematologico, che è sempre in rapporto con i progenitori infusi, è riportato
uniformemente rapido con l’impiego di PBSC. Nell’esperienza di Scimè et al 18,
utilizzando progenitori periferici purgati, i pazienti recuperavano 0.5 x 109 /l granulociti
al giorno +15 e 25 x109 /l piastrine al giorno +20. Attecchimenti più rapidi sono riportati
da Meloni e coll 17 che impiegano però CSC non manipolate, 12 e 15 giorni
rispettivamente per 0.5 x109 /l granulociti e 25 x 109 /l piastrine. Analizzando le risposte
cliniche appare che la probabilità di ottenere la remissione completa con il trapianto è
legata prevalentemente alla sensibilità della malattia alla terapia a dosi convenzionali.
Nell’esperienza iniziale del Dana Farber , successivamente confermata in una serie più
vasta, viene riportato l’ 83% di remissioni complete durature in pazienti con malattia
minima 23. Il gruppo di Khouri riporta, in una serie di pazienti resistenti o ricaduti, una
quota di remissioni complete del 50% con una DFS del 20% 15. L’intervallo dalla diagnosi
al trapianto e l’ottenimento di una risposta molecolare dopo il trapianto, oltre alla
chemiosensibilità sembrerebbero influenzare la risposta 15, 16, 24.
Tab.1
Esperienze di autotrapianto nella leucemia linfatica cronica
Autori
N.
Età
Stadio
Status
Dx-TMO
(mesi)
Fonte di
staminali
116
Rabinowe, 1993
12
50 (27-54)
Khouri, 1994
11
59 (37-66)
Dreger, 1999
Meloni, 1999
38
20
51 (29-61)
46 (21-58)
Scimè, 1999
17
54 (34-63)
I/II =7
Mal.
III=3
Min.
IV=2
0=5
Ricaduti
I/II=3
/
III=3
Resist.
NA
Mal. Min
Avanzato
RC
BI=1
BII=13
CIV=2
11 RC
6 RP
28 (12-115
MO°
48 (15-198)
MO°
NR
NR
CSC°°
PCSC
27 (7-94)
CSC ^
Legenda: NR = non riportato; MO= midollo osseo; Mal. Min. = malattia minima; CSC = cellule
staminali circolanti; * = Purging nel 37% dei casi con selezione negativa,13% selezione positiva; °
= purging nel 100% dei casi con ab monoclonali, ab monoclonali + complemento; °° = purging nel
100% dei casi con doppia selezione; ^ = purging nel 100% dei casi con selezione positiva.
La malattia residua
Lo studio della malattia minima residua (MMR) ha assunto un ruolo crescente nel
monitoraggio biologico dei pazienti in remissione completa e nel valutare l’efficacia delle
alte dosi. Pertanto sono state sviluppate tecniche molecolari in grado di aumentare
notevolmente la sensibilità dell’indagine. Nella LLC il metodo più sensibile per lo studio
della MRD consiste nell’analisi del riarrangiamento dei geni che codificano per la regione
variabile (VDJ) della catena pesante delle immunoglobuline (IgH). Si tratta di un
marcatore molecolare di “lineage” clone-specifico, utilizzabile in più del 90% dei pazienti
25. La costruzione di primers o sonde paziente-specifiche , disegnate in accordo alla
sequenza dei CDR3 del clone neoplastico d’esordio, rende più sensibile la rilevazione delle
cellule tumorali e può essere utilizzato successivamente per lo studio della MRD dopo alte
dosi 26.
Questo approccio metodologico è schematizzato nella Fig 1. L’amplificazione di VDJ
con il primer corrispondente alla regione FR3 può fallire a causa della presenza di
mutazioni che non permettono un corretto “annealing”. Un’alternativa si basa
sull’amplificazione di un segmento di DNA più grande utilizzando il primer FR1
corrispondente alle 7 famiglie di geni VH. Utilizzando questo schema, Catania et al 27
hanno ottenuto una sequenza informativa in oltre il 90% di pazienti inseriti in un
programma di alte dosi.
117
Tab.2
Risultati clinici dell’autotrapianto nella leucemia linfatica cronica
Autori
Condiz
ANC >0.5
(gg)
Rabinowe, 1993 TBI+CY ^ 21 (18-30)
Khouri, 1994
TBI+CY 21 (10-28)
Dreger, 1999
TBI +CY
9 (8-13)
Meloni, 1999
BEAM°
12 (9-24)
Scimè, 1999
BU
12 (9-15)
/MPH°
Plt > 25
(gg)
RC
%
TRM
%
OS
%
DFS
%
29 (16-69)
35 (14-59)
11 (7-214)
15 (10-115)
20 (16-68)
83
50
NR
NR
66
7
18
5
5
11
NA
NA
95
85
77
71
27
86
54
70
Risposta
Molec.
(%)
77*
55
NR*
62
63*
Legenda: ^= irradiazione corporea + ciclofosfamide; ° = BCNU, Etoposide, Aracytin, Melphalan;
° = Busulfano, Melphalan; NR= dato non riportato; * IgH-PCR con oligo-paziente- specifico
(sensibilità 10 –4 10-6 ).
Conclusioni e prospettive
Le esperienze sinora condotte hanno dimostrato la fattibilità e la tollerabilità della
procedura di autotrapianto nella LLC come documentano le basse percentuali di TRM
uniformemente riportate. L’altro dato che emerge è la possibilità di ottenere un numero
elevato di risposte complete anche molecolari in una quota di pazienti a prognosi
sfavorevole. La risposta molecolare emerge come il fattore prognosticamente più rilevante
per la probabilità di recidiva. I candidati ideali sono i pazienti responsivi al trattamento
convenzionale. Il trapianto andrebbe collocato precocemente nel corso della malattia,
soprattutto in relazione alla possibilità di ottenere una buona mobilizzazione di PBSC. I
dati presentati in questa rassegna sono stati la base per l’avvio di uno studio randomizzato
di fase III, che si propone di determinare il ruolo del’autotrapianto nella terapia della LLC
attraverso un confronto con la sola fludarabina. Lo studio si svolge in ambito GIMEMAGITMO.
Tuttavia, nonostante il numero elevato di remissioni complete, i pazienti continuano a
recidivare dopo l’autotrapianto. Questa consapevolezza ha stimolato la ricerca in altri
settori. Si va dallo studio delle alterazioni del ciclo cellulare attraverso lo studio della p53 e
della p27 28, all’impiego di nuovi farmaci inducenti l’apoptosi come i flavopiridoli 29, alla
terapia con anticorpi monoclonali. In particolare il Campath 1-H sta producendo
incoraggianti risultati in pazienti refrattari alla fludarabina 30
Infine, al confine tra immunoterapia e regimi ad alte dosi appare promettente la
strategia del gruppo dell’MD-Anderson che, utilizzando regimi di condizionamento non
mieloablativi in trapianti allogenici, riduce significativamente la tossicità e la mortalità per
sfruttare meglio l’effetto GVL di successive infusioni di linfociti del donatore 31. Per
queste e per altre linee di ricerca è possibile intravedere un sostanziale cambiamento nel
modo di considerare la terapia di una malattia, la leucemia linfatica cronica, sinora
ritenuta incurabile.
118
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120
Figura 1: Studio della malattia minima residua nella LLC con l’im
riarrangiamento IgH delle immunoglobuline. Primers paziente-speci
collaborativo italiano (Scimè et al, 1999)
LP
CR
DB
CR
SV
CR
LMG
CR
Patients
PCR
PCR
VF
CR/E
BC
CR
PD
CR
CC
CR
DA
REL/E
LSG
PD/E
I
1
3
6
9
1
1
2
Months after
121
Fig.2 Studio del riarrangiamento IgH nella LLC . Es
Gruppo collaborativo italiano rappresentata come diag
IL MONITORAGGIO DELLA MALATTIA RESIDUA MINIMA NELLA
per mostrare la metodologia impiegata e le probabili
LEUCEMIA
sequenze informative(Catania et al, 1998
LINFOBLASTICA ACUTA (LLA): QUANDO E PERCHÉ USARLA.
A.Biondi
Clinica Pediatrica Università di Milano-Bicocca; Centro di Ricerca
"M.Tettamanti" Ospedale S.Gerardo, Monza.
Pazienti N=28
Introduzione
PCR con FR3
Nonostante
leucemia
i
significativi
linfoblastica
acuta
VDJ monoclonale
problema
della
sospensione
rilevanti.
LAL
Circa
terapia
30%
stessa.
persistono
leucemie
la
terapia
ancora
più
malattia.
di
di
e
conseguenza
il
è
infatti
ancora
durante
la
fase
di
diversi
monitorare
la
malattia
differiscono
la
in
un
della
noto
dei
della
metà
"
dopo
challenge"
degli
recidiva
è
leucemico
per
la
natura
leucemica
midollo
durante
remissione
recidiva
adulti
della
loro
metodi
VDJ non in
alla
residua
delle
la
fase
residue
di
terapia.
le
cellule
malattia,
sono
minima
sensibilità
della
rappresentare
che
e
con
malattia
tempo
della
possa
più
PCR con FR1
"resistente"
quanto
la
probabilmente
monitoraggio
per
il
VDJ non informativo 5/2
alla
comprensione
della"storia"
biologica
primer
tumore specifico
26/28 (93%)
I
acute
bambino,
precocemente
uno
clone
rilevante.
per
nel
della
VDJ monoclonale
un
clinicamente
proposti
terapia
modo
o
La
precoce
discriminare
riscontrate
della
nella
particolar
determinazione
vantaggio
ora
Non
in
bambini
persistenza
contribuire
leucemiche
la
dei
e
ottenuti
23/28 (82%)
durante
Sequenza
convenzionale
malattia
(LLA),
rappresenta
recidiva
della
potrebbe
ad
stessa
il
presenta
espressione
se
recidiva
della
progressi
un
stati
fino
(MRM)
nelle
specificità
cellule
Con
né
nel
blastiche
le
tecniche
122
convenzionali
cellule
di
citomorfologia
leucemiche
in
una
aumenta
in
modo
sensibilità
vengono
applicate
tecniche
anticorpi
diretti
contro
mieloide
e
precoci
dell'ontogenesi
transferasi
linfoide
-Tdt-
ed
nelle
è
possibile
popolazione
antigeni
enzimi
(ad
LLA)
di
significativo
immunologiche
di
(si
cellule
(fino
di
a
doppia
l'1-5%
normali
10-2/10-3)
marcatura
differenziazione
selettivamente
es.
identificare
espressi
.
La
quando
utilizzando
delle
negli
di
serie
stadi
più
l'enzima
terminal
deoxinucleotidil
veda
Ref.1per
una
la
revisione
sull'argomento).
I geni delle Immunoglobuline (Igs) e dei Recettori T per l'antigene
(TcR): targets universali per lo studio della MRM nelle LAL
I geni delle Igs e TcR condividono un medesimo motivo strutturale
caratterizzato dalla presenza di numerosi segmenti multipli e separati
di DNA che codificano per le porzioni V,J,D e C delle catene pesanti e
leggere delle Igs e delle catene dei recettori T per l'antigene (TcR).
Durante l'ontogenesi dei B e T linfociti, i geni delle Igs e dei TcR
vengono assemblati mediante un processo di riarrangiamento somatico. I
segmenti genici separati codificanti le regioni V,D, J vengono riuniti
per
formare
un
unico
esone
codificante
la
regione
variabile.
Lo studio del riarrangiamento dei geni delle catene pesanti e leggere
delle immunoglobuline (Igs) e delle catene alfa, beta, gamma e delta dei
TcR è divenuto il metodo più sensibile per valutare la clonalità di
un'espansione linfoide e ha trovato diffuso impiego nella diagnostica
immunoematologica.
Lo
studio
genotipico
delle
malattie
linfoproliferative
ha
sostanzialmente
modificato
negli
ultimi
anni
la
nostra
comprensione
e
classificazione
di
tali
patologie.
Molte
delle
conoscenze acquisite sul riarrangiamento dei geni delle Igs e dei TcR
(ricombinazione, "gerarchia" del riarrangiamento) e su altri meccanismi
che amplificano il repertorio di specificità che possono essere generate
da un linfocita B o T, sono state ottenute dallo studio delle malattie
linfoproliferative.
I
contributi
di
tali
ricerche
di
base
hanno
di
ritorno
fornito
gli
strumenti
per
una
caratterizzazione
molecolare
(clonalità,
stadio
di
differenziazione,
stipite
di
appartenenza)
di
123
leucemie
e
linfomi.
Lo studio genotipico è stato utilizzato per valutare la MRM durante la
fase di remissione di pazienti affetti da leucemie e linfomi e per
identificare
precocemente
la
recidiva.
Evidenze
di
riarrangiamento
monoclonale sono state occasionalmente rilevate in pazienti durante la
fase apparente di remissione ematologica e tale reperto ha preceduto
l'evidente
recidiva.
Un
limite
all'applicazione
di
tale
approccio
risulta
dalla
sensibilità
dell'analisi
genotipica
(1-5%)
mediante
Southern
blot.
Più
di
recente
la
disponibilità
dell'amplificazione
genica mediante PCR ha suggerito la possibilità di sviluppare strategie
che, utilizzando tale marcatore di
clonalità,
possano
essere
utilizzate
nella
maggior
parte
dei
casi
di
LLA.
Come
precedentemente
indicato,
l'ampia
variabilità
del
repertorio
antigenico
è
prodotta
dalla
ricombinazione
casuale
e
stocastica
dei
diversi
segmenti
e
dalla
variabilità
giunzionale
determinata
dall'aggiunta
di
extranucleotidi
a
livello
delle
giunzione
VDJ.
Come
mostrato
nella
Fig.1,
utilizzando
una
strategia
che
preveda
l'amplificazione
del
riarrangiamento
del
clone
leucemico
all'esordio
mediante
primers
per
V
e
J
è
possibile
identificare
la
sequenza
nucleotidica della giunzione N (sia per i geni delle Igs che per i TcR).
Un oligonucleotide complementare alla regione di giunzione rappresenta
una sonda specifica del clone leucemico utilizzabile successivamente o
come primer di una reazione di amplificazione ("allele specific-PCR-ASO)
oppure come sonda da utilizzare per l'ibridazione di prodotti di PCR
dopo
dot-blot
(2).
L'analisi
mediante
Southern
del
tipo
di
riarrangiamento
presente
all'esordio
della
malattia
può
essere
sostituita
dalla
diretta
amplificazione delle più comuni ricombinazioni dei geni TcR g e d e
della delezione di Igk, osservabili nelle "B-cell precursor" LLA, come
indicato
nella
Tab.1.
Il prodotto
di amplificazione viene
successivamente
separato
mediante
gel di poliacrilamide per confermare la natura monoclonale del campione
in esame e per ottenere mediante escissione della banda, un materiale
direttamente
analizzabile
per
ottenere
la
sequenza
di
giunzione
(3).
Numerose sono le variabili che si sono dimostrate rilevanti al fine
della
sensibilità
del
metodo:
tra
queste,
il
numero
di
cellule
analizzabili e la qualità del campione da cui viene estratto il DNA. La
sensibilità non può essere superiore al reciproco del numero di cellule
del campione. In una reazione di PCR la massima quantità utilizzabile è
pari a 1-2 ug di DNA che corrispondono a circa 1.6-3.2 x 105 cellule. Il
numero di copie di genoma analizzabili può essere pertanto incrementato
solo eseguendo diverse singole reazioni di PCR. Nel caso delle LLA,
non è possibile utilizzare il sangue periferico per valutare la MRM
durante
le
fasi
di
remissione,
poiché
il
normale
background
dei
linfociti T o B che utilizzano gli stessi segmenti di ricombinazione a
quelli
dimostrati
nel
clone
leucemico,
riducono
significativamente
la
sensibilità
della
sonda
clone-specifica.
La valutazione dei risultati di MRM è nella maggior parte dei casi
124
eseguita
mediante
analisi
semiquantitativa.
L'intensità
del
campione
in
esame viene confrontata con il segnale di intensità ottenuto in campioni
di progressive diluizioni del DNA estratto alla diagnosi della malattia
con DNA estratto da cellule mononucletate isolate da un pool di donatori
sani. Più di recente, metodi più accurati sono
stati proposti per
ridurre
al
minimo
la
variabilità
dei
risultati
e
favorirne
la
comparabilità. L'utilizzo di uno standard interno di amplificazione di
un segmento di DNA , clonato in un plasmide, corrispondente ad una
determinata ricmbinazione VJ o VDJ, di peso molecolare differente a
quelli normalmente osservabili, incluso in ogni reazione di PCR, può
permettere un confronto più accurato dell'intensità della banda ottenuta
dall'amplificazione del campione leucemico e di conseguenza una stima
quantitativa
della
MRM.
Più di recente si è resa disponibile una nuova tecnologia per la
valutazione
quantitativa
dei
prodotti
di
PCR,
denominata
“real-time-quantitativePCR”
(RQ-PCR)
(4).
Con
questo
approccio
è
possibile
utilizzare
l’attività
esonucleasica
della
Taq
polimerasi
nella
sua
direzione
5’-3’
per
la
determinazione
e
quantificazione
di
un
prodotto specifico di PCR durante la reazione stessa di amplificazione.
Mentre procede la reazione di PCR, una sonda che riconosce una sequenza
interna al prodotto di amplificazione viene degradata con la conseguente
emissione
ed
accumulo
di
un
segnale
fluorescente.
Grazie
alla
determinazione in tempo reale dei singoli prodotti di amplificazione, il
metodo è particolarmente rapido ed accurato nella determinazione di
diluizioni
seriali
durante
il
monitoraggio
della
malattia.
La
RQ-PCR
sembra
essere
particolarmente
utile
per
la
valutazione
quantitativa
della MRM, come già riportato nel monitoraggio di alcune traslocazioni
cromosomiche come la t(9;22), t(14;18) e t(8;21). Più di recente dati
preliminari sono stati riportati anche per i geni delle Ig e TcR quando
utilizzati come target per la valutazione della MRM. Nella Fig.2 sono
riportati
schematicamente
i
risultati
comparativi
dei
due
approcci
relativi
ad
un
caso
esemplificativo.
Quale
LLA?
impatto
dello
studio
della
MRM
nell'
approccio
al
paziente
con
La maggior parte dei dati fino ad ora pubblicati sono relativi alle LLA
del bambino. In tale contesto i dati inizialmente prodotti da diversi
gruppi sulla correlazione tra MRM ed evoluzione clinica sono risultati
contradditori (si veda ref.1). Sebbene in alcune serie di pazienti sia
stata osservata una buona correlazione tra persistenza di malattia ,
valutata come MRM, e la successiva recidiva (5,6), in altre casistiche
l'osservazione di MRM anche a 1-2 anni dalla diagnosi, in pazienti
rimasti in remissione completa , ha sollevato qualche dubbio sul suo
reale
significato
(7).
I
risultati
ottenuti
più
recentemente
su
casistiche più ampie e più omogenee per trattamento hanno permesso di
cominciare a delineare un pattern di comportamento della MRM nelle LLA
125
del bambino più omogeneo anche utilizzando strategie diverse. I dati
indipendenti di numerosi gruppi hanno indicato che la persistenza di
malattia al termine della prima fase di induzione (come misura della
citoriduzione
e
di
conseguenza
indirettamente
di
sensibilità
al
trattamento)
ben
correla
con
la
probabilità
di
successive
ricadute
(8,10). Altri studi hanno invece indicato nella persistenza di malattia
specie al termine della fase di consolidamento, l'elemento di maggiore
significatività più che la positività rilevata ad un determinato momento
della
terapia
(10).
In
tale
contesto
si
collocano
i
dati
ottenuti
nell'ambito
del
gruppo
cooperativo
"I-Berlin-Frankfurt-Munster"
(I-BFM)
che
comprende
centri
dei
seguenti
paesi
europei:
Germania,
Italia,
Olanda ed Austria. Lo studio condotto su 240 bambini affetti dal LAL, si
è
proposto
di
valutare
il
valore
predittivo
della
MRM
mediante
amplificazione della regione di giunzione dei geni TcRd , TcRg, Igk e
TAL-1. La negatività della MRM ai diversi tempi del trattamento è
risultata
significativamente
associata
ad
una
bassa
incidenza
di
recidive (3-15% a tre anni), e al contrario un incremento di 5-10 volte
degli eventi (39-86% a tre anni) si è osservato nei casi di MRM
positiva.
Il
dato
della
MRM
è
risultato
essere
un
fattore
prognosticamente
indipendente
da
altri
parametri
clinici
e
biologici
della malattia all’esordio, in particolar modo quando valutata alla fine
dell’induzione
e
prima
del
consolidamento.
A
questi
tempi
di
trattamento,
la
presenza
di
un
livello
di
MRM
*10-2
è
risultato
associato ad un’incidenza di almeno tre volte superiore di recidive a
confronto con i casi con MRM *10-3. L’analisi della MRM a tempi più
tardivi
dalla
diagnosi
è
risultata
ancora
più
significativa
nell’identificare
i
pazienti
con
successiva
recidiva.
In
base
ai
dati
di
MRM
relativi
ai
tempi
precoci
è
stato
possibile
stratificare
i
pazienti in funzione del rischio relativo di ricaduta , fornendo le basi
per
un
futuro
suo
utilizzo
in
protocolli
clinici.
Conclusioni
L'approccio
molecolare
allo
studio
della
malattia
residua
in
pazienti
affetti da leucemia acuta
conferma
lo
straordinario
impatto
che
le
tecniche di biologia molecolare hanno avuto in campo emato-oncologico.
Ciò che diventa ovviamente rilevante, considerando il sempre più rapido
affinamento e semplificazione delle tecniche di analisi molecolare, è la
possibilità di dimostrare dal punto di vista sperimentale il significato
di una remissione " molecolare" in rapporto alla risposta terapeutica,
alla
prognosi
e
in
ultima
analisi
alla
sopravvivenza
dei
pazienti
affetti
da
leucemia
acuta.
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127
TERAPIA
CONVENZIONALE
DELLA
LEUCEMIA
ACUTA
LINFOBLASTICA
Giuseppe Todeschini, Giovanni Pizzolo
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Sezione di Ematologia, Università degli Studi di
Verona, Policlinico G.B. Rossi, 37134 VERONA
Un lungo cammino
La storia della terapia delle leucemie acute linfoblastiche (LAL) inizia nei bambini
alla fine degli anni '50 con le prime remissioni complete (RC) di breve durata ottenute con
la somministrazione di steroidi. A partire dagli anni '60, l'aggiunta nelle fasi iniziali del
trattamento del Methotrexate (MTX) e della Vincristina (VCR) e, più tardivamente,
dell'Asparaginasi (ASI) incrementano la percentuale delle RC e ne allungano la durata. Si
documenta inoltre l'utilità della terapia di mantenimento con 6-mercaptopurina (6-MP) e
MTX. I trattamenti diventano via via più complessi e articolati e si integrano con altri
farmaci come la Ciclofosfamide (CTX) e le Antracicline. Il prolungamento delle RC che ne
deriva rende palese il problema del frequente coinvolgimento leucemico del sistema
nervoso centrale (SNC) per il quale vengono via via perfezionate misure profilattiche
basate inizialmente sull'irradiazione (RT) del cranio (±nevrasse) e sulla introduzione
intratecale di MTX. La progressiva intensificazioni e articolazione terapeutica,
l'affinamento delle tecniche diagnostiche, l'adattamento della strategia terapeutica sulla
base dell'identificazione di gruppi di rischio (differenziati in base alla presentazione
clinica, alle caratteristiche immunofenotipiche, citogenetiche e molecolari), il
miglioramento della terapia di supporto, le indicazioni emerse da grandi studi
randomizzati multicentrici hanno portato le percentuali complessive di guarigione nei
bambini a oltre il 70% (circa 85% nei bassi rischi, 70% nei rischi standard, intorno al 50%
negli alti rischi) (1).
Il trattamento delle LAL dell'adulto, in gran parte derivato da quelli adottati con
successo nei bambini, ha ottenuto e ottiene risultati di gran lunga inferiori, non tanto in
termini di conseguimento della RC ma della sua durata e quindi di possibilità di cura della
malattia. Infatti, l'event free survival (EFS) complessivo nelle LAL dell'adulto (escluse le
LAL-B mature, corrispondenti alle forme FAB L3, in cui i moderni trattamenti ottengono
risultati di gran lunga migliori) (2) è compresa tra il 25% e il 40% dei casi trattati (3).
Risultati così modesti, se confrontati con quelli dei pazienti in età pediatrica, dipendono
128
sia dalla maggiore aggressività biologica della malattia [tra cui la maggior frequenza di
anomalie citogenetiche "sfavorevoli", in particolare la t(9;22)], sia dalla minore tolleranza ai
trattamenti e dalla maggiore morbilità e mortalità ad essi associate nei soggetti adulti. Di
fatto, tutte le LAL dell'adulto sono da considerare ad alto rischio e molte di esse ad
altissimo rischio.
Saranno qui sinteticamente riportate le strategie terapeutiche convenzionali, i
risultati e le principali problematiche del trattamento delle LAL dell'adulto.
Fasi terapeutiche
Il trattamento convenzionale delle LAL dell'adulto, tranne che nelle poco frequenti
forme B mature nelle quali la strategia terapeutica (quanto mai efficace) è del tutto
diversificata (vedi oltre), si articola in varie fasi.
Induzione della RC
Il conseguimento, nel più breve tempo possibile, di una RC che ristabilisca la
normale funzione emopoietica e riduca quanto più possibile la quota leucemica residua
rappresenta la prima e obbligatoria tappa per il raggiungimento dell'obiettivo finale
costituito dalla guarigione. La ricerca della massima efficacia terapeutica deve peraltro
evitare una eccessiva tossicità che deve comunque essere controllabile con la terapia di
supporto. La fase di induzione della RC prevede, nella maggior parte degli schemi
utilizzati per le forme non B-mature, l'uso di Prednisone (PRN), VCR, Antracicline o
Mitoxantrone (MITX), spesso anche di ASI e talora di CTX e Citarabina (Ara-C) (3). Mentre
è definitivamente accertato il ruolo di PRN, VCR e Antracicline (o MITX) nel
conseguimento della RC, meno evidente appare quello degli altri farmaci. Le varie
Antracicline [Daunomicina (DNM), Doxorubicina (DOXO) Idarubicina (IDA)] o il MITX
sembrano ugualmente efficaci (4,5). Il PRN è somministrato giornalmente per circa un
mese, la VCR settimanalmente per 4-5 volte, le Antracicline a cicli (da 1 a 3) di 1-3 giorni.
Sono state sviluppate anche terapie di induzione con associazioni chemioterapiche
diverse da quelle usuali. Per esempio, alte dosi di Ara-C e MITX senza VCR e PRN (6) o un
regime "myeloid-like" in cui i classici farmaci in uso nelle LAL venivano usati in una
seconda fase dell'induzione, dopo un trattamento iniziale da leucemia mieloide acuta (7).
Tali regimi "diversi" sono stati peraltro applicati solo a studi pilota, non essendo emersi
sostanziali vantaggi dal loro impiego.
Consolidamento/intensificazione
Segue al completamento della fase di induzione. Si articola in combinazioni
variabili di farmaci, a dosaggi spesso elevati, usualmente comprendenti Ara-C,
129
Epipodofillotossine,
MTX,
CTX
e
altri
farmaci
(3).
L'impatto
del
consolidamento/intensificazione e delle sue varie modalità nel migliorare i risultati in
termini di guarigione delle LAL, ancorchè fortemente suggerito da alcuni studi, non è
definitivamente chiarito (3).
Profilassi delle localizzazioni al SNC
Ha lo scopo di ridurre al minimo l'incidenza delle ricadute al SNC che nella storia
naturale delle LAL, in assenza di un trattamento profilattico efficace, è assai elevata (fino
al 50%) specie nelle LAL-B mature, ma anche nelle altre forme soprattutto in presenza di
elevata conta leucemica circolante. Un tempo prevalentemente basata sulla RT
dell'encefalo al termine del trattamento di induzione e di consolidamento e sulla
somministrazione intratecale di MTX, si è via via arricchita di diverse modalità e schemi
comprendenti, in varie combinazioni, la RT (dosaggi compresi tra 18 e 24 Gy),
somministrazioni intratecali di MTX, ± Ara-C, ± steroide, e trattamenti per via sistemica ad
alte dosi con MTX e Ara-C (in grado di superare la barriera ematoencefalica e di
raggiungere adeguati livelli nel liquor). Tali approcci hanno ridotto l'incidenza delle
localizzazioni leucemiche al SNC a percentuali mediamente inferiori al 10% (3,8,9). Va
tenuto presente che la profilassi con alte dosi di MTX e/o Ara-C può provocare tossicità
neurologica rilevante, specialmente nei soggetti anziani.
Terapia di mantenimento prolungata
Di dimostrata efficacia nelle LAL del bambini, è stata trasferita con modalità simili
nelle forme dell'adulto (con esclusione delle LAL-B mature). Si basa sulla
somministrazione giornaliera per os di 6-MP e settimanale per via intramuscolare di MTX.
Il tutto per un periodo prolungato, di solito di 2 o 3 anni. Il ruolo di un tale trattamento e
della sua durata nelle LAL dell'adulto non è definitivamente accertato, ma dati indiretti
sembrano confermarne la validità. In particolare, negli studi con breve o assente terapia di
mantenimento, l'incidenza di ricadute appare più elevata (3,10,11).
Risultati
I più recenti trattamenti di induzione ottengono, nelle LAL non B-mature
dell'adulto, percentuali di RC variabili tra il 70 e il 90% (3). Gli studi monocentrici
mostrano più elevate % di RC rispetto ai multicentrici. I motivi del mancato
conseguimento della RC nella totalità dei casi sono da ricondurre alla mortalità/morbilità
tossica e/o alla resistenza al trattamento di induzione. Tali evenienze si verificano
soprattutto nei pazienti più anziani (> 60 anni), a causa dell'alta incidenza di forme
prognosticamente sfavorevoli (vedi oltre), della tossicità ematologica e d'organo in
130
soggetti spesso con patologie associate e in condizioni generali compromesse, della elevata
frequenza di complicanze infettive gravi, solo in parte ridotte dall'uso dei fattori di
crescita.
Mentre risulta abbastanza agevole valutare l'efficacia di una determinata strategia
di induzione nel conseguimento della RC, risulta più difficile identificare con certezza il
ruolo specifico dei vari farmaci e delle loro modalità di somministrazione (tempi, dosaggi,
frazionamenti,
ecc)
nelle
varie
fasi
terapeutiche
(induzione,
consolidamento/intensificazione, mantenimento) per il conseguimento dei migliori
risultati. Appare comunque certa l'utilità dell'impiego in induzione delle Antracicline con
forti evidenze a favore di dosaggi più elevati (12-14).
Un'ampia recente revisione dei principali studi (>100 pazienti) fornisce una utile
sintesi degli attuali risultati nel trattamento della LAL (non B-mature) dell'adulto (3). Vi
sono complessivamente considerati oltre 2200 pazienti, con età mediana compresa tra i 25
e i 35 anni, inseriti in 8 studi (9,11,15-20). La terapia ha in comune l'impiego di VCR,
steroide e Antracicline (nella maggioranza dei casi DNM), a dosi variabili. l'ASI è
compresa in 4/8 studi, il CTX in 5/8. Tutti gli studi si articolano in una terapia di
consolidamento complessa, a più farmaci. L'Ara-C figura in tutti gli schemi di
consolidamento a dosi standard/intermedie, e in uno studio ad alte dosi. In 4 studi è
previsto il MTX, nello studio GIMEMA alla dose di 1g/m2. In tutti meno uno (11) la
terapia di mantenimento è prolungata. I dati principali emersi da questi studi possono
essere così riassunti: percentuali medie di RC attorno al 70% (range 58-88%); durata
mediana della RC compresa tra 17 e 29 mesi (in 3 degli 8 studi non è valutabile), disease free
survival (DFS) compresa tra 17 e 46%; EFS (desunta dai dati di RC e di DFS) (21), e quindi
proporzione di pazienti potenzialmente guariti, compresa tra 20 e 39%. L'unico studio
senza mantenimento (11) è caratterizzato dai peggiori risultati in termini di DFS e EFS.
L'esperienza del gruppo ematologico veronese nel trattamento delle LAL non Bmature dell'adulto riguarda 156 pazienti consecutivi trattati con due protocolli successivi
(Verona ALL/74 e Verona ALL/589) (12,13) con fase di induzione basata sull'impiego di
VCR, PRN, DNM e ASI, profilassi delle localizzazioni al SNC (combinazione di RT e MTX
intratecale), reinduzioni periodiche con DNM, PRN ±CTX e mantenimento per 3 anni con
6-MP e MTX. Le principali differenze tra i due protocolli riguardavano l'incremento della
DNM in induzione e l'inserimento di una terapia di intensificazione precoce
comprendente VP-16 e alte dosi di Ara-C nello studio più recente. L'incremento della
DNM in induzione nello studio ALL/589 derivava dall'osservazione che nello studio
precedente i pazienti trattati con dosi più elevate di DNM (dosaggio complessivo in
induzione >175 mg/m2) avevano una sopravvivenza ed una DFS significativamente
migliori (a 120 mesi, 50% vs 23%, p <0.05). Nello studio ALL/589 il dosaggio complessivo
di DNM in induzione veniva quindi portato a 270 mg/m2 (dose mediana effettiva 258
131
mg/m2). In assenza di sostanziali differenze di composizione tra le due serie di pazienti (a
parte una maggiore % di LAL-T nel secondo studio) le RC aumentavano dal 79 al 93%, le
ricadute sistemiche si riducevano dal 57 al 34% e le ricadute al SNC, pari al 3% nel primo
studio, si azzeravano nel secondo. A risultati ormai consolidati (dieci anni dall'inizio dello
studio, follow-up mediano di 57 mesi) la durata mediana della RC è di 55 mesi. 33/60
(55%) dei pazienti entrati nello studio sono vivi e liberi da eventi, con un plateau che inizia
a 48 mesi. Tali dati confermano l'importanza delle alte dosi di DNM in induzione, sia nel
rapido ottenimento della RC (fattore prognostico importante) sia nel ridurre
significativamente le ricadute. I dati incoraggianti ottenuti dallo studio Verona ALL/589
hanno suggerito l'opportunità di una sua validazione a livello multicentrico nell'ambito
del gruppo GIMEMA. Tale studio (GIMEMA LAL 0496) è attualmente in corso e ha già
reclutato più di 300 pazienti. Il periodo di osservazione è ancora troppo breve per trarre
delle conclusioni.
L'analisi dei risultati emersi dai vari studi ha evidenziato come i risultati negativi in
termini sia di conseguimento di RC ma, soprattutto, di DFS dipendono dalla presenza di
alcuni fattori prognostici negativi. L'identificazione di tali fattori si è modificata nel tempo
con l'uso di trattamenti più efficaci. I principali fattori prognostici considerati oggi
sfavorevoli sono costituiti da talune alterazioni citogenetiche [in particolare t(9;22) e
t(4;11)], dal fenotipo pre-pre-B (spesso associato a t(4;11) e pro-T, dall'alta conta leucemica
alla diagnosi (>50.000 o >100.000 a seconda degli studi), dall'età >50 anni, dalla scarsa o
tardiva risposta alla terapia di induzione, dall'interessamento del SNC, dalla persistenza
di malattia residua minima al completamento delle fasi di induzione e consolidamento.
La traslocazione t(9;22) (Ph'+) (e/o la presenza del corrispettivo gene di fusione
bcr/abl) rappresenta il singolo più importante fattore prognostico sfavorevole nelle LAL (22,23). Si
riscontra all'incirca nel 25-30 % delle LAL dell'adulto, pressoché esclusivamente nelle
forme di derivazione B. Poiché queste ultime costituiscono circa il 70% delle LAL
dell'adulto, ne deriva che poco meno della metà delle LAL-B sono Ph+/bcr/abl+. Mentre
le percentuali di RC non si differenziano sostanzialmente nelle forme Ph+ rispetto alle Ph-,
la durata della RC è breve e la ricaduta è pressoché inevitabile e precoce. I vari trattamenti
chemioterapici si sono dimostrati inefficaci nel prevenire le ricadute nei casi
Ph+/bcr/abl+. Questi dati scoraggianti giustificano senz'altro approcci terapeutici
alternativi di cui il trapianto allogenico di midollo osseo rappresenta una modalità,
peraltro ancora non soddisfacente (24).
L'età avanzata (>60 anni) rappresenta un altro importante fattore prognostico negativo che
connota circa un terzo dei pazienti adulti con LAL. I dati della letteratura sono piuttosto
scarsi, perché i pazienti anziani spesso non entrano nei protocolli e prevale un
atteggiamento palliativo o rinunciatario, anche a causa del fatto che spesso si tratta di
pazienti Ph+. Su 128 pazienti di età superiore a 60 anni riportati complessivamente in 5
studi (3,25-28) trattati con intento curativo le RC erano il 75%, la sopravvivenza mediana
132
era di breve durata (range 1-10 mesi) e compresa tra <10 e 21% la percentuale di pazienti
sopravviventi a 3 anni. Nell'esperienza italiana non si osservavano differenze significative
tra un approccio di induzione intensivo e palliativo, né in termini di CR né in termini di
sopravvivenza (28).
La principale causa di fallimento della terapia delle LAL dell'adulto è la ricaduta. E'
noto infatti che dopo la ricaduta le possibilità di ottenere remissioni e sopravvivenze
prolungate sono molto modeste. Una ricaduta si verifica nella metà o più dei pazienti
andati in RC, in misura minore nei pazienti trattati con terapie più intensive. La
maggioranza delle ricadute avviene entro il primo anno, più raramente dopo i due, ma
sono possibili anche ricadute tardive, specialmente nelle forme B. La sede principale di
ricaduta è il midollo osseo (>80%). Anche le recidive extramidollari (soprattutto
neurologiche e testicolari) preludono comunque alla ricaduta midollare. Sono stati
impiegati schemi terapeutici molto eterogenei per il trattamento della ricaduta, con
risultati contrastanti. I vari schemi prevedono per lo più l'impiego di Ara-C ad alte dosi
associato a MITX o IDA o Epipodofillotossine, o una ripetizione degli schemi iniziali in
particolare se la ricaduta è tardiva. Le percentuali di RC variano, a seconda dei vari studi,
tra il 35% e l'75% (3). I risultati a medio termine sono comunque del tutto insoddisfacenti e
impongono, specie nei pazienti più giovani, un approccio terapeutico integrato
possibilmente imperniato sul trapianto allogenico di midollo osseo.
Leucemia Linfoblastica a fenotipo B maturo
Costituisce <5% delle LAL dell'adulto. E' caratterizzata da anomalie citogenetiche
peculiari [t(8;14), talora t(8;22) e t(2;8)], da morfologia FAB L3, da un profilo
immunofenotipico da cellule B mature (espressione di Ig di membrana), da elevatissima
cinetica proliferativa, da frequente interessamento del SNC alla diagnosi, da importante
organomegalia. Un tempo considerata la forma più aggressiva di leucemia e praticamente
incurabile è oggi la leucemia acuta dell'adulto dove si ottengono i migliori risultati. Ciò
grazie all'applicazione di protocolli chemioterapici del tutto diversi da quelli usati nelle
altre forme, derivati dall'esperienza pediatrica, basati sull'impiego di MTX e Ara-C ad alte
dosi, alternati a CTX ad alte dosi somministrata in modo frazionato, una articolata e
intensiva chemioprofilassi delle localizzazioni al SNC, assenza di terapia di
mantenimento. Con tali terapie si ottengono nell'adulto percentuali di RC >80% e
guarigione nel 60-70% dei pazienti (2,3,29,30).
Prospettive future della chemioterapia
133
I risultati degli approcci chemioterapici attuali nelle LAL dell'adulto, nonostante i
notevoli progressi rispetto al passato, sono ancora insoddisfacenti. Il contribuito al
miglioramento dei risultati del trapianto allogenico, ancorché significativo per una
minoranza di pazienti, è destinato a rimanere limitato da vari fattori: età e/o condizioni
generali del paziente, assenza del donatore, regimi di condizionamento non sempre
efficaci nell'eradicare la malattia, morbilità e mortalità ancora elevate della procedura. Il
possibile contributo di altre strategie terapeutiche innovative (inibitori delle tirosinchinasi, modulazione delle Multi-Drug Resistance, immunoterapia con anticorpi
monoclonali, ecc) è al momento tutto da verificare. Resta quindi un ampio spazio di
miglioramento per l'approccio chemioterapico. Tale miglioramento deriverà
verosimilmente da studi multicentrici disegnati per identificare (sulla base di evidenze
biologiche, immunofenotipiche e molecolari) gruppi a rischio diversificato per i quali
sviluppare approcci terapeutici (farmaci e loro combinazioni, dosaggi, "timing") dedicati.
E' questa l'ottica ispiratrice dello studio biologico centralizzato associato al protocollo
GIMEMA LAL 496 (31). Si intravedono diversi spazi futuri di miglioramento per la
chemioterapia, tra i quali:
- incremento della "dose-intensity" per terapie di induzione più efficaci;
- migliore utilizzo di farmaci noti, a dosi elevate e in combinazioni ad effetto sinergico;
- identificazione degli spazi di utilizzo di nuovi chemioterapici (ad es Ara-G, DNM
liposomiale, ecc);
- migliore impiego dei fattori di crescita e ulteriori miglioramenti delle terapie di
supporto;
- nuove strategie per il trattamento delle ricadute;
- maggiore attenzione al problema delle leucemie dell'anziano.
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137
TERAPIE DI PRIMA LINEA AD ALTE DOSI NELLA LEUCEMIA ACUTA
LINFOBLASTICA DELL’ADULTO
Autori: Tiziano Barbui, Renato Bassan
Indirizzo: Divisione di Ematologia, Ospedali Riuniti, Largo Barozzi 1, 24100 Bergamo.
Definizioni, classe di rischio e strategia di trattamento
Per terapia ad alte dosi (TAD) intendiamo l’impiego di chemio(radio)terapia sistemica a
dosaggi tali da causare una aplasia midollare apparentemente irreversibile, per cui si
renda necessario un supporto con cellule emopoietiche staminali. Sono quindi esclusi i
trattamenti non mieloablativi con singoli farmaci ad alte dosi. A seconda della tipologia di
TAD, parleremo di autotrapianto (AUTO) o allotrapianto (ALLO), di MUD (“marrow
unrelated donor”, se il donatore è non correlato), e di BMT (“bone marrow transplant”,
trapianto di midollo osseo) oppure BCT (“blood cell transplant”, trapianto da sangue
periferico con progenitori emopoietici CD34+). La leucemia acuta linfoblastica (LAL) è
prognosticamente eterogenea. Si identificano diverse classi di rischio (diverso “event-free
survival”/EFS a 3-5 anni dalla remissione completa/RC, a parità di trattamento). La classe
di rischio è determinata dalla combinazione di caratteristiche non modificabili e da
variabili modificabili legate al trattamento. Con chemioterapia convenzionale/intensiva, i
casi ad alto rischio (“HR”=EFS <25%) hanno LAL pro-T, pro-B t(4;11)+ (possibile
miglioramento con nuovi protocolli GMALL), t(9;22)+ (in questo caso con EFS vicino a
zero), e pre-B con iperleucocitosi ed età avanzata (livelli variabili). Gli altri casi
costituiscono le categorie di rischio intermedio (IR=EFS 25-40%) oppure standard (SR=EFS
>40% e fino al 60% in alcuni sottogruppi (1). Un esempio di stratificazione prognostica per
gruppi di rischio è illustrato nella Figura 1a. Gli stessi pazienti, analizzati in multivariata
per le variabili correlate al trattamento, mostrano differenze statisticamente significative
138
per applicazione di TAD (AUTO+ALLO, Figura 1b) e protocolli a forte componente
antraciclinica (Figura 1c) (2). L’impiego di TAD può notoriamente associarsi a tossicità
severa. I costi di assistenza sono elevati e le aspettative del paziente sono talora disattese
da una ricaduta o da un evento letale. A causa del diverso recupero ematologico,
dell’incidenza di complicanze e di malattia da trapianto-contro-ospite (“graft-versus-host
disease”, GVHD) severa, AUTO-BCT, AUTO-BMT, ALLO-BMT e ALLO-BMT-MUD
presentano rischi crescenti, abbastanza elevati negli ultimi due casi (mortalità stimabile
intorno al 10-30%). E’ chiaro che scelta, modalità e applicazione di TAD devono essere
accuratamente predefinite nei diversi gruppi di rischio.
ALLO: studi retrospettivi/fase II
Uno studio retrospettivo IBMTR ha comparato i risultati di EFS dopo chemioterapia (484
pazienti, schema GMALL in 44 centri tedeschi) e ALLO-BMT (234 pazienti, 98 centri
IBMTR) (3). I risultati a lungo termine sono stati sovrapponibili, senza differenze
significative tra i gruppi di rischio (criteri GMALL): EFS globale con chemioterapia 31% e
con ALLO-BMT 33%, a causa della maggiore mortalità da ALLO-BMT (53% contro 5%) e
dell’incidenza di recidive nel gruppo chemioterapia (66% contro 30%). Studi su casistiche
più limitate (15-116 pazienti) hanno fornito dati di EFS tra 21% e 71% (mediamente 5060%) (4). Da notare, in molti di questi studi, una età mediana piuttosto bassa ed una certa
carenza nei dati relativi alla classe di rischio. Globalmente, l’esperienza retrospettiva
indica una possibilità di EFS del 40-60% ed una frequenza di recidiva intorno al 30%, con
tendenza al peggioramento dei risultati nei gruppi HR.
AUTO: studi retrospettivi/fase II
Una analisi relativamente recente (5) dell’esperienza EBMTG ha mostrato un EFS del 4042% (HR/SR) a 8 anni dopo AUTO-BMT. Ma solo il 35% dei 465 casi esaminati aveva età
>20 anni. Informazioni utili si ricavano da esperienze istituzionali, in cui AUTO-BMT
veniva deliberatamente incluso in schemi chemioterapici ben definiti. Il protocollo di
condizionamento è stato generalmente di intensità contenuta rispetto ad un ipotetico
139
standard di riferimento (chemioterapia più “total body irradiation”/TBI), allo scopo di
minimizzare la tossicità e ritrattare i pazienti dopo AUTO-BMT. Nel primo di questi studi
(6), infatti, si è prevista una fase AUTO-BMT (condizionamento con ciclofosfamide, BCNU,
etoposide) seguita da ulteriore chemioterapia, secondo l’idea di ri-sterilizzare il paziente
dopo una possibile reinfusione di cellule leucemiche. Per problemi vari (età, tossicità,
recidiva, stato socioeconomico), solo il 28% dei pazienti ha ricevuto AUTO-BMT, con
risultati simili ai casi non autotrapiantiati ed EFS globale a lungo termine del 26% (7). Lo
studio Royal Marsden Hospital (8,9), ha riportato un EFS del 50% circa in pazienti
autotrapiantati (condizionamento con melphalan, più TBI in alcuni casi) e successivamente
trattati con mantenimento a basso dosaggio. Poichè tutti i casi hanno eseguito AUTOBMT, è probabile che la casistica sia stata selezionata positivamente. Nello studio IVAP
(10), ancora con chemioterapia aggiuntiva post AUTO-BMT, la proporzione dei pazienti
autotrapiantati (condizionamento con BCNU, melphalan, etoposide) è stata del 69% con
percentuale di EFS a 5 anni del 36%, senza risultati apprezzabili nei pazienti HR (blasti
>25.000/mmc, fenotipo B/T, t(9;22)+), mentre nei casi IR/SR l’applicazione di AUTO-BMT
è parsa ridondante. L’esperienza con AUTO-BCT è più limitata. Uno studio di fase II
successivo
ad
IVAP,
con
mantenimento
a
basso
dosaggio
dopo
AUTO-BCT
(condizionamento con ciclofosfamide, melphalan, etoposide), ha prodotto solo un certo
incremento di EFS nella B-LAL/L3, confermando una rapida ripresa dell’emopoiesi (11).
Nello studio Royal Marsden Hospital i risultati sono stati molto buoni (condizionamento
con melphalan, più TBI in qualche caso). La strategia di questi autori è stata di usare
inizialmente AUTO-BCT (con mantenimento) e di riservare la procedura ALLO (nei
pazienti con donatore) alla fase di recidiva, ottenendosi un EFS a 3 anni del 65% con una
frequenza di recidiva del 35% (12). Tuttavia la casistica è composta da soli 21 casi, nessuno
dei quali con qualifica HR per positività t(9;22), remissione tardiva, B-LAL, oppure LAL
con interessamento meningeo.
ALLO vs AUTO vs chemioterapia: studi clinici randomizzati
140
Sono noti i risultati preliminari o definitivi di 5 studi randomizzati prospettici (Tabella 1).
In realtà, la randomizzazione ad ALLO-BMT è una assegnazione diretta al trattamento
sulla base delle compatibilità HLA/DR (“randomizzazione genetica”). Inoltre i diversi
studi non sono tra loro comparabili a causa dei difformi criteri di eleggibilità e degli
schemi di trattamento. Un ampio studio collaborativo intergruppo (INT-0132: ECOGMRC) potrà fornire informazioni di rilievo data la stratificazione per fattori di rischio, la
randomizzazione
pre-intensificazione
(analisi
secondo
“treatment-intention”),
e
l’unificazione di tutti i trattamenti TAD e non TAD (4). Lo studio PV-TO-GE (13) si
caratterizza per un basso rateo di attuazione del programma (20 casi sottoposti a TAD);
pertanto i risultati sono statisticamente poco affidabili. La conclusione degli autori, basata
sulla efficacia di ALLO-BMT in alcuni casi HR, è di riservare tala metodica a questa
categoria di rischio. Lo studio BGMT (14) si caratterizza per buona fattibilità (trapiantati
105/120 eleggibili) del programma ALLO (condizionamento con ciclofosfamide e TBI) od
AUTO (stesso condizionamento, no “purging” in vitro) e per la netta superiorità del
braccio ALLO-BMT (p<0.001). Non è invece possibile ricostruire il rischio di recidiva dopo
TAD per le diverse categorie prognostiche. Lo studio FGTAALL risulta il più importante
per entità della casistica, follow-up a lungo termine, e analisi per gruppo di rischio (15,16).
Il risultato da ALLO-BMT (condizionamento con ciclofosfamide e TBI) è stato lievemente
superiore a quello da AUTO-BMT (stesso condizionamento, “purging” in vitro con
anticorpi monoclonali anti-B/T oppure mafosfamide) o chemioterapia, ma le differenze tra
i due ultimi trattamenti sono minime. L’aggiornamento a 10 anni indica un discreto
vantaggio per il braccio ALLO-BMT (p=0.04), con EFS del 37% verso 15% nella categoria
HR (p=0.01), ma scarsi effetti nella categoria SR (46% contro 42%). Nel confronto diretto
tra AUTO-BMT e chemioterapia, viene confermato un trend non significativo a favore di
AUTO-BMT (EFS 31% verso 26%), ma non si identificano sottogruppi sensibili ad AUTOBMT. Lo studio dimostrerebbe la relativa efficacia di ALLO-BMT nella categoria HR
(criteri GMALL), una conclusione notevolmente diversa dallo studio retrospettivo IBMTR
precedentemente citato (4). Lo studio West Coast (17) mostra, con un follow-up breve,
buoni valori di EFS sia per ALLO-BMT che per il braccio di chemioterapia ciclica
141
intensiva, senza differenze significative. Lo studio PETHEMA (18), ristretto a casi HR
anche pediatrici, soffre di un modesto input di pazienti e non evidenzia differenze di
rilievo tra ALLO-BMT, AUTO-BMT, e chemioterapia. Da notare il basso rateo di EFS nel
gruppo ALLO-BMT, probabilmente in rapporto alla selezione di soli pazienti HR
(similmente ai dati FGTAALL).
Problemi rilevanti
1. E’ importante la terapia pre TAD ?
Il tipo e l’intensità dei trattamenti pre TAD sono stati estremamente variabili. I risultati dei
bracci AUTO-BMT degli studi BGMT e FGTAALL, con fase pre TAD di maggiore intensità
nello studio FGTAALL ma identico schema di condizionamento per AUTO, sono stati
lievemente migliori nell’ ultimo studio. Per confrontare realisticamente i risultati potrebbe
essere necessario un monitoraggio della malattia residua minima durante le diverse fasi
pre TAD e TAD. In campo AUTO, la presenza di malattia residua midollare al di sopra di
una data soglia ha comportato una significativa riduzione della probabilità di EFS (19,20).
2. Vi sono indicazioni relative ad un programma di condizionamento ottimale?
Non è stata notata alcuna differenza importante tra ciclofosfamide-TBI e ciclofosfamidebusulfano, a parte un effetto positivo legato alla TBI nell’AUTO-BMT in fase avanzata (21).
L’impiego di dosaggi elevati di TBI potrebbe indurre un miglioramento dei risultati in
situazioni HR come LAL t(9;22) (22), in linea con le nozioni di radiobiologia dei linfociti,
totalmente inibiti da dosaggi intorno a 15 Gy (23). Bisogna tuttavia ricordare l’esistenza di
subset di malattia radioresistenti (24,25). Infatti, se alcune evidenze teoriche e pratiche
suggeriscono l’utilità della TBI frazionata con dosi superiori a 12 Gy (13.2-15 Gy), non tutti
riportano un miglioramento dei risultati nei subset HR (26). Un modo alternativo di
incrementare la forza citoriduttiva dei regimi di condizionamento è l’uso di farmaci
diversi dalla ciclofosfamide, il cui potenziale ablativo è scarso. L’uso di etoposide (più TBI
13.2 Gy) si è associato ad un EFS del 65% (pre 1992) e 81% (post 1992) in un gruppo
142
eterogeneo (età 3-56 anni, 24 ALLO in prima RC, 36 ALLO in fase avanzata, 15 ALLOMUD) di 75 pazienti con LAL t(9;22)+ (22). In un altro studio con ciclofosfamideetoposide-TBI, la frequenza di EFS a 3 anni per 15 pazienti con LAL t(9;22)+ in prima RC è
stata del 46% (27). Questi risultati sembrano superiori a quanto ottenuto con
condizionamento tradizionale: EFS 24% nello studio EBMTG (28). L’introduzione di altri
farmaci (citarabina, melphalan) ha prodotto risultati interessanti in termini di controllo
delle recidive, ma con notevole aumento di tossicità soprattutto in corso di ALLO-BMT
(29,30). La fattibilità di questi schemi intensificati potrebbe essere migliore nelle procedure
AUTO, gravate da minore tossicità complessiva. Infine, per i pazienti ad alto rischio di
tossicità, si potrebbero sviluppare regimi de-intensificati, associati ad ALLO-BMT/BCT
(“mini”-ALLO). Questa tecnica è stata preliminarmente usata in alcuni casi ad altissimo
rischio con discreto successo (31).
3. Esiste un ruolo per la chemioterapia o immunoterapia post TAD ?
Il contributo terapeutico di un ulteriore trattamento dopo TAD è ignoto. Mentre non si
dispone di dati dopo ALLO (si presume che la GVHD cronica eserciti automaticamente un
effetto immunoterapico), gli studi di chemioterapia post AUTO (6,8-10,12) non hanno
fornito informazioni univoche. L’immunostimolazione con IL-2 dopo AUTO-BMT non ha
prodotto
alcun
beneficio
nello
studio
randomizzato
BGMT
(14).
Poiché
l’immunocompetenza dei pazienti con LAL dopo induzione-consolidamento-TAD è molto
scarsa, potrebbero essere necessari approcci innovativi di “restoring” e stimolazione
(cellule dendritiche, vaccinazione anti-LAL, cellule NK/LAK). In ambito ALLO, va
chiarito l’eventuale ruolo di infusioni di linfociti da donatore (“DLI”) dopo trapianto.
4. Vi sono evidenze cliniche a favore delle procedure di ”purging” in vitro?
L’eliminazione di cellule leucemiche residue dai prodotti per autotrapianto è
concettualmente un obiettivo razionale sostenuto da robusti dati preclinici. Ma che ciò sia
realmente fattibile e clinicamente utile resta da dimostrare, visto il ruolo determinante
della malattia residua in vivo (19,20). La questione ha generato notevoli controversie, con
punti di vista diametralmente opposti (32,33). Il “purging” con anticorpi monoclonali
consente una deplezione sub-totale delle cellule di linea B o T, con impatto clinico su larga
143
scala in apparenza modesto e comunque non quantificabile (15,16). Metodi più recenti, in
grado di negativizzare il segnale di malattia in metodica PCR, sono stati impiegati nella
LAL t(9;22)+ (34). I risultati clinici sono stati scarsi, mentre un miglioramento apparente di
EFS (con follow-up breve) pare sia possibile solo nei casi divenuti PCR negativi in vivo
(35). Il metodo basato sulla mafosfamide ha fornito risultati promettenti in una casistica
unicentrica (35 pazienti, EFS 56%), ma l’interpretazione è incerta dato che questi pazienti
sono già stati inclusi nello studio nazionale FGTAALL, non è noto il loro profilo di rischio,
l’intervallo RC-AUTO è molto variabile (44-523 giorni), e non sono riportati a confronto i
dati degli altri centri FGTAALL (36).
5. La tossicità da ALLO è riducibile senza compromissione dell’effetto GVL ?
La mortalità da ALLO-BMT è in via di riduzione, e ciò comporta un generale
miglioramento dei risultati (22). In uno studio l’incidenza di mortalità è passata dal 35% al
10% nel quinquennio 1992-1997 (37). Ciò grazie al migliore controllo di GVHD acuta e
complicanze infettive. Al contempo, si tende a confermare l’impatto prognostico positivo
esercitato dalla GVHD cronica (37,38), sotto forma di effetto GVL (“graft-versusleukemia”). Poichè mortalità e tossicità da GVHD acuta e cronica permangono elevate,
sono necessarie ulteriori ricerche per migliorare questo aspetto senza sacrificare l’effetto
GVL. La strada del “mini”-ALLO potrebbe ridurre la tossicità complessiva da TAD (31).
6. Qual’è la fonte ideale del supporto per TAD: BMT o BCT?
Sul
piano
meramente
pratico,
la
rapidità
di
ripresa
dell’emopoiesi
e
dell’immunocompetenza garantita dal BCT riduce le complicanze da pancitopenia ed è
quindi preferibile al BMT. Tuttavia vi sono aspetti non marginali da considerare: nel caso
di ALLO, come caratterizzare e modulare gli effettori della risposta GVHD, certamente
presenti in numero enormemente maggiore rispetto al BMT? Nel caso di AUTO, la
contaminazione da malattia residua potrebbe essere maggiore rispetto al BMT? Se così,
come bilanciare questi rischi con i benefici clinici immediati e come adattare le attuali
tecniche di “purging” al BCT? Alcuni studi hanno documentato una minore o uguale
contaminazione residua di malattia nel BCT rispetto a BMT, anche in situazioni HR come
LAL t(9;22)+ (39-41).
144
6. Quali sono le possibilità offerte dai trapianti MUD?
La procedura ALLO-MUD aumenta notevolmente la tossicità e mortalità da trapianto, ma
può essere convenientemente offerta ad alcuni pazienti con caratteristiche di rischio
elevatissime, come la LAL t(9;22)+. I dati EBMTG recenti riportano una mortalità precoce
del 33%, incidenza di recidiva del 26%, ed EFS del 46% (42). I dati NMPD riporatano una
sopravvivenza del 42% in pazienti HR, sempre con elevata mortalità peritrapiantologica
(43). Poichè i risultati sono progressivamente peggiori nelle fasi avanzate di malattia, tale
procedura dovrebbe essere considerata molto precocemente nei casi eleggibili (entro 3-6
mesi nella LAL t(9;22)+).
Epicrisi
AUTO.
1. I pazienti sottoposti ad AUTO-BMT/BCT non hanno una prognosi inferiore a quelli
trattati con chemioterapia, ma nemmeno dichiaratamente superiore, anche con adozione
post-AUTO di ulteriore terapia. Non sono emerse chiare indicazioni al riguardo di
specifiche classi prognostiche.
2. Le revisioni periodiche dei registri internazionali ai quali affluiscono i dati di pazienti
selezionati e trattati eterogeneamente indicano che alcuni sottogruppi (relativamente alla
selezione operata) potrebbero trarne un qualche beneficio, ma ciò si discosta notevolmente
dalle esperienze istituzionali in gruppi di pazienti consecutivi non selezionati. E’
indispensabile unificare i criteri interpretativi.
3. L’intera problematica del “purging” in vitro resta da chiarire.
ALLO.
1. Per quanto riguarda l’indicazione ad ALLO-BMT/BCT, il problema è tutt’altro che
semplice, poichè alcuni studi riportano nella LAT-T e nella LAL pre-B SR risultati di tipo
ALLO-BMT (EFS uguale o superiore al 50%), mentre l’influsso prognostico dovuto ai
fattori di rischio non si annulla o si accompagna ad effetti paradossali. Si ricorda
l’esperienza FGTAALL (15,16), dove con ALLO-BMT si è ottenuto un discreto vantaggio
nella categoria HR ma non in quella SR. Anche per la categoria HR, tuttavia, permangono
145
seri problemi. A titolo esemplificativo, riportiamo le curve di EFS di una casistica
prevalentemente HR, con suddivisione per sottotipo di malattia (Figura 2). Nella LAL
t(9;22)+ il risultato è del tutto insoddisfacente. L’esperienza del gruppo EBMGT è analoga
(28). Negli altri casi, il risultato può essere ritenuto solo modestamente superiore o
addirittura sovrapponibile alle migliori prestazioni della chemioterapia standard, tranne
che nel caso della LAL pro-B t(4;11)+, dove peraltro i pochi casi condizionano fortemente
le conclusioni. E’ possibile che la LAL t(4;11)+ sia molto sensibile anche in assenza di
GVHD (44).
2. Probabilmente, con le informazioni a nostra disposizione, l’approccio più sensato
consiste nel considerare un ALLO-BMT/BCT solo nei casi HR, così definiti dalla
esperienza istituzionale o dal protocollo di trattamento in corso. Per quelli a rischio
elevatissimo, come la LAL t(9;22)+, può essere indicata la ricerca di un donatore e
l’esecuzione in tempi brevi (3-6 mesi) di un ALLO-MUD.
Nuovi studi
Naturalmente è augurabile che lo studio ECOG-MRC fornisca risposte definitive ad
almeno alcune delle principali domande (4). Dati i divari non eccessivi ipotizzabili tra i
vari gruppi di trattamento, lo studio dovrà includere una quantità enorme di pazienti,
essere di lunga durata, ed assegnare a TAD pazienti con caratteristiche SR, il che può
generare qualche problema etico. Altri studi innovativi di fase II potrebbero sviluppare
alcuni
punti
critici.
In
generale,
l’intero
campo
della
immunoterapia/immunomodulazione dopo TAD deve essere rivisitato. L’esperienza più
recente ha chiarito che la procedura AUTO-BCT è poco tossica, comporta un rapido
recupero clinico-ematologico, ed è applicabile alla gran parte dei pazienti in RC.
Estrapolando ed unificando questi concetti, sembrerebbe possibile somministrare TAD con
metodo cumulativo, mediante cicli successivi sub-ablativi supportati da BCT (“mini”AUTO-BCT?). Con alcuni innegabili vantaggi: ricoveri brevi, effetti collaterali limitati,
ridotta incidenza di complicanze, incremento della intensità di dose, possibilità di
concatenamento di farmaci non crossresistenti. Come esempio di studio innovativo pilota
146
forniamo alcuni dettagli sul programma 08-96 per LAL HR di linea B cellulare. Lo studio si
propone di valutare la fattibilità e l’efficacia terapeutica di un programma di brecve durata
ad alte dosi (blocchi con ciclofosfamide, citarabina, methotrexate), con fase finale AUTOBCT (condizionamento melphalan e TBI; BCT purificato mediante
deplezione
immunomagnetica a due stadi, con una sensibilità del rilevamento PCR di 10-6) (45,46). Lo
schema è risultato fattibile e può indurre RC prolungata totalmente “off-therapy”, con
risultati apprezzabili nella LAL t(9;22)- (13 pazienti, 5 recidive). Per la LAL t(9;22)+ (6
pazienti, 5 recidive), è attualmente al vaglio un incremento dell’intensità di trattamento,
da conseguirsi con un doppio AUTO-BCT (il primo con busulfano) e con l’ aumento della
dose di melphalan.
Conclusioni
Sottoporre a TAD un paziente con LAL in prima RC significa affidare quasi
irrevocabilmente ad una procedura ad alta intensità e di breve durata le sorti di tale
individuo. Le probabilità di cura possono essere elevate, ma l’induzione di tossicità
importante è certa, indipendentemente dalla classe di rischio e quindi dalla curabilità con
schemi convenzionali. La TAD con supporto ALLO è proponibile a circa il 30% dei
pazienti, e ciò limita fortemente l’impatto globale del trattamento nonchè la nostra
comprensione dei suoi reali effetti terapeutici a lungo termine e nelle diverse classi
prognostiche. Per motivi parzialmente sovrapponibili è altrettanto illusorio ritenere che la
TAD con AUTO sia esente da critiche e controindicazioni. Ma poichè sia ALLO che AUTO
hanno espresso forti potenzialità terapeutiche, la ricerca delle soluzioni ai problemi
elencati può fortunatamente continuare.
Ringraziamenti
Hanno partecipato agli studi istituzionali citati (1972-1999): T.A. Lister, A.Z.S. Rohatiner
(Londra); E. Di Bona, R. Battista, A. D’Emilio, F. Rodeghiero, E. Dini (Vicenza); E. Pogliani,
G. Corneo (Monza); G. Rossi, T. Izzi (Brescia); G. Lambertenghi-Deliliers (Milano); P.
147
Fabris, P. Coser (Bolzano); A. Porcellini, S. Morandi (Cremona); P. Casula, G. Broccia
(Cagliari); M. Vespignani, T. Chisesi (Venezia).
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149
Tabella 1. Risultati principali degli studi randomizzati TAD nella LAL dell’adulto in prima RC.
___________________________________________________________________________________________
Studio
N. casi
Random
N. randomizzati,
EFS randomizzati,
N. trattati
EFS trattati (a >3 anni)
___________________________________________________________________________________________
PV-TO-GE
BGMT
FGTAALL
West Coast
PETHEMA
96
135
572
117
118
ALLO vs AUTO
16 vs 14 vs 15,
48% vs 45% vs 38%,
vs CHEMIO
11 vs 9 vs 15
65% vs NR
ALLO vs AUTO
43 vs 77,
68% vs 26%,
41 vs 64
71% vs 30%
ALLO vs AUTO
116 vs 95 vs 96
44% vs 39% vs 32%,
vs CHEMIO
98 vs 63 vs 96
47% vs 51% vs 32%
ALLO vs CHEMIO
39 vs 66,
NR,
37 vs 66
66% vs 55% (a 2 anni)
ALLO vs AUTO
42 vs 25 vs 24,
32% vs 42% vs 24%,
vs CHEMIO
NR
NR
___________________________________________________________________________________________
NR, non riportato
150
VACCINOTERAPIA NEI DISORDINI LINFOPROLIFERATIVI
M. Massaia, A. Pileri
Divisione di Ematologia dell’Universita’ di Torino,
Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista, Torino, Italy
151
Razionale e premesse
Le basi dell’immunita’ adottiva sono la diversita’ recettoriale, la memoria
immunologica e la capacita’ di discriminare il «self» dal «non-self». La vaccinazione
profilattica contro gli agenti infettivi sfrutta queste proprieta’ e rappresenta il classico
esempio di manipolazione efficace del sistema immunitario. La vaccinazione a scopo
protettivo contro le cellule tumorali cerca di sfruttare le stesse proprieta’ dell’immunita’
adottiva, ma i progressi finora non sono stati altrettanto rapidi. La definizione molecolare
degli antigeni tumore-specifici, la conoscenza dei meccanismi che regolano l’attivazione
dei linfociti T e dei meccanismi di escape tumorale hanno consentito negli ultimi anni la
messa a punto di strategie vacciniche piu’ razionali. Gli scopi specifici di tali strategie sono
quelli di rompere la tolleranza immunologica, che protegge nell’ospite le cellule tumorali,
ed attivare in modo specifico i meccanismi effettori dell’immunita’ adottiva. Il risultato
finale dovrebbe essere quello di
generare una risposta immune tumore-specifica,
protettiva e di lunga durata.
152
Il mieloma multiplo (MM) e’ tuttora una neoplasia ad esito fatale con una
sopravvivenza mediana inferiore ai 4 anni (1,2). La chemioterapia ad alte dosi seguita
dal trapianto autologo con cellule midollari o progenitori emopoietici circolanti (PBPC)
ha sicuramente aumentato la percentuale di remissioni complete (CR) e la durata della
remissione stessa (3-5). Ciononostante,
la presenza di cellule tumorali residue e’
invariabilmente documentata nella fase di remissione, anche dopo procedure ripetute di
autotrapianto (6). La conseguenza e’ che tutti i pazienti con MM sono destinati
progressivamente a ricadere e
la sopravvivenza globale e’ finora solo lievemente
migliorata. Un problema analogo e’ incontrato nel trattamento dei linfomi, dal
momento che le terapie convenzionali non sono in grado di curare una percentuale
rilevante di pazienti. In particolare, e’ tuttora problematico il trattamento ottimale dei
linfomi a basso grado di malignita’ dove sono stati tentati approcci sia conservativi che
aggressivi (7,8). La maggior parte delle terapie sistemiche sono effettivamente in grado
di indurre un’elevata percentuale di CR e cicli piu’ intensivi, quando applicati a
categorie selezionate di pazienti ad alto rischio, hanno migliorato la durata della
remissione libera da malattia. Rimane il problema della ricaduta che indica come
spesso non ci sia stata eradicazione della malattia. Sono quindi state applicate le
procedure trapiantologiche anche ai linfomi a basso grado. La chemioterapia ad alte
dosi seguita dall’infusione di PBPC e’ in grado di indurre una remissione molecolare in
circa il 70% dei pazienti con linfoma follicolare ed il 12% dei linfomi mantellari (9).
Tuttavia, anche in questo caso non e’ stato possibile identificare una fase di plateau
153
nella curva di sopravvivenza libera da malattia e rimane da essere formalmente
provato, in studi randomizzati, la superiorita’ di tali strategie sulla sopravvivenza
globale a lungo termine. Infine, c’e’ da tenere conto che una quota rilevante di pazienti
con linfoma a basso grado non ottiene la remissione molecolare anche dopo
autotrapianto. La persistenza di malattia minima residua, identificata a livello
molecolare con metodiche di PCR, e’ correlata con una prognosi peggiore perche’ la
ricaduta e’ piu’ probabile, piu’ precoce ed i trattamenti di salvataggio meno efficaci.
Una possibilita’ per cercare di migliorare le prospettive cliniche dei pazienti con
MM e linfoma a basso grado potrebbe essere quella di prolungare la durata della fase di
remissione inducendo una risposta immune specifica contro le cellule tumorali residue.
I vaccini tumorali hanno effettvamente questa potenzialita’, soprattutto in fase di
malattia minima residua, quando un’ulteriore intensificazione della terapia non e’
generalmente di alcun beneficio al paziente, sia per lo sviluppo di farmacoresistenza, sia
per gli effetti tossici collaterali.
Il MM ed i linfomi B sono costituiti da espansione clonali di cellule linfoidi che
hanno riarrangiato i geni delle immunoglobuline. Ogni immunoglobulina contiene
degli epitopi (che coincidono generalmente con le sequenze di massima variabilita’
deputate al riconoscimento antigenico) che possono essere riconosciuti dal sistema
immunitario dell’ospite e che sono definiti singolarmente idiotopi e collettivamenti
idiotipo. L’idiotipo e’ espresso in modo cosi’ specifico da ogni linfocita B che e’
ritrovabile solo ed esclusivamente nella sua progenie. In questo senso, l’idiotipo
154
espresso da linfociti B tumorali puo’ essere considerato come un marker tumorespecifico ed utilizzato come bersaglio di una risposta immune tumore-specifica. Modelli
animali hanno dimostrato che l’uso di apteni, come la KLH, e di adiuvanti o citochine,
come GM-CSF e IL-2, aumentano notevolmente l’immunogenicita’ dell’idiotipo che
diventa in grado di generare una risposta immune capace di proteggere l’animale
dall’esposizione successiva a cellule tumorali esprimenti quel dato idiotipo (11). Sulla
base di questi dati sperimentali, i vaccini idiotipici sono stati introdotti nella clinica e
sono stati utilizzati nei pazienti con linfoma a basso grado e nei pazienti con MM.
La vaccinazione idiotipica nei linfomi
Il primo studio di vaccinazione idiotipica e’ stato condotto in 9 pazienti che si
trovavano in CR o in remissione parziale. Essi sono stati immunizzati mediante
somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo coniugato alla KLH ed emulsionato
in un adiuvante immunologico (12). E’ stata documentata la generazione di una risposta
immune (umorale e/o cellulare) anti-idiotipo in 7/9 pazienti. Due pazienti che
presentavano delle localizzazioni clinicamente evidenti prima della vaccinazione hanno
mostrato una riduzione delle localizzazioni stesse. Questi risultati sono stati confermati
in uno studio successivo che ha coinvolto 41 pazienti, inizialmente trattati con
chemioterapia
convenzionale
(13).
Questi
pazienti
sono
stati
trattati
con
somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo coniugato alla KLH ed emulsionato
155
in un adiuvante immunologico. Circa il 50% dei pazienti ha generato una risposta
immune idiotipo-specifica. La durata mediana della sopravvivenza libera da malattia e’
risultata significativamente aumentata rispetto ad un gruppo storico di controllo e cio’
si e’ tradotto in un vantaggio in termini di sopravvivenza. Questo e’ il primo studio che
dimostra come la vaccinazione idiotipica sia in grado di produrre un beneficio clinico
nei linfomi a basso grado, anche se sono necessari studi prospettici randomizzati per
una dimostrazione formale. Non e’ stato possibile valutare in modo adeguato l’effetto
citoriduttivo sulla massa tumorale, in quanto la maggior parte dei pazienti si trovava
gia’ in remissione. Inoltre, il monitoraggio immunologico non era specificatamente
diretto a valutare la generazione di una risposta citotossica tumore-specifica. E’
attualmente in corso uno studio, condotto dal Dr. L. Kwak presso il NCI di Bethesda, il
cui scopo e’ appunto quello di valutare la capacita’ dei vaccini idiotipici di indurre dei
linfociti T citotossici
in grado di lisare le cellule tumorali autologhe ed ottenere
l’eradicazione della malattia in vivo. Risultati preliminari dimostrano che la
somministrazione sottocutanea di idiotipo autologo, coniugato a KLH in presenza di
GM-CSF come immunoadiuvante, e’ effettivamente in grado di indurre dei linfociti
citotossici tumore-specific e di eliminare dal sangue periferico le cellule tumorali
residue. Questo studio e’ condotto in pazienti con linfoma follicolare che si trovano in
remissione dopo chemioterapia intensiva e la malattia minima residua e’ monitorata
mediante PCR.
156
Lo sviluppo di strategie immunoterapiche nei linfomi ha anche preso in
considerazione l’uso delle cellule dendritiche (DC), nella convinzione che le APC piu’
efficienti siano anche quelle in grado di indurre le risposte anti-tumorali piu’ efficienti.
Modelli sperimentali murini hanno dimostrato che e’ possibile indurre un’immunita’
specifica anti-idiotipo immunizzando gli animali con DC pulsate con l’idiotipo (14). La
fattibilita’ ed efficacia di tale approccio e’ stata quindi valutata nei pazienti con linfoma
(15). Sono stati studiati 4 pazienti affetti da linfoma follicolare che presentavano
malattia residua dopo chemioterapia convenzionale. Essi sono stati sottoposti a 3
infusioni di DC autologhe, purificate direttamente dal sangue periferico, le quali sono
state pulsate con l’idiotipo autologo e quindi reinfuse endovena. All’infusione di DC
sono quindi seguite 5 somministrazioni sottocutanee di coniugato Id/KLH. Tutti i
pazienti hanno sviluppato una risposta T idiotipo-specifica ed in tutti i casi e’ stata
osservata una riduzione della massa tumorale.
Vaccinazione idiotipica nel MM
In uno studio pilota sono stati studiati 5 pazienti con MM i quali sono stati
ripetutamente
sottoposti a somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo
precipitato in una sospensione di fosfato di alluminio come adiuvante (16). Quattro
pazienti non erano mai stati trattati in precedenza, mentre il quinto si trovava in una
fase di remissione parziale stabile dopo chemioterapia convenzionale. Il monitoraggio
immunologico
ha dimostrato che 3/5 pazienti hanno generato rispose umorali e
157
cellulari idiotipo-specifiche, anche se di intensita’ modesta e di durata breve. Lo stesso
gruppo svedese ha quindi cercato di perfezionare la formulazione vaccinica nell’intento
di indurre una risposta cellulare anti-idiotipo piu’ efficace e duratura. Il protocollo e’
stato quindi applicato ai MM in fase iniziale, perche’ nel sangue periferico di questi
pazienti e’ presente una quota di linfociti T idiotipo-reattivi potenzialmente in grado di
essere reclutati dal vaccino (17). La maggior parte di questi linfociti producono
citochine Th1 a seguito della stimolazione in vitro con l’idiotipo autologo, mentre nei
MM in stadio avanzato prevalgono i linfociti Th2. Si e’ quindi ritenuto opportuno
vaccinare nel momento in cui la frequenza di linfociti T in grado di sviluppare una
risposta citotossica idiotipo-specifica fosse piu’ alta. In questo studio, i pazienti hanno
ricevuto una serie di somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo precipitato in
fosfato di alluminio associato a GM-CSF ed e’ stata dimostrato che tutti i pazienti hanno
generato delle risposte cellulari idiotipo-specifiche ben documentabili e di lunga durata.
In un caso, e’ stata anche osservata una diminuzione della componente monoclonale
sierica a seguito della vaccinazione (18).
Anche presso la nostra Istituzione e’ stata messo a punto un protocollo di
vaccinazione basato sull’uso di idiotipo autologo coniugato a KLH che viene
somministrato per via sottocutanea in presenza di GM-CSF o IL-2 come
immunoadiuvanti. Sono stati inizialmente trattati 8 pazienti in recidiva o con malattia
resistente ed abbiamo confermato che il trattamento e’ ben tollerato e puo’ essere
158
somministrato in regime ambulatoriale. Abbiamo osservato un risultato interessante in
2 pazienti nei quali la malattia e’ rimasta stabile per 20 mesi in assenza di altri
trattamenti. Abbiamo quindi deciso di valutare l’uso della vaccinazione idiotipica come
terapia di mantenimento dopo chemioterapia ad alte dosi e infusione di PBPC (19).
Esistono numerose evidenze sperimentali che sottolineano come sia piu’ importante la
fase della malattia in cui il vaccino e’ somministrato rispetto al numero di
somministrazioni o alla durata del trattamento vaccinico. Nel caso del MM, molte delle
anomalie fenotipiche e funzionali che caratterizzano i linfociti T sono regredite in fase di
malattia minima residua. Inoltre, a questo punto si e’ creato un rapporto tra cellule
effettrici e cellule target molto favorevole nei confronti dell’ospite. Infine, la
presentazione dell’idiotipo in forma immunogena durante la
ricapitolazione
dell’omeostasi T linfocitaria che avviene dopo l’autotrapianto potrebbe facilitare la
rottura della tolleranza nei confronti dell’idiotipo stesso. Sono stati inseriti 12 pazienti
in questo protocollo, dall’Agosto 1995 al Gennaio 1998.
Undici pazienti hanno
completato il trattamento, mentre 1 paziente non e’ riuscito a terminarlo a causa della
progressione della malattia. Degli 11 pazienti che hanno completato il trattamento, 5
sono rimasti in remissione per un periodo compreso tra 12 e 35 mesi (dati aggiornati a
fine Maggio1999), mentre 6 pazienti sono ricaduti in un periodo compreso tra i 9 ed i 36
mesi. La durata della remissione e’ stata calcolata a partire dall’inizio del vaccino. E’
stata osservata la generazione di risposte proliferative specifiche all’idiotipo in 2/12
pazienti, mentre e’ stata documentata in 8/10 pazienti una risposta positiva alla
159
reazione di ipersensibilita’ ritardata (DTH) all’idiotipo autologo. In un caso, abbiamo
potuto dimostrare la specificita’ della DTH utilizzando dei peptidi sintetici derivati
dalla regione variabile della catena pesante prodotta dalle cellule tumorali. In nessun
caso, i pazienti hanno generato risposte solubili contro l’idiotipo (a differenza di quanto
osservato nei linfomi), mentre abbiamo osservato che le risposte nei confronti della
KLH sono state frequenti sia in termini di produzione di anticorpi (100% dei vaccinati),
sia in termini di risposta proliferativa (80% dei vaccinati). Questi dati hanno dimostrato
che: 1) il sistema immunitario dei pazienti con MM e’ in grado di generare risposte
immuni contro l’idiotipo anche dopo autotrapianto; 2) le DTH rappresentano un test di
semplice esecuzione ed affidabile per dimostrare che il vaccino e’ stato efficace
nell’indurre in vivo una risposta immune anti-idiotipo; 3) l’immunita’ anti-idiotipo, per
quanto specifica e duratura, non e’ in grado di esercitare un effetto citoriduttivo sulle
cellule tumorali, anche in presenza di malattia minima residua. E’ quindi possibile che
questo protocollo abbia indotto un’immunita’ anti-idiotipo in grado di esercitare un
effetto regolatorio sulle cellule tumorali piuttosto che citotossico. Rimane da verificare
se una risposta immune di questo tipo sia capace di migliorare la durata della
remissione
rispetto
alle
terapie
di
mantenimento
che
non
hanno
effetto
immunomodulante.
Uno studio recente ha anche esaminato la possibilita’ di utilizzare DC pulsate
con l’idiotipo autologo come terapia di mantenimento dopo autotrapianto con PBPC
(20). Come nello studio precedentemente riportato nei linfomi, sono state purificate dal
160
sangue periferico le DC mature circolanti, le quali sono state pulsate con l’idiotipo
autologo e quindi infuse 2 volte per via endovenosa in un periodo compreso tra i 3 ed i
7 mesi dopo l’autotrapianto. Le infusioni di DC sono quindi state seguite da 5
somministrazioni sottocutanee di idiotipo coniugato a KLH. I risultati ottenuti sono
molto simili a quelli osservati nel nostro protocollo. In particolare, solo 2/12 pazienti
hanno sviluppato una risposta proliferativa all’idiotipo autologo, ma e’ stato dimostrato
in un paziente su 3
che il vaccino ha
indotto linfociti T citotossici in grado di
riconoscere selettivamente e lisare un bersaglio costituito da fibroblasti autologhi
trasdotti con l’idiotipo. Infine, anche in questo studio, la maggior parte dei pazienti ha
generato una risposta proliferativa alla KLH, confermando quindi che lo stato di
immunocompetenza dei MM dopo autotrapianto non e’ definitivamente compromesso.
Prospettive future
Le cellule deputate a presentare l’antigene (APC) hanno un ruolo centrale nello
sviluppo dei vaccini per i disordini linfoproliferativi. Le uniche esperienze finora
pubblicate riguardano le DC mature isolate dal sangue periferico. Il numero di queste
cellule, tuttavia, e’ molto basso (circa l’0.1% delle cellule monucleate circolanti) e quindi
e’ molto difficile e laborioso isolarle in quantita’ e purezza adeguate. Le DC sono
tuttavia una popolazione cellulare molto eterogenea e DC molto efficienti possono
essere ottenute anche da altri tipi di cellule quali: cellule mononucleate del midollo,
progenitori CD34+ del midollo, progenitori CD34+ del sangue periferico mobilizzati
161
con fattori di crescita dopo chemioterapia, progenitori CD34+ isolati dal sangue di
cordone ombelicale ed monociti isolati dal sangue periferico (21). La possibilita’ di
generare ex-vivo le DC, utilizzando le citochine ed i fattori di crescita piu’ appropriati,
consente anche di modulare e potenziare le loro proprieta’ funzionali e forzare la
risposta T linfocitaria in senso Th1 piuttosto che Th2. Al momento non e’ ancora chiaro
quale sia l’immunogeno migliore per pulsare le DC ex-vivo; possono essere utilizzati
lisati ottenuti da cellule tumorali intere, idiotipo purificato, peptidi sintetici
corrispondenti alle regioni ipervariabili dell’idiotipo, cosi’ come potrebbero essere
utilizzati antigeni tumorali diversi dall’idiotipo stesso. E’ chiaro che il polimorfismo
delle molecole HLA condiziona la messa a punto dei vaccini che prevedono una
risposta T cellulare mediata dalle DC. Certamente l’uso di lisati cellulari o di molecole
intere come l’idiotipo ha il vantaggio di offrire l’intera gamma di sequenze peptidiche
potenzialmente immunogeniche e quindi c’e un minore rischio di restrizione da parte
delle molecole HLA. Gli inconvenienti di tale approccio sono che i peptidi tumorespecifici potrebbero non raggiungere una concentrazione sufficiente per attivare una
risposta tumore-specifica, perche’ fortemente diluiti in una quantita’ molto maggiore di
peptidi non immunogenici o non tumore-specifici. Una conseguenza potrebbe essere
quella di indurre risposte autoimmuni anziche’ antitumorali. Inoltre, non e’ detto che
peptidi differenti, derivati dallo stesso antigene tumorale, possano stimolare con la
stessa efficacia in associazione agli alleli HLA specifici di ciascun individuo. L’uso di
peptidi sintetici offre alcuni vantaggi, ma anche alcuni inconvenienti come la maggiore
162
restrizione HLA, il rischio di indurre tolleranza e favorire l’emergenza di cloni tumorali
che non esprimono quel determinato peptide. Dati recenti dimostrano pero’ che l’uso
di DC puo’ evitare il rischio di indurre tolleranza quando si utilizzano vaccini peptidici
(22), perche’ la presentazione di un peptide da parte della DC e’ fisiologica, mentre
non lo e’ quando avviene tramite cellule che non sono APC professionali.
I B linfociti neoplastici possono diventare essi stessi delle APC efficienti e
presentare in modo appropriato i peptidi derivati dai propri antigeni tumorali. Sono
attualmente in corso alcune sperimentazioni precliniche e cliniche con questo obiettivo.
Una prima possibilita’ e’ quella di fondere le cellule di mieloma con le DC. Il prodotto
di fusione avra’ cosi’ le caratteristiche funzionali della DC, ma anche la possibilita’ di
processare direttamente e presentare l’intero repertorio antigenico della cellula
mielomatosa. Gli ibridi ottenuti dalla fusione di DC e cellule mielomatose sono gia’
stati utilizzati con successo come immunogeni in un modello sperimentale murino (23).
Come alternativa, i linfociti B neoplastici possono essere trasformati in APC efficienti
mediante la stimolazione della molecola di superficie CD40 con il suo ligando naturale
CD40L (CD154). E’ stato infatti dimostrato che la stimolazione del CD40 rappresenta lo
stimolo piu’ efficace per indurre o aumentare nei linfociti B l’espressione di molecole di
adesione, costimolatrici o del sistema MHC. Il risultato di tali modulazioni fenotipiche
e’ che sia i linfociti B normali che quelli neoplastici aumentano la loro capacita’ di
processare l’antigene e diventano delle APC efficienti (24).
163
L’ingegnerizzazione genetica e’ un altro approccio capace di trasformare i
linfociti B neoplastici in potenti APC.
La transfezione con sequenze di DNA che
codificano per citochine o molecole stimolatrici aumenta notevolmente la capacita’ dei B
linfociti neoplastici di generare una risposta immune anti-tumorale. Questo approccio e’
stato recentemente utilizzato nel MM, sfruttando il fatto che le cellule mielomatose
esprimono selettivamente dei recettori funzionali per gli adenovirus (23). Le cellule
neoplastiche sono state transdotte con vettori adenovirali che contenevano i geni per
l’IL-2, l’IL-12 o il CD80. E’ attualmente in corso un protocollo sperimentale di fase I nel
quale pazienti con MM in remissione dopo chemioterapia ad alte dosi sono
immunizzati con cellule mielomatose autologhe trasdotte con vettori adenovirali che
codificano per l’IL-2.
Infine, l’ingegneria genetica ha consentito lo sviluppo di una nuova generazione
di immunogeni, rappresentati dai vaccini a DNA. Sono state assemblate le sequenze
relative alla regione variabile della catena pesante e della catena leggera
dell’immunoglobulina tumore-specifica e questi costrutti sono stati utilizzati per
produrre proteine ricombinanti in batteri o come vaccini plasmidici (25). L’efficacia
immunizzante e’ risulta migliore quando sono state inserite, come adiuvanti genici,
delle sequenze specifiche per proteine xenogeniche. Sono anche in corso di messa a
punto delle strategie che prevedono l’inserimento delle sequenze che codificano per la
regione variabile dell’idiotipo nelle DC, utilizzando vettori retrovirali o adenovirali. Le
DC cosi’ trasdotte possono essere utilizzate come immunogeni. Infine, un altro
164
approccio di terapia genica consiste nell’uso di gene-gun piuttosto che virus o plasmidi
per inserire sequenze di DNA nelle cellule tumorali. Questo approccio e’ gia’ stato
utilizzato con successo in un modello murino di mieloma (26).
Ringraziamenti
Questo lavoro e’ stato realizzato in parte con il contributo
dell’AIRC
(Milano)
e
della
Compagnia
San
Paolo
di
Torino
(Torino).
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LE CELLULE DENDRITICHE NELL’ IMMUNITA’ ANTITUMORALE
Roberto M. Lemoli, Antonio Curti, Marina Ratta, Miriam Fogli, Sante Tura.
Istituto di Ematologia ed Oncologia Medica “L. & A. Seràgnoli”, Università di Bologna, Bologna.
Le cellule dendritiche (DC) sono cellule professionali presentanti l’ antigene (APC) e come
tali sono specializzate nella “cattura” e nella processazione di antigeni (Ag) in frammenti
peptidici che sono successivamente complessati con le molecole del sistema MHC e
presentati alle cellule T per iniziare la risposta immunitaria. Le DC sono le cellule più
potenti nell’ indurre una risposta T-linfocitaria ed hanno la peculiare capacità di stimolare
non solo cellule T-memoria ma soprattutto T-linfociti naive. Quindi, le DC hanno un ruolo
centrale (“adiuvanti naturali”) per l’ induzione di una risposta immune Ag-specifica.
Evidenze recenti in modelli sperimentali e nell’ uomo hanno mostrato il potenziale ruolo
delle DC in strategie di immunizzazione dirette a stimolare un’ immunità specifica antitumorale.
Caratterizzazione biologica delle DC
Le DC sono cellule distribuite ubiquitariamente nel corpo umano, particolarmente nei
tessuti che fungono da barriera con l’ambiente circostante ( per esempio, le cellule di
Langerhans nella cute e a livello delle mucose) e negli organi linfoidi ( DC interdigitate),
dove agiscono come “sentinelle” nei confronti degli agenti patogeni con cui l’organismo
entra in contatto.Stimoli infiammatori, come TNF-α e IL-1β, batteri, prodotti batterici (LPS)
e virus, inducono la migrazione delle cellule dendritiche, che hanno “caricato” l’antigene,
dai tessuti periferici agli organi linfoidi secondari. Durante la migrazione, le DC subiscono
171
un processo di maturazione, che le porta ad incrementare enormemente la propria
capacità di attivare le cellule T. Questo processo consiste nell’aumentata espressione di
membrana di alcune molecole chiave nell’interazione tra APC e linfocita: molecole di
adesione, molecole del sistema HLA e molecole di costimolazione (1-6).
L’attività funzionale delle DC deriva da una serie di caratteristiche peculiari di queste
cellule. La loro forma, caratterizzata da numerose estroflessioni citoplasmatiche e l’elevata
espressione di membrana di alcune molecole di adesione ed integrine (LFA-3, ICAM-1,
ICAM-3) estendono l’area di contatto con le cellule effettrici del sistema immunitario. Le
DC esprimono intensamente gli antigeni HLA di classe II (HLA-RD, -DQ,-DP) e le
molecole di costimolazione (CD80,CD86,CD40), le quali interagendo con il proprio ligando
presente sui linfociti T (CD28, CTLA-4, CD40L), forniscono il “secondo segnale”,
indispensabile per indurre al momento del riconoscimento antigenico una risposta
proliferativa e non anergia (1). Inoltre, le DC producono un vasto numero di citochine, tra
cui IL-12, che ha la funzione di promuovere una risposta immunitaria di tipo citotossico
attraverso la differenziazione delle cellule TH0 in cellule TH1, producenti interferon (IFN)γ e IL-2 (7, 8). Recentemente è stato dimostrato che durante il riconoscimento antigenico, i
linfociti T-helper attivano le DC mediante l’interazione CD40-CD40L e le DC così attivate
sono capaci di stimolare una risposta T-killer (9-11).
Le DC si trovano nei tessuti periferici in uno “stato immaturo” e sono incapaci di attivare i
linfociti T perchè mancano di tutti i segnali di membrana necessari per la loro attivazione.
A questo livello di differenziazione, tuttavia, sono estremamente efficienti nel catturare
antigeni
solubili,
antigeni
particolati
e
microorganismi
mediante
fagocitosi,
macropinocitosi e attraverso il recettore macrofagico del mannosio ed i recettori Fcγ e Fcε
(1). La cattura dell’antigene induce le DC a maturare e ad esprimere più intensamente
172
sulla membrana cellulare le molecole MHC e quelle di costimolazione, nonché gli antigeni
associati al differenziamento in senso dendritico (CD83 e p55). Nel contempo, viene
progressivamente perduta la capacità di catturare e processare l’antigene. Tuttavia, la
completa attivazione delle DC dipende dal contatto con le cellule T attraverso l’interazione
CD40-CD40L, che induce la produzione di IL-12. Pertanto, le funzioni principali delle DC
(cattura dell’antigene, attivazione dei linfociti T) sono rigidamente associate a stadi
successivi di differenziamento. A questo proposito, è interessante notare come IL-10 (12) e
il vascular endothelial growth factor (VEGF), secreto dalle cellule neoplastiche (13)
ostacolano la maturazione delle DC, inibendo l’efficace attivazione delle cellule T.
Generazione ex-vivo di DC
I monociti CD14+ circolanti, incubati con citochine specifiche, quali GM-CSF, IL-4 e TNF-α
(14, 15) rappresentano la fonte più facilmente disponibile per la generazione ex-vivo di
DC. Inoltre, sono stati individuati precursori delle DC nell’ambito della frazione cellulare
CD34+ del midollo osseo (BM), del cordone ombelicale (CB) e del sangue periferico (PB)
sia in condizione di steady-state che dopo mobilizzazione (16-22). Anche in questo caso il
differenziamento delle cellule CD34+ a DC completamente funzionanti è rigidamente
condizionato dalla stimolazione con alcune citochine ben determinate, quali GM-CSF,
TNF-α, SCF, FLT-3L e IL-4. GM-CSF e IL-4 inducono il differenziamento di monociti
CD14+ non proliferanti in DC immature, non aderenti, che esprimono a bassi livelli gli
antigeni CD83 e p55 e sono scarsamente capaci di attivare linfociti T naive. Queste DC
immature non sono completamente differenziate a regrediscono ad uno stato di cellule
aderenti monocitoidi se le citochine impiegate vengono rimosse dal mezzo di coltura.
L’aggiunta di citochine infiammatorie quali TNF-α, IL-1β, LPS o PGE2 per 1-2 giorni al
173
mezzo di coltura contenente GM-CSF e IL-4 determina la maturazione delle DC ed
aumenta notevolmente la loro capacità di stimolare le cellule T.
Complessivamente, queste osservazioni portano alla conclusione che DC immature,
generate da cellule CD14+ in presenza di GM-CSF e di IL-4 si trovano in una condizione
che le rende estremamente efficienti nel catturare e nel processare antigeni solubili, tra cui
anche gli antigeni associati ai tumori (TAA). Tuttavia, tali cellule richiedono un ulteriore
stimolo maturativo (TNF-α, CD40L, LPS) per diventare capaci di attivare le cellule T. Le
DC immature sono il bersaglio ideale per la manipolazione genetica basata sull’impiego di
vettori virali o batterici, infettanti cellule non replicanti. In questo caso, gli agenti patogeni
trasformati sono di per sè capaci di indurre la completa maturazione delle DC. In
alternativa, si possono studiare protocolli di vaccinazione basati sull’utilizzo di DC
mature, che sono in grado di attivare una risposta T linfocitaria specifica per un
determinato peptide associato con un tumore, anche senza averlo precedentemente
catturato e processato, ma semplicemente complessandolo ab extrinseco alle numerose
molecole HLA presenti sulla propria membrana cellulare (23).
Come accennato in precedenza, le cellule CD34+ possono essere indotte a differenziare in
DC funzionalmente competenti, aventi caratteristiche che le fanno assomigliare alle cellule
di Langerhans della cute. Molto recentemente le caratteristiche fenotipiche e funzionali
delle DC di derivazione da precursori CD34+ mobilizzati nel sangue periferico e della loro
controparte derivante da cellule CD34+ midollari sono state oggetto di una comparazione
(19). I risultati pubblicati dimostrano che il G-CSF, usato come regime di mobilizzazione,
determina un incremento sia numerico che in termini di capacità proliferativa dei
precursori delle DC (CFU-DC) rispetto alla loro controparte midollare. Questo si traduce
nella generazione in coltura liquida di un più elevato numero di DC mature. Nonostante il
174
pretrattamento con G-CSF, queste cellule mantengono la stessa capacità di attivazione su
linfociti T allogenici che caratterizza le DC di derivazione da precursori midollari. Le DC
derivanti da cellule CD34+ sono, inoltre, capaci di processare e presentare antigeni solubili
a linfociti T autologhi sia come risposta immunitaria primaria che secondaria. L’utilità del
siero autologo al posto di FCS in una prospettiva di applicazione clinica
è stata
confermata anche in questo studio. Inoltre, IL-4 si è dimostrata capace di modulare il
differenziamento dendritico dalle cellule CD34+ bipotenti, durante le ultime fasi della
coltura, come osservato per le DC di derivazione dai monociti. Pertanto, per
l’immunoterapia dei tumori le cellule CD34+ mobilizzate nel sangue periferico potrebbero
rappresentare un’ottima sorgente per la generazione di DC. Inoltre, dati recenti
dimostrano la mobilizzazione di un grande numero di precursori di DC mediante GMCSF (24) e FLT-3L (25). In particolare, il FLT-3L somministrato in-vivo a topi ha mostrato
la capacità di stimolare la proliferazione ed il differenziamento di tutti i subsets di DC
(mieloidi, linfoidi) (26) e di indurre una risposta immunitaria DC-mediata anti-tumorale
(27).
Delivery system di antigeni associati a tumori
Sono stati descritti numerosi metodi utilizzati dalle DC per “caricare” gli antigeni tumorali
o tumor associated antigens (TAA). Il razionale è basato sull’osservazione che le cellule
tumorali sono scarsamente immunogeniche a causa di una deficiente capacità di essere
riconosciute dai linfociti T e di una ridotta espressione di membrana di molecole di
attivazione e di costimolazione, tipiche delle APC. In questa ottica, Gong et al. (28) hanno
costituito un ibrido, rappresentato dalla fusione di DC murine e cellule di una linea di
carcinoma della mammella (MC38) al fine di fornire alle cellule tumorali le caratteristiche
175
funzionali delle DC. Le cellule derivanti da questa fusione mostrano tutte le peculiarità
fenotipiche delle DC e si sono dimostrate capaci di prevenire la crescita tumorale quando i
topi sono stati esposti alle cellule della linea. Inoltre, il trattamento con le cellule di fusione
ha indotto una regressione di alcune metastasi polmonari. Recentemente sono stati
individuati numerosi peptidi tumorali che sono presentati ai linfociti T in associazione con
le molecole HLA di classe I e si sono dimostrati utili nell’induzione di una risposta CTL
autologa sia in vitro che in vivo. Tuttavia, stimolare le DC con peptidi potrebbe non essere
il sistema ideale per un’applicazione clinica a causa della rigida restrizione MHC della
risposta immunitaria e della loro limitata stabilità. Inoltre, il “pulsing” con i peptidi
potrebbe non essere in grado di indurre una risposta T-cellulare diretta contro le cellule
tumorali che esprimono l’antigene vero e proprio. Sebbene le DC possano essere “caricate”
con un cocktail di peptidi derivanti da diversi antigeni, tutti appartenenti allo stesso
tumore, questo approccio alla vaccinazione è limitativo in quanto rende necessaria una
selezione dei pazienti sulla base del fenotipo HLA. Un’alternativa affascinante è
rappresentata dall’impiego, quando possibile, di proteine non frazionate di derivazione
tumorale, di cellule apoptotiche (29), o lisati tumorali. Nell’ultimo caso l’ovvio svantaggio
è costituito dalla possibilità di indurre una risposta immunitaria contro antigeni self,
espressi su tessuti diversi dalle cellule tumorali.
Una ulteriore possibilità è rappresentata dalla trasduzione delle DC con vettori genici
codificanti per TAA. Le DC possono essere ingegnerizzate in diversi modi, che si
distinguono tra di loro per la capacità di applicarsi a cellule quiescenti, per la stabilità
dell’integrazione genomica, per l’efficienza di trasfezione e per la capacità di stimolare il
sistema immune. Le DC transdotte con retrovirus esprimono in modo costitutivo la
sequenza genica codificante per l’antigene tumorale e stimolano efficacemente una
176
risposta T-cellulare specifica (30). Tuttavia, i vettori retrovirali sono caratterizzati da una
bassa efficienza di trasfezione, sono in grado di infettare esclusivamente cellule
attivamente replicantesi e possiedono il rischio teorico di una trasformazione oncogenica
delle cellule bersaglio. Al contrario, gli adenovirus infettano sia cellule quiescenti che
proliferanti e non si integrano nel DNA (31). Inoltre, sovranatanti con un alto titolo virale
si possono facilmente ottenere. Recentemente, le DC sono state ingegnerizzate con
adenovirus combinati con particelle liposomiali cationiche, ottenendo una efficienza di
infezione che si avvicinava al 100% (32). La principale limitazione all’uso clinico degli
adenovirus è rappresentata dalla loro alta immunogenicità che induce la produzione di
anticorpi neutralizzanti ed il rapido sviluppo di CTL diretti contro le cellule infettate.
Vettori allestiti utilizzando vaccinia virus non inducono trasformazione neoplastica, non si
integrano nel genoma e possono essere manipolati al fine di veicolare grandi frammenti di
DNA eterologo (33). Tuttavia, questi virus sono tossici per le cellule bersaglio e la vitalità
delle DC si approssima al 50%. Più recentemente, l’infezione delle DC con vettori batterici
si è dimostrata capace di indurre
la loro maturazione, in termini di nuova sintesi,
traslocazione e stabilizzazione delle molecole MHC sulla superficie cellulare ed inoltre di
attivare una risposta T-cellulare sia CD4 che CD8 (34). Di conseguenza, un antigene
modello (ovoalbumina) espresso sulla superficie di una variante ricombinante di
Streptococco Gordonii è processato dalle DC e presentato sulle molecole MHC di classe I
con una efficienza 106 volte maggiore rispetto alla proteina solubile di ovoalbumina.
Pertanto, i vettori batterici sono potenzialmente utili per veicolare antigeni esogeni
all’interno delle DC al fine di stimolare una risposta CTL tumore specifica. Molto
recentemente, batteri trasformati sono stati somministrati per os nel topo per indurre una
specifica risposta anti-tumorale in-vivo ed il meccanismo di azione si è visto essere
177
mediato dalle DC (35). Un approccio differente è stato seguito da Boczkowsky et al (36),
che hanno transfettato le DC con l’RNA totale estratto dalle cellule tumorali e combinato
con lipidi cationici al fine di amplificare l’efficienza di infezione. Analogamente all’uso dei
lisati tumorali, questa strategia può essere applicata a quei casi in cui manca un marker
antigenico tumore specifico, anche se esiste il rischio di indurre una risposta di tipo
autoimmune.
Impiego delle DC nell’immunoterapia cellulare
Il ruolo centrale delle DC nell’induzione di una risposta immunitaria tumore-specifica è
stato ampiamente dimostrato sia in vitro che in modelli animali (30, 36-41). Mentre le DC
murine “pulsate” con proteine o peptidi tumorali oppure ingegnerizzate con geni
codificanti per TAA si sono dimostrate capaci di indurre un rigetto di cellule tumorali
impiantate artificialmente e la regressione di carcinomi preformati, rimane da stabilire
quale delle numerose strategie di immunoterapia cellulare proposte risulti essere quella
più efficace. Non è da escludere che differenti tipi di tumore possano richiedere differenti
approcci.
Nell’uomo, studi preliminari sono stati realizzati in pazienti affetti da melanoma
utilizzando le DC “pulsate” con il peptide MAGE (42, 43). L’iniezione delle DC veicolanti
il peptide induceva la migrazione di CTL MAGE-specifici nel sito di iniezione ed
aumentava il numero di CTL tumore specifici circolanti. Più recentemente, Nestle et al.
(44) hanno sottoposto pazienti, affetti da melanoma in stadio avanzato e tipizzati per
quanto riguarda il profilo HLA, ad iniezioni intranodali di DC “pulsate” con peptidi o
lisati tumorali. Gli autori hanno riportato l’induzione di una risposta T-cellulare peptidespecifica in tutti i casi. Inoltre, in 5 pazienti su 16 si è verificata una risposta clinica
178
obiettiva. In questo studio, le DC erano state generate ex-vivo a partire da monociti in
presenza di IL-4 e GM-CSF ed iniettate direttamente in un linfonodo inguinale al fine di
raggiungere le aree T-dipendenti.
Peptidi tumorali (frammenti dell’antigene specifico della prostata, PSA) sono stati
impiegati per stimolare le DC in pazienti con carcinoma della prostata resistenti alla
terapia ormonale (45). Sette su 51 pazienti hanno mostrato una parziale risposta mentre
nessuno dei pazienti del gruppo di controllo, cui era stato iniettato il peptide da solo, ha
evidenziato alcuna risposta. Nelle neoplasie della linea B, la sequenza genica pazientespecifica dell’idiotipo (Id) e la proteina codificata rappresentano il target ottimale per
strategie di vaccinazione, come dimostrato in precedenza in modelli murini e nell’uomo.
Hsu et al hanno riportato il caso di 4 pazienti affetti da linfoma non-Hodgkin (NHL) a
basso grado resistenti alla chemioterapia convenzionale o ricaduti e trattati con DC “
pulsate” con l’idiotipo come antigene solubile (46). Una risposta T-cellulare tumore
specifica è stata osservata in tutti i casi, associata in un caso ad una regressione della massa
tumorale. A tutt’oggi, sono stati trattati 16 pazienti ed una risposta cellulare tumore
specifica è stata osservata in 8 pazienti (R. Levy, comunicazione personale). La stessa
strategia basata sull’idiotipo è stata proposta dallo stesso gruppo per indurre una risposta
immunitaria T-cellulare in pazienti con mieloma multiplo (47). Peraltro, in quest’ ultimo
caso si è avuta una risposta Id-specifica solo in 2/12 pazienti. Contrariamente a Nestle, in
questi studi preliminari le DC sono state isolate direttamente dal sangue periferico
attraverso cicli successivi di arricchimento e sono state poi reinfuse per via endovenosa.
Sebbene un numero nettamente superiore di DC siano state somministrate nei pazienti con
NHL rispetto ai pazienti affetti da melanoma (3-20 × 106 DC vs 1×106), questo approccio
presenta alcuni interrogativi sia per quanto riguarda la capacità di DC isolate direttamente
179
dal sangue periferico di stimolare efficacemente le cellule T sia la capacità delle APC
veicolanti
l’idiotipo
di
raggiungere
gli
organi
linfatici
secondari,
superando
l’intrappolamento da parte del filtro polmonare.
In conclusione, i pochi dati clinici disponibili tendono a dimostrare che cellule dendritiche
autologhe, generate ex-vivo e reinfuse in pazienti affetti da neoplasie, sono efficaci
nell’indurre una risposta immune anti-tumorale. Questo è il risultato di una complessa
rete di relazioni tra diverse popolazioni cellulari, coinvolte nell’immunità dei tumori.
Peraltro, l’immunoterapia cellulare basata sulle DC deve essere ancora standardizzata.
Allo stadio attuale e sulla base principalmente di studi su modelli animali, possiamo dire
che l’immunoterapia dei tumori basata sulle DC potrebbe essere lo strumento per
esercitare nell’uomo un potente effetto anti-tumore.
180
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186
Applicazioni Terapeutiche delle Cellule Stromali Midollari
Carmelo Carlo-Stella
Unità Trapianto di Midollo Osseo Istituto Nazionale Tumori - Milano
INDIRIZZO
Dr. Carmelo Carlo-Stella
Unità Trapianto di Midollo
Istituto Nazionale Tumori
Via Venezian, 1
20133 Milano
E-mail: [email protected]
187
In aggiunta alle cellule staminali emopoietiche (HSCs) in grado di generare progenitori
orientati verso la maturazione terminale, il midollo osseo contiene cellule staminali nonemopoietiche di tipo mesenchimale (1) e di tipo epiteliale (2). Le “cellule staminali
mesenchimali” (MSCs), dotate di capacità di automantenimento e di pleiotropica capacità
differenziativa
in
senso
osteoblastico,
condrocitario,
adipocitario,
mioblastico
e
fibroblastico sono anche denominate “cellule stromali midollari”, data la loro capacità di
generare le cellule del microambiente midollare (3,4). Le cellule stromali del
microambiente midollare sono fortemente eterogenee essendo costituite oltre che dalla
progenie delle MSCs anche da cellule endoteliali e macrofagi (questi ultimi benchè
generati dalla HSC vengono considerati componenti funzionali dello stroma) (5,6). Dal
punto di vista funzionale, le cellule mesenchimali e non-mesenchimali del microambiente
midollare e i loro prodotti biosintetici giocano un ruolo fondamentale nella regolazione
della proliferazione e differenziazione emopoietica. Le cellule stromali sintetizzano fattori
di crescita e citochine regolatrici, esprimono molecole adesive e producono proteine della
matrice extracellulare che compartimentalizzano le molecole regolatrici (7,8). Benchè
citochine e fattori di crescita svolgano un ruolo cruciale nella regolazione della
proliferazione e differenziazione emopoietica, appare improbabile che l’emopoiesi sia
regolata da una miscela casuale di fattori di crescita e cellule target (9). E’ verosimile che
molecole regolatorie e fenomeni di localizzazione a livello dello stroma midollare siano
essenziali per regolare l’emopoiesi. Benchè le conoscenze circa i fattori stromali in grado di
modulare lo sviluppo di cellule emopoietiche lungo le varie filiere differenziative siano
relativamente limitate, appare evidente che le cellule del microambiente midollare sono
coinvolte non solo nella regolazione della proliferazione e differenziazione mieloide ma
anche in quella T e B linfoide attraverso tre modalità operative: (i) interazioni cellulacellula; (ii) interazioni tra cellule emopoietiche e molecole della matrice extracellulare; (iii)
interazioni tra cellule emopoietiche e citochine regolatrici (5).
Il ruolo esatto che le cellule del microambiente, le molecole adesive e le proteine della
matrice extracellulare svolgono nella localizzazione e organizzazione spaziale delle cellule
emopoietiche e nella regolazione della ricostituzione mieloide e linfoide dopo trapianto di
cellule staminali emopoietiche (SCT) rimane oggetto di ipotesi (10). Studi nel topo hanno
dimostrato che cellule staminali e progenitrici emopoietiche hanno una peculiare
188
distribuzione lungo la cavità midollare del femore suggerendo una suddivisione del
microambiente midollare in aree funzionalmente distinte (“microambiente primario” e
“microambiente secondario”) che condizionano distinte modalità differenziative delle
cellule staminali emopoietiche (11). L’esistenza di aree microambientali primarie e
secondarie è supportata dagli esperimenti di Schofield (12) che dimostrano un ruolo delle
cellule microambientali nel mantenere la cellula staminale emopoietica in condizioni
quiescenti e suggeriscono l’esistenza della “nicchia della cellula staminale”. Un altro
meccanismo che supporta il concetto di aree specializzate del microambiente è
rappresentato dalla produzione compartimentalizzata di fattori di crescita (9). Fattori di
crescita prodotti localmente dalle cellule stromali si legano a strutture della matrice
extracellulare e vengono presentati alle cellule target che riconoscono ciascun fattore
attraverso specifici recettori (9). Questo meccanismo consente di localizzare in aree
specifiche del microambiente elevate concentrazioni di specifici fattori di crescita. Allo
stato attuale, poco si conosce circa i fattori stromali in grado di modulare la
differenziazione emopoietica. Un crescente numero di evidenze suggerisce che la stroma
midollare è implicato non solo nella regolazione della proliferazione delle cellule mieloidi
ma anche nello sviluppo T e B linfocitario (13-16). Specifiche molecole di adesione e
citochine sono in grado di regolare la B e T linfopoiesi stroma-dipendente (17,18)
suggerendo che lo stroma midollare possa funzionare come sede extra-timica di T e B
linfopoiesi.
L’esistenza della MSC in grado di auto-mantenersi è supportata da molti dati in vivo e in
vitro (19). A livello funzionale, le MSCs che risiedono nel microambiente midollare sono in
grado di generare uno stroma midollare complesso sia in vivo che in vitro e hanno
capacità differenziativa multilineare essendo infatti capaci di generare progenitori con
potenziale differenziativo ristretto alla filiera fibroblastica, osteoblastica, adipocitaria,
condrocitaria e mioblastica (20-22). In assenza di un sistema di coltura in grado di
quantificare la MSC, l’unica classe di progenitori mesenchimali attualmente saggiabile in
vitro è rappresentata dalle CFU-F (fibroblastic colony-forming cells) (23). Le CFU-F
generano in vitro colonie di differente taglia e potenziale proliferativo morfologicamente
costituite da cellule di tipo fibroblastico le quali sono in grado, in presenza di appropriati
stimoli, di differenziare in senso adipocitario (22) o osteoblastico (24) e sono in grado di
189
generare uno spettro completo di cellule mesenchimali se trapiantate sotto la capsula
renale di un ricevente singenico (“stromal stem cell hypothesis”) (20,25-28). Un saggio non
clonogenico per lo stroma midollare è rappresentato dalle colture a lungo termine tipo
Dexter che generano uno stroma complesso costituito dai diversi tipi di cellule
mesenchimali che compongono il microambiente midollare.
Prerequisito per l’uso clinico di cellule mesenchimali è la possibilità di isolare progenitori
mesenchimali e di espanderli ex vivo in condizioni di coltura standardizzate. L’isolamento
e l’espansione ex vivo di progenitori mesenchimali risiede nella disponibilità di anticorpi
(es., STRO-1, SH-2) non cross-reattivi con l’antigene CD34 e capaci di riconoscere una
sottopopolazione di cellule midollari in grado di generare in vitro stromi midollari
completi e funzionalmente attivi (29,30). Nessuno degli anticorpi attualmente disponibili è
specifico per le MSCs.
L’importante ruolo delle cellule mesenchimali nella regolazione del sistema emopoietico è
dimostrato da molteplici evidenze cliniche e sperimentali. Nel modello di trapianto in
utero (IUT) nella pecora, è stato dimostrato che la reinfusione combinata di cellule
staminali emopoietiche e cellule stromali midollari aumenta significativamente i livelli di
attecchimento di cellule del donatore (31). Nel modello di IUT nel topo NOD/SCID, il
potenziale di attecchimento delle cellule staminali fetali viene abrogato se il ricevente
viene irradiato prima del trapianto suggerendo che il microambiente midollare esercita un
ruolo cruciale nell’attecchimento mielo- linfo-poietico (32). Nell’uomo, un tipico modello
di alterazione del microambiente midollare che condiziona una ridotta elasticità
funzionale dell’emopoiesi si realizza dopo trapianto di cellule staminali emopoietiche. In
questa condizione, oltre ad una significativa riduzione della frequenza di progenitori
emopoietici primitivi e orientati, si osserva una marcata riduzione della capacità delle
cellule mesenchimali di supportare l’emopoiesi allogenica o autologa (33-36).
Il ruolo dello stroma midollare nella regolazione emopoietica e le peculiari caratteristiche
funzionali delle cellule mesenchimali consentono di ipotizzare numerose applicazioni
cliniche dei progenitori mesenchimali generati ex vivo (Tabella 1). Le MSCs potrebbero
essere utilizzate in associazione o meno a cellule staminali emopoietiche allo scopo di
190
‘rigenerare’ il microambiente midollare danneggiato dalla chemio-radioterapia o per
migliorare la ricostituzione mieloide e linfoide dopo trapianto di cellule staminali. Inoltre,
le caratteristiche funzionali delle MSCs (quiescenza, radio-resistenza, attività metabolica,
capacità di compartimentalizzare la produzione di citochine e di interagire in modo
selettivo con le cellule emopoietiche) le rendono un target di rilevante interesse in strategie
di terapia genica (es., in pazienti affetti da deficit enzimatici o proteici) (37). Dati recenti
dimostrano che le MSCs sono in grado di modulare la risposta proliferativa di linfociti T
allogenici in vitro e suggeriscono un ruolo per le cellule stromali nella modulazione del
rigetto e nella prevenzione della malattia da trapianto verso l’ospite (38).
Un numero molto limitato di studi clinici ha sinora esplorato l’uso in vivo delle MSCs.
L’unico studio di fase I al momento pubblicato ha dimostrato che la reinfusione di MSCs è
ben tollerata (39). Occorre sottolineare che a causa della limitata conoscenza della biologia
delle MSCs, le applicazioni cliniche delle MSCs rimangono oggetto di ipotesi che vanno
attentamente testate mediante appropriati studi preclinici e programmi clinici. Prerequisiti
essenziali per l’uso clinico di cellule mesenchimali sono: (i) la possibilità di isolare
progenitori mesenchimali e di espanderli ex vivo in condizioni di coltura standardizzate
(40) e (ii) la dimostrazione della trapiantabilità delle MSCs.
Benchè molteplici studi nel topo e nel cane abbiano dimostrato la trapiantabilità e la
persistente attività funzionale delle cellule stromali (41-45), nell’uomo la trapiantabilità
delle MSCs rimane controversa (46,47). La maggior parte dei dati generati sino a questo
momento in riceventi di trapianto di midollo HLA identico hanno evidenziato che le
cellule stromali non sono trapiantabili (46). Poichè nel modello murino la trapiantabilità
dello stroma è strettamente legata al numero di cellule mesenchimali reinfuse, è possibile
ipotizzare che lo stroma sia trapiantabile anche nell’uomo posto che un adeguato numero
di progenitori mesenchimali venga reinfuso. I progressi e le sostanziali modifiche alla
metodologia del trapianto di cellule staminali emopoietiche compiuti nell’ultima decade,
suggeriscono la necessità di rivalutare il problema della trapiantabilità delle MSCs. Uno
studio recentemente condotto in riceventi trapianto allogenico T-depleto reinfusi con
cellule midollari e cellule da sangue periferico ha dimostrato la trapiantabilità di
progenitori stromali la cui progenie è stata studiata mediante i polimorfismi del gene
191
HUMARA e mediante ibridizzazione in situ in fluorescenza per il cromosoma Y (CarloStella C & Tabilio A, manoscritto in preparazione).
In conclusione, lo studio della biologia delle MSC appare ancora ad uno stadio iniziale e
molti aspetti devono essere adeguatamente esplorati prima che si possa procedere, in
condizioni cliniche appropriate, a valutare l’impatto terapeutico delle MSC nel contesto di
strategie di terapia cellulare e terapia genica.
192
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Tabella 1- Potenziali applicazioni cliniche delle MSCs
Rigenerazione del microambiente midollare dopo radio-chemioterapia ad alte dosi
Accelerazione del recupero emopoietico dopo trapianto di cellule staminali
Accelerazione della ricostituzione T e B linfocitaria dopo trapianto di cellule staminali
allogeniche
Produzione compartimentalizzata di fattori di crescita e citochine
Modulazione della GvHD
Produzione di proteine
196
IMMUNOTERAPIA ADOTTIVA DOPO TRAPIANTO DI MIDOLLO
OSSEO ALLOGENICO
Francesco Dazzi
Department of Hematology, Imperial College School of Medicine at Hammersmith Hospital,
London, UK.
197
Il trapianto allogeneico di midollo osseo è il trattamento di scelta per diverse neoplasie del
tessuto emopoietico quando è disponibile un donatore compatibile. Il valore di tale
approccio è tuttavia limitato da due ordini di fattori: la estesa compromissione del sistema
immune indotta dal condizionamento chemio-radioterapico e il rischio di indurre la
malattia del trapianto contro l’ospite (graft-versus-host disease, GVHD). Nonostante cio’,
entrambe
queste
complicazioni
sono
intimamente
associate
ad
effetti
utili.
L’immunodeficienza è infatti necessaria ad instaurare lo stato di tolleranza dell’ospite
verso il trapianto, mentre la GVHD è strettamente associata ad un effetto anti-leucemico
definito come graft-versus-leukaemia (GVL). Pertanto, dopo il trapianto di midollo osseo
allogenico, l’infusione di linfociti del donatore originario di midollo nel ricevente (donor
lymphocyte infusion, DLI) puo’ essere impiegata per generare una risposta immune
contro il tumore e/o per restaurare lo stato di immunocompetenza. Infatti, i linfociti del
donatore non sono sottoposti a terapie immunosoppressive e non sono stati inattivati dai
meccanismi di evasione tumorale che hanno facilitato la ricaduta nel paziente.
Uso della DLI nelle ricadute di neoplasia dopo trapianto allogenico
Leucemia mieloide cronica. Nel 1990 Kolb e coll. osservarono per primi che il trasferimento
adottivo di linfociti ottenuti dal donatore originario di midollo consentivano di
ripristinare la remissione completa in pazienti con leucemia mieloide cronica (LMC) in
ricaduta dopo trapianto di midollo allogenico [1]. L’efficacia della DLI in questi pazienti è
stata da allora ampiamente confermata e studiata in dettaglio da numerosi gruppi [2-4].
Una vasta percentuale di pazienti (dal 60 al 73%) ottengono una remissione completa e la
possibilità di rilevare la ricaduta in fase precoce mediante l’analisi PCR dei trascritti di
198
BCR-ABL [5] consente di incrementare la percentuale di successi fino alla quasi totalità dei
casi. Infatti, è stato dimostrato che l’unico fattore in grado di predire la risposta è lo stadio
di malattia al momento della DLI. I pazienti la cui ricaduta è identificata soltanto a livello
molecolare o citogentico rispondono in misura maggiore rispetto ai pazienti nei quali la
terapia viene cominciata quando la malattia è in fase ematologica [2]. Inoltre, tra le
ricadute ematologiche, i pazienti in fase avanzata hanno scarse possibilità di rispondere [34].
Nessuna correlazione è stata osservata tra efficacia e tipo di donatore impiegato per la
DLI. Il tasso di risposta ottenuto con la trasfusione di cellule da donatori consanguinei non
sembra differire da quello ottenuto impiegando cellule da donatori volontari HLAcompatibili [6]. Tuttavia, dati preliminari sembrano indicare che la dose di cellule
necassaria alla remissione completa sia inferiore per questi ultimi rispetto ai primi [7].
Due distinte cinetiche di risposta sono state identificate. In alcuni pazienti la riduzione dei
livelli di dei trascritti di BCR-ABL è piuttosto rapido (meno di 6 mesi dopo la DLI); in altri
pazienti la PCR risulta negativa soltanto dopo diversi mesi (di solito >12) [8]. Non è chiaro
se queste diverse cinetiche siano il risultato di una diversa sensibilità delle cellule
leucemiche o dipendano dall’efficienza dei linfociti del donatore.
Leucemia acute. Nonostante i successi nella LMC abbiano portato a sperare uguali rislutati nelle
leucemie acute, le prime esperienze hanno rapidamente convinto del contrario. Anche se il numero
di pazienti trattati non è stato elevato, gli studi multicentrici europeo e nord-americano hanno
riportato una bassa percentuale di risposte nelle leucemia acute sia di origine linfoide (0 to 18%)
199
che mieloide (15 to 29%) [3-4]. Inoltre, i pochi pazienti con LMA che rispondono alla DLI spesso
ricadono a livello extra-midollare. È verosimile che lo scarso effetto dell’immunoterapia nelle
leucemie acute sia da imputarsi all’elevata attività proliferativa e quindi al numero di cellule
leucemiche che impedirebbero un efficace stimolazione dei linfociti allogenici.
Mieloma multiplo e linfomi. Un possibile ruolo della DLI nel trattamento del mieloma
multiplo (MM) è stato di recente confermato da Lokhorst e coll. [9]. Di 13 pazienti ricaduti
per MM dopo trapianto allogenico, 8 (61%) hanno risposto anche se soltanto 4 hanno
ottenuto una remissione completa. Il problema maggiore è che questi pazienti hanno
richiesto dosi piuttosto elevate di DLI (>108 T cellule/Kg) inducendo pertanto una elevata
incidenza di GVHD severa. Un’ulteriore limite all’impiego della DLI è che, nonostante
essa possa essere utile nel ripristinare la remissione a livello midollare, sembra inefficace
sulle lesioni osteolitiche e non è in grado di prevenire successive ricadute extramidollari.
L’uso dell’immunoterapia adottiva con i linfociti del donatore nel trattamento dei linfomi
rimane ancora limitata a casi sporadici, ma un effectto “graft-versus-lymphoma” è stato
documentato di recente anche con l’impiego di tecniche molecolari [10].
Tumori non ematologici. L’esistenza di un effetto analogo alla GVL nei tumori solidi è
ancora da dimostrarsi, principalmente perchè il trapianto di midollo osseo allogenico è
praticato in mirusa aneddotica in questi casi. Alcuni risultati incoraggianti sono emersi nel
trattamento del tumore della mammella [11].
200
Questioni irrisolte nel trattamento delle leucemia con DLI
Durata della risposta alla DLI. Sebbene rimangano pochi dubbi sull’efficacia della DLI, la sua
capacità di indurre remissioni durature è ancora oggetto di studio. Infatti, il breve followup dei pazienti trattati non consente per ora di trarre conclusioni definitive. Esistono
tuttavia dati preliminari che suggeriscono tale possibilità. Un recente studio
dell’Hammersmith Transplant Group ha osservato che nessuno di 66 pazienti in
remissione molecolare dopo DLI sono ricaduti dopo un follow-up di 4-77 mesi [12].
Effetti indesiderati. Il trattamento con DLI non è privo di complicazioni. Il più frequente e
grave è la GVHD acuta e cronica che si verifica in un 40-60% dei pazienti [3-4],
prevalentemente in quelli che ricevono le cellule da donatori volontari [6]. Tuttavia, lo
Sloan-Kettering transplant group ha riportato che l’incidenza di GVHD puo’ essere
significativamente ridotta se i linfociti vengono trasfusi in dosi a scalare fino a quando si
ottiene la remissione [13]. Tale approccio consente di evitare la somministrazione di
dosaggi non necessari. Un recente studio su una larga popolazione di pazienti sembra
confermare la superiorità di questa strategia [14].
Approcci alternativi per ridurre la GVHD, basati sulla manipolazione ex vivo delle cellule
da trasfondere, sono stati proposti ma non ancora formalmente testati in clinica. La
deplezione dai linfociti del donatore delle cellule CD8+ [15] o dei linfociti alloreattivi [16],
sembrerebbe ridurre significativamente il numero delle cellule effettrici della GVHD.
Inoltre, una strategia molto elegante per modulare la GVHD si basa sull’introduzione, nei
linfociti del donatore, di un gene (HSV-tk) che li rende suscettibili all’azione del
201
ganciclovir [17]. Tuttavia, questa tecnica non risparmia i mediatori dell’effetto GVL e
potrebbe invalidare l’efficacia dell’immunoterapia.
L’altra relativemente frequente complicazione della DLI è l’insufficienza midollare.
Caratterizzata da una pancitopenia di grado variabile, nei casi irreversibili puo’ essere
trattata con successo mediante l’infusione di cellule staminali emopoietiche del donatore
[6]. La pancitopenia è causata dall’effetto GVH sull’emopoiesi del recipiente [18].
Insuccesso del trattamento. Gli insuccessi della DLI possono essere classificati in tre
principali categorie:
1. malattie tipicamente refrattarie all’effetto GVL (leucemie acute e fase blastica di LMC).
2. selezione di cloni leucemici resistenti (ricadute extramidollari)
3. risposte parziali e/o transitorie [19].
In questi casi, la somministrazione di interleuchina-2 (IL2) insieme ai linfociti sembra
contribuire a migliorare l’entità della risposta nei pazienti convenzionalmente resistenti
[20] e anche nei pazienti con risposte parziali alla DLI [21].
Trattamento con DLI per le complicazioni non tumorali del trapianto allogenico
La ricaduta del tumore non è la sola complicazione del trapianto di midollo allogenico,
suscettibile di trattamento con linfociti del donatore. I linfociti del donatore consentono di
migliorare l’attecchimento midollare delle cellule emopoietiche del donatore inibendo la
reazione di rigetto [22] e di ricostituire lo stato di immunodeficienza post-trapianto.
Numerosi studi hanno dimostrato l’utilità di linfociti T del donatore generati in vitro
202
contro specifici antigeni virali nel trattare e/o prevenire quelle malattie virali che sono la
causa più frequente della mortalità correlata al trapianto. In particolare, tale approccio è
stato praticato nelle infezioni da cytomegalovirus (CMV) [23] e nelle malattie
linfoproliferative indotte dal virus di Epstein-Barr (EBV) [24]. Di grande interesse è la
recente dimostrazione che anche l’infusione di piccole dosi di linfociti del donatore senza
alcuna previa manipolazione possono rapidamente ripristinare il numero e la funzione
delle cellule T dopo il trapianto e trattare le malattie indotte da CMV e EBD con
trascurabile incidenza di GVHD [25].
Conclusioni
La comprensione dei meccanismi responsabili dell'efficacia del trapianto di midollo osseo
allogenico ha dimostrato il ruolo chiave del sistema immune nella eradicazione delle
cellule neoplastiche. Anche se l'impiego di terapie basate sul trasferimento adottivo di
linfociti del donatore non è procedura priva di rischi, è verosimile che la identificazione di
antigeni tumore-specifici permetterà lo sviluppo di strategie sicure e ancor più efficaci.
203
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206
Tolleranza ed autoimmunità. Aspetti biologici.
Sergio Romagnani
Direttore
Malattie
Sezione
di
dell'Apparato
Medicina
Interna,
Respiratorio,
Immunoallergologia
Dipartimento
di
e
Medicina
Interna, Università degli Studi di Firenze
1. Introduzione
Con il termine di tolleranza immunologica si intende la perdita della capacità del sistema
immunitario a rispondere ad un determinato antigene, indotta da un precedente incontro
con lo stesso antigene. Gli antigeni capaci di indurre uno stato di tolleranza sono chiamati
antigenitollerogenici o tollerogeni, per distinguerli da quelli capaci di generare una
risposta immune (immunogeni). Uno dei principali aspetti dellatolleranza immunologica é
quella che si verifica normalmente nei confronti degli antigeni autologhi ("self"), designata
tolleranza al "self". Quando il sistema immunitario di un organismo reagisce nei confronti
di antigeni autologhi, può verificarsi un danno tessutale, riconosciuto fin dall'inizio del
secolo, per il quale fu coniato il termine decisamente suggestivo di horror autoxicus,
successivamente modificato in quello ancora attualmente in uso di autoimmunità. Circa
cinquanta anni dopo, con la formulazione dell'ipotesi della selezione clonale, al fine di
spiegare il meccanismo attraverso il quale l'organismo é generalmente in grado di evitare
l'evenienza di reazioni autoimmuni, venne suggerita la possibilità che i cloni linfocitari
reattivi nei confronti degli autoantigeni venissero eliminati (delezione) durante il processo
di sviluppo del sistema immunitario. Questa ipotesi appare ancora sostanzialmente
corretta, anche se gli studi degli ultimi anni hanno permesso di modificarla e di ampliarla
notevolmente.
In questa trattazione saranno sommariamente descritti i meccanismi che sono attualmente
considerati responsabili del processo di tolleranza immunologica, nonché le principali
modalità attraverso le quali l'assenza o la perdita della tolleranza immunologica nei
confronti degli autoantigeni può provocare una risposta immunitaria nei confronti del
"self" e quindi la possibile insorgenza di una malattia autoimmune.
2. Modalità di sviluppo della tolleranza immunologica
Quando i linfociti incontrano l'antigene specifico si possono verificare tre condizioni: (1) il linfocita
viene attivato e ciò determina la risposta immune specifica; (2) il linfocita viene inattivato od
eliminato e ciò determina la tolleranza nei confronti di quell'antigene; (3) l'antigene non induce
alcuna risposta, né di tipo positivo, né di tipo negativo (ignoranza). Esistono due principali
modalità di induzione della tolleranza immunologica, la tolleranza centrale e la tolleranza periferica.
207
2.1 Tolleranza centrale
La tolleranza centrale si verifica quando i linfociti incontrano il rispettivo antigene durante
il loro processo maturativo a livello degli organi linfatici centrali (midollo osseo per i
linfociti B, timo per i linfociti T). In tal caso, essi non vengono attivati, ma divengono
tolleranti nei confronti di quell'antigene. In genere, gli antigeni esistenti ad alte
concentrazioni a livello degli organi linfatici primari sono gli autoantigeni, in quanto gli
antigeni provenienti dall'ambiente esterno vengono generalmente catturati dalle cellule
dell'immunità naturale e trasportati verso gli organi linfatici secondari (milza, linfonodi,
tessuti linfoidi delle mucose). I linfociti immaturi, dotati di recettori ad alta affinità nei
confronti degli autoantigeni incontrati a livello degli organi linfatici primari durante il loro
sviluppo, vengono eliminati.
Questo processo di delezione consente di eliminare la grande maggioranza dei cloni
linfocitari reattivi nei confronti degli autoantigeni ubiquitari. Dal momento che l'incontro
tra un linfocita immaturo con il rispettivo antigene risulta nella sua delezione o comunque
in un suo arresto funzionale, mentre l'incontro tra un linfocita maturo e l'antigene dà
luogo ad attivazione, proliferazione e differenziazione funzionale, é verosimile che il
riconoscimento dell'antigene determini segnali funzionali diversi nel linfocita immaturo
rispetto a quello maturo. Tali differenze rimangono tuttavia ancora sconosciute, anche se é
molto probabile che esse siano riferibili, almeno in parte, all' assenza o alla presenza di
segnali co-stimolatori forniti ai linfociti maturi a livello degli organi linfatici secondari
dalle cellule dell'immunità naturale.
2.1.1 Tolleranza centrale verso i linfociti B
La tolleranza centrale nei confronti dei linfociti B autoreattivi avviene nel midollo osseo e
si verifica attraverso una delezione dei linfociti B immaturi dotati di recettori ad elevata
affinità per autoantigeni presenti nel microambiente midollare. Questo processo si verifica
più frequentemente con antigeni multivalenti, quali le molecole di superficie o le molecole
polimeriche come il DNA a doppia elica, che interreagiscono con più recettori
immunoglobulinici sulla stessa cellula B, determinando un segnale molto potente. Il
principale meccanismo di eliminazione dei linfociti B immaturi autoreattivi é la morte
apoptotica. In taluni casi, tuttavia, i linfoiciti B immaturi dopo il loro incontro con
l'autoantigene, anziché essere deleti, rispondono riattivando i loro geni RAG-1 e RAG-2 ed
esprimendo una nuova catena leggera immunoglobulinica e di conseguenza una nuova
specificità antigenica. Questo processo é stato definito revisione recettoriale ("receptor
editing").
2.1.2 Tolleranza centrale verso i linfociti T (selezione negativa)
La tolleranza centrale nei confronti dei linfociti T autoreattivi si verifica nel timo ed é classicamente
conosciuta con il termine di selezione negativa. La selezione negativa é determinata principalmente
dalla concentrazione dell'autoantigene a livello timico e dal grado di affinità per tale antigene del
recettore linfocitario T (T cell receptor - TCR). I peptidi autoantigenici sono presentati in
associazione con le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità ("Major Histocompatibility
Complex" - MHC-) ed i linfociti T immaturi doppio-positivi (CD4+CD8+) con TCR ad elevata
affinità per il complesso peptide-MHC vanno incontro ad un processo di morte programmata o
208
apoptotica, designata delezione clonale. Tale processo interessa sia le cellule T ristrette per MHC di
classe I o di classe II e quindi risulta in uno stato di tolleranza sia dei linfociti CD4+ che CD8+.
Come conseguenza, tra i linfociti T CD4+ o CD8+ maturi che lasciano il timo non vi sono più
cellule capaci di riconoscere gli autoantigeni presenti a livello timico. I meccanismi molecolari e la
stessa sede timica dove ha luogo la selezione negativa sono ancora oggetto di studi e di controversie.
Negli ultimi anni tuttavia sta emergendo con vigore l'ipotesi che la selezione negativa si verifichi a
livello delle aree midollari del timo e che in essa giochino un ruolo prevalente le cellule epiteliali
della midollare. Tra le molecole coinvolte nel processo apoptotico non sembrano svolgere un ruolo di
primo piano il Fas ed il suo ligando (Fas-L), che sono invece importanti nei processi apoptotici della
tolleranza periferica (vedi sotto). Nella selezione negativa timica sembra invece giocare un ruolo il
CD30, un'altra molecola della famiglia dei recettori del TNF. Infatti, i topi deficienti in CD30
mostrano un'alterazione della selezione negativa; inoltre i timociti di topi transgenici per CD30
vanno incontro ad apoptosi in seguito a "cross-linking" del CD30 ed il fenomeno viene esaltato dal
"cross-linking" del loro TCR. Noi stessi abbiamo dimostrato la presenza costitutiva del CD30 in
una piccola famiglia di timociti midollari umani, nonché una espressione particolarmente intensa
del ligando del CD30 (CD30L) sia nelle cellule epiteliali della midollare, sia nello strato esterno dei
corpuscoli di Hassal. In questo processo giocano anche un ruolo fondamentale chemochine prodotte
dalle cellule dendritiche, dai macrofagi e soprattutto dalle cellule epiteliali timiche, quali SDF-1, IP10, MDC, TARC, ELC e TECK. Tali chemochine probabilmente attraggono i diversi tipi di timociti
a secondo della fase del loro processo maturativo, favorendone la progressione dalle aree più esterne
della corticale fino alla midollare ed infine ai vasi che immettono i timociti maturi sfuggiti ai
processi selettivi nel torrente circolatorio. Ad esempio, abbiamo recentemente dimostrato che MDC
é prodotto in grandi quantità dalle cellule epiteliali della midollare attrae verso quest'ultima i
linfociti corticali dotati del recettore cemochinico CCR4, che hanno subito la selezione positiva, ma
non ancora quella negativa. Per contro, ELC, prodotto dalle cellule epiteliali prevalentemente
disposte in sede perivasale, sembra coinvolto nella attrazione dei timociti sfuggiti alla selezione
negativa ed ormai maturi, i quali esprimono il recettore chemochinico CCR7, al fine di favorire la
loro immissione nel torrente circolatorio.
2.2. Tolleranza periferica
La tolleranza periferica é più importante di quella centrale per mantenere la tolleranza confronti di
quegli autoantigeni che non sono rappresentati a livello timico o midollare, ma sono invece espressi
nei tessuti periferici. Esistono infatti numerosi cloni di linfociti maturi i quali sfuggono al processo
di selezione negativa per mancanza di contatto con gli autoantigeni e che sono quindi
potenzialmente autoreattivi. Ciò nonostante, quando questi cloni incontrano il rispettivo
autoantigene a livello periferico la loro risposta é impedita o fortemente regolata, suggerendo in tal
modo l'esistenza di meccanismi che consentono il mantenimento della tolleranza al "self" anche nei
confronti degli autoantigeni presenti solo in periferia. La tolleranza periferica nei confronti dei
linfociti B si verifica essenzialmente quando i linfociti B maturi incontrano l'autoantigene specifico
nei tessuti periferici in assenza del linfocita T "helper" specifico. In tale condizione ambientale, i
linfociti B autoreattivi divengono funzionalmente incapaci di rispondere all'antigene, oppure sono
addirittura esclusi dai follicoli linfatici. Il meccanismo di esclusione follicolare può essere
rappresentato dalla perdita dei recettori per le chemochine, che normalmente attraggono i linfociti B
maturi all'interno dei follicoli. A differenza della tolleranza periferica nei confronti dei linfociti B, la
tolleranza periferica nei confronti dei linfociti T autoreattivi può verificarsi attaverso tre
meccanismi principali. Tali meccanismi sono: l'anergia, la delezione, la soppressione.
209
2.2.1. Anergia clonale
L'anergia clonale si verifica quando il linfocita T maturo incontra il peptide specifico nella
nicchia del complesso MHC di una cellula presentante ("antigen-presenting cell" - APC), la
quale sia priva delle molecole co-stimolatorie, in particolare di B7-1 e B7-2. È infatti
accertato che l'attivazione linfocitaria avviene solamente in seguito ad un doppio segnale,
rapresentato dall'interazione tra recettore linfocitario e antigene (primo segnale) e dalla
interazione della molecola CD28 con le molecole co-stimolatorie B7 (secondo segnale). Il
ricevimento del primo segnale, ma non del secondo, determina nel linfocita uno stato di
non responsività funzionale, anziché uno stato di attivazione. Un'altra possibilità é che il
linfocita T utilizzi nell'interazione con le molecole co-stimolatorie dell'APC una molecola
inibitoria (CTLA-4), come dimostrato dall'osservazione che i topi deficienti di questo gene
sviluppano un' attivazione linfocitaria incontrollata ed una forma di autoimmunità
sistemica.
Questi rilievi suggeriscono l'importanza della natura delle APC nel determinismo dello
sviluppo della tolleranza e, per converso, dell'autoimmunità. Infatti le APC che risiedono
negli organi linfoidi periferici e nei tessuti non linfoidi sono in fase di riposo e non
esprimono molecole co-stimolatorie, per cui la presentazione dell'antigene da parte di tali
cellule può provocare l'anergia clonale del linfocita T. Tuttavia, non é noto quali
autoantigeni siano in grado di indurre anergia nei linfociti T, né quale sia il destino delle
cellule T anergiche. Anche i meccanismi biochimici che sottintendono lo sviluppo
dell'anergia sono poco conosciuti.
Un altro meccanismo di anergia é rappresentato dall'incontro del linfocita T maturo con
una APC dotata di molecole co-stimolatorie, ma che presenta un peptide con residui
aminoacidici alterati nella zona di contatto con il TCR. Questi antigeni mutati sono
chiamati antagonisti peptidici ed appartengono alla categoria dei ligandi peptidici alterati.
In questa evenienza la cellula T riceve un secondo segnale normale, ma il primo segnale é
anormale. Anche i meccanismi biochimici coinvolti in questa forma di anergia sono poco
noti e non é ancora chiaro se essa si verifichi nell'organismo in condizioni fisiologiche, cioé
a prescindere da manipolazioni sperimentali.
2.2.2 Delezione clonale
La delezione clonale dei linfociti T maturi si verifica in genere in seguito alla persistente
stimolazione da parte dell'antigene, che risulta in un processo noto come morte cellulare
indotta dall'attivazione ("activation-induced cell death" - AICD-). La AICD é una forma di
apoptosi indotta da segnali che originano da recettori "di morte" presenti sulla membrana,
il più importante dei quali é Fas. Il ligando del Fas (FasL), interreagendo con Fas, attiva
nella cellula una serie di cistino-proteasi intracellulari, chiamate caspasi, che determinano
la morte apoptotica della cellula. Le cellule in apoptosi vengono rapidamente rimosse dai
fagociti e quindi non inducono fenomeni infiammatori. L'effetto finale é una delezione dei
linfociti T specifici per l'antigene che ha provocato la loro stimolazione ripetuta. La AICD
mediata dalla interazione Fas/FasL é infatti potenziata dalla presenza di elevate
concentrazioni di IL-2, il principale fattore di crescita dei linfociti T. A conferma di quanto
sopra, va rilevato che sia i topi deficienti in Fas o con mutazioni a livello di Fas-L, sia quelli
deficienti in IL-2, sviluppano spontaneamente malattie autoimmuni. È verosimile dunque
che la tolleranza immunologica basata sulla AICD si esplichi prevalentemente nei
confronti di autoantigeni periferici che, a causa della loro abbondanza, attivano
frequentemente i linfociti T.
210
2.2.3 Soppressione da linfociti T
Alcune risposte immunitarie verso autoantigeni sono inibite da linfociti che producono citochine
capaci di bloccare l'attivazione e le funzioni dei linfociti T effettori. Questi linfociti inibitori sono
anche chiamati linfociti T soppressori. Mentre originalmente si era ritenuto che tali linfociti
appartenessero ad una popolazione cellulare distinta sia dai linfociti T "helper", sia dai linfociti T
citotossici, l'orientamento attuale é che tale funzione possa essere svolta da popolazioni linfocitarie
diverse, anziché da un'unica popolazione specializzata. Le citochine soppressive più importanti sono
il TGF-b, che inibisce sia la proliferazione dei linfociti T che dei linfociti B, la IL-10 che inibisce
l'attivazione dei macrofagi, la IL-4 che antagonizza l'azione dell'IFN-g. La IL-4 e la IL-10 sono
prodotte principalmente dai linfociti Th2; i linfociti T che oltre alla IL-4 e alla IL-10 producono
anche TGF-b sono stati designati Th3. La conversione di una risposta linfocitaria T associata con
un determinato "set" di citochine, per esempio di tipo Th1, ad un tipo di risposta caratterizzato
dalla produzione di citochine diverse, quali quelle Th2 o Th3, é stata denominata deviazione
immune.
2.3 Ignoranza clonale
L'ignoranza clonale rappresenta una terza modalità di mantenimento della tolleranza basata sulla
incapacità di linfociti autoreattivi di rispondere ad autoantigeni, senza andare incontro a morte
apoptotica e senza divenire anergici. Questa modalità si estrinseca di solito nei confronti degli
autoantigeni presenti in siti anatomici inaccessibili (occhio, sistema nervoso centrale), ma può
verificarsi anche nei confronti di autoantigeni apparentemente accessibili ai linfociti. Il motivo per
cui alcuni linfociti T maturi incontrando l'antigene specifico diventano anergici, mentre altri
linfociti T tendono semplicemente ad ignorarlo, é tuttora sconosciuto. Una possibile spiegazione é
che gli antigeni presenti ad alta concentrazione inducano anergia clonale, mentre quelli presenti a
concentrazioni molto ridotte in assenza del secondo segnale vengano ignorati.
3. Meccanismi di autoimmunizzazione
Sulla base delle considerazioni sopra esposte, appare chiaro che sia la deficienza che l'
alterazione dei meccanismi normalmente responsabili del mantenimento della tolleranza
possono determinare una risposta del sistema immunitario nei confronti del "self" e quindi
provocare l'insorgenza di fenomeni di autoimmunizzazione. Tale potenzialità esiste in
tutti gli individui in quanto i linfociti di tutti gli individui esprimono recettori specifici per
autoantigeni ed in quanto molti autoantigeni sono facilmente accessibili alle cellule del
sistema immunitario. Poiché i meccanismi fondamentali per lo sviluppo e il mantenimento
della tolleranza al "self" sono rappresentati dalla eliminazione dei linfociti immaturi che
incontrano gli autoantigeni durante il loro processo di sviluppo (selezione negativa) e
dalla delezione o inattivazione funzionale dei linfociti maturi che incontrano autoantigeni
nel corso della vita, la perdita della tolleranza nei confronti degli autoantigeni può essere
la conseguenza sia di una selezione anomala dei linfociti autoreattivi, cioé di un difetto
della tolleranza centrale, sia di alterazioni della presentazione degli autoantigeni alle
cellule del sistema immunitario, cioé di un'anomalia della tolleranza periferica.
211
L'autoimmunità può ovviamente risultare da anomalie dei linfociti B, dei linfociti T o di entrambe
le popolazioni linfocitarie. Tuttavia, le anomalie dei linfociti T sono certamente più importanti in
quanto i linfociti T non solamente rappresentano le cellule centrali di tutte le risposte immuni nei
confronti degli antigeni proteici, sia con riferimento alle reazioni cellulo-mediate che alla
produzione di autoanticorpi, ma soprattutto perché molte malattie autoimmuni sono legate
geneticamente a MHC, la cui principale funzione é quella di presentare i peptidi ai linfociti T.
3.1 Deficit dei meccanismi di tolleranza centrale
Potenzialmente un difetto nei meccanismi di tolleranza centrale rappresenta un modello ideale per
spiegare la persistenza di cloni T autoreattivi e quindi l'insorgenza di un processo di
autoimmunizzazione. Non esistono tuttavia prove formali sull'importanza di un tale deficit, in
quanto é possibile che i meccanismi responsabili della tolleranza periferica sono in ogni caso
sufficienti ad evitare la responsività del sistema immunitario nei confronti degli autoantigeni.
3. 2 Deficit dei meccanismi di tolleranza periferica
Esistono numerosi dati sperimentali che suffragano il possibile ruolo di difetti dei
meccanismi di tolleranza periferica nello sviluppo delle malattie autoimmuni.
3.2.1 Espressione aberrante di molecole co-stimolatorie
La rottura della tolleranza periferica può avvenire a causa di processi infiammatori capaci
di attivare le APC in fase di riposo presenti a livello tessutale inducendo su tali cellule
l'espressione aberrante delle molecole co-stimolatorie necessarie alla presentazione di
autoantigeni. Sia sufficiente ricordare al riguardo la possibilità di indurre una
encefalomielite autoimmune ed una tiroidite autoimmune negli animali da esperimento
mediante somministrazione di autoantigeni organo-specifici in associazione con adiuvante
completo di Freund, oppure provocare la comparsa del diabete mellito di tipo I mediante
la contemporanea espressione transgenica sulle cellule beta delle insule pancreatiche di un
antigene virale e della molecola co-stimolatoria B7-1. 3.2.2 Difetto di molecole inibitorie
dei processi di co-stimolazione Una seconda possibilità di rottura della tolleranza
periferica può essere legata al verificarsi di un difetto di espressione o di funzione delle
molecole normalmente devolute alla inattivazione dei processi di co-stimolazione.
Abbiamo gié ricordato come topi resi deficienti del gene CTLA-4 vadano incontro ad una
forte attivazione dei linfociti T e ad una forma fatale di autoimmunità.
3.2.3 Mutazioni interferenti con l'apotosi dei linfociti T maturi
La perdita della tolleranza periferica e quindi il manifestarsi di una patologia autoimmune può
essere la conseguenza di mutazioni che interferiscono con la morte apoptotica dei linfociti maturi.
Topi geneticamente deficienti in Fas (lpr/lpr) o in FasL (gld/gld ) vanno incontro ad una malattia
autoimmune sistemica spontanea e di recente sono stati descritti alcuni casi di bambini affetti da
una forma fenotipicamente simile di malattia nei quali era riscontrabile una mutazione a livello di
fas o di geni coinvolti nel modello di apoptosi Fas-mediata.
3.2.4 Difetto della soppressione mediata dai linfociti T
212
L'autoimmunità può insorgere infine a causa di un difetto nei meccanismi di soppressione mediati
dai linfociti T, in particolare di quelli capaci di produrre citochine regolatorie. Tale evenienza é
suffragata dagli esperimenti che hanno dimostrato la possibilità di prevenire mediante trasferimento
contemporaneo di linfociti T attivati, un' autoimmunità sistemica indotta dal trasferimento di
linfociti T "naive".
4. Considerazioni conclusive
Da quanto sopra esposto, appare chiaro che l'autoimmunità rappresenta una evenienza
fondamentalmente legata ad anomalie dei processi fisiologici di induzione e di mantenimento della
tolleranza da parte del sistema immunitario nei confronti del "self". Tali processi sono molteplici e
possono essere alterati sia a causa di anomalie genetiche, sia soprattutto in seguito ad eventi che si
verificano nel corso della vita in seguito al complesso gioco di interazioni tra sistema immunitario
ed i numerosi agenti biologici che continuativamente tale sistema é chiamato a controbattere ed a
neutralizzare al fine di salvaguardare l'omeostasi dell'organismo. Un tale concetto é peraltro anche
suffragato dall' osservazione che i geni più frequentemente associati con le malattie autoimmuni
sono i geni del MHC ed in particolare quelli di classe II, cioé gli stessi geni coinvolti nella
presentazione degli antigeni ai linfociti. È pertanto altamente verosimile che risposte del sistema
immunitario verso agenti infettivi di vario tipo possano determinare la rottura della tolleranza
immunologica verso gli autoantigeni e quindi dare inizio al processo di autoimmunizzazione,
nonostante che non sia possibile mettere in evidenza la presenza di microrganismi non solamente a
livello delle sedi di lesione, ma neppure negli individui nei quali la malattia autoimmune si
sviluppa. Tuttavia le infezioni possono scatenare il processo di autoimmunizzazione sia attivando
nelle aree infiammatorie l'espressione delle molecole co-stimolatorie nelle APC tessutali altrimenti
in fase di riposo, sia favorendo la trasformazione di autoantigeni in neo-antigeni parzialmente
"cross"-reattivi, sia provocando la liberazione di autoantigeni normalmente "sequestrati" ed
inaccessibili per il sistema immunitario. Quest'ultimo processo può anche verificarsi talora in
seguito a danneggiamenti tessutali conseguenti a traumi, come avviene ad esempio nella uveite
post-traumatica e nell'orchite secondaria a vasectomia. Infine, alcuni agenti infettivi possono
condividere antigeni "cross"-reattivi con autoantigeni, tali cioé da indurre una risposta immune
che interessa anche il "self" ("molecular mimicry"). L'esempio più classico di quest'ultima
possibilità é rappresentato dalla febbre reumatica, che si sviluppa dopo una infezione streptococcica
ed é causata dalla produzione di anticorpi anti-streptococcici i quali, "cross"-reagendo con proteine
miocardiche, possono determinare un processo miocarditico. In conclusione, l' autoimmunità
appare tuttora come uno degli enigmi clinici e scientifici di maggiore interesse. Tuttavia
l'applicazione delle nuove biotecnologie e il grande progresso delle conoscenze sui meccanismi
responsabili della tolleranza immunologica fa sperare che presto anche in questo settore della
biomedicina sarà possibile raggiungere ulteriori certezze e ciò renderà certamente meno empirico
anche l'approccio del clinico nella terapia delle malattie autoimmuni.
213
CITOPENIE AUTOIMMUNI
Pierluigi Rossi Ferrini e Alessandro Maria Vannucchi
Cattedra di Ematologia della Università di Firenze
Il mantenimento del normale numero di elementi figurati del sangue periferico è il
risultato di un equilibrio dinamico “entrate-uscite” che si stabilisce fra il
compartimento proliferativo-maturativo, rappresentato dai progenitori midollari, e i
processi che regolano il consumo delle cellule mature, legati alla loro senescenza,
utilizzazione o distruzione. L'alterazione di uno di questi momenti di equilibrio può
essere responsabile di emocitopenie, nell’ambito delle quali si riconoscono, com’è ben
noto, forme da ridotta produzione, da aumentata distruzione, o da alterata
distribuzione.
Le emocitopenie provocate con meccanismo autoimmune possono essere distinte
in forme da eccesso di distruzione periferica o conseguenti ad un difetto della
emopoiesi. Con questo termine si intendono solo quelle condizioni nelle quali l’azione
lesiva (anticorpale o più raramente cellulare) si svolge in modo diretto ed immediato
sulle cellule del sangue e degli organi emopoietici. Non vengono perciò incluse altre
situazioni nelle quali la emopoiesi viene coinvolta secondariamente, come si verifica ad
esempio nella anemia perniciosa, in cui le alterazioni ematologiche sono provocate
dalla carenza di Vit. B12 per interessamento delle cellule parietali gastriche, oppure
nelle eritroblastopenie pure quando queste siano secondarie alla presenza di anticorpi
anti-eritropoietina. Non si terrà conto neppure della sindrome da anticorpi
214
antifosfolipidi nel suo complesso, dal momento che, nonostante la peculiarità clinica
della sindrome, la piastrinopenia non sembra discostarsi sul piano patogenetico da
quella propria della porpora trombocitopenica idiopatica cronica (1).
Il paradigma delle citopenie autoimmuni a patogenesi periferica è rappresentato
dalle anemie emolitiche autoimmuni, e rimandiamo per una loro esauriente trattazione ad
alcune recenti rassegne (2,3). Fanno parte di questo gruppo anche le neutropenie
autoimmuni, e la porpora trombocitopenica cronica idiopatica, propriamente Porpora
Trombocitopenica Autoimmune, che costituisce circa l’80% delle piastrinopenie
immunomediate primitive dell’adulto, e per la quale rimandiamo ad una recente rassegna
(4). Il meccanismo patogenetico più comune in queste forme è rappresentato dalla
distruzione degli elementi cellulari maturi circolanti, operata dalle molecole del
complemento adese alla membrana rivestita dagli autoanticorpi o mediata dalle cellule del
sistema reticoloendoteliale tramite i recettori per il frammento Fc delle immunoglobuline.
Accanto a questi quadri di citopenie periferiche in senso stretto, si è aggiunto il
capitolo delle mielopatie autoimmuni, ampiamente trattato da Marmont, a cui dobbiamo
il concetto stesso ed il raggruppamento nosografico di queste condizioni (5,6). Queste si
caratterizzano per il fatto che i progenitori midollari, sia nelle fasi più precoci del
commissionamento linea-specifico che in quelle maturative più avanzate, possono essere
coinvolti da un processo autoimmunitario (6). Quindi, da un lato dobbiamo considerare la
forma globale di sofferenza emopoietica, a patogenesi certamente complessa,
rappresentata dalla aplasia midollare primitiva, dall’altra quadri ad espressione più selettiva,
come la eritroblastopenia pura cronica acquisita dell’adulto (PRCA), e le più rare forme di
neutropenia midollare pura autoimmune (PWCA) e di porpora amegacariocitica acquisita.
Una serie di osservazioni recenti inducono però a considerare un nuovo capitolo,
cioè quello delle emocitopenie autoimmuni a patogenesi periferica e midollare insieme,
che sono appunto caratterizzate dal contemporaneo interessamento delle cellule circolanti
e delle cellule emopoietiche. In questa ottica, la distinzione schematica tra emocitopenie
autoimmuni periferiche e mielopatie autoimmuni conserva la sua utilità didattica di
inquadramento nosografico, ma perde parte del suo significato clinico e fisopatologico,
tradizionalmente antitetico, dal momento che tra le due situazioni possono ritrovarsi
elementi comuni.
Le neutropenie autoimmuni possono presentarsi come entità clinica isolata ad
eziologia sconosciuta (forme idiopatiche), oppure in associazione ad altri disordini su base
immunitaria (LES), a infezioni virali, a neoplasie, ad assunzione di farmaci (forme
secondarie) (7). Nel siero dei pazienti con neutropenia autoimmune sono presenti
anticorpi che reagiscono con antigeni della membrana dei neutrofili, come il CD11b/CD18
o il recettore Fc tipo III, e che ne determinano la rimozione dal circolo attraverso il sistema
istiocito-macrofagico. Tuttavia, la maggior parte dei pazienti presenta anche aspetti
midollari caratterizzati da un evidente blocco delle fasi maturative terminali, piuttosto che
dalla attesa iperplasia globale della linea mieloide. Ciò ha suggerito l'ipotesi che alcuni
anticorpi possano inibire la proliferazione e maturazione dei progenitori mieloidi (6), ed in
effetti in un ampio studio di Hartman e coll, che hanno esaminato 148 pazienti, anticorpi
rivolti esclusivamente contro i neutrofili maturi erano presenti in 53 casi, mentre in 64
pazienti gli anticorpi reagivano anche con antigeni espressi sui precursori mieloidi
immaturi, ed infine in 25 gli anticorpi erano rivolti soltanto contro le cellule immature (8).
215
Questa ultima condizione sul piano clinico appariva tendenzialmente più grave rispetto
alle altre forme di neutropenia a patogenesi esclusivamente periferica o periferica e
midollare insieme. Nell'ambito delle neutropenie autoimmuni esistono quindi quadri
caratterizzati dal contemporaneo interessamento dei progenitori midollari e delle cellule
mature terminali, a differenza della neutropenia midollare pura autoimmune (9,10) nella quale
la completa scomparsa della linea granulopoietica dal midollo è il risultato
dell'aggressione, anticorpale o più raramente cellulo-mediata, di un progenitore mieloide
molto immaturo.
La Porpora Trombocitopenica Autoimmune (Idiopatic Thrombocytopenic
Purpura – ITP ) appare oggi il più completo paradigma di come una citopenia periferica
possa integrarsi e complicarsi con un meccanismo iporigenerativo, sempre a patogenesi
autoimmune. Molto efficacemente, Nieuwenhuis & Sixma hanno parlato di
"Thrombocytopenia and the neglected megakaryocyte" proprio per richiamare l’attenzione sul
possibile coinvolgimento dei progenitori megacariocitari nella patogenesi delle
piastrinopenie immunomediate (11). Gli studi di cinetica in vivo di piastrine radiomarcate
prima, e l’analisi in vitro delle caratteristiche di crescita dei progenitori megacariocitari
negli anni più recenti, hanno effettivamente messo in discussione il paradigma che la
piastrinopenia immunomediata sia provocata esclusivamente dalla distruzione delle
piastrine circolanti ad opera degli autoanticorpi, e che tale fenomeno si accompagni
sempre ad un efficace incremento della loro produzione per compensarne la ridotta
sopravvivenza.
La prima segnalazione dell'esistenza di una difettosa produzione piastrinica in
corso di Porpora Trombocitopenica Autoimmune deve essere ascritta al nostro gruppo
(12). In base ai risultati degli studi di cinetica di piastrine radiomarcate con 51Cr, era stata
individuata una coorte di pazienti con ridotta sopravvivenza piastrinica che non
presentava l'atteso incremento della produzione midollare (espressa come “turnover
piastrinico”). Pertanto, i 26 soggetti con porpora trombocitopenica autoimmune esaminati
in questo studio erano stati suddivisi in due gruppi: in uno di questi, il turnover
piastrinico era superiore alla norma, quale espressione della adeguata risposta midollare
compensatoria alla riduzione della sopravvivenza piastrinica, mentre nei restanti 11 casi
esso risultava inaspettatamente basso. Poiché in questo ultimo gruppo --caratterizzato
inoltre da piastrinopenia più grave, modesta riduzione della sopravvivenza media delle
piastrine, e presenza di piastrine circolanti di piccole dimensioni-- non erano state
evidenziate alterazioni significative del numero dei megacariociti midollari, fu avanzata
l'ipotesi che si verificasse una alterazione dei meccanismi di maturazione megacariocitaria
e/o del rilascio di piastrine.
Queste osservazioni sono state poi confermate ed ampliate da altri gruppi (13-16), e
si è dimostrato che in circa il 30% dei casi di ITP si verifica una difettosa produzione
piastrinica, la quale concorre alla piastrinopenia conseguente alla distruzione epatosplenica anticorpo-mediata. Al riguardo, infatti, Siegel et al. (17) hanno osservato che la
risposta alla splenectomia risultava significativamente migliore nei pazienti con elevato
turnover (pur con durata di vita media piastrinica molto ridotta) rispetto a quelli con
turnover ridotto e che presentavano anche solo una modesta riduzione della
sopravvivenza piastrinica. Inoltre, è stato dimostrato che il miglioramento della conta
piastrinica che segue alla terapia steroidea deve essere attribuito principalmente
all'aumento della produzione midollare di piastrine, mentre la loro sopravvivenza in
circolo risulta quasi immodificata (18).
216
I dati desunti dagli studi di cinetica hanno permesso di riconciliare anche
precedenti acquisizioni sperimentali, come il fatto che le IgG prodotte in vitro da linfociti
splenici di pazienti con ITP erano capaci di legarsi ai megacariociti midollari oltre che alle
piastrine (19), e che in ratti resi piastrinopenici mediante iniezione di siero antipiastrine
l'indice di marcatura con 3H-timidina dei megacariociti risultava significativamente
inferiore rispetto ad animali nei quali la piastrinopenia era ottenuta con ripetute
piastrinoaferesi (20).
I meccanismi con cui gli anticorpi possono determinare una riduzione della
produzione piastrinica sono stati oggetto di diversi studi in vitro, nei quali è stata valutata
principalmente la capacità dei progenitori megacariocitari (CFU-Mk) di formare colonie.
Questi studi hanno fornito in parte risultati contrastanti; una ridotta formazione di colonie
megacariocitarie è stata osservata da alcuni autori (21), mentre altri hanno riportato un
aumento della frequenza delle CFU-Mk (22), analogamente a quanto risultava da modelli
animali con piastrinopenia indotta mediante antisieri policlonali (23,24). Inoltre, le CFUMk nell'ITP presentano un'accelerazione del ciclo cellulare (14), ed è ben noto che il
numero dei megacariociti negli strisci di sangue midollare è aumentato, in alcuni casi in
maniera significativa. Nel complesso, pertanto, questi studi sembrano escludere l'ipotesi di
una lesione a carico del compartimento proliferativo dei megacariociti, sebbene in rari casi
gli anticorpi possano presentare attività citotossica (25)
La possibilità che il punto d’azione degli anticorpi sia a carico delle fasi maturative
più avanzate è stato oggetto di un recentissimo studio di Takahasi e coll. (26), i quali
hanno valutato gli effetti di tre diversi anticorpi monoclonali (anti-GpIb, anti-Gp-IIb, antiGp-IIIa) sia sulla crescita di CFU-Mk che sulla formazione di propaggini citoplasmatiche
da parte di megacariociti maturi (le cosiddette “proplatelets”, che sono considerate
espressione del processo di rilascio piastrinico in sistemi in vitro). È stato osservato che gli
anticorpi diretti contro epitopi della GpIb inibivano marcatamente sia la formazione di
colonie megacariocitarie (come osservato anche da Hasegawa e coll.; 27) sia ancor più la
formazione di propaggini citoplasmatiche dai megacariociti maturi; al contrario, gli
anticorpi anti-GpIIb avevano una modesta azione inibente sulla formazione dei processi
citoplasmatici ma non sulle CFU-Mk, mentre gli anticorpi anti-GpIIIa non avevano effetti
di rilievo su entrambi i processi in coltura. Appare quindi verosimile che la ridotta
produzione piastrinica osservata in vivo debba essere attribuita prevalentemente ad una
mortificazione delle fasi terminali della maturazione megacariocitaria, e più raramente ad
un effetto antiproliferativo. Un altro punto importante sollevato dai risultati di questo
studio è che la patogenesi della piastrinopenia (prevalente periferica o con associata
componente centrale) può dipendere anche dal tipo di anticorpo e quindi dal target
antigenico. In effetti, le forme di ITP con anticorpi anti-GpIb sono caratterizzate da una
piastrinopenia più grave rispetto a quelle con anticorpi anti-GpIIIa (28,29).
In altre condizioni assai più rare, le Porpore Piastrinopeniche Amegacariocitiche
Acquisite, la cellula bersaglio del processo autoimmunitario (sia esso anticorpo- o cellulomediato (30,31) è rappresentata esclusivamente dai progenitori megacariocitari più
immaturi, tanto è vero che la sopravvivenza delle poche piastrine rilasciate dal midollo è
normale (32).
Nell'ambito delle anemie a patogenesi autoimmune, la distinzione classica tra
quadri da diminuita produzione e aumentata distruzione periferica si esemplifica nelle
aplasie eritroidi pure (PRCA) e nelle anemie emolitiche, rispettivamente. Nel primo caso, si
assiste ad una selettiva eritroblastopenia, senza compromissione della serie
megacariocitaria o mieloide, dovuta ad autoanticorpi della classe IgG rivolti contro
217
antigeni espressi sui progenitori eritroidi commissionati (BFU-E e CFU-E) e sugli
eritroblasti (33); alcune forme idiopatiche, e quelle associate a LLC, possono risconoscere
anche un meccanismo T-cellulo-mediato (34). Nelle anemie emolitiche autoimmuni (2,3), il
bersaglio degli anticorpi reagenti a caldo è rappresentato da indefiniti antigeni della
membrana degli eritrociti, mentre antigeni del sistema I/i e P costituiscono il bersaglio
degli anticorpi "freddi" e della emolisina bifasica di Donath-Landsteiner, rispettivamente.
In queste situazioni, l'importante reticolocitosi e la intensa iperplasia eritroblastica
midollare, spesso con caratteristiche di megaloblastosi, depongono per una adeguatezza
del compenso eritropoietico midollare all’entità della distruzione periferica. La possibilità
di un coinvolgimento midollare nelle anemie emolitiche ha ricevuto meno interesse
rispetto alle porpore autoimmuni, in gran parte per la relativa semplicità diagnostica e la
stessa tumultuosità delle crisi emolitiche. Sono però state descritte forme di anemia
emolitica accompagnate da reticolocitopenia, pur in presenza di midollo iperplastico
eritroide, che sono probabilmente dovute ad anticorpi reattivi con un antigene
"maturazione-dipendente" che viene espresso anche sui reticolociti (35,36). Inoltre,
Mangan et al. (37) ha accuratamente documentato un caso di eritroblastopenia in corso di
anemia emolitica autoimmune con anticorpi contro l'antigene e del sistema Rh, che era
insorta per la comparsa di un secondo anticorpo reagente con le BFU-E e CFU-E, ma non
con le CFU-GM. Infine, in un paziente con anemia emolitica in corso di infezione da virus
dell’epatite A è stata osservata una eritroblastopenia, risoltasi con la terapia steroidea (38).
Deve essere ragionevolmente esclusa la possibilità che le “crisi eritroblastopeniche” che
talora accompagnano l’anemia emolitica siano dovute ad una concomitante infezione da
parvovirus-B19 (39).
I quadri di citopenia autoimmune finora descritti si caratterizzano tutti per la
selettività del "bersaglio" cellulare, nel senso che l’azione degli anticorpi provoca una
citopenia specifica, sia nelle forme a patogenesi periferica che quelle a patogenesi centrale
o combinate. Ma, accanto a queste situazioni, selettive per una determinata tipologia
cellulare, deve essere presa in considerazione anche la possibilità di forme miste, in cui si
verifica un contemporaneo coinvolgimento di cellule mature e di cellule emopoietiche
appartenenti a linee diverse.
Il paradigma di questa autoimmunità diretta contemporaneamente contro cellule
diverse è costituito dalla Sindrome di Evans (40), in cui l’anemia emolitica autoimmune si
combina con una piastrinopenia anch’essa a patogenesi autoimmune. Sono note forme sia
idiopatiche che associate ad altre malattie, soprattutto a patogenesi autoimmunitaria, ed
anche dopo trapianto di midollo osseo (41-43).
Alla sindrome di Evans a patogenesi esclusivamente periferica, quale espressione di
anticorpi diretti contro i globuli rossi e contro le piastrine, potrebbe fare pendant, secondo
quanto si è detto a proposito delle mielopatie autoimmuni, l’interessamento di una cellula
emopoietica bipotente, commissionata sia per la linea eritroide che per quella
megacariocitica. Ciò trova riscontro nella normale emopoiesi, in quanto è nota l'esistenza
di progenitori cellulari bipotenti, che rappresentano una tappa evolutiva intermedia nel
corso del definitivo commissionamento linea-specifico (44). La condizione meglio definita
è rappresentata dai progenitori bipotenti della serie eritroide e megacariocitaria (E/M), la
cui esistenza è stata ipotizzata in base a numerose evidenze sperimentali, che
comprendono: l'espressione degli stessi fattori di trascrizione nucleare in cellule eritroidi e
in megacariociti (45); il fatto che la maggior parte delle linee eritro-leucemiche umane
esprime contemporaneamente caratteri megacariocitari (46); la dimostrazione che anche
un modello eritroide "puro", quale le cellule infettate dal virus di Friend, sono inducibili
218
sia verso la maturazione eritroide che megacariocitaria (47); le note analogie molecolari e
funzionali tra eritropoietina e trombopoietina (48). Infine, cellule con caratteri misti E/M
sono state identificate nel midollo umano (49,50).
Del tutto recentemente il nostro gruppo ha descritto l'isolamento e la purificazione
del progenitore bipotente E/M nel sistema murino (51; submitted). Questa cellula, che
esprime contemporaneamente antigeni maturativi delle serie eritroide e megacariocitaria,
è presente nel midollo di animali normali, aumenta grandemente, sia nel midollo che nella
milza, in seguito alla induzione di una anemia emolitica, e rappresenta una tappa
obbligatoria nell'emopoiesi fetale (osservazioni personali non pubblicate); i progenitori
bipotenti, isolati dalla milza di animali anemici, sono inducibili in coltura al
differenziamento eritroide e megacariocitario in presenza di eritropoietina e
trombopoietina.
La possibilità che progenitori bipotenti possano divenire bersaglio di una reazione
autoimmune non è stata ancora esplorata, ma è certamente suggestivo ipotizzarne il
coinvolgimento in alcune situazioni cliniche, configurando il quadro di una mielopatia
autoimmune esclusiva, oppure contemporanea ad una citopenia periferica.
L'ipotesi che nella stessa Sindrome di Evans si possa verificare un danno a carico
del progenitore bipotente E/M non è affatto inconciliabile con alcune osservazioni che
suggeriscono in questa condizione la presenza di due anticorpi distinti, non cross-reattivi
tra eritrociti e piastrine mature (52), ma che potrebbero riconoscere gli antigeni espressi
entrambi transitoriamente sulla membrana del progenitore bipotente. Anche
l'osservazione clinica che la sindrome di Evans è scarsamente responsiva alla terapia può
far supporre, almeno in alcuni casi, un meccanismo diverso, o almeno aggiuntivo, rispetto
a quello della citolisi periferica isolata, in maniera analoga a quanto è stato osservato per le
piastrinopenie con ridotta produzione midollare.
219
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222
Caratteri distintivi tra la Porpora Trombocitopenica Autoimmune, con e senza evidenza di
danno midollare, e la Porpora Trombocitopenica Amegacariocitica.
Conta
Piastrinica
PORPORA
TROMBOCITOPENIC
A AUTOIMMUNE
PORPORA
TROMBOCITOPENIC
A
AMEGACARIOCITICA
Con
danno
midollare
Senza
danno
midollare
/
Vita Media
Piastrinica
/
Turnover
Piastrinico
N/
MPV
A
N/
/
N/
N/
223
G
IMMUNOABLAZIONE SEGUITA O MENO DA CELLULE
STAMINALI EMATOPOIETICHE (CSE) COME TERAPIA INTENSA DI
MALATTIE AUTOIMMUNI GRAVI
Alberto M. Marmont
Dipartimento di Ematologia (DEMA)
Ospedale S.Martino, Genova
Introduzione
La terapia delle malattie autoimmuni gravi (MAI) è stata recentemente rivitalizzata
dall’introduzione di procedure di immunosoppressione intensa ad intento
immunoablativo, seguite da vero e proprio trapianto di CSE allogeniche, da rescue
autostaminale, oppure senza “soccorso” ematopoietico alcuno. Tali nuovi indirizzi sono
nati da una serie di brillanti risultati ottenuti in patologia sperimentale, e da alcune
proposte cliniche (1,2). Da allora l’esperienza clinica si è enormemente sviluppata, e per
quanto riguarda l’autotrapianto è sorto un Working Party dell’EBMT coordinato da
Tyndall che include studi clinici in fase I/II. Numerosi altri studi sono in corso, ed esiste
ormai un grande numero di piccole casistiche od anche di casi singoli. Poiché qui non si
potrà che dare un profilo generale della situazione, si rimanda alle riviste sintetiche più
recenti, sia sperimentali (3,4) che cliniche (5-13).
La prevalenza delle MAI è stimata dal 3 al 6-7% della popolazione dei Paesi
occidentali. La complessità dei rapporti fra eziologia intrinseca, su base genetica
(“autogeni”), ed estrinseca è ulteriormente complicata dalle diversità fra le singole MAI, e
persino anche fra i subtipi di una determinata malattia. La questione se la reazione
anticorpale nelle MAI sistemiche sia antigene-diretta, per cui un sistema immune
“normale” reagisce a proteine “self” divenute autoantigeniche (14), o se siano MAI
sostenute da una disfunzione primitiva del sistema immunologico (15), è tuttora irrisolta
(12,13). E’ fondamentale rendersi conto che entrambe tali ipotesi non sono mutuamente
esclusive. La maggioranza delle MAI è controllata, più o meno soddisfacentemente, dalle
manipolazioni consuete del sistema immune, ma esiste uno zoccolo duro di MAI
refrattarie/ricadenti per le quali è stata proposta la definizione pienamente appropriata, di
“autoimmunità maligna” (16). Come osservano recentemente Mackay e Rose (17) il Santo
Graal del trattamento dovrebbe consistere in una terapia mirata in grado di distruggere
specificamente (ed esclusivamente) i cloni immunocitari patogeni responsabili della MAI.
Ma anche se ciò fosse possibile –e l’argomento di questa relazione investe solidamente
questo tema- il secondo e non meno importante obiettivo consiste nell’evitare una riautoimmunizzazione, ossia il conseguimento dell’autotolleranza specifica.
Ricerche in modelli animali
Sostanzialmente esistono due tipi di MAI animali: nel primo tipo la malattia insorge
spontaneamente a causa di combinazioni genetiche specifiche, mentre nel secondo la
224
stimolazione antigenica è fondamentale. Si parla pertanto di forma ereditarie o indotte.
Nel 1974 Morton e Siegel trasferirono il LES murino in topi BALB / C H-2d compatibili
irradiati trapiantando midollo intiero da topi affetti (18). Tale trasferimento adottivo fu poi
riprodotto in altre forme di LES murino, sindrome antifosfolipidica, diabete mellito
insulino-dipendente (IDDM), encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE) ed artrite
da adiuvante, considerate entrambe modelli sperimentali della sclerosi multipla (MS) e
dell’artrite reumatoide (AA) umane. I particolari di tali sperimentazioni sono riportati
altrove (19,12). L’identità degli elementi cellulari veicolanti l’informazione autoimmune è
discussa: sicuramente linfociti di pazienti autoimmuni sono in grado di riprodurre la
malattia nei topi NOD/SCID (20), ma nella sperimentazione fra animali hanno assunto
importanza fondamentale le CSE (lett. In 19,3,5,6). In una estesa serie di ricerche Ikehara e
coll. hanno trovato che le MAI possono essere trasferite con CSE purificate, che queste
sono capaci di proliferare anche in microambienti MHC-mismatched, e che le cellule
stromatiche “le abbracciano come madri con i loro bambini” (4,21). Ikehara ha pertanto
definito le MAI (sperimentali) quali “malattie policlonali delle CSE”.
In via bidirezionale le stesse MAI sperimentali che si sono dimostrate trasferibili
con il trapianto sono state guarite mediante trapianti da congeneri sani. Si poté dimostrare
che MAI anche avanzate potevano essere curate a seguito di irradiazione e trapianto di
CSE (2-4). Altre ricerche sperimentali hanno dimostrato non solo un effetto del tipo Graftversus-Autoimmunity nei topi NOD, ma anche un effetto terapeutico del chimerismo
misto, nonostante la persistenza delle cellule T endogene (lett. In 22). Tale ultimo aspetto
mette in discussione fenomeni di soppressione e/o di veto (23), e sta alla base dell’impiego
di procedure nonmieloablative anche nel campo delle MAI (22). Infine la dimostrazione
dell’effetto terapeutico del trapianto autologo/pseudoautologo nell’artrite da adiuvante e
parzialmente anche nell’EAE (24,25) ha contribuito in maniera fondamentale all’attuale
estesa sperimentazione clinica.
Esperienza clinica
Autoimmunità post-trapiantologica. Il termine di “autoimmunità adottiva” fu
proposto da me nel 1992 per indicare il trasferimento di una MAI da un donatore di CSE
ad un ricevente (26). Se è dimostrabile un trasferimento diretto o di linfociti patogeni o di
CSE in grado di generarli la patogenesi è chiara. Ma ci sono anche casi in cui, anche senza
tale dimostrazione, l’ipotesi di autoimmunità adottiva non può essere né criticata né
respinta, come nei casi di trasmissione post-trapiantologica di morbo celiaco (27) che di
psoriasi pustolosa palmoplantare con simultanea guarigione di AML del ricevente (28).
Tuttavia altri casi possono essere attribuiti allo squilibrio immunologico che si verifica
dopo allotrapianto: è la teoria del “caos immunologico” di Sherer e Shoenfeld (29). Tale
interpretazione è rafforzata dall’emergenza di anticorpi autoreattivi e da una sequela di
complicazioni autoimmuni multiple che tennero dietro ad autotrapianti (30,31).
Le casistiche più importanti di autoimmunità adottiva sono state osservate a carico
della tiroide, con frequente ipotiroidismo ma anche con 8 casi di ipertiroidismo pubblicati
(32), diabete mellito insulino-dipendente IDDM e miastenia grave, una situazione molto
particolare. Tali aspetti sono approfonditi altrove (6,13,26). Ma deve essere ricordato che
non vi fu trasmissione di malattia in 2 pazienti leucemici trapiantati da donatori affetti da
RA e LES (33)
225
Risoluzione di MAI pre-esistenti a seguito di trapianto allogenico. Si tratta di
situazioni morbose cosiddette coincidenziali, largamente discusse altrove (6,13). La
casistica più numerosa è quella di RA trapiantati a causa di anemia aplastica severa (SAA)
iatrogena (6,13,35,36,37). La perplessità maggiore deriva dalle ricadute nonostante un
chimerismo completo (36,37). Sei casi con malattia di Crohn e leucemia ricevettero
trapianti allogenici a Seattle (38). Dei 5 pazienti valutabili 4 non ebbero segni di malattia
anche a 15 anni post-trapianto.
La sindrome di Evans è una emopatia grave (39). Un bambino di 5 anni
tenacemente refrattario andò in remissione completa dopo trapianto cordonale (40). Un
altro caso adulto è in remissione completa dopo trapianto allogenico (R.K. Burt,
comunicazione personale).
Trapianti autologhi. Il trapianto di CSE autologhe, da midollo ma sempre più
frequentemente dal sangue, viene impiegato molto più estesamente per due motivi
fondamentali: gli incoraggianti risultati di Rotterdam (41,42) e la maggiore sicurezza del
procedimento autologo (6,26,35,43). Tuttavia nello studio europeo la TRM a 2 anni fu
accertata a 8±6%, mortalità che viene paragonata a quella corrispondente per i linfomi
non-Hodgkin. E’ questione di sensibilità giudicare se tale paragone sia incoraggiante o
meno, come sarà discusso più oltre.
La MS è diventata l’indicazione clinica principale grazie alle ricerche cliniche
pionieristiche di A.Fassas (44) e di altri (45). Uno studio controllato collaborativo
neurologico-GITMO sta trattando pazienti affetti da MS primaria e secondaria progressiva
con valutazione clinica, biologica e di RMN. La mobilizzazione delle CSE viene compiuta
con CY 4g/mg + G-CSF, ed il condizionamento con il protocollo BEAM di Fassas (44),
ormai impiegato a livello europeo. In tutta questa vasta casistica si è costantemente
verificato un significativo miglioramento clinico, che non è possibile analizzare qui. Ma
uno dei risultati più interessanti (ed incoraggianti) è stata la regressione, spesso completa,
delle lesioni neurologiche già dopo la mobilizzazione con CY, dimostrando così la capacità
dei metaboliti oxazaforinici di penetrare nelle lesioni, forse anche grazie all’alterazione
della barriera emato-encefalica operata dalla malattia.
Nelle aree delle malattie reumatiche 10 pazienti con RA hanno ricevuto
autotrapianti a Sidney senza particolare tossicità (36). Tuttavia in uno studio prolungato
su 4 pazienti le remissioni furono seguite da ricadute dopo 8-24 mesi, così che si è già
pensato al duplice autotrapianto (46). Nell’artrite reumatoide giovanile (JCA) grave e
refrattaria sono stati pubblicati 4 casi (47), ma altri 6 sono già stati effettuati (N. Wulfraat,
comunicazione personale). Il regime di condizionamento fu molto intenso (ATG, CY 200
mg/kg, TBI 46y), le remissioni furono buone, ma ci furono 2 casi di TRM tardiva.
L’aggressività della JCA fu anche dimostrata dal fatto che nella stessa si verificarono le
ricadute più precoci (48).
Come preconizzato nel 1993 (49), il LES refrattario/ricorrente sta divenendo
un’indicazione maggiore per IS ad alte dosi e rescue con CSE autologhe. Una discussione
approfondita dell’argomento è stata pubblicata molto recentemente (50), e si rimanda alla
stessa per maggiori particolari. In 4 casi di LES e neoplasia (NHL, CML) si ebbero risultati
variabili, con talora una ricaduta del LES più precoce di quella del NHL. Per quanto
riguarda il LES isolato, ci sono 7 casi pubblicati di pazienti trattati con autotrapianti. Nel
primo caso si è verificata una ottima remissione parziale (51), ma dopo 40 mesi dal
trapianto si è accertata una modica risalita degli ANA. Una donna con LES grave
226
complicato da glomerulonefrite proliferativa focale è in remissione completa
corticoindipendente un anno dopo il trapianto (52). Un caso complicato da sindrome di
Evans (ES) è anche in remissione completa (53). Quattro casi sono stati autotrapiantati a
Chicago, e con un FU mediano di 17 mesi sono in remissione completa
corticoindipendente (54).
La sclerosi sistemica (SSc) può essere una malattia gravissima, in cui la fibrosi
polmonare interstiziale è la più frequente causa di morte. Oltre a casi sporadici discussi
altrove (6,13) ed alla casistica del Registro dell’EBMT, sono da ricordare 5 casi trattati a
Seattle con CY 120mg/kg, TBI 8 6y ed ATG 90mg/kg, seguiti da CD34+ autologhe
selezionate (55). Un certo grado di miglioramento, con arresto di progressione di malattia,
fu ottenuto in tutti. Ma il risultato più brillante è quello che si è ottenuto recentemente in
una paziente di 13 anni con coinvolgimento polmonare grave e progressivo, che ricevette
CD34+ selezionate dopo mobilizzazione con CY 4g/mg e C-CSF e fu condizionata ancora
con CY, 200mg/kg. Due anni dopo il trapianto le immagini polmonari a vetro smerigliato
sono scomparse, la paziente è corticoindiendente, ed è stata accertata una normalizzazione
della crescita (56). In contrasto, il titolo degli ANA e degli anti-Scl-70 è rimasto
sostanzialmente invariato.
Quattro casi di trombocitopenia autoimmune (AITP) refrattaria anche dopo
splenectomia sono stati trattati con IS intensa seguita da CSE autologhe. Nei primi 2 casi si
ebbero remissioni piastriniche complete corticoindipendenti (57), ma successivamente si
verificarono ricadute (S. Lim, comunicazione personale). In altri 2 casi vi fu una totale
refrattarietà (58,59). Un commento più esteso è stato pubblicato altrove (39).
Immunosoppressione intensa senza rescue di CSE. Il trattamento con dosi elevate di
CY (200mg/kg) è stato impiegato presso il Johns Hopkins di Baltimore alcuni anni fa per
la SAA (60), ed è stato recentemente esteso ad uno spettro di MAI gravi, includenti la
sindome di Felty, l’AITP e la ES (61). La ricostituzione ematologica non si diversificò da
quella che si verifica dopo autotrapianto. Ciò fu attribuito al fatto che le CSE molto
immature esprimono livelli elevati di aldeide deidrogenasi, un enzima considerato
responsabile per la resistenza cellulare alla CY (62).
Nella messa a punto più recente sono stati così trattati 27 pazienti con una varietà di
MAI (12 LES, 5 neutropenia autoimmune, 3 polineuropatia, 2 miastenia grave, 2 AIHA, 1
AITP, 1 ES, 1 pemfigo). Tredici pazienti sono in remissione completa, clinica e sierologica,
con un FU mediano di 9 mesi (63). Le dosi elevate di CY producono chiaramente
remissioni a lungo termine, come è stato anche osservato in un caso di LES avente ricevuto
per errore una dose unica di 5g di CY (64).
T deplezione. Nelle MAI attive i pazienti non sono mai in remissione completa
prima dell’autotrapianto, per cui una deplezione dei T linfociti autoreattivi contenuti nella
massa dei T linfociti è considerata “obbligatoria” da van Bekkum (9). La maggioranza
delle MAI è T mediata, e nelle B-mediate (20) esiste una preminente dipendenza T, talchèla
deplezione può essere focalizzata sui linfociti T. Questa può essere ottenuta mediante
selezione positiva delle CD34+, mediante TCD immunologica, e mediante la combinazione
di entrambi i procedimenti. Inoltre si ottiene una TCD in vivo somministrando ATG ai
riceventi (44,45,54). Si è generalmente impiegata una deplezione di 3 log, ma questo livello
è stato superato per un caso di LES (52). E’ peraltro noto che una TCD eccessivamente
spinta può essere poi seguita da complicazioni virali e fungine, nonché da malattie
linfoproliferative. E’ palese che non si può confidare nelle DLI nel setting autologo. Come
227
è stato detto recentemente, non ha molto senso curare una MAI solo per sostituirla con
una IS profonda e permanente (65).
La ricostituzione immunologica. La ricostituzione del sistema immune è stata
studiata estesamente sia dopo trapianto allogenico che autologo. La letteratura è profusa, e
si rimanda a due ottime riviste sintetiche recenti (66,67). La caratteristica più significativa
consiste nella depressione profonda e prolungata del subset CD34+ (50,51,66,67). Uno
studio dopo autotrapianto di CD34+ FACS-selezionate ha suggerito una predominante
produzione di CD8+ in siti extratimici che favoriscono le CD8+ sulle CD4+ (68). Il
prolungato fenotipo immunosoppresso, che si trova dopo trapianto allogenico/autologo
tanto per malattie neoplastiche che autoimmuni, è caratterizzato dall’inversione del
rapporto CD4+/ CD8+, e dal predominio iniziale di linfociti memoria CD45RO, seguito
dopo molti mesi ed anche anni dalla ricomparsa di linfociti naive CD45RA. Il marker di
attivazione T CD69, che era altamente espresso in pazienti di LES prima
dell’autotrapianto, declinò significativamente dopo lo stesso, con una deviazione della
produzione di citochine come da un fenotipo Th1/Th2 più vicino alla normalità (54).
Discussione
E’ noto che l’autoimmunità è multifattoriale (69,70): fattori genetici, immuni,
ormonici ed ambientali concorrono tutti nell’uomo, a differenza di molti modelli animali,
nel determinismo delle singole autoimmunopatie (13). Le concezioni predominanti
sull’autoimmunità predicono che guarigioni stabili sono in via teorica ottenibile a tre
condizioni:
1. Eradicazione delle cellule immunocompetenti del paziente.
2. Loro sostituzione da parte di cellule istocompatibili sane.
3. Non suscettibilità delle stesse a “whatever breaks tolerance”, come concisamente ma
competentemente scritto da van Bekkum (9).
Dei tre approcci che sono stati discussi, e cioè 1) il trapianto di CSE allogeniche, 2) il
rescue con CSE autologhe dopo immunosoppressione intensa, e 3) IS intensa da sola non
c’è dubbio che il primo approccio si presenti come il più promettente. Come si è visto, i
trapianti allogenici sono stati generalmente seguiti da remissioni prolungate, anche se
non possiamo (ancora?) parlare di guarigioni. Tuttavia un primo svantaggio è la TRM,
che pur decrescendo costantemente negli ultimi anni nelle leucemie (71), è tuttora
inaccettabile nelle MAI. Inoltre la fiducia nell’allotrapianto non può non essere scossa dai
casi di RA ricaduti nonostante la ricostituzione immunologica del donatore (35,36). La
ricaduta leucemica nelle cellule del donatore è un evento conosciuto, ma segnalato
sempre meno recentemente; tuttavia nel caso delle MAI è difficile non ipotizzare come
causa più probabile una risensibilizzazione, tanto più che si tratta nella grande
maggioranza di patologie antigene-dirette (14), e che l’istotipo HLA del donatore è nella
grande maggioranza identico a quello del ricevente. Se si dovessero riscontrare altri casi
del genere nel futuro, il gradiente di vantaggio bioimmunologico della procedura
allogenica nei confronti dell’autologa ne sarebbe considerevolmente indebolito (72). Di
fronte a tali considerazioni negative sorge peraltro la recente acquisizione dei nuovi
228
regimi di condizionamento non mieloablativi (73,74,75), noti anche come “transplantlite” (74) e trapianti “metakinici” (76). Se si confermasse l’esistenza di un effetto GVA
anche in clinica, così come è stato osservato negli esperimenti sui topi NOD ( ),
esso
potrebbe forse ovviare al problema della ricapitolazione non solo dell’immunità ma,
quello che più conta, dell’autoimmunità. E’ vero che il chimerismo misto può avere
ragione di sindromi disimmuni quali la linfocitosi emofagocitica familiare (77), e che è
stato postulato che possa essere efficace anche nelle MAI (75),ma questa è per ora solo
una speranza.
Nei rari casi di gemelli identici nonconcordanti per malattia si potrebbero prendere
in considerazione anche i trapianti singenici. Nel caso del LES, ad esempio, solo il 23% di
66 gemelli monozigoti fu trovato concordante per la malattia (78), anche se sono state
segnalate concordanze più elevate (79). Anche l’utilizzazione di sangue cordonale è
suscettibile di divenire un’opzione interessante per pazienti pediatrici, come è stato
effettuato nel caso di ES già ricordato (40).
Attualmente, comunque, il trapianto autologo viene prospettato come una
soluzione possibile per MAI gravi e refrattarie alle terapie convenzionali soprattutto in
considerazione della minore TRM e della maggiore fattibilità (5-8,13,35,43,80). Nel
Registro dell’EBMT la probabilità di sopravvivenza globale (±95CI) a 2 anni fa 89±7%, ed
il rischio di TRM 8±6%, che è paragonabile a quello per malattie maligne (48).
Nonostante tale equivalenza, che è stata definita “incoraggiante”, essa non è poi tanto
soddisfacente, ed è legittimamente prevedibile che non possa essere ulteriormente
ridotta mediante una più accurata selezione dei pazienti ed una migliore interazione fra i
vari specialisti. Le CSE periferiche sono ormai preferite a quelle midollari in pressochè
tutte le condizioni morbose (81), ma dosi eccessivamente elevate di CY per la
mobilizzazione, come quelle utilizzate nelle emoblastosi, vanno decisamente scoraggiate.
Non si ripeterà mai a sufficienza ai trapiantisti che i pazienti affetti da MAI sono quasi
sempre più fragili e con maggiori danni d’organo diffusi degli emopatici. Il dosaggio di
4g/mg (con G-CSF) assicura una buona mobilizzazione e di per sé esercita un effetto
terapeutico preliminare, come abbiamo chiaramente dimostrato nella MS. Ma l’essenza
del problema risiede nel fatto se l’IS intensa seguita da ASCT sia veramente in grado di
indurre l’autotolleranza, o, se vogliamo, l’eradicazione dell’autoimmunità. Si è visto che
ciò è stato ottenuto in patologia sperimentale, ma in clinica questo ambizioso obiettivo
(“reprogramming the immune system”, Waldmann 82) è ancora lontano. Ben più
probabile appare una riduzione anche prolungata del potenziale autoimmune: un caso
paradigmatico è quello del primo caso di LES autotrapiantato a Genova (51), nel quale
solo dopo 40 mesi si assiste ad un graduale simultaneo incremento degli ANA e dei
CD4+. Ma se l’effetto principale è indotto dalla IS intensa, allora la metodica del Johns
Hopkins (60,61) appare la più razionale, anche perché elimina totalmente la reinfusione
di linfociti autoreattivi. Tuttavia la criopreservazione delle CSE è un procedimento di
sicurezza che sembra irrinunciabile.
Non si può trascurare il problema dell’oncogenicità tardiva, come in particolare nei
bambini affetti da JCA, che ricevono una combinazione di TBI (4 6y) e di CY (200mg/kg).
E’ noto che il rischio oncogeno, sia di tumori solidi che di emoblastosi (leucemie e
mielodisplasie) è più elevato dopo terapie con modalità combinate (83). E’ importante
che si cerchi con ogni mezzo di prevenire o diminuire il rischio dell’oncogenicità tardiva.
Infine sono necessari studi comparativi, possibilmente per mezzo di studi
prospettici randomizzati. Si possono già proporre alcuni orientamenti. Per quanto
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riguarda la RA, i risultati estremamente incoraggianti che vengono riportati con
l’Etanercept (una proteina di fusione umana coinvolgente il ricettore per il TNF; 84)
possono essere confrontati con quelli delle procedure immunosoppressive intense. Per la
JCA, oltre all’Etanercept, il paragone può essere effettuato con la procedura, in realtà
consimile, di CY a boli prolungata nel tempo (85). Ma è anche possibile modificare gli
algoritmi e, per fare un esempio, programmare un mantenimento con IFN-ß (86) dopo
aver ottenuto la remissione con l’IS intensa nei pazienti con sclerosi multipla
Anche se l’ASCT non è stato in grado di riprodurre risultati sovrapponibili a quelli
così brillanti dell’immunopatologia sperimentale, alcuni benefici significativi sono stati e
si vanno ottenendo, ed una più intelligente ed approfondita collaborazione
interdisciplinare ne è già un risultato importante (6,9).
CONCLUSIONI RIASSUNTIVE
La terapia immunosoppressiva ad alta intensità ha modificato significativamente in
meglio il decorso clinico delle malattie autoimmuni gravi, costantemente recidivanti e
refrattarie. Riassumendo la considerevole mole di lavoro che è stata effettuata negli
ultimi anni, si può affermare che le procedure sono essenzialmente tre, cioè
immunosoppressione intensa seguita da trapianto allogenico, da trapianto autologo e
senza rescue staminale di qualsiasi genere. La procedura allogenica, sinora impiegata
esclusivamente per malattie coincidenziali, potrà forse trovare un’applicazione più vasta
utilizzando le tecnologie nonmieloablative. Il problema reale è il conseguimento della
tolleranza, talora negato dall’evenienza dell’autosensibilizzazione agli autoantigeni. Il
trapianto autologo trova attualmente una larga diffusione internazionale. I risultati
migliori sono stati conseguiti sinora nella sclerosi multipla, ma anche molte malattie
autoimmuni “reumatiche” ne hanno tratto giovamento. E’ più verosimile che si tratti di
remissioni, talora anche a lungo termine, che non di guarigioni autentiche; tuttavia ciò
non significa che si tratti di risultati non importanti. L’immunosoppressione con dosi
elevate (200mg/kg) di ciclofosfamide senza supporto staminale di sorta sta fornendo
risultati incoraggianti presso il Johns Hopkins di Baltimore, USA.
Una conclusione generale è che molte malattie autoimmuni gravi si giovano di
indirizzi terapeutici non sospettati alcuni anni fa. Inoltre l’impiego sempre più esteso di
tali metodiche promuove un’intesa fra specialisti su comuni basi biologiche che non può
non essere fruttifera per le scienze biomediche e per i pazienti.
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Didascalie delle figure
Fig.1 Raffigurazione simbolica delle possibili indicazioni e delle patologie trattate con
immunoablazione e rescue autostaminale
Fig.2 Nuove terapie intensive per le malattie autoimmuni gravi
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