Con Popa Chubby tra rock, metal e blues: musica senza confini

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Con Popa Chubby tra rock, metal e blues: musica senza confini
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Cultura e spettacoli
LIBERTÀ
Martedì 3 luglio 2012
Premio “La giara”, piacentina in finale
Vanessa Navicelli rappresenterà l’Emilia Romagna nel concorso
ZIANO - “E’ il 1897. Una domenica di giugno. Un ragazzo di diciassette anni cammina per una stradina sterrata di collina.
In mano ha dei rametti di serenella. Ogni tanto prende dalla
tasca dei pantaloni un fazzoletto, se lo passa sulla fronte; poi
lo gira sull’altro lato, si china a
terra e lo passa sulle scarpe.
Guarda il sole, con gli occhi
socchiusi; fa un bel respiro e riprende a camminare. Una ragazza di quindici anni aspetta
davanti alla chiesa del suo paese. Stringe un santino della Madonna tra le mani. Di fianco a
lei c’è il parroco che la osserva
mentre, nervosa, zoppicando
un poco, va avanti e indietro da
una fontanella a rinfrescarsi il
viso. “Arriva”, dice il parroco, indicando il fondo della piazza
antistante”.
E’ l’incipit del romanzo inedito Il pane sotto la neve con il
quale sul sito della Rai viene
presentato il testo con cui Vanessa Navicelli, di Vicobarone
di Ziano, ha superato la selezio-
Vanessa
Navicelli di
Vicobarone,in
finale al premio
“La giara”
ne regionale del Premio letterario “La giara” per i nuovi talenti della narrativa italiana, under
39, indetto dalla Rai-Radiotelevisione Italiana, su proposta
del Laboratorio di scrittura
creativa di Rai Eri. Navicelli
rappresenterà dunque l’EmiliaRomagna nella rosa dei 21 finalisti tra i quali, nella serata del
24 luglio ad Agrigento, trasmessa su Raidue, verrà decretato il
vincitore, che vedrà la sua opera pubblicata. La cerimonia si
terrà nei luoghi cari a Luigi Pirandello, al quale il premio è idealmente dedicato, poiché
prende il nome dal titolo di una
delle sue più celebri novelle. Alla prima edizione de “La giara”
hanno partecipato più di mille
concorrenti.
Lisa Moretti
Con uno strepitoso concerto il grande musicista americano ha chiuso trionfalmente il Festival blues “Dal Mississippi al Po”
Con Popa Chubby
tra rock, metal e blues:
musica senza confini
PIACENZA - Blues-rock sangui-
gno e istintivo che arriva dritto
al cuore. Dopo la prima fitta al
petto, pesante e amara - la
mazzata inferta dalle furie iberiche agli Azzurri, seguita su
maxi schermo da una gran folla - il pubblico del Festival
Blues di Cooperativa Fedro ne
ha sentita un’altra, altrettanto
forte ma di segno opposto. A rimarginare la ferita, a corroborare gli animi con un concerto
eccitante salutato da scrosci di
applausi a scena aperta, è stato
Popa Chubby, il chitarrista colosso - per bravura e per mole del Bronx che suona “heavymetal blues-rock”: è lui stesso
a definire così il suo sound inconfondibile, una miscela di
blues di discendenza hendrixiana, massiccio hard-rock
di stampo ’80/’90 ed elettrizzante funky che lambisce addirittura i territori del surf, della
classica e del jazz, sventagliando note su note (ma mai una di
troppo) attraversando mille accenti e colori come solo i maghi della tavolozza sanno fare.
Popa, il “Buddha del blues”,
domatore di note, è un omone
tanto goffo nei movimenti
quanto sciolto, preciso e ardente nel far viaggiare quelle mani
miracolose e piene di idee su e
giù per il manico della fedelissima Stratocaster, la sua “baby”.
«My guitar is all» dice con gli
Popa Chubby durante il concerto che ha chiuso trionfalmente il Festival blues “Dal Mississippi al
Po”.E’andato in scena dopo la partita Italia- Spagna(foto Del Papa)
occhi che brillano come quelli
di un ragazzo in amore. Lui la
pizzica, la stuzzica, la accarezza, la fa cantare come un amante focoso. È la stessa chitarra che gli avevamo visto abbracciare cinque anni fa al Fillmore di Cortemaggiore, solo
più consunta.
Insomma, un grande e graditissimo ritorno, quello di Popa
Chubby a Piacenza, che ha
chiuso al meglio un’edizione
del Festival Blues particolarmente bella.
Denso, intenso, un musicista
emozionante: non gli manca
niente. Una voce poderosa, un
chitarrismo che rapisce, uno
sguardo gagliardo, la stoffa di
chi sa trovare con il pubblico la
sintonia giusta, intima: «Io suono per voi. E a chi se ne è andato dopo la partita: “bye bye”! ».
Applausi. Appunti sparsi dal
diario divertito di un uomo che
ama suonare, autografare e
stringere le mani alla sua gente
più d’ogni altra cosa. Ironizza
sul Papa e maledice il football.
Gli spagnoli? Tutti «maricones».
Il pubblico di domenica sera,
invece? «Fuckin’ cool people».
A un certo punto ha fatto anche
il verso a Balotelli, mostrando i
muscoli con sguardo ferino. I
Mainardi, l’amore per Jannacci
tiri di Popa però sono andati
tutti dentro. Uno in particolare? Una piccola suite mistica in
solo a base di “volume swelling”, sorta di “messa di voce” in
cui le note nascono dal nulla,
sanno di violino, dondolano
sospese e lunari: quelle di Per
Elisa (Beethoven), che sfumano poi in una Over the rainbow
fatta ballad romanticamente erotica. Che dire, invece, di Allelujah (Cohen)? Pelle d’oca.
Il “power trio” di Popa esalta
l’atmosfera musicale multi-etnica della sua New York. I suoi
scudieri - AJ al basso e il giovane Chris alla batteria - gli stanno dietro, spingono forte: una
sezione ritmica frullante e coriacea su cui Popa può permettersi di tutto. Dal B.
B. King più galoppante ad una Rock
me baby che prende un po’ dalla versione sua, un po’
da quella di Hendrix e un po’ da
quella degli Stones
per ricrearsi in una
forma unica e personale. E anche
quando suona Hey
Joe non ti fa rimpiangere il suo inarrivabile creatore. Al Festival Blues
ha sfoggiato anche
tanta bella roba originale,
come
Mind bender crossover blues
“metallaro” pieno
di armonici e iniettato di “whawha” - e Universal
breakdown, buone
vibrazioni e muscoli rock. Suono ruvido, graffiante ma ben
tornito, mai inelegante. Tanta
energia intrinseca in ogni singola nota. Anima, cuore, fantasia e uno spirito da “jam”, per
un concerto che potrebbe non
finire mai.
Paolo Schiavi
Nando Mainardi con Giorgio
Lambri alla presentazione del
libro su Jannacci (foto Franzini)
L’autore ha presentato il suo libro al Cantiere “Simone Weil”
PIACENZA - Fa caldo, maledet-
tamente caldo, ma ci sta. La
calura si fa sentire al Cantiere “Simone Weil” dove si parla a ruota libera di Enzo Jannacci, con Nando Mainardi
che ha scritto un bel libro sul
poeta e cantautore milanese
(s’intitola Il genio del contropiede ed è edito da Zona) e
Giorgio Lambri capocronista
di Liberà che gli fa da spalla,
gli serve l’assist per la fuga,
per questo libro metà saggio
e metà biografia che mette
insieme la figura di un protagonista della vita culturale italiana, con le sue canzoni, i
suoi “nonsense”, le parole inventate per stupire prima se
stesso che gli altri.
Mainardi e Lambri cominciano a parlare dei metro di
una Milano d’altri tempi, del
colore dei tram, di taxi neri,
di desideri, di sogni, intercalando frammenti di vite lontane, memorie, incontri, i
tanti incontri che hanno segnato (in bene) la vita di Jannacci: Franco Cerri, Dario Fo,
Tra saggio e biografia
Racconta un protagonista
della vita culturale, con le
sue canzoni e i “nonsense”
Giorgio Gaber. Nando Mainardi non riesce a nascondere una certa fierezza ripensando a questo libro, scritto
con il cuore perché questo
“comunista” con barbone ribelle ama profondamente le
canzoni di Jannacci di cui conosce aspetti e segreti.
E’ giovane (classe 1972),
non ha frequentato il Derby,
ma per Jannacci ha preso una “scuffia” da ragazzino e
quella cotta si è trasformata
in amore vero verso un artista che ha cambiato gli stilemi della canzone, che alla
parola ha dato un senso diverso, nuovo, strabiliante, esilarante, biascicando le frasi, lasciandole sospese, come
sempre, più di sempre. Mainardi ricorda le delusioni te-
levisive di Enzo: «La prima
venne proprio dalla Rai nel
’68 - dice - quando Ho visto
un re, scritta insieme a Dario
Fo fu esclusa da Canzonissima perché troppo politica.
Fu allora che Jannacci decise
di riprendere a studiare e
partì per gli Stati Uniti».
Parole, aneddoti, canzoni
lontane: «Il momento chiave
della vita di Enzo Jannacci commenta Mainardi - è stato
quando ha cominciato a dedicare anima e cuore alla
musica. Certa musica la poteva fare solo lui». El purtava
i scarp del tennis, Vengo anch’ io, Ci vuole orecchio, L’Armando, L’ombrello di mio
fratello. E Vincenzina che voleva bene alla fabbrica: «E’
nata perché doveva fare un
regalo al grande Monicelli,
che voleva una musica particolare per il suo film Romanzo popolare - ha spiegato
Mainardi - l’ha scritta ed è
bellissima, è un inno alle
donne che lavorano, anche
oggi in questi anni terribili».
E poi gli amici. Quelli di oggi e quelli di ieri. Molti se ne
sono andati. Jannacci non
può più neppure telefonare a
Giorgio Gaber. Enzo era Estragone e Gaber era Vladimiro. Tutti e due ad aspettare Godot, come i personaggi
di Beckett. A questo poeta visionario e surrealista della
canzone l’estraneità gli è
sempre appartenuta: «L’ha
detto lui stesso in più occasioni. Gli piace, gli piace estraniarsi, sentirsi un po’ fuori dal mondo. Non ha mai avuto molti amici. Su tutti Dario Fo, l’amico ma anche il
maestro. Non si sono mai
sentiti alla pari, Dario Fo per
Jannacci era superiore, un
genio, non fosse altro che Fo
avesse scritto La signora è da
buttare».
Come dice Mainardi, Enzo
Jannacci possiede alcune doti importanti, su tutte la sensibilità e l’umiltà e ha scritto
alcune magnifiche canzoni.
Dolci, nevrotiche, liriche, folli, assurde, surreali. Qualcuno ha detto a volte strane,
cioè struggenti, come certi
suoi personaggi, Mario, Giovanni telegrafista, piripiripipiripì, l’uomo dal cuore urgente che batteva su un tasto
solo cercando la sua Alba,
fuggita all’alba in una città
grande.
Mainardi conosce a memoria l’excursus del dottor
Jannacci. A proposito che cosa sono i ciccioli di Silvano?
Ma l’importante non era esagerare? «Un tempo - conclude - con Fiorenzo Carpi, gli
amici del Derby, Bianciardi e
Mastronardi. Ma anche Paolino Rossi e Cochi e Renato».
Erano assurdi ma profondamente divertenti. Tanto divertenti da farti gol in contropiede, all’ultimo minuto.
Mauro Molinaroli