La Questione Israelo-Palestinese

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La Questione Israelo-Palestinese
Lucio Saviani, Ciro Sbailò, Rino Cipriano
LA QUESTIONE
ISRAELO – PALESTINESE
Seminario-laboratorio di Storia Contemporanea
L.S.S. “Augusto Righi” - A.S. 2000-2001
Versione digitale a cura di Silvia Crupano
Pubblicazione a cura di Pantarei
Rivista elettronica registrata ISSN 1824-5781
www.pantarei.co.uk
Tutti i diritti riservati © 2005
1
Introduzione
pag.
2
Colophon
pag.
4
Scheda ospiti
pag.
5
Bibliografia
pag.
6
Links
pag.
8
Cartine
pag.
9
Cronologia
pag. 25
Glossario
pag. 38
Incontri
pag. 42
Rassegna stampa
pag. 127
Documenti
pag. 128
Mostra fotografica
pag. 149
Foto incontri
pag. 160
Scheda Prof. L. Saviani
pag. 161
1
di
Lucio Saviani
Questo testo è il risultato del lavoro che tra la fine del 2000 e i primi mesi del
2001 ha svolto, all'interno del Liceo Scientifico "Righi" di Roma, il Seminariolaboratorio di storia contemporanea, da me coordinato, e che ha potuto costituirsi,
prendere vita e organizzare le proprie sessioni di lavoro grazie all'impegno, alla
determinazione e alla attiva partecipazione di un gruppo di studenti del Liceo.
Il lavoro che qui introduco si riferisce al lavoro del secondo anno di attività del
seminario-laboratorio.
Il Seminario-laboratorio di storia contemporanea nasce infatti da una proposta
degli studenti
presentata come "Progetto Giovani" nell'a.s. 1999-2000. In
quell'occasione mi fu chiesta dagli studenti, con relative raccolta di firme e
presentazione al consiglio d'istituto, una serie di lezioni e di discussioni intorno alla
storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Prese così vita il corso "Le vicende di
un'anomalia. L'Italia dal '43 alla caduta del Muro", che fece registrare risultati molto
positivi e incoraggianti, in termini di impegno, interesse e partecipazione degli
studenti. Il corso risultò anche primo all'interno di una graduatoria inerente i diversi
corsi extracurricolari previsti dal POF, presentata e discussa in una riunione del
Collegio dei Docenti di fine anno scolastico. Di questo risultato, ma soprattutto dei
lavori prodotti e dall'esperienza vissuta nei mesi di attività, gli studenti e il
coordinatore conservano il ricordo come ragione di soddisfazione e invito a
continuare nell'esperienza avviata.
Anche il lavoro del secondo anno di attività del Seminario-laboratorio di storia
contemporanea nasce dalla proposta degli studenti, di nuovo con relative raccolta di
firme e presentazione al consiglio d'istituto. Il testo che qui introduco vuole essere
dunque testimonianza anche del primo anno di attività del seminario; insieme alle
firme e alla richiesta, ha fatto ritorno lo stesso spirito: l'impegno, il piacere, molti
degli studenti della prima edizione, sono stati gli stessi. Alcuni studenti non più
liceali sono talvolta tornati per gli incontri, così come a partecipare sono stati molti
nuovi studenti di diverse classi e sezioni.
Il carattere seminariale e di laboratorio del corso risulta chiaramente espresso
dal lavoro che qui sto introducendo: la partecipazione e l'impegno attivo degli
studenti emerge come la chiave principale degli incontri. Tuttavia, a me come agli
studenti, è parso opportuno non insistere su un accento - che a noi è parso
vagamente retorico, a cui sembrano ricorrere alcuni aspetti della riforma scolastica posto sulla parola "laboratorio" per quanto riguarda lo studio della storia. Parlare di
laboratorio sembra ancora un po' forzato, per lo studio di un periodo o di questioni
di storia contemporanea su cui gli studenti ancora scontano un deficit di
informazioni, dovuto proprio all'organizzazione degli studi e dei programmi di
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scuola secondaria che soltanto da pochissimo tempo prevedono maggiore spazio per
il '900. Anche per questo, per il nostro lavoro, appare la parola "seminario".
Ma al di là delle parole, è opportuno parlare delle cose: l'anno scolastico
durante il quale ha lavorato, per la seconda edizione, il Seminario-laboratorio di
storia contemporanea è stato anche l'anno della polemica sulla 'obiettività' dei
manuali di storia nelle scuole superiori. Credo che nel testo che qui introduco ci sia
anche spazio per una riflessione con la quale concludere questa premessa: gli
studenti sono molto più responsabili, critici, attenti di quanto spesso, soprattutto
lontano dalle aule, si pensa. Per verificarlo, basta essere altrettanto attenti e pronti
ad incontrare gli studenti in quelle zone di lacuna che essi denunciano e per le quali
esigono un riconoscimento esistenziale, prima ancora che didattico ed educativo.
Gli studenti del Seminario-laboratorio di storia contemporanea hanno compreso e
fatto proprio un punto essenziale del corso: evitare di 'prendere parte', schierarsi, se
questo impedisce o peggio ancora precede lo studio delle cose in cui si decide di
sentirsi coinvolti. Ciò vale soprattutto di fronte ad argomenti, come "La questione
palestinese" così densi e ricchi di sfumature, lati oscuri, paradossi, che possono
rivelarsi indispensabili per una comprensione dei grandi temi e problemi che non si
sono chiusi con il finire del Novecento.
Infine, ringrazio i docenti ospiti, i professori Ciro Sbailò e Rino Cipriano, per le
loro rare qualità di disponibilità e di passione per la ricerca e la didattica;
soprattutto per aver condiviso il lavoro e lo spirito del Seminario.
La paternità di questo testo appartiene soprattutto agli studenti, ai miei
studenti di tante diverse classi, che hanno dedicato il loro tempo giovane e la loro
passione a dare un senso particolare al "Progetto Giovani" e allo studio in generale,
uno spirito che - sono convinto - può dare, di questi tempi, il senso migliore
all'attività di docente e al lavoro nella scuola.
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Cronologie:
Stefano Toppi
Cartine:
Tommaso Cerulli Irelli, Jessica Ferretti
Glossario:
Filippo Castiglia
Elenco siti internet:
Silvia Crupano
Fotografie:
Silvia Crupano, Stefano Toppi
Trascrizione incontri:
Silvia Crupano
Rassegna Stampa:
Massimiliano Borelli, Tommaso Sanna, Paolo
Manfré, Francesca Neri, Sarah Maltoni
Documenti:
Filippo Castiglia (diritto al ritorno),
Giacomo Capaldi (hezbollah, profughi, jihad),
Silvia Crupano (scheda storica),
Stefano Toppi (fotografie profughi),
Enrica Frassineti (dossier associazione culturale)
Grafica e impaginazione:
Silvia Crupano
Copertina:
Ramacandra Wong
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Ciro Sbailò
E' docente di Sociologia giuridica al Link Campus della
University of Malta. Svolge inoltre attività didattica e di
ricerca presso la LUISS-Guido Carli per "Diritti dell'Uomo"
Dopo i primi studi sullo storicismo ("Etica, religione e storia in
Ernst Troeltsch", Napoli, 1985), ha collaborato con Luigi
Pareyson e Massimo Cacciari ("La rappresentazione della crisi",
Roma-Napoli 1988, "Se muore il Dio della filosofia", Roma
1989,"‘Dalla
morte
di
Dio.
Secolarizzazione,
rappresentazione”, Venezia, 1990). Alla fine degli anni
Ottanta ha intrapreso un’intensa attività pubblicistica e politica, collaborando, tra
l’altro, a "Quaderni Radicali", "Il Sabato", "AlfaBeta", "Avanti!", "MondOperaio",
"L'Opinione". Dal 1987 è professore di ruolo di filosofia e storia. Tra le sue ultime
pubblicazioni vanno ricordati: “Davanti alla Legge. Giustizia e giudici nel tramonto
della prima Repubblica” (Torino, Sintagma, 1996), la cura e prefazione del libro di
Giuseppe Gargani “Giustizia e diritto”, (Torino, Sintagma 1997). Del 1998 è “Il
sorriso di Zenone: il caso italiano e il destino della politica”, (Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane) con la prefazione di Giorgio Rebuffa. Ultimo lavoro pubblicato:
“Politica e verità” (Torino, Edizioni Sintagma, 2000).
Rino Cipriano
Arabista.
Direttore, dal 1987, dell'Istituto per la
Diffusione della Cultura Araba e Mediterranea (sede di
Caserta, affiliata alla Sede di Palermo), ne promuove le
attività organizzando convegni, mostre e pubblicando la
rivista Presenze Arabe.
Consulente editoriale di riviste specializzate, ha
pubblicato
saggi
ed
articoli
sul
fenomeno
dell'immigrazione e sull'Islàm. Ha compiuto, nei primi
anni '80, studi, ricerche
e specializzazioni presso
l'Istituto Habib Bourghiba di Tunisi e l'Università 'Ain Shams del Cairo.
Negli stessi anni, ha compiuto viaggi di studio e di lavoro nell'area magrebina e
vicino-orientale (Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria, Israele, Palestina) come membro
di delegazioni per conto del Ministero degli Affari Esteri e della Regione Campania.
Nel 1990 ha ricevuto l'incarico di consulente dalla Regione Campania per i
programmi pilota di alfabetizzazione e rilascio di Diploma di Scuola dell'obbligo ad
immigrati extracomunitari, partecipando in seguito, in qualità di relatore, a
numerosi convegni sull'argomento.
Dal 1989 è membro della Scuola di Studi Islamici presso l'Istituto Universitario
Orientale di Napoli.
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TESTI CONSIGLIATI
MONOGRAFIE
Storia Universale Feltrinelli, Vol. XXXVI, tomo 3: "Il XX Secolo. Tensioni e conflitti nel
mondo contemporaneo". Milano, 1986 (edizione in aggiornamento).
AA.VV., La questione palestinese. I quaderni de L'Espresso, n. 1, Roma, 1986.
AA.VV., Collana "Dossier Palestina",
Guerra e guerra civile in Libano, 1983.
Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, 1984.
Fatima, Leila e le altre. Incontro con donne palestinesi, 1985.Edizioni Ripostes,
Salerno, 1985
M. Bendiscioli, A. Gallia, Documenti di storia contemporanea, Mursia, Milano, 1970
W. Benz, H. Graml, Tensioni e conflitti nel mondo contemporaneo, Feltrinelli, Milano,
1982
B. Etienne, L'Islamismo radicale, Rizzoli, Milano,1988
W. Eytan, I primi dieci anni di Israele, Comunità, Milano, 1960
T.L. Friedman, Da Beirut a Gerusalemme, Mondadori, Milano, 1990
N. Garria, Lo stato d'Israele, Editori Riuniti, Roma, 1983
Gruppo Interparlamentare di lavoro per la Pace
Europa, Palestina, Israele, per una comunità di pace. Un dialogo tra i protagonisti,
anno XII, n. 3-4, ed. Dedalo, 1989.
G. Kanafani, Ritorno a Haifa
G. Kanafani, La madre di Saad (entrambi disponibili in varie edizioni).
G. Kanafani, E. Habibi, T. Fayyad, (a cura di I. Camera D'Afflitto), Palestina. Tre
racconti
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"Uomini sotto il sole" (da cui è stato tratto anche un film); "Sestina dei sei giorni";
"Selim lo scemo".
R Rémond, Introduzione alla storia contemporanea, Rizzoli, Milano, 1976
M. Rodinson, Israele e il rifiuto arabo. Settantacinque anni di storia, Einaudi, Torino,
1969
F. Steinhaus, La terra contesa. Storia dei nazionalismi arabo ed ebreo, Editori Riuniti,
Roma, 1983
A. Triulzi, (a cura di) Storia dell'Africa e del Vicino Oriente, vol. IV de Il mondo
contemporaneo
La Nuova Italia, Firenze, 1979
G. Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra ad oggi, Sansoni, Firenze, 1973
MANUALI DI STORIA E STORIOGRAFIA
C. Cartiglia, Storia, vol III . Il Novecento, tomo 1 (La politica) Loescher, Torino,
1997
De Luna, Meriggi, Tarpino, Codice Storia 3, Paravia, Torino, 2000
Giardina, Sabbatucci, Vidotto, Manuale di Storia, Laterza, Roma, 1992
A. Lepre, La Storia 3, Zanichelli, Bologna, 1999
A. Lepre, C. Petraccone, Presente e Passato, Principato, Milano, 1991
Molto materiale di studi e ricerche è possibile reperire presso la biblioteca dei
Padri Bianchi, del PISAI, Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici, di Roma
(nei pressi di Piazza Mastai)
7
www.medmedia.org/review/numero3/it/art7.htm
www.manitese.it/mensile/900/palestina.htm
www.ecn.org/reds/linkspalestina.html
www.jajz-ed.org.il/100/italy/concepts/mandato.html
www.storia900bivc.it/pagine/sitografie/sitografiamedioriente.html
www.arabcomint.com/gerusale.htm
www.italya.net/israele/israele.htm
www.tmcrew.org/int/palestina/index.htm
www.illaboratorio.net/rin_01.html
www.infomedi.it/precedenti/ottobre2000/reazioni.htm
www.tightrope.it/user/chefare/archivcf/cf26/medior.html
www.morasha.it/sefer/01_02/mejcher.htm
www.nostraterra.it/qumram/contributi/haertter.htm
www.itis.mantova.it/tesine/segala/israel2.htm
www.quipo.it/delirii/QPIndex.htm
http://digilander.iol.it/jml/lindale/ebraismo/ebraism.html
http://digilander.iol.it/jml/lindale/ebraismo/storiaisr.html
http://alberti.crs4.it/~ciano/PEACE/PALESTINA/index.html
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Cartine
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Carta 1
Dopo la prima guerra mondiale la Gran Bretagna ottiene dalla Società delle Nazioni
il mandato sulla Palestina, regione vicina al Canale di Suez e alle vie di
collegamento con l’India. Il 2 novembre 1917, con la dichiarazione Balfour <<il
governo di Sua Maestà vede con favore l’instaurazione in Palestina di una
costruzione nazionale (national home) del popolo ebraico>>. Il movimento sionista
progetta uno stato ebraico: la scelta dei territori risponde a una logica religiosa,
comprendendo tutti i territori dell’Eretz Israel, ma anche a esigenze geopolitiche,
aggiungendo zone di rilevanza strategica ed economica. Nel 1922 la Gran Bretagna
crea l’Emirato di Transgiordania, affidando al principe hashemita Abdallah il
territorio ad est del fiume Giordano.
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Carta 2
Aumenta l’importanza della regione grazie al petrolio e aumenta l’ostilità tra la
popolazione ebraica e quella araba. Tra i vari piani di spartizione di questi anni, il
più importante è quello della Commissione Peel che divide la Palestina in uno Stato
arabo e in uno Stato ebraico diviso in due dall’enclave di Gerusalemme che
rimarrebbe sotto l’autorità britannica. Il piano è rifiutato sia dagli ebrei che dagli
arabi
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Carta 3
Dopo la II guerra mondiale e l’Olocausto, gli argomenti a favore di uno stato sovrano
ebraico si sono molto rafforzati a scapito del peso geopolitico degli arabi,
considerando che il gran muftì si era schierato con Hitler.Le frizioni sul territorio tra
arabi, ebrei e truppe britanniche aumentano. La Gran Bretagna decide di sottoporre
il caso alle Nazioni Unite e annuncia un ritiro unilaterale per il maggio 1948. L’Onu
propone un piano di spartizione con i due Stati divisi in più zone e Gerusalemme
sotto il controllo internazionale. Il piano è rifiutato dagli arabi, ma accettato da BenGurion.
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Carta 4
Il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion proclama ufficialmente l’indipendenza di
Israele, alla vigilia del ritiro delle truppe britanniche. Il 15 maggio Libano, Siria,
Iraq, Transgiordania ed Egitto invadono il neonato Stato israeliano assediando le
truppe ebraiche nella zona costiera di Tel Aviv. Sfruttando il cessate il fuoco e le
divisioni nel fronte arabo, gli israeliani lanciano in agosto un’offensiva che sbaraglia
le truppe arabe. Nel gennaio 1949 tutti gli Stati arabi limitrofi sono costretti a
chiedere l’armistizio. Lo Stato ebraico riunisce ora tutta la fascia costiera (Gaza
esclusa, che rimane sotto controllo egiziano), la Galilea a nord, il Negev fino al Mar
Rosso e la parte occidentale di Gerusalemme. La Transgiordania, che nel 1950
diventa Giordania, si annette la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Lo Stato arabopalestinese previsto dall’Onu non viene alla luce.
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Carta 5
Nel giugno 1967 Israele lancia un attacco preventivo contro i vicini arabi: è la
cosiddetta guerra dei Sei giorni. Gli israeliani conquistano il Sinai e la striscia di
Gaza dall’Egitto, le alture del Golan dalla Siria e Gerusalemme Est e la
Cisgiordania dalla Giordania. Il territorio controllato da Israele raddoppia.
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Carta 6
Dei Territori occupati Israele annette formalmente solo Gerusalemme Est. Gli altri
territori diventano immediatamente oggetto di trattative: la restituzione della terra
in cambio della pace (carta 7). Ma senza successo. In un attentato palestinese 11
atleti israeliani vengono uccisi alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Nell’ottobre del
1973, dopo un iniziale successo, Egitto e Siria sono ancora una volta sconfitte nella
guerra dello Yom Kippur. Nel 1978 Egitto, Israele e Stati Uniti sottoscrivono gli
accordi di Camp David. Il Sinai torna all’Egitto, in cambio della pace tra Israele e il
suo più pericoloso avversario. Nel marzo del 1978 Israele invade una prima volta il
Sud del Libano. Interverrà ancora nel 1982, per poi ritirarsi nella <<fascia di
sicurezza>> che evacuerà solo nel 2000 sotto il governo Barak.
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Carta 7
Dopo la guerra dei Sei giorni il generale israeliano Ygal Allon avanza una proposta
di spartizione dei Territori occupati, in base a motivazioni prettamente strategiche.I
territori della Cisgiordania più intensamente abitati da arabi tornerebbero sotto
controllo giordano. Israele si annetterebbe Gerusalemme Est e dintorni, una fascia
di 20 chilometri lungo il Giordano, parte della striscia di Gaza, le alture del Golan e
la linea costiera da Eilat a Sharm Al-Sheikh. Il Sinai verrebbe restituito all’Egitto. In
Cisgiordania tornerebbero sotto controllo giordano due enclavi, la zona a nord di
Ramallah e la zona di Hebron, senza collegamento diretto con la Giordania. Gli
arabi rifiutano non solo il piano ma anche l’esistenza stessa di Israele (i tre <<no>>
di Khartoum del settembre 1967). Il piano fallisce ma resterà un punto di
riferimento per militari e politici israeliani e sarà riproposto in varie versioni. Nel
1997 sarà ripreso da Netanyahu con alcune modifiche.
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Carta 8
Gli anni Settanta e Ottanta vedono emergere un nazionalismo palestinese e non più
solo arabo-musulmano. Israele non annette altri territori ma comincia il fenomeno
dei coloni israeliani. Nel dicembre 1987 comincia la prima Intifada, la ribellione dei
palestinesi contro lo Stato israeliano. Nel dicembre 1988 su pressione del presidente
americano Ronald Reagan, il leader palestinese Yasser Arafat condanna ogni forma
di terrorismo e riconosce Israele. Nel 1989 cade il Muro di Berlino e due anni dopo
scompare l’Unione Sovietica, a lungo difensore degli interessi degli Stati arabi. Nel
1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, una coalizione internazionale
guidata dagli Stati Uniti interviene a difesa degli emirati arabi ricchi di petrolio e
sconfigge le truppe di Saddam Hussein, liberando il Kuwait. Molti paesi arabi si
schierano dalla parte del Kuwait e degli Stati Uniti, il leader palestinese Arafat
sceglie invece Saddam. Nell’ottobre del 1991 alla Conferenza di pace di Madrid
cominciano i negoziati di Siria e Giordania con Israele. Nel 1992 i laburisti di
Yitzhak Rabin vincono le elezioni in Israele e propongono un primo piano
territoriale che per la prima volta non è rivolto agli Stati arabi ma al popolo
palestinese.
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Carta 9
In contrapposizione al primo piano Rabin il nazionalista Ariel Sharon, all’epoca ex
capo di Stato maggiore e ex ministro della Difesa, presenta un proprio piano, in base
al quale verrebbero create zone di sovranità palestinese in Cisgiordania. Si tratta
delle zone e delle città della Cisgiordania maggiormente popolate da arabi, ma prive
di accesso alla Giordania e alle risorse idriche. L’intera Gaza passerebbe ai
palestinesi.
Nel 2000 Sharon, diventato intanto leader del Likud, presenta un nuovo piano,
stavolta in contrapposizione a Barak (carta 10).
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Carta 10
Nel gennaio 1993 cominciano a Oslo
negoziati segreti tra gli israeliani e l’Olp di
Arafat, che il 13 settembre portano alla
firma della Dichiarazione di princìpi di
Washington. Israele riconosce l’Olp e
concede limitata autonomia in cambio
della pace e della fine delle rivendicazioni
palestinesi sul territorio israeliano. Si
inaugura la politica della pace a piccoli
passi, rinviando le decisioni sulle
questioni più controverse. Il 4 maggio
1994 israeliani e palestinesi firmano al
Cairo un accordo con cui gli israeliani si
ritirano dal 60% della striscia di Gaza e
dalla città di Gerico: nasce quindi
l’Autorità nazionale palestinese. Il primo
luglio Arafat fa il suo ingresso trionfale a
Gaza come leader della neonata Autorità.
Il 28 settembre Arafat e Rabin firmano
l’accordo di Taba (conosciuto come Oslo
II) a Washington.
Nuove aree passano sotto il controllo
palestinese. La Cisgiordania viene divisa a
macchia di leopardo in tre tipi di zone: A)
a totale controllo palestinese (per lo più le
città arabe); B) a controllo misto israeliano-palestinese; C) a controllo israeliano. Il
26 ottobre Israele e Giordania firmano il trattato di pace. Il 4 novembre Rabin viene
assassinato. Nel maggio 1996 Binyamin Netanyahu vince le elezioni israeliane con
un programma elettorale contrario al processo di pace progettato da Rabin e Peres.
Nel gennaio 1997 Israele lascia l’80% della città di Hebron al controllo dell’Autorità
palestinese, ma a marzo cominciano i lavori per la costruzione del complesso ebraico
di Har Homa a Gerusalemme Est.
Il 4 gennaio 1999 Netanyahu e Arafat firmano gli accordi di Wye Plantation che
prevedono un ulteriore ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania. In un primo
momento congelato, il ritiro viene poi gradualmente realizzato, in seguito ad accordi
successivi, in base ai quali le aree sotto controllo totale palestinese e misto israelianopalestinese arrivano al 42% della Cisgiordania (13% zona palestinese, 26% zona
mista, 3% riserva naturale). Nel corso della campagna elettorale agli inizi del 2001,
Sharon ripropone un piano già avanzato nei mesi precedenti: il futuro Stato
palestinese comprenderebbe Gaza e il 42% della Cisgiordania già ceduto (unendo le
zone B e C) senza ulteriori concessioni.
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Carta 11
A maggio del 1999 in Israele Ehud Barak vince le
elezioni. L’8 novembre cominciano le trattative tra
Israele e palestinesi per lo status finale. Il 15 dicembre
Barak incontra il ministro degli Esteri siriano Farouk AlShara a Washington per il primo incontro ad alto livello
tra i dirigenti dei due paesi, ma i negoziati non portano
alla pace tra i due paesi, malgrado il ritiro israeliano dal
Libano.
L’inizio del 2000 vede il presidente Clinton fermamente
deciso ad arrivare alla pace in Medio Oriente prima della
fine del suo mandato. Fallito il tentativo di concludere
un trattato di pace tra Siria e Israele, si concentra sul
negoziato per lo status finale tra israeliani e palestinesi.
Il 25 luglio però il nuovo summit di Camp David finisce
senza accordo finale. Per la prima volta un premier
israeliano accetta di mettere in discussione il controllo di
Israele sulla totalità di Gerusalemme. Pur tra mille
acrobazie linguistiche, la bozza di accordo accettata da
Barak prevede una parziale amministrazione palestinese
su Gerusalemme Est. Ma per i palestinesi non basta,
anche per loro Gerusalemme è un tabù e Arafat rifiuta. Il
28 settembre Ariel Sharon, ora leader della destra del
Likud, visita il Monte del Tempio, luogo santo
musulmano, e i palestinesi si ribellano: comincia la
seconda Intifada. A dicembre Barak si dimette e Israele si prepara per le elezioni del
6 febbraio. A gennaio risale l’ultimo tentativo di Clinton di trovare un accordo. La
sua ultima proposta prevede il controllo da parte palestinese del 95% della
Cisgiordania e dell’intera Gaza, in cambio della rinuncia al diritto di tornare nei
luoghi d’origine in Israele da parte dei rifugiati palestinesi. A Gerusalemme i Luoghi
Santi ebraici rimarrebbero sotto controllo israeliano, quelli arabi sotto controllo
palestinese, la città sarebbe la capitale di entrambi gli Stati.
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Carta 12
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Carta 13
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Carta 14
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Carta 15
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1870-1880
1870
1882-1904
1882
1885
1895
1896
1897
1898
1899
1900
1901
1902
-I gruppi Hoveve' Zion (gli amanti di Sion) in Russia e in Romania
promuovono insediamenti agricoli in Terra d'Israele (allora chiamata
Palestina)
-Viene fondata a nord di Giaffa la scuola agricola "Mikve' Israel".
-Prima Alia' (immigrazione su vasta scala, tradotta letteralmente
ascesa), principalmente dall’Europa orientale, che comprende molti
membri dei Hoveve' Zion.
-Gli ebrei europei, soprattutto dall’Europa orientale iniziano a
emigrare in Palestina a causa del crescente antisemitismo.
-Viene pubblicato il libro "Autoemancipazione" di Leo Pinsker, nel
quale egli lancia un appello per la formazione di un centro nazionale
ebraico.
-Nathan Bimbaum conia il termine "Sionismo" in una rivista periodica
che propagava le idee del movimento Hoveve' Zion.
-La popolazione della Palestina raggiungeva circa 500.000 persone di
cui 47.000 ebrei che possedevano lo 0.5% del territorio.
-Theodor Herzl, nel suo libro “Lo Stato ebraico” propone la creazione
di uno stato ebraico o in Argentina o in Palestina asserendo che il
problema dell'antisemitismo può essere risolto solo in questo modo.
-29 agosto viene convocato il Primo Congresso Sionistico: adozione del
programma di Basilea, nel quale si fa appello alla fondazione di una
patria nazionale per gli Ebrei nella Terra d'Israele. Teodoro Herzl,
colui che ebbe l'iniziativa del congresso, scrive nel suo giornale: "A
Basilea ho fondato lo Stato Ebraico .... fra cinquant'anni tutti se ne
renderanno conto".
-Viene fondata l'Organizzazione Sionistica; Teodoro Herzl ne viene
eletto presidente.
-Secondo Congresso Sionistico: vengono poste le basi per la fondazione
del Fondo Ebraico Coloniale, che diventerà in seguito la Banca Anglo
Palestinese.
-L'imperatore Guglielmo II di Germania visita la Palestina e si incontra
con Teodoro Herzl anch'egli in visita nel Paese nello stesso tempo.
-Il Terzo Congresso Sionistico adotta uno statuto completo.
-Quarto Congresso Sionistico: vengono discusse in esso la persecuzione
dell'Ebraismo Rumeno e i problemi dei lavoratori Ebrei in Palestina.
-Quinto Congresso Sionistico: l'Organizzazione Sionistica istituisce il
Fondo Nazionale Ebraico (Keren Kayemet Leisrael) con lo scopo di
acquistare terreni in Terra d'Israele perché siano "eterno possesso del
popolo ebraico".
-Viene aperto a Gerusalemme l'ambulatorio Sha'are' Zedek (oggi un
moderno ospedale) per fornire servizi sanitari gratuiti alla popolazione
della città.
-Sesto Congresso Sionistico; viene discussa l'offerta del governo
britannico di un territorio in Uganda per l'insediamento ebraico; la
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1903
1904-1914
1904
1905
1907
1908
1909
1911
1913
1914
1916
1917
proposta provoca una grande divisione nel movimento e nonostante
fosse stata approvata dalla maggioranza dei delegati più tardi verrà
abbandonata.
-Viene fondata la Banca Anglo-Palestinese (oggi Bank Leumì) che
diviene il principale istituto finanziario dell'Yishuv (Comunità Ebraica
della Palestina).
-Iniziano a giungere gli immigrati della Seconda Alià, principalmente
dalla Russia e dalla Polonia; i nuovi arrivati fondano un certo numero
di nuovi insediamenti agricoli.
-Muore Teodoro Herzl, padre del Sionismo politico.
-Settimo Congresso Sionistico: David Wolfson viene eletto presidente
dell'Organizzazione Sionistica
-Ottavo Congresso Sionistico: viene presa la decisione di procedere con
il Sionismo politico (sforzi internazionali per ottenere un documento
ufficiale per gli Ebrei di Palestina) e con il Sionismo pratico
(l'insediamento) ; si prende atto del fatto che ambedue sono necessari e
che insieme formano un intero.
-Inizia la pubblicazione a Gerusalemme di Hazvi', il primo quotidiano
in ebraico.
-Viene aperta a Giaffa un ufficio della Organizzazione Sionistica.
-Viene costituita l'organizzazione Hashomer, che si assume la
responsabilità della sicurezza degli insediamenti ebraici.
-Nono Congresso Sionistico: per la prima volta vi prendono parte i
rappresentanti dei lavoratori Ebrei in Palestina.
-Nelle vicinanze di Giaffa viene fondata Tel-Aviv, la prima città
completamente ebraica dell'era moderna.
-A Degania, sulle rive del Lago Kinnere (Mare della Galilea o di
Tiberiade), viene fondato dai giovani pionieri Ebrei il primo Kibbutz,
combinando l'insediamento agricolo con un regime di vita collettivo.
-Decimo Congresso Sionistico: Otto Warburg è eletto presidente
dell'Organizzazione Sionistica.
-Undicesimo Congresso Sionistico: viene presa la decisione di fondare
l'Universita' Ebraica di Gerusalemme.
-Con lo scoppio della I guerra mondiale, l’Inghilterra promette
l’indipendenza a tutti gli stati arabi che combatteranno l’Impero
ottomano.
-La Gran Bretagna, la Francia e la Russia firmano il trattato di SykesPicot secondo il quale la Siria e il Libano devono sottostare al controllo
francese mentre la Giordania, la Palestina e l’Irak a quello inglese.
-400 anni di dominio ottomano giungono al termine con la conquista
britannica; il generale inglese Allemby fa la sua entrata a
Gerusalemme.
-2 novembre Con la “dichiarazione Balfour” il governo inglese si
dichiara disposto ad aiutare i sionisti ad istituire un “focolare
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nazionale”di ebrei in Palestina. Al momento della dichiarazione la
popolazione totale della Palestina è di 700.000 persone: 574.000
mussulmani, 74.000 cristiani e 56.000 ebrei.
-Soprattutto grazie agli sforzi di Vladimir (Zeev) Jabotinsky, viene
costituita la Legione Ebraica, una unità militare di volontari Ebrei che
combattono per la liberazione di Erez Israel(terra d’Isaele) dal dominio
turco, nell'ambito dell'esercito britannico.
-Primo incontro di Chaim Weizmann (allora Capo della Commissione
Sionistica inviato dalla Gran Bretagna in Palestina e successivamente
primo Presidente dello Stato di Israele), con l'Emiro Feisal, capo del
movimento nazionalista arabo.
-Weizmann e l'Emiro Feisal sottoscrivono un accordo di stretta
collaborazione fra i loro movimenti nazionali; l'accordo viene in seguito
ripudiato dagli Arabi nazionalisti.
-L’Inghilterra prende il mandato per la Palestina e decide di dare la
priorità agli interessi sionisti. Inizia l’immigrazione massiccia di ebrei.
-Scoppia un'insurrezione araba in seguito a una disputa sui diritti di
culto al Muro Occidentale di Gerusalemme (il Muro del Pianto
dell'ebraismo).
-Il capo spirituale della comunità islamica chiama alla guerra santa
contro gli ebrei e le autorità britanniche. Gli ebrei di Palestina
cominciano a formare reparti armati e da entrambe le parti
cominciano gli attentati terroristici.
-Le persecuzioni e poi la Shoah: il genocidio degli ebrei europei e di
altri ad opera dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale danno
forza al movimento sionista.
-In Palestina continuano ad arrivare rifugiati in fuga dal nazismo.
-La spinta per una nazione ebraica nella regione unifica l'ebraismo
mondiale.
-L'immigrazione ebraica in Palestina, cominciata nel diciannovesimo
secolo, cresce grandemente negli anni Trenta, alimentata dai fuggitivi
dalle persecuzioni naziste. Contemporaneamente è forte anche
l'immigrazione araba da Siria e Libano.
-L'opposizione araba all'immigrazione ebraica diventa violenta.
-Il governo inglese propone la divisione del territorio con la creazione a
nord-ovest di uno stato ebraico, l’unione della parte maggiore del paese
alla Transgiordania e una zona comprendente Gerusalemme e Jaffa
sotto il dominio britannico. Il piano viene rifiutato da entrambe le
parti.
-A seguito di una nuova sollevazione della popolazione araba, alcuni
loro leader politici vengono deportati.
-Il governo inglese dichiara di voler la convivenza pacifica tra arabi ed
ebrei e di non voler creare uno stato ebraico contro la volontà della
popolazione araba; limita l’immigrazione ebraica e l’acquisto di terre
da parte di ebrei.
27
1946
1947
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-Si intensifica l’immigrazione di ebrei.
-22 luglio Attentato dell’Irgun Zvevi Leumì, comandata da Menachen
Begin,
all’albergo King David, quartier generale dell’amministrazione
britannica(che conteneva la documentazione dell’agenzia ebraica,
sequestrata dagli inglesi, che metteva in pericolo migliaia di persone;
l’albergo fu avvisato preventivamente).
-29 novembre L’ONU propone di dividere la Palestina in uno stato
ebraico e in uno arabo, mentre a Gerusalemme dovrebbe essere
riconosciuto lo status internazionale(risoluzione 181). La risoluzione
viene approvata: solo gli stati arabi votano contro.
-dicembre L’Hagana (sionisti) sviluppa un offensiva la cui tecnica
consiste nell’irruzione improvvisa nei villaggi palestinesi, generalmente
di notte, e il ritiro dopo aver ucciso alcune persone e fatto saltare in
aria qualche abitazione.
-febbraio/marzo L’Hagana blocca tutte le strade che portano ai
territori previsti dal piano di spartizione per lo stato ebraico e
cominciano ad occupare i villaggi palestinesi vicini alle colonie
ebraiche; sostituiscono le truppe britanniche che stanno andando via.
Molti villaggi vengono distrutti.
-9 aprile Strage degli abitanti del villaggio di Deir Yassin vicino a
Gerusalemme.Vengono uccisi 254 palestinesi
-19 aprile Viene conquistata la città di Tiberiade. Gli abitanti sono
espulsi. -21 aprile Si intensificano i bombardamenti su Haifa, centro
industriale importante. L’attacco finale alla città è tra il 22 e il 23. Le
forze sioniste bloccano tutte le strade tranne quelle che vanno verso il
porto, mentre radio Pagana incita in arabo la popolazione a mettersi in
salvo.
-27 aprile Vengono distrutti i villaggi palestinesi intorno a Giaffa.
-28 aprile Comincia l’espulsione degli abitanti dalla Galilea orientale.
-30 aprile Occupati i quartieri occidentali di Gerusalemme.
-11 maggio Occupata Bisan, espulsi gli abitanti.
14 maggio Cade Acri ,ultima città della Galilea occidentale. Occupata
Giaffa, espulsi gli abitanti. Attaccata la città vecchia di Gerrusalemme.
-14 maggio Il giorno prima della fine del mandato inglese in
medioriente Ben Gurion proclama lo stato d’Israele(77.2% del
territorio,il 20.7% in più rispetto al piano ONU) con capitale Tel-Aviv
.Scoppia la guerra: inizia l’emigrazione palestinese verso la
Cisgiordania , la striscia di Gaza e verso i paesi arabi che creano dei
campi profughi apposta. Altri ebrei dai paesi arabi e dall’Europa postbellica sono pronti ad arrivare in Israele. Israele è riconosciuta
immediatamente dagli Stati Uniti e l'URSS, seguita dagli altri paesi.
-15 Maggio La Guerra d’Indipendenza: gli eserciti d’Egitto, Siria,
Giordania, Libano e un contingente dall’ Iraq invade il nuovo Stato.In
15 mesi di combattimenti intensi, tutti gli invasori sono respinti. Israele
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è vittorioso e annette i territori di Galilea a nord e a sud si espande sino
a Negev. Gerusalemme è divisa fra Giordania e Israele.
-Circa 700.000 Palestinesi emigrano dalla Palestina nei campi profughi
nei paesi arabi.
-Viene fondata la IDF (forze di difesa di Israele), incorporando tutte le
organizzazioni di difesa; nasce così l'esercito di Israele chiamato
"Zhaal".
-La guerra termina con accordi d’Israele rispettivamente con Egitto,
Giordania, Libano e Siria. Israele occuperà la parte occidentale di
Gerusalemme, mentre la città vecchia e la parte orientale resteranno
alla Giordania.
-La popolazione ebraica ammonta a 625.000 persone, il 33% degli
abitanti. La popolazione palestinese viene stimata in 1.380.000
persone. Di questi 860.000 vivevano nei territori occupati da Israele
dove poi ne rimarranno solo 160.000.
-25 gennaio Prima elezione del parlamento israeliano. David BenGurion è eletto Primo Ministro. Chaim Weizmann viene eletto primo
Presidente. Gerusalemme viene divisa in due parti: ad oriente quella
giordana e ad occidente quella israeliana.
-11 maggio Israele viene accettata come 59° membro dell’ONU.
-Operazione Tappeto Magico - comincia l’aliya di 55.000 ebrei dallo
Yemen.
-Le Operazioni "Ezrà" e "Nehemiah", portano ebrei iracheni (120.000 ) in
Israele.
-Il congresso sionista si riunisce a Gerusalemme per la prima volta.
-Nuove elezioni ad Israele, Yzhak Ben-Zvi è eletto presidente.
-Israele partecipa per la prima volta ai giochi olimpici (Helsinki).
-La situazione di sicurezza ai confini tra Israele e la Giordania
peggiorano, si registrano molti incidenti.
-Moshe Dayan è nominato Capo delle forze armate dell'IDF.
-Il Primo Ministro David Ben-Gurion va in pensione nel suo kibbutz,
Sde- Boker.
-Moshe Sharett diventa Primo Ministro.
-L'Egitto ferma uno spedizioniere israeliano, Batta Galim, sul Canale di
Suez, in contrasto con l'accordo di armistizio.
-Immigrazione degli ebrei dall' Africa del Nord aumenta con il
crescendo dell’antisemitismo in quei paesi.
-Un attacco di terroristi infiltratisi dalla Giordania a Ma'ale Akrabim
nel Negev settentrionale, provoca la morte di 11 passeggeri a bordo di
un autobus israeliano.
-Elezioni della Terza Knesset; David Ben-Gurion diventa nuovamente
Primo Ministro.
-Il Primo Ministro di Birmania visita ufficialmente Israele, è il primo
leader straniero a visitare il paese.
-Nasser (Presidente egiziano) nazionalizza il canale di Suez. Vuole
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l’unità del mondo arabo sostenendo quindi anche la causa palestinese.
-Israele, con l’appoggio e la spinta di Francia e Inghilterra, attacca
l’Egitto e occupa il Sinai e la striscia di Gaza.
-Le Nazioni Unite, gli Usa e l'Urss premono e ottengono il ritiro di
Israele. -Dopo il conflitto emigrano nel Paese 400.000 ebrei
marocchini, algerini, tunisini ed egiziani.
-Un soldato dell’esercito israeliano apre il fuoco sugli arabi del
villaggio di Kfar Kassem colpevoli di non aver rispettato il coprifuoco.
Ne uccide 49.
-Israele si assicura il passaggio gratis per la sue spedizioni attraverso il
Canale di Suez.
-Aumenta l’immigrazione da paesi europei e Orientali - specialmente
dalla Polonia e Ungheria - così come dall’Egitto.
-Nel Kuait viene fondata “Fatah”, il movimento per la liberazione della
Palestina di cui un fondatore è Yassir Arafat.
-Egitto e Siria formano l’Unione delle Repubbliche Arabe.
-La popolazione di Israele raggiunge i due milioni.
-Ad Israele muore il Presidente e si dimette il Primo Ministro. Salgono
al potere rispettivamente Zalman Shazar e Levi Eshkol.
-Viene fondata l’OLP,organizzazione per la liberazione della Palestina
che svolge la sua attività in Giordania.Comprende gruppi di guerriglia
e organizzazioni di tipo sindacale.Elabora il concetto di stato
democratico, cioè plurietnico e pluriconfessionale.
-Yitzhak Rabin è scelto come Capo delle forze Armate israeliane.
-La Coca Cola annuncia il suo progetto di aprire una fabbrica in
Israele nonostante il boicottaggio arabo.
-Arafat diventa Presidente dell’OLP.
-Viene formato un governo israeliano di unità nazionale per controllare
l’aumento delle forze militari arabe sui confini del paese.
-5 giugno Dopo che le truppe Onu lasciano il Sinai, l'Egitto chiude il
golfo di Aqaba alle navi di Israele, che risponde lanciando un attacco.
Inizia la guerra dei 6 giorni. Israele, col sostegno americano, attacca
Egitto, Giordania e Siria occupando la striscia di Gaza e il Sinai
all’Egitto, Gerusalemme ovest e la Cisgiordania alla Giordania, e le
alture del Golan alla Siria. Vengono distrutte le case dei palestinesi,
requisite le loro terre, sequestrate le fonti d’acqua dalla striscia di
Gaza, vengono cacciate circa 500.000 persone. Tra la popolazione si
registra una forma di resistenza passiva detta sumud (volontà di restare
aggrappati alla propria terra a qualunque costo).
-Nei territori occupati vengono costruiti insediamenti.
-Il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotta la risoluzione 242, che chiede
il ritiro israeliano dai territori occupati ma non specifica quanto del
territorio debba essere restituito.
-L’OLP formula un documento che nega l’esistenza dello stato
d’Israele.
30
-Un aereo viene dirottato dagli arabi da Roma ad Algeri.
-Mapai, Ahdut Ha'avoda e Rafi si uniscono per formare il Partito
Laburista di Israele.
1969/1970 -Dalle basi in Giordania i feddayn (partigiani arabi) compiono
incursioni in Palestina scontrandosi con l’esercito di occupazione.
-Muore il Primo Ministro israeliano, viene eletto Golda Meir in sua
sostituzione.
-Aerei Phantom acquistati dagli Stati Uniti arrivano in Israele.
1970
-settembre Una parte dell’OLP decide la creazione dello Stato
palestinese. Inizia la guerra degli sceicchi locali contro i palestinesi. La
guerra culmina nel settembre nero quando, con l’intervento
dell’esercito israeliano, 20.000 palestinesi vengono uccisi e gli altri si
rifugiano in Libano. Anche L’OLP sposta la propria sede in Libano.
-La popolazione di Israele raggiunge i tre milioni.
-Il console israeliano ad Istambul viene ucciso da terroristi.
1971
-Un nuovo movimento di protesta israeliano nasce sotto il nome
"Pantere nere", è un movimento di ebrei provenienti dall’Africa del nord
e di origini orientali.
1972
-settembre Alle Olimpiadi di Monaco un terrorista arabo uccide 11
atleti israeliani.
-Raids
israeliani in Libano.
1972/73
-Nasce il partito israeliano di destra Likud dalla fusione di Liberali ed
1973
altri movimenti.
-Muore David Ben Gurion e viene ucciso l’addetto israeliano ai rapporti
militari a Washington.
-Egitto e Siria lanciano un attacco coordinato a sorpresa attraverso il
canale di Suez e le alture del Golan, durante la festività ebraica di Yom
Kippur. Israele contrattacca e si impadronisce di ulteriori territori
prima del cessate il fuoco sostenuto dall'Onu.
-Il Consiglio di sicurezza adotta la risoluzione 338, che chiede di
mettere immediatamente in pratica la risoluzione 242 sul ritiro
israeliano.
-Golda Meir forma il nuovo governo.
1974
-La commissione d’inchiesta israeliana per capire le responsabilità
dell’impreparazione dell’esercito israeliano riconosce colpevoli i capi
delle forze armate e non il governo il cui Primo Ministro, sottoposto a
forti pressioni, si dimette.
-Yitzhak Rabin diventa Primo Ministro.
-Vengono firmati accordi tra Israele e Siria e tra Israele ed Egitto.
-Nasce un partito israeliano che crede nella Grande Israele.
-L’OLP viene riconosciuto dalla lega araba “unico rappresentante
legittimo“ del popolo arabo della Palestina.
-L’ONU ammette l’OLP come osservatore.
-L’ONU associa il Sionismo al Razzismo.
1975
-L’Egitto riapre il canale di Suez.
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1977
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1980
1981
1982
-In Libano la destra vuole disarmare i palestinesi, mentre anche la
sinistra,,solidale con loro, si arma.
-Il Primo Ministro Rabin si dimette per lo scandalo che vede coinvolta
la moglie.
-3 luglio Reparti speciali israeliani liberano 103 passeggeri ostaggio di
terroristi tedeschi e arabi con un'azione all'aeroporto di Entebbe,
Uganda.
-Nuove elezioni in Israele con le quali dopo 20 anni di governo
laburista, sale al potere il Likud e il Primo Ministro diventa Menachem
Begin.
-Il Presidente egiziano Sadat visita Israele rompendo il rifiuto arabo di
riconoscere Israele.
-Un autobus della linea Haifa-Tel Aviv viene attaccato da terroristi, 35
passeggeri vengono uccisi.
-Beghin e Sadat ricevono il Nobel per la pace.
-Azioni militari israeliane contro le basi terroristiche nel Libano.
-L’ONU ordina l’immediato ritiro delle truppe israeliane dal Libano.
-Yitzhak Navon diventa il quinto presidente di Israele.
-Il presidente egiziano Anwar Sadat e il primo ministro israeliano
Menachem Begin firmano il 26 marzo a Washington gli accordi di
Camp David. E' il primo trattato di pace firmato tra Israele e uno degli
avversari arabi. Israele accetta di restituire il Sinai all'Egitto entro tre
anni. I progetti di autogoverno palestinese sulla Cisgiordania e la
striscia di Gaza falliscono quando i leader palestinesi si rifiutano di
presenziare ai colloqui israelo-egiziani.
Viene aperta l’ambasciata israeliana al Cairo.
L’aviazione israeliana distrugge il reattore nucleare iracheno a
Baghdad.
-Viene riconfermato alle elezioni Begin.
-Israele stringe legami ancor più forti con gli USA e annette le alture del
Golan al proprio stato.
-Assassinio di Sadat.
-Viene ucciso l’ambasciatore israeliano a Gerusalemme.
-Israele completa il ritiro dal Sinai nonostante molte proteste della
popolazione che si era insediata in quelle zone.
-La sede centrale di IDF in Libano, che si trova a Tiro, è distrutta da
una bomba provocando 75 morti.
-Attentato alla sinagoga di Roma.
-giugno L’esercito israeliano e i falangisti cristiani del Libano uccidono
più di 3.000 persone, in gran parte donne e bambini a Sabra e a
Chatila in Libano il 26 e 27 settembre.
-Il Ministro della difesa Sharon è considerato il responsabile dei
massacri.
-I paesi arabi tacciono e non condannano né gli israeliani né i
falangisti cristiani !
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1984
1985
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1988
1990
-La popolazione di Israele raggiunge i quattro milioni.
-Un attivista di un associazione di pace viene assassinato da estremisti
di destra ebrei.
-Beghin si dimette e il suo posto è preso da Shamir.
-Chaim Herzog viene eletto sesto presidente.
-Viene scoperto un movimento clandestino ebreo in Samaria e in
Giudea, i suoi componenti vengono processati, condannati a 8 anni e
poi gli viene concesso il condono dal Presidente israeliano.
-Si forma un governo di unità nazionale con Primi Ministri Shimon
Peres nel primo periodo e Shamir nel secondo.
L’Operazione Moses porta 7.000 ebrei delle comunità d’Etiopia in
Israele.
-Viene ucciso il responsabile amministrativo dell’ambasciata israeliana
al Cairo.
-Un soldato egiziano apre il fuoco su un gruppo di turisti ebrei
uccidendone 7.
-due attentati all’aereopotro romano Fiumicino e sequeatro dell’Achille
Lauro.
-ottobre Gli israeliani bombardano il quartier generale dell’OLP a
Tunisi.70 morti.
-In Giudea, Samaria e nella striscia di Gaza (zone amministrate da
Israele ma abitate prevalentemente da palestinesi) scoppia l’intifada
(scrollare il giogo), ribellione civile palestinese che durerà per sette anni
nonostante le repressioni cruente.
-22 dicembre L’ONU deplora gli atti israeliani che violano i diritti del
popolo palestinese.
-Viene aperto un consolato israeliano a Mosca.
-L’OLP riconosce, seppur indirettamente Israele, Arafat dichiara di
rinunciare al terrorismo: il risultato è che gli USA stabiliscono un
dialogo con l’OLP.
-A Madrid iniziano trattative di pace per il Medio Oriente sostenute da
URSS e USA alle quali partecipano Israele, Siria, Egitto,
Libano,Giordania e una delegazione dei Palestinesi che formalmente
non può essere identificata con l’OLP .
-Centinaia di ettari di foreste vengono distrutti da incendi dolosi;
colpevoli gli attivisti dell'intifada.
-31 gennaio Guerra civile in Libano aggravata da uno scontro interno
alle armate cristiane.
-22 maggio L’Irak invade il Kuait contro il quale rivendica il possesso
di un’area ricca di petrolio accusandolo di fare una politica di ribasso
del prezzo del petrolio. L’ONU,pochi giorni dopo stabilisce (astenuti
Yemen e Cuba) un embargo commerciale,finanziario e militare.Aerei
americani con l’appoggio del governo saudita sono inviati in Arabia
Saudita. Saddam Husayn dichiara ugualmente l’annessione del Kuait e
invita Arabi e mussulmani a liberare La Mecca. I Palestinesi ne
33
1991
1992
1993
appoggiano la causa.
-10 agosto La Lega araba in un summit al Cairo a stretta maggioranza
(paesi del Golfo, Egitto, Siria e Marocco) decide di condannare l’Irak e
di inviare un contingente militare in Arabia. Saddam vincola il proprio
ritiro al ritiro israeliano dai territori occupati e al ritiro siriano dal
Libano.
-ottobre Gravi stragi di palestinesi tra cui la spianata delle moschee ad
opera di Sharon.
-29 novembre L’ONU (con voto contrario di Cuba e Yemen e
astensione della Cina) autorizza l’uso della forza per ristabilire la
sovranità del Kuait a partire dal 15 gennaio.
-Israele è bombardata dall’Iraq con missili Scud .Operazione Solomon la maggior parte degli ebrei rimasti in Etiopia, 15.000, vengono portati
in Israele con un ponte aereo.
-La popolazione di Israele raggiunge i cinque milioni.
-6 marzo Gorge Bush prende contatti con il governo conservatore di
Yitzak Shamir e con re Hussein di Girdania per trovare una soluzione
al problema palestinese. Il primo mostra caute aperture a un dialogo
con la Siria e con gli Arabi.Il secondo propone contatti diretti fra la
Giordania e Israele.
-31 ottobre Iniziano i negoziati a Madrid fra Israeliani e,
separatamente, Siriani, Libanesi, Giordani/Palestinesi che durano fino
all’estate 1992.
-16 dicembre L’ONU annulla la decisione che associa il Sionismo al
Razzismo.
-dicembre Espulsi da Israele 415 Palestinesi accusati di appartenere
al gruppo terroristico Hamas.
-23 giugno Il partito laburista vince le elezioni in Israele e Rabin (che
ha guidato l’esercito israeliano durante la guerra dei 6 giorni),
diventato Primo Ministro dichiara come obbiettivo primario la
creazione di un regime autonomo nei territori occupati.
-Cessa l’insediamento dei coloni nella striscia di Gaza e in
Cisgiordania. Seguono rappresaglie israeliane nel sud del Libano.
-Operazione Din-Veheshbon: dopo continui attacchi di Katyusha sulle
località di confine a nord di Israele, l' IDF attacca basi di Hizbullah nel
Libano meridionale.
-24 marzo Ezer Weizmar è eletto presidente di Israele succedendo a
Chaim Herzog.
-14 aprile Israele accetta la risoluzione dell’ONU che impone il suo
ritiro da Cisgiordania e Gaza.
-13 settembre Accordo(accordo di Oslo) tra Israele(Rabin) e
l’OLP(Arafat) per la creazione di una zona autonoma nella striscia di
Gaza e a Gerico con il ritiro delle forze israeliane entro la primavera.
L’accordo trova ostacoli tra i coloni, nella destra israeliana e all’interno
34
1994
1995
1996
1997
dell’OLP. Si placa l’intifada.
-L’OLP annuncia il riconoscimento di Israele.
-dicembre Riconciliazione tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico.
-gennaio/febbraio Proseguono al Cairo i contatti per il
perfezionamento dell’accordo tra Israele(Shimon Peres) e l’Olp.
-Aumenta la tensione con il moltiplicarsi di atti terroristici da parte di
estremisti israeliani e di componenti di Hamas (25 febbraio, un ebreo
estremista, Baruch Goldshtain, uccide 29 musulmani in preghiera a
Hebron nella Grotta di Machpellà -tomba di Abramo-; un kamikaze
palestinese si fa esplodere su un autobus a Tel-Aviv uccidendo 24
persone).
-4 maggio Al Cairo vengono firmati gli accordi sulle modalità di
applicazione dell’autonomia palestinese.
-26 ottobre Firma del trattato di pace tra Israele e Giordania.
Rabin, Peres e Arafat ricevono il premio Nobel per la pace a Stoccolma.
-25 maggio Accordo tra Israele e Siria per la smilitarizzazione delle
alture del Golan.
-28 settembre A Washinton Arafat e Rabin firmanio l’accordo per la
progressiva estensione dell’autonomia a 7 città della Cisgiordania.
-4 novembre A Tel Aviv, durante una manifestazione per la pace, viene
assassinato da un estremista ebreo Yitzhak Rabin. Il giorno dopo
Shimon Peres viene nominato Primo Ministro.
-20 gennaio Prime elezioni nelle Regioni autonome palestinesi. Arafat
viene eletto con l’88,1% dei voti presidente.
-Secondo l’accordo, uno dei primi atti del nuovo Consiglio
dell’Autonomia dovrà essere la cancellazione dalla Costituzione degli
articoli che prevedono la distruzione dello stato d’Israele.
-Una serie di attacchi terroristici di kamikaze del movimento Hamas a
Gerusalemme, Ashkelon e Tel Aviv provocano la morte di 60 israeliani.
-Un'operazione militare viene svolta in Libano per controattaccare i
missili Katiusha lanciati su Kiriat Shmonà e Galilea dai guerriglieri
palestinesi in Libano.
-29 maggio Con l’avanzata dei partiti religiosi alle elezioni in Israele
vince di stretta misura il leader del Likud, Netaniahu, che afferma di
voler continuare il processo di pace modificando tempi e priorità.
L’ONU definisce illegale l’imposizione della giurisdizione israeliana su
Gerusalemme est.
-Il governo israeliano provoca la reazione rabbiosa degli arabi
mettendo fine al blocco durato quattro anni della costruzione di
insediamenti nei territori ocucpati.
-15 gennaio Nuovo accordo tra Israele e l’Autorirà palestinese per il
ritiro dell’esercito israeliano de Hebron e dalla Cisgiordania fra il
marzo 1997 e l’agosto1998.
-marzo L’accordo entra in crisi per la decisione del governo israeliano
di costruire un quartiere ebraico a Gerusalemme est e per lo sventato
35
1998
1999
tentativo da parte di due agenti segreti israeliani di uccidere un
estremista arabo.Le difficoltà si acuiscono dopo alcuni attentati suicidi
a Gerusalemme. Anche la liberazione del capo spirituale
dell’organizzazione integralista Hamas da parte di Israele non ha
effetti significativi.
-Incontri separati alla Casa Bianca tra gli Usa e da una parte Yasser
Arafat e dall'altra Benjamin Netanyahu non producono grandi
progressi. Arafat chiede che Israele rispetti l'accordo di cessione della
Cisgiordania ai palestinesi; Netanyahu chiede più garanzie sulla
sicurezza di Israele.
Dopo un incontro con l'inviato Usa, Israele resta ferma: nessun altro
soldato sarà ritirato dalla Cisgiordania finché i palestinesi non
daranno garanzie sulla sicurezza degli israeliani. L'impasse del
processo di pace, durata un anno, continua.
-14 maggio Celebrazione del 50°anniversario della nascita di Israele.
-luglio Gli integralisti chiudono la scuola alle ragazze e eliminano i
centri professionali femminili.
-24 ottobre Accordo, firmato negli USA sotto la pressione di Clinton e
del re Hussain, che prevede il ritiro israeliano dal 13% del territorio
della Cisgiordania e la liberazione di 700 prigionieri palestinesi.
-14 dicembre Il Consiglio dell’OLP vota la cancellazione dal proprio
statuto della clausola che prevede la distruzione dello stato di Israele,
in occasione della visita del presidente degli USA Bill Clinton.
-21 dicembre Crisi del governo d’Israele, si va alle elezioni anticipate.
-7 febbraio Muore re Hussain di Giordania e gli succede il figlio
Abdullah.
-17 maggio Elezioni in Israele, vince di larga misura il candidato
laburista Ehdu Barak. I primi punti del suo programma sono : trattare
il ritiro di Israele dal Libano meridionale e dare attuazione agli accordi
di Way Plantation.Al suo trionfo non corrisponde l’affermazione del
suo partito,così è costretto a formare una coalizione di governo ampia
che esclude il Likud e comprende il partito di ortodosso Shas.
-4 settembre Con la mediazione del presidente egiziano Mubarak
,viene firmato l’accordo di Sharem ha Sheik fra Israele e Autorità
palestinesi per il ritiro israeliano da una parte dei territori occupati in
Cisgiordania, già deciso a Way Plantation.
-Viene decisa la costruzione di una moschea di fronte alla Basilica
dell’Annunciazione a Nazareth, con reazioni polemiche da parte del
Vaticano.
-L’ Alta Corte israeliana vieta l’uso della tortura da parte dei servizi
segreti negli interrogatori dei prigionieri sospettati di attività
terroristiche.
-5 dicembre Iniziano i negoziati di pace tra Israele e Siria, ma si
bloccano sulla questione del ritiro israeliano dal Golan. Le trattative
vengono interrotte.
36
2000
2001
-21 marzo Papa Giovanni Paolo II atterra a Tel-Aviv.Visita i vari capi
di governo fra cui incontra Arafat a Betlemme.Chiede perdono per gli
atti di antisemitismo compiuti dalla Chiesa nei secoli.
-24 maggio L’esercito di Israele abbandona il Libano.
-11/25 luglio A Camp David si svolge un summit tra Clinton,Barak e
Arafat che si conclude senza il raggiungimento di un accordo finale.
Durante le feste di Rosh Hashannà e Kippur nei territori
dell'Autonomia Palestinese scoppia una nuova ondata di violenza che
provoca centinaia di morti fra i palestinesi e qualche decina tra gli
israeliani.
-Clinton invita con l’aiuto di re Abdallah e di Mubarak Arafat e Barak
a rincontrarsi a Sharem ha Sheik, ma il tutto si conclude con un
semplice cessate il fuoco che non viene rispettato.
-9 dicembre Barak dà le dimissioni da Primo Ministro. Si ripropone
come candidato del partito laburista per le elezioni del 6 febbraio
2001.
-6 febbraio Sharon, leader del Likud succede a Barak con ampia
maggioranza di voti. L’affluenza alle urne è stata particolarmente
bassa.
37
Antisemitismo: avversione nei confronti delle popolazioni semite.
Antisionismo: avversione nei confronti del movimento sionista e per estensione nei
confronti degli ebrei.
Arabo: dell’Arabia o degli arabi, intesi come tutti i popoli di lingua araba, viventi in
qualsiasi regione dell’Asia o dell’Africa, anche non musulmani, appartenenti al
gruppo meridionale semitico.
Etimo: dall’arabo Arab, forse nomade.
Ashkenazita: nome dato agli ebrei originari dell’Europa centrale ed orientale.
Etimo: dall’ebraico Ashkenaz, Germania.
Camitico: appartenente alla grande famiglia etnica dei camiti, che comprende
popolazioni non negridi dell’Africa nord - orientale.
Etimo: dal nome di Cam, figlio di Noè, capostipite, secondo la Bibbia, delle stirpi
africane.
Colomba: fautore di una linea morbida, aperta a trattative nella risoluzione di
questioni e controversie internazionali.
Ebreo: appartenente agli ebrei, popolo di antica civiltà, costituitosi in unità
nazionale e religiosa nella seconda metà del secondo millennio a. C., con lo
stanziamento in Palestina, donde poi si diffuse in tutto il mondo e dove oggi si è
ricostituito come unità etnica e politica.
Etimo: dal greco tardo Hebraios, risalente al nome del presunto capostipite Eber.
Embargo: divieto di esportazione di materiale strategico in paesi belligeranti.
Etimo: dallo spagnolo Embarcare, impedire.
Falco: sostenitore della maniera forte ed intransigente, non escluso il conflitto
militare, per la soluzione delle controversie internazionali.
Ghetto: nel passato, quartiere cittadino dimora, più o meno rigorosamente coattiva,
degli ebrei.
Etimo: dal veneziano Ghéto, fonderia su un’isoletta dove nel sec. XVI furono
confinati gli ebrei.
Integralismo: indirizzo ideologico che, partendo dal presupposto della assoluta
validità dei propri principi, mira a stabilire la propria egemonia in campo religioso,
politico e culturale, rifiutando qualsiasi alleanza o collaborazione con partiti o
movimenti di ispirazione ideologica diversa.
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Intifada: la rivolta, iniziatasi nel 1988, degli arabi palestinesi all’interno dello Stato
d’Israele e nei territori da esso occupati.
Etimo: dall’arabo Intifad’ah, propriamente “sollevazione”.
Israele: famiglia di Dio, popolo eletto.
Etimo: dall’arabo Usrat Ilah.
Israeliano: cittadino dell’odierno Stato d’Israele.
Kibbutz: colonia agricola israeliana a struttura collettivistica. Tale struttura prevede
l’assoluta uguaglianza di tutti i membri, la rotazione delle mansioni e l’esclusione
dell’uso del denaro all’interno.
Etimo: dall’ebraico Qibbus, riunione, assemblea.
Nazionalizzazione: assunzione provvisoria o definitiva della proprietà del controllo
o della gestione di servizi e mezzi di produzione da parte dello Stato.
O. L. P.: (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Organizzazione fondata
a Gerusalemme nel 1964 da Ahmed al - Shuqueiri allo scopo di coordinare, sul
piano politico e militare, le attività dei gruppi guerriglieri contro la presenza
israeliana e al fine di costituire uno stato nazionale palestinese.
Palestina: regione dell’Asia occidentale, compresa tra i rilievi del Libano e
dell’Antilibano a Nord, il Mediterraneo a Ovest, il Negev a Sud, il deserto siriaco a
Est. Comprende le regioni storiche della Galilea, della Giudea, della Samaria.
Palestinese: abitante e nativo arabo della Palestina.
Pogrom: sommossa sanguinosa contro gli ebrei, considerati, (talvolta col consenso
delle autorità), capri espiatori del malcontento popolare.
Profugo: costretto ad abbandonare la propria terra, il proprio Paese, la patria, in
seguito ad eventi bellici, a persecuzioni o cataclismi.
Profugo Palestinese: colui che, risiedendo in Palestina da almeno due anni prima
del 1948, ha perso, a causa del conflitto arabo- israeliano, la casa ed i mezzi di
sussistenza, divenendo profugo in uno dei paesi in cui l’U.N.R.W.A. offre assistenza,
(Giordania, Libano, Siria, West Bank e Gaza).
Etimo: dal latino profugere, composto di pro e fugere, fuggire.
Rifugiato: individuo che, in seguito alle vicende del proprio paese, ha ottenuto asilo
politico in un paese straniero.
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Sefardita: nome dato agli ebrei di Spagna fino al sec. XV ed ai loro discendenti
attuali.
Etimo: dall’ebraico Sefarad, Spagna.
Semita: appartenente ad una popolazione del gruppo etnico - linguistico dei semiti,
tradizionalmente associato a Sem, figlio di Noè secondo la Genesi, comprendente in
antico gli assiri ed i babilonesi, i fenici e gli israeliti, sopravvivente oggi solo con gli
arabi e gli ebrei.
Sionismo: movimento politico fondato alla fine del XIX secolo, il cui nome si origina
dall’opera dello scrittore N. Birmbaum (1864- 1937), che propugnò la creazione di
uno stato confessionale ebraico in Palestina dove l’afflusso di ebrei aveva già portato
alla fondazione delle prime comunità ebraiche.
Etimo: derivato di Sion, dall’ebraico Siyon, nome di Gerusalemme.
U.N.R.W.A. : United Nations Relief and Work Agency, agenzia dell’ONU per il
soccorso e l’assistenza ai profughi.
Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, Enciclopedia Zanichelli 1996
40
Incontri
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Prof. Lucio Saviani
19 Gennaio 2001
Saviani: Con gli incontri di quest’anno inauguriamo il nostro secondo laboratorio.
Soprattutto, quest’anno prevediamo un lavoro finale in cui mettere insieme tutto il
materiale raccolto. Un lavoro fatto insieme a testimonianza del nostro impegno
comune.
Vanno benissimo tutti i tipi di ricerche: su enciclopedie e su siti Internet;
raccoglieremo testi, documenti, articoli, immagini, testimonianze, informazioni sulla
questione palestinese e alla fine dovremo fare un lavoro di elaborazione delle fonti e
dei documenti, discuterli e ordinarli secondo il percorso e il senso che sarà emerso
dal nostro laboratorio.
La “questione palestinese” è una questione, voi già lo sapete, intorno alla quale si è
spesso tentati, e lo si fa troppo spesso, di prendere parte: gli studenti lo fanno, i
docenti lo fanno, i ricercatori lo fanno, i docenti che sono stati studenti lo fanno; per
quanto mi riguarda, io stesso quando ero studente tentai di essere di parte, di
prendere parte nella questione. Io credo che questo lavoro che dobbiamo fare è
invece un lavoro di riflessione, un esame critico di alcune questioni che non sono
mai nette, precise, i contorni non sono mai così definiti; soprattutto quando si parla
di ambiti culturali, le parole non sono mai definite, il significato non è mai preciso.
Quindi non prendiamo posizioni o, se l’abbiamo già fatto, se qualcuno di noi si
sente già da qualche parte, facciamo quel classico gesto filosofico: fare epochè, che
originariamente significava la fermata della carovana o di un cavallo che sta
facendo un percorso. Significa anche mettere fra parentesi, sospendere il giudizio.
Ora scriveremo alcune date particolarmente significative, una sorta di cronologia
provvisoria per cercare di entrare nella questione palestinese:
1897 – Primo Congresso Sionista
1917 – Occupazione inglese della Palestina
1948 – Nasce lo Stato di Israele e scoppia la prima guerra arabo-israeliana
1956 – Secondo conflitto arabo-israeliano
1967 – Guerra dei sei giorni: Israele sbaraglia i vari eserciti arabi alleati
1973 – Quarto conflitto arabo-israeliano, detta anche guerra dello Yom-Kippur
1982 – Guerra in Libano
1987 – Prima Intifada (1987-1992), oggi si parla di Seconda Intifada
Per il 1973 troveremo anche la questione dell’austerity in Italia: si camminava a
piedi, la domenica mattina si usciva a piedi, con i pattini. Oggi è un fatto
abbastanza comune ma all’epoca fu scioccante, fu una cosa di cui parlarono
televisioni, giornali, per molti giorni. La domenica si usciva a piedi, non per
questioni ecologiche ma perché si doveva razionare il petrolio, non ce n’era, quindi
“austerity”, austerità, cioè sacrificio.
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Nel ’72 a Monaco ci furono le Olimpiadi e un commando di palestinesi, entrato nel
villaggio olimpico, fece una strage: uccise 11 atleti israeliani. Si sospesero le
Olimpiadi, fu un evento atroce. Nell’ ‘82 ci fu la guerra in Libano, una strana guerra
e vedrete perché in Libano ci sono i profughi palestinesi, perché il terrorismo
palestinese mise la sua base in Libano e quindi perché Israele attaccò il Libano.
Nel 1987 prende corpo la prima Intifada che durerà fino al ’92; oggi si parla di
seconda Intifada, con i bambini palestinesi che lanciano le pietre.
Vedete allora una questione che attraversa un intero secolo: tutto il Novecento è
attraversato dalla questione palestinese. Ci sono quattro picchi, quattro date
fondamentali che sono i quattro conflitti diretti tra arabi e israeliani: ’48-’56-’67-’73,
ma tra queste date ce ne sono tante altre che segnano stragi, eccidi, Sabra e Chatila
per esempio. Queste questioni toccarono spesso anche la sensibilità comune: l’arte, il
cinema, il teatro, tutte le musiche del mondo giovanile si occuparono molto della
questione arabo-israeliana. “Luglio, Agosto, Settembre Nero” fu uno dei cavalli di
battaglia di un gruppo italiano di rock progressivo. Diciamo allora che è un
problema che attraversa tutto il Novecento e vedrete che grazie alla comprensione, al
tentativo di comprensione di questo conflitto, si potrebbero chiarire anche molte
altre questioni meno localizzate, sia geograficamente che culturalmente, molte altre
questioni del ‘900: come la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la
decolonizzazione, l’imperialismo. Molti problemi del XX secolo si possono capire
proprio attraverso questa questione, ancora irrisolta, dei palestinesi, di Israele e dei
paesi arabi.
Quindi è un problema che ci aiuta a capire meglio la Storia del Novecento, però per
capirlo, o almeno per cercare di avvicinarci alla comprensione, dobbiamo partire da
molto prima e dovete avere un po’ di pazienza perché dobbiamo parlare del
sionismo.
Che significa “sionismo”? Parleremo di sionismo, colonialismo, decolonizzazione,
per arrivare al 1948 quando nasce e vedremo come nasce: già con una guerra lo
Stato di Israele. Nasce un po’ di nascosto, nasce un giorno prima rispetto alla data
fissata dall’ONU, per alcune questioni che vanno analizzate e vanno comprese.
Allora, io comincerei con una frase di uno scrittore israeliano, che dice: “Ognuna
delle parti in questo conflitto si batte non già contro un suo nemico, il suo avversario
ideale, ma contro le ombre nevrotiche del proprio passato”. Già queste parole
cominciano a rendere oscura tutta la questione arabo-israeliana. “Gli arabi non
vedono noi – parlano gli israeliani – ma i Francesi, gli Inglesi, i Turchi – cioè vedono
degli europei, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella nascita dello Stato di
Israele – tutti coloro che per secoli li hanno oppressi e massacrati. Per noi – gli ebrei
– non sono gli Arabi: è Hitler, sono i nazisti, sono i Russi. Penso che il conflitto sia
tra due mondi malati, nevrotizzati, ognuno si batte contro il proprio passato”.
Questo diceva Amos Oz nel ’74 a proposito del conflitto. Non ci sono solo motivi
culturali ma anche motivi seriamente storici che vanno analizzati.
Badate bene, quando scoppia un conflitto tra arabi e israeliani, essi finiscono di
essere arabi e israeliani e cominciano a essere chiamati i musulmani e gli ebrei.
Tutte le volte da una parte e dall’altra assistiamo a tentativi, anche sanguinosi, di far
saltare non tanto le scuole, i palazzi, ecc. ecc., ma i tavoli delle trattative di pace.
Proprio quando si sta per arrivare ad un accordo di pace succede qualche cosa da
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parte delle ali estreme, integraliste di entrambe la parti: Rabin, sapete, non è stato
ucciso da un palestinese o da un arabo ma da un terrorista israeliano che era
contrario agli sforzi di pace fatti. Quindi ogni qual volta c’è un tentativo di giungere
ad un accordo di pace e quando l’accordo di pace sta per essere firmato, succede
qualche cosa per cui saltano le trattative. In questi giorni gli accordi vengono messi
in crisi appena si intravede una possibilità di intesa.
Quindi, ricapitolando, abbiamo visto dalla cronologia, provvisoria, che questo è un
problema che attraversa tutto il Novecento e quindi ci fa capire meglio il nostro
secolo, soprattutto i due conflitti mondiali, il secondo dopoguerra, la
decolonizzazione, l’imperialismo e perciò oggi noi dobbiamo partire un po’ da
lontano, dalla fine dell’Ottocento per arrivare al 1948, con la nascita dello Stato di
Israele. Nei successivi incontri approfondiremo li discorso e vedremo chi sono i
palestinesi, i profughi palestinesi, quanti sono, quante volte sono stati cacciati e
hanno provato a rientrare; ci sono varie riprese in cui questi profughi si ritrovano o
profughi in patria oppure proprietari di terre cacciati dal loro territorio, ospitati in
Libano ecc.ecc. Vedremo meglio tutte queste cose sia con l’ospite arabista, Rino
Cipriano, che con Ciro Sbailò che studia, in particolare, la questione israeliana.
Dunque, partiamo dal Sionismo. La parola “Sionismo” viene da Sion, che è una
delle alture su cui sorge Gerusalemme. Definizione: moderno movimento ideologicopolitico volto a realizzare la definitiva emancipazione del popolo ebraico mediante
la costituzione di un “focolare nazionale” indipendente nella patria storica del
popolo biblico, cioè la Palestina”. Poi vedremo perché e che cos’è questo “focolare
nazionale”. Quindi, quando parliamo di Sionismo intendiamo quel movimento che
dalla fine dell’’800 fino ad oggi, attraverso varie organizzazioni internazionali, tende
alla definitiva emancipazione del popolo ebraico e alla costituzione di uno Stato
nella terra, per definizione, ebraica e cioè la Palestina.
Diaspora, conoscete questo termine? Significa “dispersione” però questo testo ci fa
notare una cosa piuttosto interessante, da chiedere poi anche al nostro esperto di
questioni israeliane: la “diaspora” si chiama “tefuzah” che in ebraico non significa
dispersione ma “esilio”. Esilio ha un significato molto diverso da dispersione:
allontanamento dal proprio focolare nazionale, dalla terra in cui si è nati; quello è
proprio il significato di “nazione”, “la terra in cui si nasce”.
Sappiamo che prima della nascita di questo movimento politico, verso la fine
dell’’800, ci sono stati molti tentativi nel corso dei secoli, nel ‘400-‘500-‘600-‘700, da
parte di gruppi, di comunità ebraiche, di fare ritorno, non di andare in una terra
dove fondare un proprio Stato, ma proprio di fare ritorno. Soprattutto nel ‘700,
specialmente dopo la Rivoluzione francese, che voi sapete ha ridato dignità civile e
politica agli ebrei, per quel discorso di emancipazione che faceva tutt’uno con gli
ideali della rivoluzione francese. Subito dopo, la Restaurazione, che significò anche
il ritorno dei ghetti, dell’emarginazione degli ebrei in tutta Europa; la Restaurazione
fu anche questo. E quindi per questi tentativi da parte di comunità ebraiche che
avevano conosciuto un momento di esaltazione e di speranza con la Rivoluzione
francese, quando arrivò il periodo della Restaurazione ci fu un momento,
naturalmente, di delusione e di mancata forza organizzativa, che segnò una battuta
d’arresto di questo tentativo di ritornare alla propria nazione, di riconoscersi nella
propria nazionalità, cioè in quanto ebrei, riconoscersi in uno Stato indipendente.
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1882: C’è un famoso scritto che si chiama “Autoemancipazione” di Leo Pinsker, uno
dei principali teorici del Sionismo: egli scrive della necessità di emanciparsi, da
parte del popolo ebraico, e di fare ritorno. Fate attenzione a questa storia del
ritorno: vedrete che, stranamente, lo Stato di Israele ha rischiato di nascere in
Uganda; quindi abbandoniamo per il momento questa nostra abitudine di pensare
alla Terra Santa, gli ebrei, la Palestina. Lo Stato di Israele deve necessariamente,
secondo l’ideologia sionista, nascere in Palestina; non era proprio così perché ci fu
una prima Aliyah, cioè un primo flusso migratorio, cioè non più come accadeva nel
‘500, nel ‘600 e ancora nei primi anni dell’800 il tentativo di fondare qualche
fattoria in queste terre, perché fino all’inizio dell’800 si trattò di questo: quando
alcune comunità ebraiche tentavano di fare ritorno in Palestina cercavano di
istituire una sorta di fattorie.
La aliyah, flusso organizzato, cioè centinaia e centinaia di persone che tentano di
fare ritorno in Palestina. Qui entra in gioco il discorso principale che facevamo
prima: il sionismo. Uno scrittore ungherese di origine ebraica, Theodor Hertzl,
fondatore del Sionismo moderno, non causò molti problemi politici o militari ma
con lui e con la prima data della nostra cronologia, 1897, le cose cominciano a
cambiare perché Hertzl scrive “Der Juden Staadt”, cioè “Lo Stato ebraico” che è del
1986; l’anno dopo Hertzl organizza la prima seduta storica del primo congresso
sionista a Basilea, in Svizzera. Che significa congresso sionista? Partecipano 197
delegati eletti dalle comunità ebraiche di tutto il mondo, 70 di queste delegazioni
vengono dall’Europa orientale, fatto importante, da tenere in considerazione:
vedremo che prima la Russia, poi l’Unione Sovietica e poi la Russia post-sovietica
hanno un certo peso nella popolazione di Israele.
Allora, i delegati sono 197, di cui 70 dell’Europa Orientale. Alcuni esponenti del
mondo ebraico pensarono la terra di Israele non come Palestina ma pensarono
all’Argentina; quindi in queste prime battute, anche organizzative, del Sionismo
moderno, la terra a cui fare ritorno da parte del popolo ebraico non è affatto detto
che debba essere la Palestina ma alcuni parlano di Argentina. In questo primo
congresso che succede? Furono approvati la bandiera e l’inno nazionale di uno Stato
che non c’è! Fu fondata l’Organizzazione Sionista mondiale e fu votato il
programma di Basilea, chiaramente impegnato a preparare proprio l’immigrazione
degli ebrei in Palestina. Nel corso dei cinque o sei anni che seguirono, all’interno
delle comunità rappresentate dall’Organizzazione Sionista mondiale cominciarono a
prendere molto potere, molta importanza, le comunità ebraiche russe e lo si vide al
terzo congresso, nel 1903, quando il gruppo dei sionisti di Sion, in gran parte
provenienti appunto dalla Russia, respinse l’idea di Hertzl di accettare la proposta
inglese di un circolo nazionale ebraico in Uganda; in seguito vedremo perchè c’entra
l’Inghilterra con la Palestina.
Nel frattempo ci sarà quella che chiamiamo la seconda Aliyah, cioè una seconda
ondata migratoria verso la Palestina, quindi nei primi del secolo, prima della prima
guerra mondiale e dovremo vedere poi nel 1917, e perché proprio nel 1917, quanti
sono in effetti gli abitanti di questo territorio chiamato Palestina. Che cos’è la
Palestina in quel periodo? A chi appartiene, se appartiene a qualcuno? Quanti sono
gli abitanti, in che percentuale sono arabi e in che percentuale sono ebrei?
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Intanto scoppia la prima guerra mondiale, 1914, e il movimento sionista organizza
dei corpi volontari ebraici che si battono a fianco degli alleati contro l’impero turco,
altra radice antica di quella questione di cui parlava anche lo scrittore israeliano.
C’è quindi una scelta di campo anche filo-europea e anti-ottomana, anti-islamica.
A Londra il capo del movimento sionista mondiale, che non era più Hertzl, ma
Wezmann, cioè proprio il maggiore fautore della soluzione Palestina, riesce a
convincere gli inglesi ad appoggiare le richieste del suo memorandum che si chiama
“Programma di re-insediamento ebraico in Palestina in accordo con le aspirazioni
del movimento sionista”. Quindi gli ideali sono diventati un programma. Egli
dunque convince gli inglesi, poi vedremo perché gli inglesi si ostinano a fare
proposte, vengono invitati ad appoggiare proposte, ecc.
Nel 1917 abbiamo la famosa “Dichiarazione Balfour”, dal nome del ministro
inglese, che dice che il governo inglese è favorevole all’insediamento in Palestina di
un focolare nazionale per il popolo ebraico e si impegna a fare ogni sforzo possibile
per facilitare la realizzazione di questo obiettivo. Gli inglesi hanno un mandato sulla
Palestina, dobbiamo capire però che significa avere un mandato per amministrare
un altro Paese. Finora l’Inghilterra è quella che più direttamente è impegnata in
Palestina; diciamo che la Palestina fino alla fine dell’’800 non era altro che una
provincia meridionale della Siria e a partire da questi anni diventa mandato inglese.
Perciò l’Inghilterra ora, tramite un documento scritto, si dice favorevole
all’insediamento, in terra di Palestina, di un focolare nazionale per gli ebrei che
intendono fare ritorno. Alla fine della guerra, inserita la Dichiarazione nel trattato
di pace della Turchia e affidata la Palestina al mandato britannico per controllare
l’applicazione dei principi della Dichiarazione e intrattenere i rapporti con la
madrepatria, venne creata la Jewish Agency, cioè l’agenzia ebraica, che al tempo
stesso dovette scontrarsi con i nuovi indirizzi filo-arabi dell’Inghilterra.
Allora, fate attenzione. “Sionismo”, nel corso dei secoli, comincia a prendere sempre
più la forma di un’organizzazione politica internazionale finché appunto non
arriviamo alla fine dell’’800 con il primo congresso sionista mondiale. Siamo quindi
all’inizio del Novecento, perciò dicevamo che la questione nasce con il Novecento e
non è finita con il Novecento; la questione palestinese comincia a prendere questa
piega, cioè il Sionismo diventa un’organizzazione politica internazionale con un
congresso che produce dei documenti che non sono più soltanto libri di qualche
scrittore ma sono documenti politici, programmi, che poi vengono anche presentati a
capi di governo europei come l’Inghilterra, ma programmi di intervento, di
organizzazione del re-insediamento. Questa è stata l’evoluzione abbastanza veloce
del Sionismo moderno; siamo arrivati appunto al 1917 e alla fine della guerra con
l’Inghilterra che ha il mandato sulla Palestina ed è ufficialmente, pubblicamente a
favore di un re-insediamento in quelle terre degli ebrei di tutto il mondo e alla
costituzione, proprio lì, non in Uganda, non in Argentina, non in altre parti del
mondo, di uno Stato di Israele.
Negli anni 20-30, anche per sfuggire alle persecuzioni naziste ci sono altri flussi
migratori, tentativi di raggiungere la Palestina. In queste immigrazioni verso lo Stato
di Israele, ci saranno grandi problemi organizzativi per il Sionismo che già doveva
affrontare anche i primi attacchi arabi, già la questione è abbastanza calda; quando
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scoppierà il primo conflitto arabo-israeliano nel 1948, la questione ormai era già da
decenni avviata.
Studente: Ma il territorio era di proprietà inglese?
Saviani: Non di sua proprietà, perciò poi dobbiamo occuparci di decolonizzazione e
mandati. Per il momento sappiamo che questo territorio della Palestina è sotto il
diretto controllo, controllo però non di invasione militare, non dovuto ad una
vittoria in guerra ma a un mandato. Quindi secondo i canoni del diritto
internazionale, l’Inghilterra ha il mandato, esercita il proprio controllo sulla
Palestina.
Diciamo quindi che l’organizzazione sionista mondiale ha già dei problemi a
fronteggiare gli attacchi arabi, i tumulti di Jaffa (1921), l’eccidio di Ebron (1929 e
1936), i quali sono tollerati dall’amministrazione inglese e bisogna capire perché
l’Inghilterra manterrà un atteggiamento abbastanza ambiguo in questa questione.
Comincia già a configurarsi come “questione palestinese”, ci sono i primi attacchi
arabi, ci sono microconflitti tra i nuovi residenti e quelli che già erano in quei
territori.
Studente: Tutti abitavano lì?
Saviani: Non tutti; lì per arabi ora dobbiamo intendere: Transgiordania, Libano,
Libia, Egitto, Siria, saranno tutti Stati impegnati nelle guerre con gli israeliani.
Questo testo ci dice “Uscito l’ebraismo dalla tremenda prova del nazismo, ancora
più gravi furono i compiti del movimento sionista alla fine della seconda guerra
mondiale. Rinnovata la richiesta di uno Stato ebraico indipendente nel XXII
congresso – dell’organizzazione sionista mondiale – del 1946, il sionismo dovette
subito affrontare il rifiuto arabo di una spartizione della Palestina in due Stati: uno
arabo e uno ebraico, deciso dall’ONU il 28 novembre del 1947” – qui siamo a un
anno prima, nell’imminenza del primo grande conflitto tra arabi e israeliani. Nel
1947 c’è una proposta, una presa di posizione, una decisione dell’ONU che, per
dirimere la questione che già prima del 1948, cioè prima della nascita dello Stato di
Israele è ormai complicata e pericolosa, è già una polveriera – e vedremo anche
perché, quali altri interessi sono in gioco in quegli anni in quel territorio– propone
uno Stato arabo e uno Stato israeliano, cioè due territori confinanti, ma che possono
vivere in pace. Quindi il rifiuto da parte degli arabi di una spartizione della
Palestina in due Stati. Vedrete che questo oggettivamente sembra un rifiuto
colpevole: c’è una dichiarazione dell’ONU, una proposta, una decisione che propone
di affrontare e risolvere il problema dando a ciascuno uno Stato ma gli arabi si
rifiutano. E quando sarà riproposta questa spartizione della Palestina tra arabi e
israeliani, di nuovo gli arabi rifiuteranno. Entreranno in gioco anche altre questioni:
gli integralismi, l’odio tra le due parti, ecc.
Si arriva al 1948, il 14 maggio 1948 in cui, dice questo testo, “con la lotta armata
nasce lo Stato di Israele”. Prima avevamo detto che nasce un po’ prima del previsto,
un po’ prematuro, il giorno prima, e infatti era stato deciso che il 15 maggio
l’Inghilterra avrebbe lasciato i territori in Palestina, finalmente, soprattutto da parte
l’Inghilterra che non ne poteva più e più volte aveva pregato le Nazioni Unite di
poter rimettere questo mandato – e vedremo perché – ed era riuscita a strappare
questa data: il 15 maggio. L’Inghilterra, già da parecchi anni, non intende più stare
lì a cercare di coprire, in modo alternato, gli uni e gli altri: è una politica abbastanza
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ambigua quella dell’Inghilterra, l’abbiamo detto sin dall’inizio. Infatti con la
dichiarazione Balfour appoggia in tutto il discorso sionista poi però comincia ad
ostacolare le prime immigrazioni degli ebrei in Israele e comincia anche a chiudere
un occhio sulle piccole e isolate reazioni arabe nei confronti degli ebrei.
Siamo arrivati allora al 1948: naturalmente l’abbandono da parte dell’Inghilterra
avrebbe significato il rimettere il mandato e quindi creare le condizioni per la
nascita dello Stato di Israele il quale invece di fatto nasce il giorno prima; dovremo
vedere perché, che significa questa anticipazione.
Allora, prima avevamo detto che arrivare al ‘48, cioè la nascita dello Stato di Israele
ed il primo grande conflitto arabo-israeliano, avrebbe significato per noi riprendere
un po’ questioni che riguardano il novecento in generale, le due guerre mondiali, il
movimento sionista ecc.
Dobbiamo parlare anche di un’altra questione per affrontare per bene la nascita di
questo Stato di Israele. Questo è stato un tema ricorrente, lo vedremo anche nel ’56,
nel ’67 e anche nel ’73, nei quattro grandi conflitti: i Paesi arabi sono innanzitutto
più numerosi, sono alleati contro Israele e si scontrano con Israele, per questo ci
servono delle cartine grandi e dettagliate dove ritrovare i nomi e i territori di cui
sentiremo spesso parlare, quali sono i confini di Israele all’atto della sua nascita e
dopo la prima guerra con gli arabi; sono “territori” guadagnati da Israele con vari
conflitti che sono scoppiati con i Paesi confinanti, i quali territori però, nonostante
delle dichiarazioni internazionali e cioè dell’ONU, non tutti sono stati restituiti nel
tempo. Il problema dei profughi palestinesi. Quindi “territori” e “profughi” sono due
concetti molto legati, non studieremo tanto i sei giorni della guerra del ’67, come
l’esercito israeliano sbaragliò gli eserciti alleati, ma studieremo le conseguenze: il
problema dei profughi, i palestinesi esiliati.
Studente: Ma nel ’48 per “palestinesi” cosa si intende?
Saviani: Centinaia di migliaia di persone che abbandonarono i territori di quella
che era la Cisgiordania.
Studente: Ma anche prima e dopo verranno abbandonati dei territori, nel ’48 e nel
’56 Israele e la Cisgiordania nel ’67.
Saviani: Questo è importante perché non è soltanto circoscrivibile alla guerra del
’67, c’è il ’48, il ’56 ecc.
Andiamo con ordine: nel ’48 ci saranno molti profughi, molti palestinesi dovranno
abbandonare le terre in cui stavano; andranno in Libano, in Siria, nei Paesi arabi
confinanti. Ci sono diverse ondate di profughi palestinesi: ci sono i profughi di
prima generazione e i profughi della seconda generazione, cioè ci sono dei
palestinesi che sono stati cacciati via dai territori dove erano nati, i quali territori
erano gli stessi dai quali erano stati già scacciati i loro genitori. C’è un doppio status
di profugo: c’è il profugo della guerra del ’48 e c’è il profugo delle guerre che sono
venute dopo, i quali hanno perso diritti, e anche abitazioni spesso, nei territori da
cui comunque erano già stati scacciati. Quelli del ’67 sono dei profughi alla seconda
potenza, diciamo. Questo fatto implica anche diverse questioni giuridiche di estrema
difficoltà perché vedremo che i profughi palestinesi quando hanno abbandonato le
loro terre si sono portati dietro i contratti di vendita, cioè dei documenti che provano
la loro proprietà, convinti che un giorno o l’altro sarebbero ritornati e ne avrebbero
avuto bisogno.
48
Vedremo poi nel tempo che valore hanno assunto questi documenti: questo
problema lo tratteremo a parte. Oggi ci conviene arrivare al ’48, vedere dietro che
c’è, questo mezzo secolo di storia del sionismo, vedere che significa la nascita dello
Stato di Israele in Palestina, e per il momento abbiamo incontrato sempre e soltanto
l’Inghilterra ma tra poco, passeranno sette anni, incontreremo gli Stati Uniti
d’America, l’Unione Sovietica, che nel ’56 scongiureranno l’impiego delle armi
atomiche durante la crisi del canale di Suez, cioè quando il presidente egiziano
Nasser intenderà costruire una diga, diga di Assuan, sul Nilo per questioni di energia
idroelettrica. L’Egitto non ha soldi per finanziare un’opera del genere e chiede un
intervento internazionale, dei fondi internazionali, i quali vengono invece ostacolati
da Francia e Inghilterra, non tanto da Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Nasser per
tutta risposta nazionalizza la compagnia internazionale di Suez, canale che rende
molto più comodo e facile il passaggio delle petroliere, problema che comincia a
diventare esplicito. Questo significa che Nasser, cioè l’Egitto, potrà avvalersi di tutti i
soldi che potrà ricavare dal passaggio delle petroliere: questo sarà il motivo
scatenante dello scoppio del secondo conflitto tra Paesi arabi e Israele. Nel ’56
Israele è appoggiata da Francia e Inghilterra anzi si allea con Francia e Inghilterra,
tenta pure di conquistare nuovi territori, senza riuscirci; fatto sta però che se non
fosse per l’intervento di Usa e Unione Sovietica questo conflitto potrebbe prendere
una piega imprevista all’inizio. Poi vedremo nel minimo dettaglio come andò sia il
primo scoppio di questo conflitto, sia gli interessi un po’ più remoti: Nasser è il
rappresentante del nuovo nazionalismo arabo.
Allora, diciamo che il nazionalismo negli anni ’50 è abbastanza duro e pericoloso
per gli anni che si stanno vivendo, sono gli anni della guerra fredda. Poi il ’56 è una
data fatidica sia in Europa, sia per questa crisi arabo-israeliana. Parlando del
nazionalismo, c’è una questione che dobbiamo affrontare per capire bene questo
ruolo dell’Inghilterra in Palestina fino al ’48: quella che si chiama
“decolonizzazione”.
Per organizzare questo incontro ho utilizzato otto manuali diversi, di diversi periodi,
di Storia contemporanea anche per vedere una volta di più come i discorsi sono fatti
in modi naturalmente diversi, sono suggerite interpretazioni storiche diverse. Un
famoso storico, per aprire una parentesi sul caso della Regione Lazio di cui si è tanto
parlato in questi giorni, ha detto che la Storia è stata sempre scritta e riscritta; il vero
compito dello storico è quello di tentare sempre di riscrivere la Storia, naturalmente
senza forzare le fonti. Questo non è revisionismo storico, la Storia si scrive e si
riscrive. La Storia del ‘500 che adesso noi leggiamo non è la Storia che leggevano gli
uomini del ‘700, così come la Storia della contemporaneità degli uomini del ‘700 era
diversa da quello che noi oggi leggiamo sul ‘700. Chiusa la parentesi.
Allora, in questi testi ho ritrovato alcuni problemi che ci riguardano:
decolonizzazione, imperialismo, sionismo. Vi leggerò alcune parti da testi diversi in
modo da vedere come in effetti alcuni ripetono quello che hanno detto altri manuali,
altri manuali tacciono certe cose, altri manuali sono molto più articolati e ci dicono
anche particolari interessanti su alcuni argomenti.
Allora, prima pagina che leggo per quanto riguarda la decolonizzazione:
“Decolonizzazione è un termine che indica questo fenomeno storico che si è
verificato – nel secondo dopoguerra, negli anni ’50 – in tutto il mondo tranne
49
l’Europa”. Decolonizzazione significa che nel corso di pochi anni molti Stati che
erano colonie, colonie soprattutto inglesi e francesi, raggiungono la loro
indipendenza politica, cioè si riscattano dal loro essere coloni. La decolonizzazione è
un discorso che riguarda anche l’Inghilterra e la Palestina. Noi siamo arrivati al
punto che l’Inghilterra non vuole più essere mandataria di questo territorio, chiede
continuamente all’ONU una conclusione, un aiuto per liberarsi da questo vincolo e
sarà un problema comune anche ad altre potenze europee che avevano il loro
sistema di colonie. Questo libro ci dice: “Gli anni del dopoguerra furono segnati da
un impetuoso sviluppo del fenomeno della decolonizzazione che portò
all’indipendenza nazionale moltissimi dei Paesi in passato dominati dalle potenze
dell’Europa occidentale. Nella sola Africa si costituirono 40 nuovi Stati” – molti
degli Stati africani che noi oggi conosciamo hanno sì e no 50 anni di vita, sono tutti
ex-colonie. “Qualcosa di analogo anche se di dimensioni più ridotte si era già
verificato dopo la prima guerra mondiale, quando in seguito alla distruzione di due
imperi coloniali, quello turco e quello tedesco – praticamente le nazioni che erano
state sconfitte nella prima guerra mondiale – si definì uno status di semiindipendenza, cioè il protettorato, per Paesi come l’Egitto, l’Iraq e la
Transgiordania”. Alcune questioni palestinesi e israeliane entrano anche nella
vicenda della guerra del Golfo: ricordate quando durante la guerra, 10 anni fa, il
dittatore iracheno Saddam Hussein a un certo punto lanciò dei missili che andarono
a colpire Israele? Israele fu pregata di non rispondere a questa provocazione, di non
reagire, di non pericolosamente allargare le parti in gioco nella guerra. Studieremo
in seguito che Saddam Hussein faceva molto comodo all’occidente perché avversario
dell’Iran. La guerra Iraq-Iran fu finanziata, con aiuti per l’Iraq, dagli Stati Uniti e
dagli Stati europei. Quindi vedremo anche queste storie più recenti come hanno
radici nel problema della decolonizzazione.
Allora, prendo quest’altro testo che invece io trovato straordinariamente più preciso
e particolareggiato. “Già la prima guerra mondiale ha dato un colpo forte al
comunismo e all’imperialismo del mondo occidentale, le massime nazioni coloniali,
Inghilterra e Francia, hanno proclamato di combattere per la libertà, hanno chiesto
truppe ai popoli sottomessi; è apparsa quindi una contraddizione tra gli ideali di
libertà e il colonialismo”. Questo libro non dice altro ma dice la stessa cosa da un
altro punto di vista che mi sembra molto più produttivo. Il testo precedente ci ha
detto che la decolonizzazione è un fatto della seconda guerra mondiale, del secondo
dopoguerra, però già, dopo la prima guerra mondiale, alcuni Stati avevano una sorta
di indipendenza perché gli imperi coloniali germanico e turco avevano perso la
guerra. Quindi addirittura non parla di quelli che hanno perso, ma solo di quelli che
hanno vinto e dice: “In fondo la decolonizzazione è un problema che nasce già dopo
la prima guerra mondiale e nasce come problema perché la Francia e l’Inghilterra –
che hanno vinto la guerra mondiale, anch’esse erano potenze coloniali, non solo
quelle che hanno perso, anche loro avevano un sistema enorme di colonie, però che
hanno fatto – hanno chiesto aiuto alle proprie colonie in termini anche di vite
umane, soldati, per combattere la loro guerra e per vincerla. C’è quindi una
contraddizione – dice questo libro – tra ideali di libertà e regime coloniale”. Francia
e Inghilterra proclamano di combattere per la libertà ma per vincere la loro guerra
di libertà sfruttano dei popoli a loro sottomessi: contraddizione! Combattere per la
50
libertà e però mantenere dei popoli in stato di colonie. Dice ancora il testo: “Anche
la seconda guerra mondiale arreca un gravissimo colpo al sistema coloniale e
imperialistico degli Stati occidentali”. Parentesi: qui si dice sempre colonialismo e
imperialismo, li si cita insieme. “Un colpo mortale soprattutto per un dato di fondo –
sentite bene – : nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, Inghilterra e
Francia sono ancora tra le massime potenze coloniali – nel 1917 l’Inghilterra ha
fatto anche la sua dichiarazione Balfour, quindi ha sposato il sionismo – e sono
ancora in grado di contenere e controllare le spinte all’indipendenza dei popoli a
loro sottomessi, ma ora, nel ’45, Francia, Inghilterra, Olanda, Belgio – che erano le
potenze europee che avevano colonie in Africa e in Asia – sono scadute a un ruolo
minore, sono molto lontane dalle due nuove nazioni leader dopo la seconda guerra
mondiale: Stati Uniti e Unione Sovietica”. Non solo, vi è da aggiungere che gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica non hanno un passato di potenze coloniali – anzi, gli Stati
Uniti sono nati da un problema di dipendenza di tipo coloniale, quindi il
colonialismo non è un discorso che riguarda Stati Uniti e Unione Sovietica ma
riguarda le potenze europee che già dopo la seconda guerra mondiale si sono molo
indebolite. La Germania perché ha perso la guerra, la Francia e l’Inghilterra perché
comunque sono uscite massacrate dal secondo conflitto mondiale. “L’Unione
Sovietica e gli Stati Uniti premono sull’Europa affinché finisca il regime coloniale”.
Perché il colonialismo è ormai un assetto che non è più in linea con i nuovi equilibri
di potere. Già prima della fine della seconda guerra mondiale ci furono delle
conferenze in cui i tre imminenti vincitori della Guerra, Stalin, Churchill e
Eisenhower, cominciano a discutere del futuro assetto mondiale. Le nuove aree di
controllo non coincidono più con le colonie degli Stati europei quindi sia gli Stati
Uniti sia l’Unione Sovietica premono affinché il regime coloniale sparisca, perché
non è più in linea con il nuovo ordine mondiale deciso.
“In Medio Oriente – sentite questo brano – la Palestina, sin dalla fine dell’‘800, è
sotto il controllo inglese ed è abitata da più di mille anni – questo testo ci dirà che
questo controllo inglese era più formale che sostanziale – da popolazioni arabe, ma
dagli anni tra il 1910 e il 1920 il governo britannico ha dato ad alcuni gruppi
ebraici la possibilità di ritornare in quella che è stata una loro lontanissima patria”.
Dichiarazione del ministro degli esteri inglese Lord Balfour: è riconosciuto ai gruppi
ebraici di creare una sede nazionale. Gli ebrei si stabiliscono a Tel Aviv, Jaffa. Il
numero degli immigrati, tra il 1920 e il 1940, cresce di molto, soprattutto perché
molti ebrei fuggono dall’Europa. Nel 1945 vi sono in Palestina circa 550.000 ebrei e
1.250.000 arabi. Questa presenza ebraica crea in Palestina una situazione esplosiva:
si accendono scontri tra ebrei e arabi, tra ebrei e inglesi”. L’Inghilterra non riesce a
controllare questa situazione che ogni giorno appare più carica di rischi allora,
quando la seconda guerra mondiale è terminata, la Gran Bretagna decide di lasciare
alle Nazioni Unite la decisione relativa al futuro della Palestina”. Al momento del
ritiro delle truppe inglesi, gli ebrei immediatamente proclamano, il 14 maggio, la
nascita dello Stato di Israele. Questa soluzione è giudicata dagli arabi un atto di
forza intollerabile tanto più che la fondazione di uno Stato ebraico avrebbe
significato l’emarginazione religiosa, politica, sociale ed economica della
maggioranza araba che già costituisce l’elemento socialmente inferiore della regione.
Questo atto di forza immotivato è, dalla parte araba, giudicato intollerabile:
51
dichiarare la nascita dello Stato un giorno prima della partenza delle truppe
britanniche, va a colpire la parte che è anche socialmente più debole. “Tra il 15
maggio del ‘48 – quindi il giorno dopo, che poi sarebbe il giorno in cui l’Inghilterra
avrebbe lasciato i territori – e il 25 gennaio del ’49, si apre il primo conflitto tra
israeliani e arabi. Le forze arabe, che comprendono oltre ai palestinesi anche truppe
dei vari Stati mediorientali, malguidate, senza coordinamento, sono sconfitte. Quasi
un milione di palestinesi, espulsi dalla loro terra, vanno incontro ad una vita
miserabile nei campi profughi messi a disposizione dai governi arabi. Ha così inizio
un conflitto fra arabi e israeliani in Medio Oriente destinato col tempo a diventare
sempre più acuto. Entrambi i contendenti accampano diritti antichissimi e sacri: per
decenni non vi sarà il minimo margine per una trattativa”. Inoltre questo libro
riporta due passi di due dichiarazioni, una filo-palestinese e una filo-israeliana, sulla
nascita dello Stato di Israele. Io leggerei questa versione, con la quale finiamo per
oggi. “Il 14 maggio del ’48, poco prima che scadesse il mandato britannico sulla
Palestina, Ben Gurion, leader laburista – che diventerà il primo presidente dello
Stato israeliano – proclamò la costituzione dello Stato di Israele di fronte ai delegati
del Consiglio Nazionale ebraico che rappresentava gli ebrei immigrati in Palestina
negli ultimi 10 anni e di fronte al movimento sionista mondiale. Si realizzava così il
progetto votato nel primo congresso sionista del 1897 che aveva rivendicato il ritorno
alla terra. Questa rivendicazione era stata riconosciuta nel 1917 dalla dichiarazione
Balfour ed era stata poi confermata dalle Nazioni Unite nel ’47 che però decisero di
amministrare direttamente Gerusalemme e di dividere la terra di Palestina
formando due Stati, uno ebraico e uno palestinese, però la proposta non venne
riconosciuta e gli arabi si rifiutarono di accettare la costituzione dello Stato di
Israele in quella che consideravano la loro terra. Vi presentiamo un tratto dalla
proclamazione di Ben Gurion. “La terra di Israele fu la culla del popolo ebraico, qui
fu formata la sua identità spirituale, religiosa e nazionale. Qui esso conquistò
l’indipendenza e creò una civiltà di significato nazionale ed universale. Qui esso
scrisse e dette la Bibbia al mondo.
Esiliato dalla Palestina, il popolo giudaico rimase ad essa fedele in tutti i paesi della
sua dispersione, non cessando mai di di pregare e di sperare per il ritorno e la
restaurazione della propria libertà nazionale. Spinti da questa storica associazione,
gli Ebrei lungo tutti i secoli si sforzarono di tornare alla terra dei loro padri e di
recuperare la dignità di Stato. In decenni recenti sono ritornati in massa. Essi hanno
bonificato il deserto, fatto rivivere la loro lingua, costruito città e villaggi e stabilito
una comunità vigorosa ed in continua espansione, con una propria vita economica e
culturale. Cercarono pace, ma erano preparati a difendersi. Recarono la benedizione
del progresso a tutti gli abitanti del paese. Il 29 novembre 1947 l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite ha adottato una decisione a favore della fondazione di
uno Stato Ebreo indipendente in Palestina. E’ evidente diritto del popolo ebraico
quello di essere una nazione come tutte le altre nazioni, nel suo proprio Stato
sovrano. Di conseguenza, noi, membri del Consiglio Nazionale, rappresentando il
popolo ebraico in Palestina e il movimento sionista mondiale, con questo mezzo
proclamiamo la fondazione dello Stato Ebraico in Palestina con il nome di Medinat
Yisraele.”
52
Il secondo documento invece è di parte araba e contrasta le tesi di Israele: “La
Palestina era una terra araba. Il diritto arabo alla Palestina riposa su tre distinti
motivi: il primo è il diritto naturale del popolo a rimanere in possesso della terra del
suo diritto di primogenitura; il secondo è che gli Arabi palestinesi vi hanno vissuto
per più di 1300 anni; il terzo è che essi sono tuttora i legittimi proprietari della
maggior parte delle dimore e dei campi nei quali gli israeliani attualmente vivono e
lavorano.
Quarant’anni fa la Palestina era un paese arabo nella stessa misura di altre parti del
mondo arabo. Gli Arabi sono decisi a respingere qualsiasi sistemazione che non
riconosca il loro pieno diritto alle loro dimore ed alla loro patria”.
Per concludere, leggiamo un tratto della dichiarazione dell’OLP che contesta la
legittimità giuridica e politica dell’esistenza dello Stato di Israele:
“Lo sapevate:
1) Che quando ‘la questione palestinese’ fu creata dagli inglesi nel 1917, più del
90% della popolazione palestinese era araba?…e che c’erano non più di
56.000 ebrei?
2) Che più della metà degli ebrei che vivevano in Palestina allora erano di
recente immigrazione, ed erano giunti in Palestina negli anni precedenti per
sfuggire alle persecuzioni in Europa?…e che neanche il 5% della popolazione
nata in Palestina era costituito da ebrei?
3) Che allora gli arabi palestinesi erano proprietari del 97,5% delle terre, mentre
gli ebrei (sia quelli nati in Palestina, sia quelli di recente immigrazione)
avevano soltanto il 2,5% delle terre?
4) Che durante i trent’anni di regime d’occupazione britannico, i sionisti
riuscirono ad ottenere solo il 3,5% delle terre in Palestina, benchè il governo
britannico li favorisse?…e che gran parte di queste terre furono date
direttamente ai sionisti del governo britannico, e non furono comprate ai
proprietari arabi?
5) Che perciò, quando l’Inghilterra affidò la risoluzione del problema palestinese
alle Nazioni Unite nel 1947, i sionisti non possedevano che il 6% di tutto il
territorio palestinese?
6) Che, nonostante questi fatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise
la formazione di uno ‘Stato ebraico’ in Palestina?…e che l’Assemblea garantì a
questo nuovo Stato circa il 54% del territorio palestinese?
7) Che Israele occupò immediatamente …l’80,48% di tutta la Palestina?
8) Che questa espansione territoriale ebbe luogo, in massima parte prima del 15
maggio 1948: prima, cioè, del termine formale del mandato britannico e del
ritiro delle forze britanniche dalla Palestina, prima che gli eserciti arabi si
muovessero a protezione dei palestinesi, e prima che scoppiasse la guerra
arabo-israeliana?”.
53
Giacomo Capaldi (5B), Tommaso Pio Cerulli Irelli (4D), Silvia Crupano (4D),
Jessica Ferretti (4D), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L), Francesca Neri (5L),
Ginestra Odovaine (3G), Marta Osnaghi (2D), Tommaso Sanna (5L),
Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)
54
Prof. Lucio Saviani e Prof. Rino Cipriano
23 Gennaio 2001
Cipriano: Vorrei cominciare subito con una citazione di un giurista palestinese che è
presidente dell’associazione dei giuristi palestinesi: “Tutte le grandi realizzazioni
nella storia dell’umanità erano state dei sogni; col tempo, i sogni si sono realizzati.
Noi due nazioni, due stati, possiamo vivere insieme, lavorare insieme, coltivare
insieme il nostro giardino in libertà e in pace” ( Fayez Abu Rahmi ).
Da questa dichiarazione nasce il concetto di giardino comune, di quella striscia di
terra che, a nostra memoria, da più di duemila anni vede scorrere sangue senza
interruzione di sorta. E c’è un altro motivo di fondo ricorrente: il possesso della
terra. Vorrei uscire un po’ da quelli che sono i canoni ufficiali dei mezzi di
comunicazione di massa, delle ideologie dell’una e dell’altra parte, e proporre
un’analisi della questione palestinese seguendo una strada che vada un po’ al di là
di questi canoni tradizionali.
Tanto per cominciare, la questione palestinese viene sempre identificata come una
lotta fra due popoli; io comincerei a dire che questione palestinese è una lotta fra tre
popoli, o meglio ancora è una lotta fra tre religioni che si ispirano
fondamentalmente ad un solo dio, quindi parliamo delle tre più grandi religioni
monoteiste che esistono sulla terra: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam, che
partono tutti e tre da un unico testo: dall’Antico Testamento. “In principio era il
verbo”, si dice in italiano, nel Corano e nella Torah è scritta la stessa cosa anche se
in lingue diverse. "E Dio era questo verbo".
Allora, abbiamo visto che si tratta di tre popoli, di tre religioni, di un solo dio e,
neanche a farlo apposta, di una sola terra. Alla questione religiosa si affiancano
altre due questioni: una ovviamente politica ed una economica che si è innestata nel
corso dei secoli e che rappresenta un po’ lo scheletro intorno al quale ruotano tutta
una serie di eventi che hanno interessato la Storia e chi interessano oggi la cronaca,
con fortune alterne, da una parte e dall’altra.
Pensate un po’: la prima deportazione che è stata fatta risale addirittura al 1.300
a.C. e fu operata dai Babilonesi a danno degli Ebrei, che furono sconfitti e
sottomessi e infine deportati a Babilonia, rinchiusi in un ghetto dal quale poi
riuscirono a venire fuori e ripresero le armi contro Babilonia. Tratteremo di quelli
che sono i fondamenti della questione palestinese, approfondiremo questo aspetto
religioso che abbiamo anticipato, faremo un cenno all’integralismo, parleremo
ancora meglio dell’aspetto religioso, dando un poco quelli che sono i primissimi
cenni sull’Islam, sui musulmani e su questa religione e poi tratteremo della
questione politica e della questione economica.
Dunque, innanzi tutto, perché si tratta di tre popoli, perché parliamo di tre popoli e
non già di due popoli in lotta fra di loro? Perché sì, è vero, ci sono palestinesi ed
ebrei che si fronteggiano, con vittime dall’una e altra parte purtroppo, però vediamo
che i protagonisti non sono solo i ragazzi dell’Intifada, o i ragazzi e le ragazze che si
arruolano nell’esercito, un grosso interesse è rappresentato dalla presenza dei vari
55
segretari di stato militari, dei commissari europei, dei vari capi di stato, vedi
Mubarak, presidente dell’Egitto, vedi la Siria, vedi la Giordania, cioè c’è tutto un
insieme di interessi in quella zona. Per cui il terzo protagonista, anche se non è
quello che materialmente impugna le armi o lancia le pietre con le fionde, è
l’occidente e il cristianesimo, se lo guardiamo anche dal punto di vista religioso.
Ulteriore passo indietro, dal punto di vista religioso: tutto comincia, per tutte e tre le
religioni, dalla trascendenza, dalla conoscenza di Cristo.
In termini religiosi, i tre monoteismi si distinguono:
o Nel Giudaismo. L’accesso alla trascendenza, alla conoscenza di Dio, avviene
attraverso la mediazione, e quindi il possesso, della terra promessa da Dio al
suo popolo Æ Israele. La terra è santa e attraverso l’insediamento nella terra
promessa i Giudei attuano la promessa di Dio e realizzano l’alleanza.
o Nel Cristianesimo. La conoscenza di Dio avviene attraverso la mediazione del
Cristo, figlio di Dio, del Dio fatto uomo, venuto a vivere tra gli uomini e tra di
loro in un luogo preciso che è la Chiesa. Quindi l’accesso a Dio avviene
attraverso la mediazione del clero.
o Nell’Islam. Non c’è mediazione e non c’è il concetto del possesso della
terraÆ perché la religione nasce tra i profughi.
Ciascun individuo accede direttamente a Dio in quanto coscienza autonoma e
l’espressione è data dalla preghiera. Il muslim prega anche da solo, ovunque
si trovi, perché è in comunicazione diretta con Dio.
Nell’ Islam si verifica un’importante liberazione della persona da qualsiasi
mediazione per vivere la trascendenza di Dio. In sostanza è l’intero complesso
della religione che funziona come contatto col Dio.
Per la religione ebraica, fondamentalmente questa conoscenza avviene attraverso il
possesso della terra, la terra promessa. Israele è formato dalla famiglia, dalla gente,
dal popolo, il popolo eletto; gli ebrei dicono: quella terra mi tocca perché me l’ha
promessa Dio. Quindi Israele significa la famiglia, il popolo, il clan, il nucleo
parentale con esattezza. E’ un sistema sociale primordiale basato sul patriarcato,
sulla terra, sulla residenza unica, sulla famiglia che, a seconda dei figli, si accresce
per diventare sempre più importante; tanto che vedremo che i musulmani
cominciano a contare la loro epoca non dalla nascita di Maometto o dalla
rivelazione del Corano ma dalla data dell’Egira, letteralmente significa “scissione
del legame tribale”. A un certo punto Maometto, nel corso della sua storia, si ribella
alla sua tribù, se ne va dalla Mecca a Medina e qui fonda la religione; la data esatta
in cui si spezza questo legame tribale e in quel momento esatto nasce l’Islam, è il
625. Quindi cominciano a contare gli anni dal 625 circa a venire giù.
Gli Ebrei abitavano quella terra dai tempi di Mosè e prima di Mosè, dai tempi di
Abramo i prima di Abramo, e con un particolare sistema sociale ed economico – che
vedremo. Successivamente arrivarono i cristiani che contestavano un po’ questo
discorso del possesso della terra come sistema per la conoscenza di Dio: per loro si
può arrivare a Dio attraverso la mediazione di qualcuno, e quindi il clero. Pare che
Gesù avesse detto a Pietro non “Pietro tu sei la pietra e su questa pietra io fonderò la
56
mia chiesa” ma “su questa pietra io fonderò la mia casa” che è un concetto un po’
diverso. Sta di fatto che il momento di transizione alla Conoscenza avviene
attraverso la mediazione di una casta: il clero. Questa è la novità che duemila anni
fa portò il cristianesimo. Dopo altri seicento anni circa arrivò Maometto che, pur
riconoscendo la fondatezza delle religioni che lo avevano preceduto, quindi
l’ebraismo ed il cristianesimo, interpretò in un certo modo i passi dell’Antico
Testamento, in particolare quelli in cui si parla dei cristiani che credono in un solo
dio, creatore del cielo e della terra, che non ha generato né fu generato. In
particolare, egli dice: ma come fa una persona che non ha generato, né fu generata
ad avere un figlio? Quindi negò questa discendenza diretta del cristianesimo dalla
divinità e disse che no, Gesù come Isaia, come Ezechiele, come Elia e come tanti
altri, era stato un profeta, egli stesso è un profeta ed è il sigillo dei profeti – io sono
l’ultimo, dopo di me non ci saranno più profeti – e si chiude il ciclo delle grandi
religioni rivelate esattamente con la rivelazione del Corano che è la parola di Dio, a
Maometto. Maometto non ha scritto il Corano, non ha inventato nulla che non fosse
stato già detto da altri in precedenza, non ha fatto altro che essere ispirato
dall’arcangelo Gabriele e ricevere la parola di Dio.
Saviani: Questi discorsi sembrano portarci un po’ lontano dalla nostra questione,
ma vedrete tra un attimo che non è così perché fra poco parleremo – e noi poi ci
ritorneremo anche quando non ci sarà il professor Cipriano – della questione del
Jihad, che spesso sentiamo come “la” Jihad ma è “il” Jihad: vedremo cosa significa.
Le cose di cui stiamo parlando sono alcuni dei problemi che stanno alla base, sono
fondamentali, per capire la questione del Jihad e quindi di gran parte del conflitto
arabo – israeliano.
Cipriano: Tutto questo discorso è anche alla base della questione palestinese come
questione dell’autodeterminazione dello stato palestinese; cioè la ricerca di una
mediazione che dia, in cambio della pace, il possesso della terra. Difatti, per
esempio, nel 1982 dopo l’invasione del Libano, Sabra e Chatila ed episodi molto
tristi, noi abbiamo visto che c’era un forte interesse dello stato d’Israele nei
confronti del controllo del territorio e proprio del controllo dei popoli che aveva
come confinanti.
A distanza neanche di una ventina d’anni, la situazione sembra che stia per evolvere
diversamente: in questi giorni si sta attraversando un periodo molto favorevole per i
palestinesi, che vede un po’ in crisi tutta la struttura e il macchinoso sistema
inventato dall’Occidente per garantire una pace.
Cosa significa questo? Che nel 1982 noi avevamo, e soprattutto negli anni successivi,
dopo l’invasione del Libano, dopo il Congresso dei Vertici dell’OLP, una situazione
di disgregazione della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina; Arafat era riconosciuto come un leader indiscusso per quanto riguardava
l’organizzazione, ma i singoli appartenenti al fronte popolare dell’OLP – Al-Fatàh,
Amal – erano dei micro-organismi che facevano capo a degli interessi… .
Ad esempio, torniamo al problema della terra: Al-Fatàh non fa altro che
rappresentare i proprietari terrieri, la borghesia fondiaria palestinese che era stata
spodestata dalle proprie terre all’ingresso degli ebrei in Palestina.
Saviani: Attenzione a questo particolare: cominciamo ad entrare nel vivo di alcune
questioni abbastanza particolari che ci fanno vedere da vicino alcune cose che di
57
solito, attraverso i mas media non riusciamo a cogliere. L’immagine che passa per lo
più è: palestinesi povera gente che ha perso casa e terra da una parte e una forza
militare dall’altra. Ora stiamo già vedendo che Al-Fatàh è un’organizzazione sì
palestinese, che però rappresenta un gruppo di interesse, interesse economico: i
proprietari palestinesi. Quindi i palestinesi sono anche una lobby, anche abbastanza
forte…
Cipriano: Sì, un particolare che vorrei sottolineare: durante l’invasione del Libano,
la moneta ufficiale di Israele, nonostante Israele avesse vinto, si svalutò. Questo
perché? Perché tutti i palestinesi e i libanesi rimisero tanti di quei soldi, di quell’oro,
di lingotti, pezzi d’oro da un chilo, da un carato, per cui nonostante i carri armati
avanzassero, arrivò una pioggia di denaro che indebolì in maniera incredibile lo
sheqel – la moneta israeliana – che ancora oggi, dal 1982, esiste come sheqel
pesante. A un certo punto l’inflazione diventò così incontrollabile che dovettero
ricorrere a delle manovre di emergenza, ed è stato, che io sappia almeno, l’unico
caso al mondo in cui chi vince una guerra vede svalutare la propria moneta a favore
della moneta del vinto. Questo sta a significare anche un’altra cosa: che
fondamentalmente si tratta di un confronto tra popoli, tra mentalità molto in
conflitto tra di loro – questo magari lo approfondiremo quando tratteremo la
questione economica. Diciamo che il Libano fino a qualche tempo fa era considerato
la Svizzera dell’Oriente: conti bancari cifrati protetti, niente estradizione per reati di
natura finanziaria. Fondamentalmente questi popoli si combattono perché sono
uguali: appartengono a due famiglie diverse, ciascun membro deve avere la
supremazia su quel territorio. Tranne un po’ l’aspetto religioso, non è che vi siano
grosse differenze per quanto riguarda gli usi, le abitudini, tra gli ebrei e i palestinesi;
dico i palestinesi per il momento e non dico in generale i musulmani perché i
palestinesi non sono tutti musulmani – questo è uno dei discorsi che affronteremo.
Il problema della religione, grosso modo, è delineato così: l’ebraismo è una religione
antichissima, millenaria, ed è una cultura degna del massimo rispetto da parte di
tutti. Essi sono stati i primi ad aver immaginato un Dio unico: i primi monoteisti. Un
breve excursus tutt’intorno: le altre religioni, per esempio gli egiziani, i zoroastriani,
erano tutti sistemi costituiti sulla base del politeismo: Iside, Osiride, ecc., un sistema
di nove divinità per garantire l’esistenza del mondo e della religione. Grosso modo lo
stesso discorso, solo che il numero era sette, per Istar e tutte le religioni, diciamo,
assiro-babilonesi.
Di contro abbiamo poi un sistema, parliamo della religione islamica, che è fondato
fortemente su questa unicità di Dio, che nega ogni altra ingerenza: infatti non esiste
il clero, non esistono preti, non esiste mediazione, se non il rapporto diretto tra il
credente e la divinità.
Ritorniamo al problema della terra…il possesso della terra ci accompagnerà sempre
in questo discorso. Soprattutto adesso, parlando del momento favorevole ai
palestinesi. Perché? Il momento favorevole ai palestinesi si ha nel momento stesso in
cui viene riconosciuto lo Stato di Israele; uno Stato per esistere ha bisogno di
territori. Quando i palestinesi hanno accettato e riconosciuto la proprietà della terra
a queste persone, allora ecco che si può gestire tranquillamente la pace. Senza il
riconoscimento di questa proprietà, di questi possedimenti, non si sarebbe mai
potuto trattare la pace. Con la morte dei due sovrani, quello giordano e quello
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siriano, e con queste due nuove figure giovani (hanno studiato in Occidente, sono
comunque benvoluti dal loro popolo, quindi godono dell’appoggio delle istituzioni) è
un po’ mutato lo scenario, anche se sostanzialmente si tratterebbe di vedere se la
Giordania stringe la mano alla Siria per formare un unico fronte intorno ad Israele.
Dall’altro lato c’è l’Egitto, che è sempre più proiettato a paese leader di un intero
continente, dell’Africa, che sta cominciando, nonostante ci sia anche il problema del
fondamentalismo, a gestire questa sua immagine, per il momento, e spera quanto
prima in una rinascita in termini economici. Per cui, se si chiude ancora
quest’alleanza, si avrà un Israele completamente isolato in un territorio in cui
dovrebbe essere definita, all’inizio di Israele, la sentinella dell’Occidente nel Medio
Oriente. Ecco, questo ruolo di sentinella sta cominciando a venire sempre meno,
anche perché gli armamenti oggi sono in possesso un po’ di tutti: non
dimentichiamo che dietro c’è una grossa riserva, sia in termini militari che in
termini strategici, che sono Iraq e Iran. Dopo la pace molto probabilmente
costituiscono dei veri e propri serbatoi, tant’è che Saddam Hussein l’ha dimostrato:
quando? Durante la guerra del Golfo, bombardava Gerusalemme. Saddam Hussein
sarà pazzo per tante altre cose ma non è talmente pazzo che mentre combatte gli
americani in Kuwait lancia i missili su Gerusalemme e su Tel Aviv e su Eschalon,
che praticamente sta nel Mediterraneo. E’ stato un po’ per mostrare i muscoli,
perché poi al di là degli edifici e di qualche leggero ferito, grossi danni in termini
bellici non ne hanno fatto. Però, per dire: “io sto qua e ti colpisco”. Il momento in
cui si riuscisse a compattare il fronte che circonda Israele con questa grossa riserva
strategica data da circa 30 milioni di persone sarebbe una questione critica – non
dimenticate che fino alla guerra del Golfo l’Iraq era la quarta potenza mondiale a
livello di armamenti, ovviamente tutti armamenti per il 50 per cento americani e poi
il resto un po’ da tutto il mondo.
Saviani: L’alleanza tra Siria, Giordania, Libano, Egitto, l’abbiamo trovata, o in atto
o semplicemente temuta, quando abbiamo accennato ai diversi conflitti araboisraeliani, cioè nel ’48, nel ’56, nel ’67, nel ’73: sono le date dei quattro principali
conflitti tra arabi e israeliani. Quando vedremo da vicino i quattro conflitti, in una
di queste guerre vedremo che questa alleanza fu semplicemente temuta da Israele,
non era ancora in atto, ma Israele condusse un attacco preventivo nel vedersi
accerchiata.
Cipriano: Sì, in effetti buona parte delle operazioni che sono state fatte sia dal
terrorismo israeliano, sia il discorso proprio della guerra dei sei giorni che fu un
attacco preventivo, oltre che le guerre diplomatiche, servirono proprio a
frammentare questo fronte.
Tornando ad analizzare il discorso religioso in rapporto a quello che viene definito
integralismo, anche qui io farei un’altra distinzione e comincerei a distinguere tra
un integralismo musulmano, chiamiamolo così, e un integralismo ebraico.
Quest’ultimo, dal momento che non ci sono grosse, come dire, divisioni all’interno
della religione, è collegato più che altro ad una interpretazione più o meno rigida
della Torah; l’integralismo musulmano invece, potrebbe avere delle radici ancora
più lontane, addirittura potrebbe essere fatto risalire al periodo delle scuole
coraniche. In un certo periodo si sono avuti degli adepti di una scuola, i fratelli della
purezza, che predicavano la pratica dell’Islam, del Corano, molto rigida, cioè
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un’applicazione pedissequa di quello che è il contenuto del Corano, rifiutando
quelle che potevano essere le interpretazioni, le esegesi e i commenti, se non
addirittura le dottrine che le varie scuole religiose avevano fatto derivare dalla
lettura e dall’interpretazione della parola di Dio rivelata nel Corano. L’integralismo
ebraico è semplicemente una lettura più o meno rigida della Torah; all’interno della
religione ebraica esiste una “casta”, i Rabbini, il cui compito non è altro che quello
di studiare, interpretare e tramandare l’Antico Testamento, quello che viene
chiamato la Torah. Esistono delle regole poi che non sono scritte nel libro ma che
fanno parte di una pratica quotidiana e vengono rigidamente tramandate. Ad
esempio, un appartenente ad una famiglia rabbinica difficilmente può sposarsi con
una persona che non appartenga al suo stesso rango, tant’è che è diffusa tra gli ebrei
l’emofilia: perché i matrimoni vengono celebrati tra consanguinei; attenzione, il
motivo sì è religioso, però torno a rimarcare il fatto che alla base c’è sempre il
discorso di non disperdere la terra, di non uscire dall’asse ereditario, in quella che è
poi la spartizione e il controllo del territorio. Quindi resta tutto nell’ambito del clan,
della famiglia estesa, della tribù: l’importante è che noi non facciamo uscire fuori da
questo nostro controllo, che si attua attraverso la gestione familiare, questi beni,
questa proprietà. Nel caso dei rabbini diventa proprio un discorso di casta: si
sposano tra di loro, lavorano, anche se non rappresentano il clero, non sono dei
preti, non hanno nulla a che vedere con il concetto così come lo possono avere i
cristiani. Poi c’è da tener conto anche di un altro fatto. Bisogna cominciare a
distinguere la composizione delle due parti. La terza parte è quella nascosta:
l’Occidente, la cristianità. Io parlerei addirittura di nuove Crociate: se voi andate un
po’ indietro e pensate al discorso delle Crociate che si ebbero dopo l’anno 1000,
vedrete che gli europei che andavano lì a combattere, Goffredo di Buglione, Riccardo
Cuor di Leone, era gente che non è che andasse lì perché voleva la terra, andava lì
perché voleva liberare il Santo Sepolcro; quindi non era un discorso di
partecipazione alla spartizione del territorio. La stessa cosa sta avvenendo adesso,
perciò io mi convinco sempre più che possiamo parlare di nuove Crociate, cioè
questo Occidente che comunque ci tiene ad essere presente lì, in quella città dove in
un raggio di 2-300 metri quadrati, grosso modo, abbiamo: la Moschea più sacra cara
ai musulmani, Kubbat-il-Sakhràh, la Cupola d’Oro, dove abbiamo ciò che resta del
Tempio degli ebrei, il Muro del Pianto, l’unica parete che è rimasta in piedi del loro
tempio e dove c’è il Santo Sepolcro che avrebbe dovuto custodire le spoglie di Gesù.
Tutto questo si svolge in un’area che avrà circa 200 mq di lato! E quindi è lì che ci
sono grossi interessi. Attenzione perché, tra l’altro, quando parliamo di cristianità
non parliamo soltanto di Vaticano, di cattolici: parliamo di ortodossi, di quelli che
vedremo adesso e che poi stanno, paradossalmente, da una parte e dall’altra ed è un
vero vespaio. Tutto nasce da Abramo, il patriarca; sposa Sara e ha Isacco. Ha una
schiava, Agar, e ha Ismaele (tutti questi sono semiti, Isacco gli ebrei, Ismaele gli
arabi), perché c’è quest’usanza rimasta tuttora nella religione musulmana, che un
uomo può sposare anche più di una donna, massimo quattro, previa garanzia di
mantenimento. Cioè, un uomo non può sposare una donna se non può garantirle lo
stesso tenore di vita che lei faceva presso la sua famiglia. Poi deve pagare una sorta
di “cauzione” al padre della ragazza, quella che possiamo definire anche una dote
(quindi non è la donna come da noi che porta la dote ma è l’uomo che la versa) ma
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non è un comprare perché in alcuni casi viene restituita e non viene data come
prezzo per la figlia ma come riscatto, cioè è come se lui affrancasse questa donna
dall’appartenere alla famiglia originaria. Noi occidentali accusiamo spesso i
musulmani: “ma voi siete dei barbari perché sposate anche fino a quattro donne”; la
risposta che mi sono sentito spesso dare è “sì, però da noi non esiste l’adulterio”. In
pratica non esiste l’adulterio perché con questo sistema del riconoscimento religioso
e legale del concubinaggio tutto funziona senza fare una piega. Chiaramente devono
essere d’accordo tutti: non è che il marito torna a casa e dice “questa è la nuova
moglie”, non è assolutamente così; anzi, in molti casi è la prima moglie che spinge il
marito a prendere in sposa una nuova donna, o almeno questo succedeva fino a
qualche tempo fa.
Occorre fare ulteriori tre distinzioni: una distinzione etnica, una distinzione di
nazionalità e una distinzione religiosa.
Una parentesi: a circa 40 anni gli uomini diventavano eremiti, si isolavano sulle
montagne e si avvicinavano a Dio e questo spesso avveniva sotto l’effetto di sostanze
allucinogene che servivano a dare una sensazione di distacco dalla quotidianità,
dalla pratica, dalla vita materiale e cercare, attraverso la meditazione, di conoscere il
sovrannaturale. Erano pratiche molto diffuse. Pensate, tra l’altro, che i primi resti di
birra furono trovati nella tomba di un faraone egiziano!
Il nostro termine “assassino” deriva da una setta sciita che furoreggiò per un certo
periodo in Turchia e che prima di commettere le note efferatezze strangolava chi
non era musulmano, e prima ancora di fare questo faceva uso di Hashish, per cui il
loro nome era Hashishiùn, cioè “coloro che consumano hashish”. A quel tempo ne
consumavano quantità incredibili, andavano proprio in uno stato di totale
esaltazione e noi abbiamo ereditato il nostro termine “assassino” e il verbo
“assassinare” da questa setta.
Una notazione circa la numerologia: in Mesopotamia, qualche migliaio di anni
prima, si era fondato il sistema sessagesimale e quindi tutta la concezione del mondo
terreno e ultraterreno era concepita sulla base di questi numeri.
Gesù era ebreo – apro e chiudo un’altra parentesi – nasce da una famiglia ebrea,
Giuseppe era operaio ebreo. Il vero nome di Gesù era Aisa ed era detto il Messia.
Letteralmente, “colui che veniva unto”; come quando in Grecia si accoglieva un
ospite: gli si faceva fare un bagno, gli si davano tuniche bianche, ecc. e il verbo
“matahah” significa “cospargere di olio” ed era chiaramente una pratica diffusa. Lo
facevano anche con i faraoni quando morivano: li ripulivano di tutti gli organi
interni e li cospargevano di olii che servivano a mantenere integro il corpo. Come se
si fosse voluto dare lustro alla persona, la si lavava e la si cospargeva di questi olii
profumati. Poi pian piano cominciò a significare una persona prescelta nell’ambito
dei culti delle varie religioni, come dire, un vescovo, un cardinale, un Papa. Veniva
unto perché era una persona importante. Ecco perché Gesù veniva chiamato anche
Messia: non perché fosse stato materialmente unto.
Poi possiamo fare delle distinzioni, come avevo detto prima: una sulla base della
nazionalità, delle parti che stanno agendo in quei territori.
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Sarah
ABRAMO
ETNIA = SEMITI
Noè, Sam, Cam, Abramo
Hagar
ISACCO
ISMAELE
EBREI
ARABI
NAZIONALITA’
EBREI : Americani
Russi
Polacchi, ecc.
GENERAZIONE DI ISRAELIANI
( INCLINI ALLA PACE )
PALESTINESI: con vari passaporti
A questo proposito, la cosa comincia a complicarsi perché abbiamo gli ebrei e i
palestinesi; ma gli ebrei possono essere: russi, americani, giordani, tedeschi, spagnoli,
che da tutto il mondo sono approdati in Israele portando fondamentalmente la loro
testimonianza religiosa in quanto ebrei e portando contemporaneamente la loro
testimonianza di cittadini di questi Paesi. Ecco perché da un punto di vista anche
culturale Israele è un Paese molto ricco, perché effettivamente c’è questa unione,
questa fusione, favorita dalla religione.
Dall’altra parte i palestinesi possono avere i passaporti più svariati, cioè, sono
palestinesi e poi vanno in giro con passaporto giordano, siriano – raramente –
egiziano, di qualche Paese africano, quasi mai con passaporti di Paesi occidentali.
Fondamentalmente abbiamo un’unica nazionalità: i palestinesi, mentre al contrario
gli ebrei sono il frutto di diverse nazionalità. Quindi ciò che accomuna i palestinesi è
il fatto di essere la gente di quel posto, ciò che accomuna gli ebrei è il fatto che da
tutto il mondo sono arrivati in quel posto. Vedete come sotto sotto continua ad essere
presente il discorso del rapporto con il territorio, il possesso della terra, e parliamo
sempre della Terra Promessa, della Terra Santa.
Saviani: Quindi, i palestinesi accomunati dall’unica nazionalità e dunque
appartenenza ad una nazione – dicevamo l’altra volta che “nazione” è “la terra in
cui si è nati” – e vediamo che gli ebrei sono accomunati invece dal fatto di essere
ebrei ma la nazionalità è ciò che li divide, nel senso che vengono da diverse Nazioni
e sono ritornati in Israele. I palestinesi sono un’unica nazionalità anche se con
diversi passaporti. Quindi ciò che accomuna gli uni in un caso non accomuna gli
altri nell’altro caso.
Cipriano: Un’altra cosa da considerare è che di recente comincia ad essere presente,
dal ’40-’50, una nuova generazione di ebrei: gli israeliani, cioè quelli che esistono da
quando esiste lo Stato di Israele. Tra le altre cose va sottolineato che essi sono molto
più inclini alla pace, molto più propensi alla convivenza nel giardino comune che
dicevamo in apertura, rispetto a quelli che sono i loro padri.
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Saviani: Personaggi che vedremo quando affronteremo i diversi conflitti degli anni
‘50, ‘60 e ’70: Moshè Dayan, lo stesso Rabin. C’è un momento nella storia di Israele
in cui le forze armate e diciamo, gli alti gradi delle forze armate, hanno avuto un
grosso peso e le persone e da Ben Gurion in poi – Ben Gurion, abbiamo visto l’altra
volta, è il primo presidente di Israele – troveremo dei nomi, anche ricorrenti, di
generali che purtroppo legheranno il loro nome ad episodi molto tristi di questo
conflitto.
Cipriano: Il terzo aspetto, quello religioso, investe un poco i presupposti che si erano
creati prima, perché grosse differenze all’interno della religione ebraica non
esistono. Ci sono gli Yiddish, gli Ashemiti, però si tratta di sfumature
sull’interpretazione ma che non creano dissensi, dei vuoti religiosi all’interno
dell’intero sistema religioso ebraico.
RELIGIONI
EBREI : più o meno fondamentalisti
a seconda della lettura rigida della
TORAH
Sunniti
PALESTINESI: Musulmani
Sciiti (AMAL)
Maroniti
Cristiani--------Ortodossi
Come abbiamo detto che Al-Fatàh rappresentava i latifondisti palestinesi, Amal
rappresentava gli sciiti palestinesi anche in Libano.
Poi abbiamo i Cristiani…
Saviani: I palestinesi cristiani.
Cipriano: A loro volta maroniti e ortodossi, i Drusi. Poi abbiamo anche i cattolici e,
secondo percentuali bassissime…
Saviani: ebrei.
Cipriano: No, perché qua nasce un altro problema: l’ebreo palestinese non può
esistere in quanto tale.
Saviani: Perché mi pare di aver capito che l’incontro di stamattina ricordava anche
un’associazione di ebrei palestinesi.
Cipriano: Ma è diverso.
Saviani: Ebrei palestinesi.
Cipriano: E’ diverso, gli ebrei palestinesi sono quegli ebrei che sono rimasti di
religione ebraica, non sono mai fuoriusciti con la Shoah dai confini, sono sempre
rimasti là, hanno sempre goduto della condizione di protetti.
Studente: Quindi si può dire ebrei palestinesi ma non palestinesi ebrei.
Cipriano: Sì, anche perché c’è un concetto di base, pratico: ebreo è colui che nasce
da madre ebrea. Questo significa che nella religione ebraica un concetto quale
l’apostasia che viene ammesso nell’Islam…
Saviani: Sapete cosa significa “apostasia”? “Apostata”? “Apostasia”, fare
“apostasìa”, essere un “apostata”, è colui che passa ad altra religione.
Cipriano: Nell’Islam apostasia significa “perdita della propria identità”, in quanto
se non sei musulmano, è come se tu non avessi identità da un punto di vista
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religioso. Puoi conservare tutti i documenti che ti rilascia il Comune, però hai perso
la tua identità in quanto membro, soggetto, di una precisa struttura. L’ebreo, una
volta che è diventato tale, si sente ebreo. Se tua madre era ebrea, sei ebreo per tutta
la vita. Anche se andrai ad abbracciare un’altra religione, resterai sempre ebreo. E’
anche un concetto di tradizioni, di costumi, di forte potere che hanno acquisito a
livello economico gli ebrei. E qui affrontiamo l’aspetto della questione economica. E’
dovuto al fatto che esiste un vincolo talmente forte tra queste persone, diciamo che
la loro economia è tutta atta alla libera circolazione di beni mobili, quindi ecco
perché gli ebrei hanno grossa familiarità al controllo delle banche, dei sistemi
monetari, finanziari, mobiliari in generale. Mentre dall’altra parte, pur avendo la
stessa mentalità, è tutto fortemente concentrato sulla libera circolazione delle merci.
I più grossi commercianti che ci siano mai stati, sono stati gli arabi, tant’è che molte
delle cose che noi abbiamo e i loro nomi, provengono da loro.
Saviani: Allora, per concludere, una parentesi breve, ma vi assicuro molto
interessante sui nomi che vengono dall’arabo, parole che usiamo tutti i giorni e che
il prof. Cipriano ci aiuterà a scoprire.
Cipriano: Ecco un’ipotesi che ci riguarda un po’ tutti messi insieme. Allora, badate
bene, ebrei e arabi hanno avuto anche lo stesso linguaggio che deriva dall’aramaico,
Gesù parlava aramaico, poi a sua volta l’aramaico si è distinto in a. imperiale e a.
del deserto, che è diventato, sottoforma di sub-lingue più che di dialetti, l’ebraico e
l’arabo. Infatti per dirvi, “sole” in arabo si dice “shams”, in ebraico si dice
“shemesh” quindi, vedete, la radice è molto simile. “Cinque” si dice “khamsa” in
arabo, “khemesh” in ebraico.
In italiano ci sono delle parole che provengono da quelle lingue: nel dialetto
campano per esempio, i frutti che provenivano dall’India, che noi in Italia abbiamo
conosciuto soprattutto grazie a questi popoli, contengono il nome con il quale sono
stati importati; per esempio le arance noi le chiamiamo in dialetto “i purtualle” che
viene dalla parola con cui le hanno importate gli arabi, e in arabo le arance si
chiamano “purtualle”; le pesche, che da noi sono le “persiche” perché venivano dal
Golfo Persico, quindi dalla zona del Mar Rosso, in arabo si chiamano “barqùq”; in
dialetto noi le chiamiamo “percoche”. E poi, per dire, “harshùf” in italiano
“carciofo”; “laimùn” “limone”.
Saviani: Anche “Italia” mi pare, no?
Cipriano: Sì, ecco una cosa su cui vorrei farvi riflettere: in arabo esiste un verbo,
“taala” che significa “essere lungo”, in una forma verbale “intaala”, che è la stessa
forma, significa “essere stretto e lungo”. Fate un po’ un paragone: come è l’Italia
come forma geografica? E’ stretta e lunga, quindi l’aggettivazione “quella che è
stretta e lunga”, si fa così, con la ipsilon prima della “a”: “intaalya”, la enne è una
debole, cade, da cui “Itaalya” che significa “quella che è stretta e lunga”.
Cipriano: Ovviamente non è che vi siano esempi solo a Napoli: a parte il fatto che in
Sicilia gli arabi sono rimasti 300 anni, pensate un po’ a tutte le città in Italia che
hanno dei nomi tipo “Caira”, oppure “Cairo”, come Cairo Montenotte. In genere che
facevano? Venivano con le navi, scendevano, facevano scorribande. Quando
arrivavano i turchi, che in effetti non erano turchi e neanche saraceni, ma berberi o
arabi più in generale, penetravano anche verso l’interno e si accampavano. Là dove
avevano qualche scaramuccia perché battaglie non ce ne sono mai state, tranne che
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in Sicilia, cambiavano il nome ai villaggi: li chiamavano “Al-Qàhira” che significa
“in nome della vittoria”, cioè “qui abbiamo vinto e ci restiamo”. Ciò accadeva alle
città soprattutto prossime alle coste. Se andiamo un po’ più indietro nel tempo, noi
vediamo che dal Libano attuale, che all’epoca era la Fenicia, si staccarono un paio
di tribù che, per motivi di terre, non poterono stare lì e andarono via, arrivarono su
delle isole e là si fermarono; voi vi chiederete: come si chiamavano? Una tribù si
chiamava Sheklesh e la Sicilia è stata quindi fondata dai fenici, un’altra era
Sherdana e fondò la Sardegna. Queste sono una chiara testimonianza dell’origine di
queste parole.
Chiudendo anche il discorso sugli integralismi, queste differenziazioni servono a
dimostrare che l’argomento religioso è un po’ il paravento dietro il quale vengono
nascoste molte altre motivazioni assai più serie: i soldi, il controllo delle popolazioni.
Fondamentalmente però, il controllo dei flussi di capitale che inevitabilmente passa
su quella striscia di terra. L’integralismo, quello che ci viene propinato in quanto
tale, non è assolutamente un fenomeno religioso, in quanto esso nasce come reazione
al capitalismo e all’imperialismo. Anche perché c’è questo movimento che va contro
questa penetrazione all’interno ed è un fenomeno da considerare bene in questo
senso. Quindi non è che il fanatico religioso vuol combattere tutti gli americani;
dicevamo prima che neanche Khomeini si è potuto permettere questo lusso.
Saviani. Prima di cominciare l’incontro, parlavamo appunto di Khomeini e della
Guerra Santa, parlavamo di Jihad.
Cipriano: Il Jihad, attenzione, la Guerra Santa, è una cosa che non esiste in questo
momento: per poter essere proclamato un Jihad c’è bisogno di alcune condizioni
fondamentali: 1) il Jihad è proclamato da un califfo: non esiste più il califfo; califfo
significa “vicario” di Maometto; quindi non esiste più un impero basato sulla
religione islamica. Il califfato è caduto intorno al 1500-1600 e da allora non è
esistito più. E’ stato l’impero più ampio che sia mai esistito in tutta la storia
dell’uomo e si basava sul Corano che al tempo stesso era testo religioso e codice
civile. 2) Il Jihad deve essere dichiarato in quella che è la casa della guerra; tutti i
territori che sono opposti e controllati dalla religione islamica, sono casa della pace.
Il Jihad, che è Guerra Santa, deve essere combattuta fuori. Allora, in Palestina, come
è possibile il Jihad se esse è una “casa della pace”? Quindi è un controsenso e non
può essere dichiarata. 3) La sua purezza: il Jihad si fa nei confronti di tutte le eresie;
ebbene, i cristiani non sono infedeli perché sono gente del Libro, vengono anche loro
dallo stesso Libro, l’Antico Testamento. Quindi io posso fare la guerra contro i
confuciani, ecc. ma non contro i cristiani. Non può essere Santa una guerra contro
persone che sono considerate credenti, che hanno un Dio. E’ un controsenso
religioso, tant’è che nel caso della guerra e dei conflitti, più o meno contro gli
americani, Khomeini parlava di una guerra contro Satana, definendo gli USA
“Satana”, ma non parlava di questa guerra come di “Santa”, non poteva farlo.
65
Massimo E. Baroni (studente Psicologia), Massimiliano Borelli (5L),
Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4B),
Tommaso Pio Cerulli Irelli (4D), Silvia Crupano (4D), Sayaka De Matteo (5B),
Jessica Ferretti (4D), Silvia Giacomini (5M), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),
Francesca Neri (5L), Ginestra Odovaine (3G), Marta Osnaghi (2D),
Giulia Riva (3N), Tommaso Sanna (5L), Ramacandra Wong (2N)
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Prof. Lucio Saviani
30 Gennaio 2001
Saviani: I testi che utilizzeremo sembrano sovrapporsi, naturalmente parlano delle
stesse cose, ma sarà nostra cura vedere come ne parlano e quali sono le differenze.
Vedremo quindi come certe notizie sono elaborate e riportate diversamente in vari
testi.
La volta scorsa abbiamo visto che Israele nasce il 14 maggio 1948, un giorno prima
rispetto al previsto; anche il 15 maggio era stata una data nuova, una modifica del
primo accordo con le Nazioni Unite: l’Inghilterra aveva stabilito di rimettere il
mandato alle Nazioni Unite e di lasciare i territori della Palestina il 1° agosto del
‘48. A un certo punto abbiamo visto che l’Inghilterra non regge più la situazione:
scontri, disordini continui tra arabi ed ebrei residenti o che continuano ad arrivare
dopo la seconda guerra mondiale, chiede addirittura di anticipare al 15 maggio,
data che resterà sempre non ufficiale perché la nascita effettiva dello Stato di Israele
sarà il giorno prima.
Segnamoci questa data, 14 maggio ’48: un mese prima accade qualcosa di molto
brutto, il 9 aprile fu perpetrato un eccidio – uno tra i tanti – vedrete che nel 1982
questo confronto tra arabi e israeliani molto spesso si macchia di sangue con stragi,
eccidi, attentati ma soprattutto stragi di villaggi palestinesi. Vedrete anche che molto
spesso, tre volte, assisteremo a veri e propri esodi, esodi di palestinesi, che somigliano
molto all’esodo dal Kosovo, all’esodo dei curdi: persone che camminano perché
devono andare da qualche parte ma non si sa dove, sicuramente non nella terra
dove abitavano. Il primo eccidio è questo del 9 aprile: un commando guidato da
Menchem Begin – Begin sarà poi il capo del governo di Israele negli anni ’70, molti
statisti d’altronde hanno un passato da militari – massacra 250 tra uomini, donne e
bambini nel villaggio di Deir Yassin, un episodio che un giornalista ebreo definirà
“la macchia più nera nella Storia ebraica”.
Il 14 maggio, con la dichiarazione di Ben Gurion, nasce Israele ma nasce con questa
pagina nera. Un altro testo che parla del ’48 – è una guerra che va fino al gennaio
’49 – dice: “l’Inghilterra non riesce a controllare la situazione, la situazione è dovuta
alle continue immigrazioni di ebrei da ogni parte del mondo, soprattutto
dall’Europa, dopo la seconda guerra mondiale. La situazione è esplosiva, si accesero
scontri infiniti tra ebrei ed arabi e tra ebrei e inglesi, l’Inghilterra non riesce a
controllare la situazione che ogni giorno appare più carica di rischi, allora quando
la seconda guerra mondiale è terminata la Gran Bretagna decide di lasciare alle
Nazioni Unite la decisione relativa al futuro della Palestina e annuncia che il 15
maggio 1948 si sarebbe ritirata dalla regione.” Ma c’era già una data, quella di
agosto: essa viene anticipata. “Al momento del ritiro delle truppe inglesi gli ebrei
immediatamente proclamano, il 14 maggio ’48, la nascita dello Stato di Israele”.
Abbiamo capito dunque che la Gran Bretagna annuncia alle Nazioni Unite che il 15
maggio abbandonerà quei territori; “al momento del ritiro delle truppe inglesi –
quindi capiamo il 15 – gli ebrei immediatamente proclamano, il 14 maggio ’48, la
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nascita dello Stato di Israele” quindi non appare chiaro quello che lì era chiaro e
cioè che lo Stato di Israele nasce in anticipo. Su questo punto gli arabi insisteranno
molto, addirittura diranno che lo Stato di Israele è nato in modo illegale, al di là di
ogni risoluzione dell’ONU e del diritto internazionale. Gli arabi ovviamente
punteranno molto su questa cosa, caricheranno anche i termini della questione, sta
di fatto che però vedete che la questione è controversa. Questa soluzione è giudicata
dagli arabi un atto di forza intollerabile, tanto più che la fondazione di questo Stato
emarginerà la parte già socialmente più svantaggiata della Palestina, che tra l’altro è
la stragrande maggioranza degli abitanti. “Tra il 15 maggio del ‘48 e il 25 gennaio
del ’49, si apre il primo conflitto tra israeliani e arabi. Le forze arabe, che
comprendono oltre ai palestinesi anche truppe dei vari Stati mediorientali – qui
dobbiamo intendere Giordania, Siria ed Egitto – mal guidate, senza coordinamento,
sono sconfitte. Quasi un milione di palestinesi, espulsi dalla propria terra, vanno
incontro ad una vita miserabile nei campi profughi messi a disposizione dai governi
arabi.” Riflettiamo: un milione di profughi significa esodo, significa che, se avessimo
avuto allora i mezzi di telecomunicazione di oggi, avremmo visto un milione di
profughi palestinesi essere spinti fuori dalle proprie terre. “Ha così inizio un
conflitto fra arabi e israeliani in Medio Oriente destinato col tempo a diventare
sempre più acuto. Entrambi i contendenti accampano diritti antichissimi e sacri: per
decenni non vi sarà il minimo margine per una trattativa”.
Quest’altro testo ci dice che gli eserciti arabi in questa guerra, furono Egitto, Siria,
Giordania. A fine guerra abbiamo una spartizione dei territori della Palestina:
Galilea a Israele, diciamo la parte meridionale; Giudea alla Giordania, quindi la
parte orientale, che era chiamata la Cisgiordania; la Striscia di Gaza va all’Egitto e
Gerusalemme viene divisa in due, il settore occidentale agli ebrei, quello orientale
alla Giordania.
Qui c’è un altro particolare: un milione di profughi viene accolto dal re Abdullah.
Sembra che in realtà ebrei e giordani abbiano concordato, con la protezione degli
inglesi, il realizzarsi di questa situazione che diverrà ufficiale nel 1950 quando la
parola “Palestina” viene bandita. Non si potrà più nemmeno parlare di Palestina
nel senso che non esisterà più nemmeno il nome della Palestina.
La Giordania è uno Stato indipendente con cui Israele confina a est; fino a questo
momento la Giordania si è chiamata Transgiordania, faceva parte dei territori
decolonizzati dopo la seconda guerra mondiale; la Cisgiordania sarà un territorio
interno ad Israele che confina con la Giordania.
Passiamo adesso al 1956. Si apre un nuovo conflitto. Avrete capito che dalle prime
immigrazioni sioniste della seconda metà dell’’800, la dichiarazione Balfour del
1917, la situazione in Israele è stata sempre di conflitto permanente che però non
arriva mai ad uno scontro frontale tra i due eserciti, vi arriva solo quattro volte. Ma
fra una data e un’altra c’è sempre un conflitto fatto di incursioni, scaramucce alle
Nazioni Uniti, guerra civile.
Nel 1956 siamo in piena epoca di guerra fredda: il ’56 è l’anno della rivolta in
Ungheria in Europa e quindi della conseguente invasione dell’Ungheria da parte
dell’Unione Sovietica; il ’56 è anche l’anno in cui cominciano ad essere resi noti
alcuni fatti interni dell’Unione Sovietica, le “purghe” di Stalin, Stalin che è morto da
poco, da tre anni; insomma il 1956 è un anno piuttosto importante nella Storia
68
contemporanea. Il ’56 è anche l’anno della crisi di Suez dove troviamo Nasser che è
il presidente dell’Egitto, di questa repubblica ben vista e appoggiata dall’Unione
Sovietica e quindi non ben vista da Israele, presidente di una repubblica
nazionalista di vago stampo socialista, un militare che ha fatto un colpo di Stato e
nel 1952 sale al Governo e vuole prendere la leadership dei Paesi arabi.
Studente: I palestinesi si trovano in Giordania?
Saviani: Sì, fino al 1970, al settembre nero, quando vengono cacciati fuori e
sterminati dalla Giordania perché non tollera più la presenza dei Palestinesi che
organizzano attentati, le cui ritorsioni si abbattono anche sulla Giordania. Anche in
Libano troveremo due villaggi, Sabra e Chatyla, dove ci saranno centinaia di
persone sterminate.
Siamo ancora nel ’56. Questo libro è molto chiaro: “Si apre una delle crisi più dure
del dopoguerra. Accadono questi fatti: Nasser ha progettato, per irrigare parti in
zone desertiche, evitare inondazioni periodiche e potenziare le fonti energetiche del
Paese, un incanalamento delle acque del Nilo con una diga, con la costruzione di
una grande diga ad Assuan”. Quindi è un problema di energia, un grande progetto
che mira a potenziare economicamente, e quindi anche politicamente e
militarmente, l’Egitto. Perché, appunto, Nasser ha questa mira di egemonia per
quanto riguarda i Paesi del Medio Oriente. Naturalmente questo viene compreso
dagli Stati Uniti, e il libro dice: “quest’opera comporta un onere finanziario che gli
egiziani non sono in nessun modo in grado di sostenere: gli Stati Uniti boicottano
quest’impresa e fanno fallire un progetto di finanziamento occidentale” quindi
Nasser aveva chiesto un finanziamento ad Europa e Stati Uniti che però questi
ultimi boicottano. “Allora Nasser compie un’azione spettacolare che innescherà una
reazione a catena: il 26 luglio del ’56 decreta la nazionalizzazione della compagnia
internazionale del canale di Suez, – la compagnia ricorderete che gestisce il
passaggio delle navi per il canale di Suez e quindi è quella che riscuote i pedaggi –
nazionalizzare questa compagnia significa incamerare tutti i proventi nelle casse
egiziane. Inghilterra e Francia hanno molti e importanti interessi legati al canale, di
natura sia strategia, sia economica e sollecitano un intervento armato di Israele dove
si trova al potere l’energico Ben Gurion. Dopo una serie di accordi segreti, le truppe
israeliane di Moshè Dayan – con una benda sull’occhio, all’epoca era proprio
l’emblema delle forze armate israeliane – attaccano, senza preavviso, nella notte tra
il 29 e il 30 ottobre, gli avamposti egiziani con una marcia fulminea verso Gaza e il
Sinai: l’esercito egiziano è travolto. Gli Stati Uniti condannano l’intervento” – ecco
perché è importante il ’56, perché è l’anno in cui emerge con maggiore chiarezza che
è finita l’epoca del colonialismo prima maniera, quello prima della seconda guerra
mondiale, lo dicevamo anche l’altra volta: dopo la seconda guerra mondiale l’ordine
mondiale è garantito e gestito da due potenze mondiali che non sono né la Francia
né l’Inghilterra ma Stati Uniti e Unione Sovietica.
“Gli Stati Uniti condannano l’intervento anche perché non risponde ai loro interessi
un rilancio dell’influenza di Francia e Gran Bretagna in Medio Oriente – quindi la
condanna degli Stati Uniti è più un fatto che riguarda i rapporti tra Stati Uniti e
Europa, quindi Francia e Inghilterra, piuttosto che un discorso di pace in Medio
Oriente – perché sono state due potenze che non sono l’Unione Sovietica o gli Stati
Uniti, ma due potenze ex-coloniali europee ad aver preso l’iniziativa. L’Unione
69
Sovietica, il 6 novembre, indirizza agli aggressori, Francia, Gran Bretagna ed Israele,
un ultimatum: minaccia il ricorso alle armi atomiche sicché l’aggressione deve per
forza chiudersi il giorno stesso.”
Quindi così finisce questo secondo conflitto, con una presa di posizione, una
condanna, da parte degli Stati Uniti e addirittura un ultimatum di un ricorso alle
armi atomiche da parte dell’Unione Sovietica. Questa guerra appare periferica ma
invece sono in gioco gli interessi economici e politici di tutto il mondo. A dicembre le
ultime truppe anglo-francesi abbandonano l’Egitto; all’insuccesso dell’intervento
franco-britannico si aggiunge quello di Israele la cui azione è stata condannata
dall’ONU e le cui forze militari devono, all’inizio del ’57, abbandonare il Sinai e
Gaza.
Vediamo come su un altro testo la vicenda viene affrontata: “Nasser nel ’56 ordinò
la nazionalizzazione della compagnia internazionale del canale di Suez – un colpo
di mano come risposta alla negazione del finanziamento – allo scopo di assicurare
all’Egitto i soldi dei pedaggi pagati dalle navi per transitare attraverso il canale. Il
provvedimento colpiva direttamente gli interessi economici europei, bloccando la via
del petrolio fra il Golfo Persico e il Mar Mediterraneo. La Francia e la Gran
Bretagna decisero di intervenire militarmente, contingenti di truppe arabe, francesi,
ecc. ecc. L’URSS manifestò subito una totale solidarietà con Nasser minacciando di
schierare il suo esercito per aiutarlo. Il 22 novembre del ’56 le truppe arabo-francesi
abbandonarono il territorio egiziano lasciando libero il canale. L’Egitto vieta ad
Israele la navigazione nel canale di Suez – quindi ritornò ad essere una questione tra
Egitto e Israele sarà così per molti anni – e nel golfo di Aqaba, all’ingresso del Mar
Rosso”. Il golfo di Aqaba è un golfo stretto e lungo che sta a sud di Israele, la parte
proprio più meridionale ed è l’unico sbocco sul golfo per la città, e quello è un punto
strategico, sul golfo di Aqaba, per Israele, perché Aqaba è una città israeliana che
rappresenta uno sbocco sul mare del sud. Quindi tutto ritorna ad uno stato prebellico dopo quell’ultimatum dell’Unione Sovietica.
Per quanto riguarda il terzo conflitto dobbiamo dire ancora qualche cosa, che ci
ricorda questo testo: “Dopo la conclusione del conflitto arabo-israeliano del ’56, la
tensione fra le due parti non ha accennato a diminuire” abbiamo detto che prima e
dopo la situazione tra Israele e gli Stati arabi rimane sempre conflittuale; alla fine
della guerra del ’56 comunque non si ha una pace, non è possibile nemmeno parlare
di tregue, si ritorna uno stato di conflitto latente, che scoppia ogni tanto, in qualche
modo, ma non in termini di guerra di eserciti. Questo accadrà con il terzo conflitto
nel 1967.
Nel ’67 Nasser è appoggiato dall’Unione Sovietica, qui il libro dice “l’Unione
Sovietica arma gli arabi, così come Stati Uniti, Francia e Inghilterra armano gli
israeliani. Nasser annuncia il blocco delle navi che attraversando il golfo di Aqaba
riforniscono Israele” – vedete quindi che l’azione di Nasser è più mirata contro
Israele . “A questo punto, il 5 giugno, Israele assume l’iniziativa militare” – badate
bene: è Nasser ad iniziare, a fare la prima mossa, però ripeto queste prime mosse si
fanno sempre in una situazione di tensione, non di pace, non di reciproco
riconoscimento degli Stati, tra la fine di un conflitto aperto e un altro.
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Studente: Il fatto che gli USA appoggiano Israele e l’URSS appoggia gli arabi nasce
da fatto politico o da interessi? Cioè, perché per esempio gli americani appoggiano
gli israeliani e non gli arabi?
Saviani: Gli Stati Uniti d’America hanno interesse ad avere uno Stato alleato che
faccia da zona controllata, da punto di controllo, in quella parte del Medio Oriente.
Così come la Corea e il Vietnam saranno delle regioni del mondo in cui gli USA
hanno interesse a presidiare o ad avere come Stati alleati che controllino.
La decolonizzazione ha portato alcuni Stati a comportarsi in un certo modo e a
costruire una serie di alleanze e di rapporti di amicizia con altri popoli che
geograficamente rientrano in alcune zone di influenza; alla fine della seconda
guerra mondiale ci saranno alcune conferenze dove verranno stabilite le zone
geografiche di influenza; il Medio Oriente è un territorio di confine, non fisicamente,
tra le zone di influenza delle due superpotenze: Stati Uniti e Unione Sovietica.
Qui siamo al ’67: “l’esercito israeliano di Moshè Dayan occupa Gerusalemme, l’Alta
Galilea, le Alture del Golan, Gaza, Sharm-el-Sheikh, respinge in Giordania la
Cisgiordania e occupa tutto il Sinai”. Con questa guerra dei sei giorni Israele diventa
molto più grande: tutto il Sinai, le alture del Golan, che sono confinanti con la Siria,
che è un altro degli Stati mediorientali che entrano sempre in coalizione contro
Israele, cioè l’Egitto e la Giordania.” Il 10 giugno del ’67, dopo una guerra durata sei
giorni, la vittoria di Israele è totale: la guerra dei sei giorni alimenta in modo
notevole innanzitutto la tensione tra Unione Sovietica e Stati Uniti, perché la vittoria
israeliana modifica in modo radicale i rapporti di forza nel settore – rapporti di
forza non intesi tra israeliani ed arabi ma tra americani e russi – perché i territori
occupati da Israele sono assai grandi” – i territori in proporzione si raddoppiano
rispetto a prima. Gli Stati Uniti sono quelli che armano Israele così come l’Unione
Sovietica arma gli arabi ma non c’è mai un conflitto diretto tra le due superpotenze,
in tutti gli altri conflitti scoppiati in tutto il mondo durante la famosa guerra fredda
non ci fu un intervento diretto.
Allora, prendo ancora due testi, per passare all’ultimo dei quattro conflitti che
dobbiamo prendere in esame, quello del 1973, detto anche guerra dello Yom Kippur.
Chi sono ancora le forze in campo? Sono sempre quelle, naturalmente. Ed è sempre
l’Egitto a porsi come Stato-guida di una coalizione di Paesi arabi. Questo libro ci
dice: “La disfatta della guerra dei sei giorni – io me la ricordo, fu veramente una
disfatta, ne parlarono tutte le televisioni, uno Stato piccolo, nato da nemmeno
vent’anni, attaccato per l’ennesima volta da una coalizione di Paesi non solo si
difende ma sbaraglia gli eserciti avversari occupando dei territori che prima non gli
appartenevano quindi andando ad invadere territori nemici, e tutto questo in sei
giorni – ebbe per gli arabi di vasta portata, segnò il declino di Nasser e della sua
politica di oltranzismo panarabo – cioè questa politica di organizzazione e
fortificazione di una regione panaraba, un tentativo di mantenere ferma non solo
una coalizione militare ma persino una sorta di confederazione anche politica ed
economica araba, di cui Egitto è lo Stato-guida, questa era la politica di Nasser – e
indusse ad un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati
della zona”. Arabia Saudita e Giordania sono gli Stati arabi moderati, quelli più
aperti, insieme al secondo Arafat, al dialogo e al riconoscimento reciproco tra Israele
e gli Stati confinanti. Ci sono invece dei Paesi più oltranzisti, più duri e sono la
71
Libia e la Siria e alcune frange dell’OLP. Questa guerra del ’67 determinò “il
distacco dei movimenti di resistenza palestinese di origine dell’OLP dalla tutela dei
vicini arabi” quindi anche i palestinesi, l’OLP in particolare, si staccò dalla tutela
dei Paesi arabi, diventò un’organizzazione indipendente e autonoma. Arafat era già
capo di uno di questi movimenti di liberazione palestinesi, Al-Fatah; diventa ora il
capo riconosciuto di tutto l’OLP e l’OLP pone le sue basi in Giordania, creandovi
una specie di Stato nello Stato. Quindi non tanto, non solo i Palestinesi si trovano in
Giordania, ma soprattutto questa organizzazione politica armata che è l’OLP. Il re
di Giordania Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati
terroristici dei fedayin, reagì con una sanguinosa prova di forza: nel settembre 1970,
il cosiddetto “settembre nero”, mobilitò le sue truppe contro i fedayin e contro i
palestinesi che, dopo aver avuto miglia di morti, furono costretti a riparare nel vicino
Libano, che ora proprio a causa della presenza dei palestinesi e dei fedayin entra in
gioco.
Nel 1970 muore Nasser e questo cambia molto la politica dell’Egitto; il suo
successore, Sadat, deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto
con Israele.
Nel ’72 c’è la più sanguinosa, famosa strage perpetrata dai fedayin palestinesi contro
gli ebrei di Israele: nel ’72 c’erano i giochi olimpici a Monaco e un commando di
palestinesi armati si introdusse, non si sa come, nel villaggio olimpico e uccise 11
atleti israeliani nelle stanze dove erano alloggiati. Furono sospese le olimpiadi.
Naturalmente fu scelta dai palestinesi proprio quell’occasione per avere una
risonanza mondiale.
Nell’ottobre del ’73 Sadat, deciso a riprendersi il Sinai occupato militarmente dagli
israeliani, attacca il giorno della festa ebraica dello Yom Kippur.
Studente: E’ una giornata di pentimento per i peccati da parte di tutta la comunità,
un periodo di riflessione generale, un giorno in cui dal tramonto a quello successivo
tutta la comunità si rifugia nella cinta muraria per tutto il giorno per cui un attacco
a Kippur è un attacco a sorpresa perché è tutto chiuso, sono tutti in casa o in
sinagoga.
Saviani: Infatti dice il libro “le truppe egiziane attaccarono di sorpresa le linee
israeliane dilagando nel Sinai – quindi si riprendono il Sinai – ma Israele riuscì a
capovolgere le sorti del conflitto grazie anche a massicci aiuti americani e a
respingere gli attaccanti”.
“Al momento del cessate il fuoco la guerra del Kippur aveva ottenuto scarsi risultati
sul piano territoriale” ebbe pesanti risultati, invece, sul piano politico e psicologico
perché il libro ci dice che in quell’occasione “per gli egiziani crollò questo mito
dell’invincibilità israeliana. Da un lato quindi gli egiziani poterono sostenere di aver
lavato l’onta del ’67, cioè la perdita del Sinai, dall’altro la chiusura del canale di
Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi, contro i Paesi occidentali
amici di Israele, diede alla crisi una dimensione globale e rese gli Stati Uniti più
sensibili al dialogo con gli arabi”. Questa fu una delle due novità che subentrarono
con Sadat al potere in Egitto in questo quarto conflitto con Israele. Prima novità: le
conseguenze della guerra non sono eclatanti per quanto riguarda i territori in
questione, sono eclatanti per quanto riguarda il resto del mondo: la questione della
chiusura del canale di Suez e soprattutto il blocco petrolifero. Dicevamo l’altra volta
72
che erano gli anni dell’austerity perché non c’era petrolio; i Paesi arabi adottano
questa politica: sanno che, a differenza dell’America, l’Europa e il Giappone non
hanno risorse petrolifere. In più gli americani cominciano, anche a causa di questo
blocco petrolifero che però non li ha toccati direttamente, a fare una politica più
morbida con gli arabi, in questo seguiti da Sadat. Quest’ultimo l’anno dopo, ’74-’75,
dà dei segnali contrastanti: manda via i tecnici sovietici che sono lì in Egitto e
comincia una serie di aperture filo-occidentali, nel ’77 il presidente egiziano compie
il famoso, clamoroso viaggio a Gerusalemme e presenta, personalmente, in un
discorso al parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Questo gli varrà il premio
Nobel per la pace. Sadat comincia a fare una serie di aperture perché si accorge che
questa politica oltranzista non ha avuto buon esito, non ha dato buoni frutti. Anzi,
hanno perso due guerre e sono costretti ad una politica di riarmo molto gravosa;
Sadat capisce che è più opportuno cambiare strategia in politica estera, manda via i
sovietici e comincia a guardare più verso occidente. Partecipa, con la mediazione del
presidente americano Jimmy Carter, agli accordi di Camp David nel settembre ’78.
C’è quindi l’incontro tra Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin:
l’Egitto ottenne la restituzione del Sinai e firmò un trattato di pace con Israele,
marzo ’79. Una pace che ha rappresentato un evento storico ed è sopravvissuta
anche alla morte del presidente Sadat che, non a caso, viene ucciso nell’ ’81 in un
attentato di integralisti islamici, durante una cerimonia pubblica mentre era sul
palco delle autorità.
Gli accordi di Camp David prevedevano ulteriori negoziati per un regolamento totale
nella regione e per la soluzione del problema dei profughi palestinesi ma questi
negoziati non furono nemmeno avviati. L’ostacolo principale viene in un primo
tempo dall’opposizione degli Stati arabi e dell’OLP che hanno denunciato il
tradimento dell’Egitto e rifiutato ogni trattativa con il nemico storico. Quindi da una
parte questi stessi trattati di pace non vanno avanti come avrebbero dovuto perché
c’è questa opposizione interna dell’OLP e degli Stati arabi che denunciano il
tradimento. Effettivamente, come abbiamo detto prima, agli inizi degli anni ’80 gli
Stati arabi moderati, in particolare Giordania e Arabia Saudita, e la stessa dirigenza
dell’OLP assumono una posizione più morbida mentre Siria, Libia e frange più
estremiste delle organizzazioni palestinesi, fondano il “fronte del rifiuto”, cioè rifiuto
di riconoscere Israele, riconoscere gli accordi di Camp David e rifiuto anche di
procedere oltre su quella strada. Queste frange estremiste ancora oggi sono sempre in
azione, soprattutto quando pare che si stia per raggiungere un qualche accordo. Non
riconoscono più Arafat ma da tempo non riconoscono più nemmeno l’OLP. E qui
entra in gioco l’integralismo, non sono posizioni che si possono scindere da
un’interpretazione religiosa dei fatti, i famosi Hezbollah ecc., vedremo almeno
quattro sigle diverse di organizzazioni palestinesi che continuamente boicottano i
processi di pace.
Siamo ormai agli anni ’80: dopo Camp David, l’Egitto si è sganciato, ormai ci sono
degli Stati “morbidi” arabi, Giordania e Arabia Saudita, il “fronte del rifiuto” Libia,
Gheddafi, la Siria e frange oltranziste palestinesi.
Nell’ ’87 i Palestinesi nei territori occupati, Cisgiordania e Striscia di Gaza, hanno
dato vita ad una lunga e diffusa rivolta detta “intifada”, in arabo “risveglio”, contro
gli occupanti che hanno reagito con una dura repressione. In Cisgiordania, che è
73
una regione di Israele confinante con la Giordania, ci sono molti profughi
palestinesi e lì ha inizio la prima intifada alla fine dell’ ’87, di indiscutibile carattere
popolare dato che sono le stesse madri a spingere i ragazzi a lanciare le pietre contro
gli occupanti.
Nell’ ’82, invece, in Libano ormai ha preso quartier generale l’OLP, non più in
Giordania quindi. E dal Libano ora partono iniziative di guerriglia e attentati
palestinesi. Nell’ ’82 l’esercito israeliano invade il Paese e ci sono due stragi in due
villaggi. Sono precedute da un’altra strage, nel ’76, al villaggio profughi palestinese
di Tell al-Zatar, nome e data che dobbiamo ricordare perché insieme a Deir Yassin
nel ’48, rappresentano le pagine più nere della Storia di questo conflitto. Nell’ ’82 ci
sono due massacri, quelli di Sabra e Chatyla dove agì direttamente l’esercito
israeliano.
Leggiamo ora un altro testo. “Nell’ ’88-’89 si sono prodotti importanti nuovi
sviluppi: per un verso il Libano ha continuato a disgregarsi”, negli anni ’80 il
Libano fu un po’ come la Jugoslavia negli anni ’90, guerra interna, era uno Stato
pluriconfessionale, c’erano cristiani, palestinesi, ebrei, cristiani ortodossi, e c’erano
guerre interne anche tra le diverse fazioni interne alle singole confessioni, c’era una
situazione conflittuale permanente”, – infatti entrò nel linguaggio corrente
l’espressione “è una situazione libanese” oppure “sembra un Libano”, perché lì
letteralmente non si capiva da dove partivano le prima mosse, quali erano le
motivazioni, le alleanze che continuamente cambiavano, - finché abbiamo visto che
nell’ ’82 Israele invade il Libano che, per molti anni, sarà territorio di guerra, le
immagini del Libano dell’epoca erano solo grattacieli a pezzi, palazzi, anche belli,
moderni, distrutti, tra l’altro il Libano era il rifugio di molti facoltosi europei.
Nell’ ’88 Arafat, leader dell’OLP, proclama uno Stato palestinese e fonda un
“governo in esilio” assumendo una linea più moderata verso Israele, di cui ha
finalmente riconosciuto l’esistenza. Le altre organizzazioni palestinesi invece
continuano la loro lotta contro l’Egitto e continuano a non riconoscere il diritto
all’esistenza di Israele e sono appoggiati da Siria e Libia, il cosiddetto “fronte del
rifiuto”.
Nel 1991 Libano e Siria firmano un trattato: in sostanza in Libano torna la pace ma
sul Libano si esercita di fatto una forte egemonia siriana. Poi c’è la conferenza
internazionale di pace in Medio Oriente dove si nutrono molte speranze di soluzioni
pacifiche nelle relazioni tra Paesi arabi e Israele – ormai quando si dice Paesi arabi
non si deve più intendere anche l’Egitto perché ha risolto la sua posizione dopo la
guerra del ’73.
Nel ’92 in Israele vincono le elezioni i laburisti, che portano al potere Isaac Rabin.
Queste speranze non vengono deluse infatti nel ’93 si ha il reciproco riconoscimento
di Israele e dell’OLP, ormai non più terroristica, (si è affrancata dal suo passato, ma
come organizzazione riconosciuta dall’ONU e da Israele che ha a capo Arafat il
quale ha fondato un suo Stato palestinese “in esilio”). Prima di Rabin c’era Isaac
Shamir, capo della fazione delle “aquile” cioè l’ala dura e intransigente, mentre
Isaac Rabin era il capo delle colombe, cioè dei più moderati, meno intransigenti e
aperti a un dialogo. E vince Rabin contro Shamir.
Nel ’94 c’è il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza e da Gerico, in
Cisgiordania, e in queste località si installano le autorità di autogoverno palestinese
74
presiedute da Arafat. Diventano praticamente i territori palestinesi autogovernati dai
palestinesi, confinanti ma differenti dai territori occupati dagli israeliani dove ci
sono i palestinesi che non sono andati via, che non hanno abbandonato quei luoghi.
Nel ’95, mentre gli estremisti palestinesi hanno proclamato Arafat “nemico del
popolo” e scatenano un’ondata di violenza – quindi Arafat ha anche dei problemi
con i suoi, con i palestinesi che non lo riconoscono e non riconoscono la sua
soluzione – dall’altra parte gli estremisti israeliani uccidono, nell’ottobre, il primo
ministro Rabin per punirlo del tradimento perpetrato e per aver iniziato trattative di
pace con gli arabi. Quindi vedete un po’, specularmente, è la situazione che si è
verificata per quanto riguarda Sadat e gli egiziani: gli integralisti islamici lo
puniscono per la sua via pacifica nei confronti di Israele, Isaac Rabin invece, il capo
delle colombe, capo laburista israeliano, viene punito degli integralisti ebrei per il
tradimento, per aver ceduto anche dei territori ad Arafat.
Questo è quanto, per il momento, noi dobbiamo ricordare.
75
Massimiliano Borelli (5L), Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4B),
Tommaso Pio Cerulli Irelli (4D), Silvia Crupano (4D), Jessica Ferretti (4D),
Silvia Giacomini (5M), Simone Liuzzi (4H), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),
Francesca Neri (5L), Ginestra Odovaine (3G), Marta Osnaghi (2D),
Giulia Riva (3N), Tommaso Sanna (5L), Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)
76
Prof. Lucio Saviani e Prof. Ciro Sbailò
6 Febbraio 2001
Saviani : Sapete che oggi è una giornata molto particolare: in Israele si vota e il
più probabile vincitore delle elezioni è Sharon. Sapete che oggi è anche la
giornata della collera indetta dai Palestinesi
Oggi il nostro ospite è il prof. Ciro Sbailò, docente dell’Avogadro ma anche
all’Università di Malta e alla Libera Università San Pio V; è anche giornalista,
quindi ci sarà prezioso, oggi, avendo noi portato la rassegna stampa e ci farà
vedere le cose anche da un punto di vista “professionale”, cioè come la stampa
riporta gli avvenimenti. Il prof. Ciro Sbailò è un filosofo, ha pubblicato
recentissimamente un bellissimo libro che si chiama “Politica e verità” che vi
consiglio perché vi farà considerare delle questioni legate alla nostra attualità da
un punto di vista che vi potrà sembrare un po’ bizzarro: parte da Platone, quindi
vi toccherà rivedere tutto Platone, e dove vedrete che a un certo punto si parla di
realtà virtuale. Tuttavia tutte queste questioni ci riportano in gran parte a
Platone. Quindi mi sento di consigliarvi questo libro anche perché ormai sono
quasi vent’anni che io e lui ci conosciamo e abbiamo anche avuto dei maestri,
almeno uno, anche se in anni diversi, in comune: Massimo Cacciari. Quindi ora
gli lascio la parola. So che oggi ci parlerà di antisemitismo, è una questione che
abbiamo toccato, ma un po’ marginalmente, quando abbiamo parlato del
Sionismo. Vedrete che antisionismo e antisemitismo non sono sempre la stessa
cosa.
Sbailò: Tempo permettendo…
Saviani: Poi, la prossima volta farà un discorso molto interessante su Italia e
Israele, sulla politica italiana negli ultimi decenni nei confronti di Israele e nei
confronti dei palestinesi. Quindi vedremo molte cose che ci faranno capire ancora
meglio e più da vicino la questione di cui stiamo parlando. Ora gli lascio la
parola. Naturalmente, il prof. Sbailò sa che questo è un laboratorio quindi potete
intervenire quando volete.
Sbailò: Se dobbiamo fare un laboratorio allora è anche bene approfittare
dell’occasione per chiarire alcune cose immediatamente riguardo al sistema
elettorale israeliano e al sistema di governo, cioè la ragione per la quale si è
arrivati a questo scontro diretto tra Sharon e Barak. Prima non c’erano scontri
diretti, lo scontro era più mediato dalle organizzazioni politiche.
Allora, Israele non possiede una costituzione scritta, questo sul modello
anglosassone; ricordiamo che la Storia costituzionale israeliana è figlia in parte
di quella anglosassone. Non possiede una costituzione scritta ma possiede una
serie di norme che danno vita a un sistema costituzionale, poiché un sistema può
dirsi costituzionale non soltanto quando c’è una costituzione scritta, ovvero una
“legge fondamentale” da tutti riconosciuta e accettata indipendentemente, ma
anche quando c’è una costituzione riconosciuta come tale, cioè ci sono una serie
di norme e di princìpi che valgono come tali. Voi prendete per esempio
77
l’Inghilterra: è sicuramente un sistema costituzionale ma non ha un testo scritto;
quindi “sistema costituzionale”, cioè significa un sistema nel quale esiste la
separazione e l’equilibrio tra i poteri. Il sistema elettorale in Israele è un sistema
fondato sui partiti ed è un sistema proporzionale con un ruolo fondamentale
svolto dalla sinistra israeliana nella prima fase di politicizzazione della società
israeliana e successivamente poi dalla destra, centro-destra, come vogliamo
chiamarlo, israeliano e si è creato questa sorta di bipolarismo. Nel sistema
elettorale puro il primo ministro precedentemente era nominato dall’assemblea,
questo perché essendo un sistema fondato su un bi-partitismo più o meno non
perfetto, sicuramente non perfetto, ma che grosso modo sembrava funzionare,
allora il capo dell’esecutivo, che tuttavia non ha grandissimi poteri, veniva
nominato dall’assemblea, dal Parlamento. Cos’è successo nel frattempo? E’
successo nel frattempo che, soprattutto dopo il crollo del comunismo, sono
arrivati in Israele moltissimi ebrei provenienti da altre regioni dell’Europa
orientale, regioni che prima erano sotto il dominio comunista, Russia soprattutto;
addirittura in una certa fase, il governo israeliano si è dovuto preoccupare di
dover evitare infiltrazioni di persone che arrivavano in Israele insieme agli ebrei
russi per poi utilizzare questo come piattaforma migratoria verso altri paesi. C’è
stato addirittura questo problema, di russi che si univano ai gruppi di ebrei.
Questo ha provocato un moltiplicarsi dei soggetti politici israeliani, soggetti
diciamo, naturalmente voi conoscete immagino, la differenza: c’è il gruppo
askenazita e quello sefardita: gli askenaziti sono quelli dell’Europa orientale,
Germania, eccetera, dal nome tedesco che indica quella zona, i sefarditi dal nome
della penisola iberica, grosso modo gli ebrei della penisola iberica, ma poi
comprendendo tutta l’area, tutto il bacino d’influenza del dominio iberico, cioè
anche parte del nord-Africa, no? Per farvi un esempio, Baruch Spinoza, filosofo
che voi tutti conoscete, era un ebreo sefardita; Isaac Singer, scrittore che voi,
credo, conosciate, è un ebreo askenazita, così come Albert Einstein. Allora si sono
moltiplicati i partiti in Israele; essendosi moltiplicati i partiti, è successo che il
sistema politico stava cominciando a collassare, perché quando si moltiplicano i
partiti, è più difficile governare, soprattutto poi con un presidente di nomina
parlamentare; quindi c’era una crisi di governabilità in Israele e quindi è stato
adottato il sistema presidenziale: cioè il presidente, il capo del governo, il capo
dell’esecutivo, viene eletto dal voto popolare. Però con una scadenza diversa
rispetto al Parlamento: un anno in più, cinque invece di quattro; cioè c’è questo
slittamento che serve appunto proprio per dare…Perché si elegge il presidente
della repubblica popolare? Per far sì che i consensi confluiscano su due, tre
personalità al massimo e quindi si determina poi una sorta di bipolarizzazione
del sistema e quindi il sistema è più governabile; quindi i partiti sono molti ma,
grosso modo, le coalizioni sono due. Insomma, un po’ come quello che s’è cercato
di fare in Italia; questo ha provocato una personalizzazione dello scontro politico
che già è stato presente per esempio con Nethanyau. Una personalizzazione dello
scontro politico che prima non c’era in Israele; c’è stata proprio una
contrapposizione di leadership, cioè anche prima c’era, ma adesso si è
istituzionalizzata. Ecco perché adesso il problema è che Barak è descritto come
perdente; attualmente però c’è Sharon che sta vincendo e che è considerato
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“falco”, mentre Barak è considerato “colomba” tenendo presente una cosa: che,
come mi è stato autorevolmente ricordato, la pace in Israele l’hanno fatta sempre
i falchi, mai le colombe; cioè Begìn, per dirne uno. Perché? Voi avete la
cronologia davanti: quand’è che Israele riesce a intavolare la pace? Quando ha
sistemato le questioni dal punto di vista dell’ordine pubblico e della sicurezza dei
confini, altrimenti non può intavolare un processo di pace. Questo per un fatto
elementare che è legato alla nascita stessa dello stato israeliano, che è uno stato
che nasce sul problema della delimitazione dei confini e del controllo dell’ordine
pubblico all’interno. Ecco perché si dice che Sharon potrebbe fare la pace in
Israele, cosa che magari Barak non potrebbe fare. Sharon, oltretutto, questa è la
carta che si sta giocando, in questo momento voi avrete visto che Sharon è dato
per vincente, ma al tempo stesso cerca di mantenere un atteggiamento
abbastanza cauto, da “colomba”: perché? Perché Sharon spera di fare un governo
di coalizione con il suo avversario. E perché spera di fare un governo di
coalizione con il suo avversario, lui che è una tigre, un bulldozer? Perché, intanto,
se vuole fare la pace ha bisogno del consenso di tutti, ha bisogno di unire il paese
intorno a un progetto di pace, un progetto, ovviamente, basato sulla capacità
militare di Sharon; la seconda ragione è che il Parlamento è frammentato, quindi
se Sharon vince e ha il Parlamento contro, bisogna andare alle elezioni anticipate
e in quella situazione potrebbe ripresentarsi un personaggio come Nethanyau che
potrebbe fare ombra a Sharon. Elezioni anticipate però non del capo del governo,
ma del parlamento, perché tra poco in Israele sarà votata la sessione di bilancio,
cioè la legge finanziaria: quando un parlamento non riesce ad approvare la legge
finanziaria, naturalmente si sciolgono le camere. Ecco perché Sharon sta
mantenendo un atteggiamento cauto. Questa introduzione non era prevista però
siccome oggi si vota, io voglio che voi usciate di qui con gli strumenti per capire
quello che succede, per non cadere nelle banalizzazioni dei titoli dei telegiornali
che sono fatali.
Questo riguarda tutti i parlamenti; se un parlamento non approva la sessione di
bilancio…cos’è la sessione di bilancio? E’ quando si tira una riga e si dice:
abbiamo speso questo, abbiamo guadagnato questo e perso quest’altro; l’anno
prossimo spenderemo questo, quest’altro e quest’altro. E’ il bilancio dello stato,
no? Se non si riesce ad approvare il bilancio, bisogna sciogliere le camere, cioè si
va alle elezioni di nuovo e allora Sharon teme che una nuova campagna
elettorale lo possa indebolire. Questo per capire certe dinamiche interne. Vado
avanti. Noi siamo partiti dalle elezioni israeliane: io voglio tenere ancora presente
questo tema e voglio partire, siccome sono convinto che nel particolare ci sia
l’universale e in ogni giorno, in ogni attimo della giornata, è possibile rintracciare
una scintilla del senso universale delle cose, in senso fortemente cusaniano, da
alcune cose che dice Gad Lerner sul Corriere della Sera di oggi. Gad Lerner è uno
dei più importanti giornalisti italiani, è ebreo; è stato direttore del TG1 per un
certo periodo, poi s’è dimesso in seguito ad una polemica. E’ di Milano, il
cognome Lerner credo che sia di origine germanica, però non sono sicuro.
Dunque, comincia con una cosa interessante: dice che siccome c’ è il conflitto sul
recinto delle moschee, che poi sarebbe un luogo sacro, anche per gli ebrei, perché
è il luogo dove ci fu il mancato sacrificio di Isacco, dove Maometto poi pregò
79
prima di ascendere, è stato proposto dagli americani praticamente, di affidarlo
alla sovranità divina: pragmatismo mistico americano! E Gad Lerner spiega
perché in questo momento Barak è in difficoltà persino nei confronti del suo
elettorato tradizionale; la ragione è questa: che mentre precedentemente era stato
possibile instaurare un dialogo con gli arabi, questa volta all’offerta di fondare lo
stato palestinese con un pezzo di Gerusalemme capitale, la controparte araba ha
risposto picche. Ma come? Il temerario Barak vi offre la possibilità di fondare
questo stato e voi alzate la bandiera verde dell’Islam? Allora è vero che siamo
nemici mortali. Il nemico palestinese restituisce l’identità comune ad Israele che
l’ aveva perduta. Allora, segnatevi bene questo passaggio e adesso apriamo una
parentesi, una parentesi che fa vedere perché la questione israeliana è una
questione nodale nella storia dell’Occidente: perché voi sapete che cos’è la
globalizzazione, il processo di deterritorializzazione, no? Avete mai sentito
parlare di questo? Cioè la politica si deterritorializza, si spiritualizza, diventa
puro spirito appunto e le stesse guerre diventano operazioni virtuali, quasi. Bene,
allora: nell’età della deterritorializzazione, nell’età della spiritualizzazione dei
conflitti, nell’età della virtualizzazione di ogni confronto bellico, per cui tutto
ormai si risolve…i confini,…lo stato-nazione non c’è più, sta scomparendo, i
conflitti sono conflitti deterritorializzati perché le grandi aziende sono ormai a
livello trans-nazionale, le giurisdizioni nazionali non ci sono più e si stanno
dissolvendo di fronte a questo processo di globalizzazione. Insomma, in
quest’epoca di spiritualizzazione, cioè di rarefazione, di intellettualizzazione dei
conflitti, abbiamo i seguenti fenomeni: per vincere una guerra, occorre occupare
materialmente, con gli “scarponi”, il suolo dell’avversario, se no non si vince: né
da mare, né da cielo; questo ce lo hanno insegnato l’esperienza dell’Iraq e della
Bosnia. Oggi, nell’età della migrazione totale, in tutti i paesi, compresa questa
nascente nazione che è l’Europa unita, stanno rafforzando le politiche di difesa
territoriale, aumentano le spese per le operazioni di polizia ai confini territoriali,
aumentano gli stanziamenti militari per le operazioni di terra, truppe da sbarco,
cioè operazioni di terra, non guerre…; in questa, che doveva essere la fase, della
spiritualizzazione di tutti i conflitti, stanno aumentando le preoccupazioni sulle
questioni terrestri, il controllo del suolo, e la maggior parte dei conflitti in atto,
sono conflitti di carattere territoriale; e il conflitto per eccellenza attualmente in
atto, riguarda alcuni metri quadrati di terra e il controllo su alcuni suoli dove ci
sono delle tombe, dei muri, delle mura sepolte, tombe sepolte… Questo ve lo dico
perché è vero che c’è la globalizzazione, ma è pur vero che ci sono questioni che
riguardano la “terrestrità” dell’uomo, questioni assolutamente ineludibili, e
quindi non c’è da scandalizzarsi, da meravigliarsi, per quello che sta accadendo
in Israele. Noi ci meravigliamo, ci scandalizziamo, perché pensiamo che il
progresso coincida con la spiritualizzazione dei conflitti. Questa è una visione un
po’ gnostica; purtroppo la terrestrità non si può dissolvere.
Saviani: Come l’uranio impoverito.
Sbailò: Come l’uranio impoverito. Quindi non si può dissolvere questo problema.
Perciò non ci dobbiamo meravigliare di quello che succede in Israele. Chiusa
parentesi, ma questa segnatevela bene perché la riprenderemo poi. Allora, vi
ricordate quella cosa che ha detto Lerner? Bene, adesso vi racconto un’altra cosa:
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nel 1840, in Francia, un gruppo di intellettuali ebrei, decise di fare questa
proposta: perché non eliminiamo dal vocabolario la parola ‘ebreo’? Noi che
siamo così ben integrati, ormai siamo il fior fiore della società francese, della
scienza, siamo già in epoca positivistica ormai, siamo lì. E lasciamo l’aggettivo
‘israelita’; noi siamo francesi, cittadini francesi, di fede mosaica; il termine
‘ebreo’ indica una diversità etnica, un’appartenenza culturale, tradizionale,
religiosa, che suona un po’ pesante, no? Viviamo in una società che ha bisogno
di fluidificare tutto, questo termine “ebreo” è un po’ una striatura sul processo,
diciamo così, di fluidificazione; rappresenta un residuo un po’ antipatico, ecco:
quindi eliminiamolo. Insomma, fecero questa proposta; a un certo punto, siamo
sempre nella seconda metà dell’Ottocento, arriviamo a delle crisi gravi
nell’ambito -qui dopo ne riparleremo- nell’Europa orientale, dove gli ebrei si
erano trasferiti dopo le persecuzioni subite nell’età moderna in Europa e dove si
erano formate delle importantissime comunità. Questi ebrei arrivarono in
Francia e non avevano l’abbigliamento dei loro, come dire, non correligionari ma
fratelli, perché l’appartenenza non è determinata dall’adesione alla fede religiosa
nel caso degli ebrei, ma l’appartenenza a una storia, a una memoria; erano vestiti
un po’ meno bene: diciamo così con questi pellicciotti addosso, i colbacchi, poi
parlavano yiddish: l’yiddish è una lingua, non un dialetto, che è scritta in
caratteri ebraici ma ha una grammatica di tipo tedesco ed è la lingua dei grandi
scrittori dell’Europa orientale: Singer per esempio. E’ una commistione di
varie lingue: tedesco, polacco, russo, ebraico ovviamente.
L’yiddish è una lingua mobile e interessante: infatti per esempio, c’era Kafka che
voleva studiarlo, imparare l’yiddish e c’è tutta una tradizione yiddish
naturalmente, Singer è il più gran nome ma c’è tutta la tradizione, diciamo così,
ebraico-orientale, anche della tradizione chassidica, quella rappresentata da
uomini come Martin Buber, per esempio.
Saviani: Ortodossi?
Sbailò: Si, diciamo ebrei ortodossi, però io sto un po’ attento perché oggi
‘ortodosso’ significa una cosa, allora significava un’altra cosa, capisci? Oggi
‘ortodosso’ significa opporsi alla laicizzazione, allora l’ortodosso era il depositario
di una memoria storica che consentiva poi anche l’adeguamento, il confronto, il
dialogo. Comunque, arrivano questi ebrei dall’Oriente e si crea, come dire, un
certo imbarazzo in una parte della società ebraica francese più evoluta rispetto a
questi ebrei che rappresentavano un po’ quello che si voleva dimenticare, si
voleva rimuovere.
Non necessariamente la religione è adesione fideistica, perché io non parlo come
ebreo nel senso che non lo sono, però ho sempre frequentato, spesso sono stato
presso comunità ebraiche, e l’esperienza che io ho fatto dell’ebraismo questo io lo
trovo appunto compatibilissimo con il cristianesimo insomma, in questo
l’espressione di Giovanni Paolo II mi sembra riassumere il senso, ‘dei fratelli
maggiori’; cioè non è una questione fideistica, è una questione di appartenenza
no? Noi siamo abituati a partire sempre dalla coscienza, e quindi dall’adesione;
consideriamo la fede come un atto di consapevole scelta e di rappresentazione di
possibilità. Ma lì, nell’ebraismo, c’è una cosa diversa: c’ è l’adesione a un
percorso, una storia, una memoria, che è una cosa diversa dalla fede; cioè l’ebreo,
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dice un grande filosofo ebreo, non crede ma ricorda, che è una cosa un po’
diversa; una cosa poi che ha ricordato David Grossman nel testo che forse
conoscerete, ‘Vedi alla voce: amore’. Ma penso anche alla “cuginanza ebraica” di
cui parla Saul Bellow.
Saviani: C’è un bell’articolo di Grossman su La Repubblica di qualche settimana
fa. Probabilmente ce l’abbiamo nella rassegna stampa.
Sbailò: Avete bisogno di articoli? Io posso farvi avere una rassegna stampa, se vi
interessa, su questi temi. Allora, si crea quest’imbarazzo e mette un po’ in crisi
questi ebrei che addirittura volevano rimuovere la loro appartenenza. Ecco,
adesso io vi leggerò un passo di Alain Finkielkraut che è uno scrittore francese,
giovane, ebreo, il quale dice : “Ma a che pro, visto che Hitler imporrà il
livellamento con i campi di sterminio?”. Vi ricordate la frase di prima che ha
detto Lerner? E io vi leggo questa: “a che pro questa differenziazione, se poi
Hitler imporrà il livellamento con i campi di sterminio”? Questa è una
provocazione che io vi faccio: cioè la identità, la questione dell’identità del
territorio non è un’invenzione degli ebrei, è un prodotto della storia del
Novecento; cioè a un certo momento, le differenze scompaiono di fronte al rischio
dell’annientamento dell’identità o dell’identità nazionale. Finkielkraut, è anche
lui un ebreo giovane, credo che abbia la stessa età di Lerner, quindi è figlio della
generazione che ha conosciuto la Shoah. E’ la storia che t’impone a un certo
momento la riscoperta, la scoperta dell’identità e l’autodifesa. Non è
un’invenzione degli ebrei. Allora, per capire questo, noi dovremo capire un altro
fenomeno, il fenomeno fondamentale, io qui io mi permetto di enunciare una
mia posizione - poi possiamo discuterne quando volete - e cioè che la Shoah è il
fenomeno fondamentale del Novecento, forse di tutto il millennio, cioè il
fenomeno nel quale emerge il problema fondamentale, diciamo, dell’uomo
occidentale, cioè il suo rapporto con la questione della dignità umana che è
incarnata nell’esperienza del Monoteismo. L’ebraismo custodisce questo senso
della dignità della persona legata al monoteismo, perciò non è una questione di
fede, è una questione di memoria e del problema della dimensione della
memoria stessa. Cioè, diciamo che l’antisemitismo è il luogo in cui si rivela una
tendenza inquietante della civiltà occidentale, che è la tendenza, appunto,
all’annientamento dell’individuabilità, cioè della persona come un insieme di
qualità irriducibili, non dissolvibili, terrestri, non assimilabili. Cioè la persona è
il residuo ineliminabile di ogni processo di distruzione della memoria, e siccome
l’ebraismo custodisce questo senso della memoria della persona, l’antisemitismo è
la forma in cui si manifesta propriamente questa tendenza. In questo senso il
Papa quando parlava dei ‘fratelli maggiori’, non intendeva fare un complimento,
intendeva esprimere un dato concreto, effettivo, di memoria concreta, non di
adesione stilistica ad un fatto, ad un evento religioso. Non una suggestione
mistica. Con questo voglio dire che la questione è: nulla si comprende, neanche
delle elezioni, se non si comprende che cos’è l’antisemitismo, non si comprende
neanche la nascita di Israele. Ora, io conosco molti ebrei che sono tiepidi nei
confronti di Israele, anzi dicono che io sono sionista, qualcuno di loro mi dà del
sionista quando parliamo di questo. Quindi, voglio dire, la questione
dell’ebraismo, dell’antisemitismo, non coincidono necessariamente con la
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questione del rapporto con lo stato d’Israele, mi spiego? Cioè si può essere
benissimo ebrei ma non necessariamente d’accordo con Israele: c’è addirittura
qualche ebreo che nega la legittimità dello stato d’Israele, addirittura questo.
Comunque, tornando a noi, la questione dell’antisemitismo come questione
epocale; qui vi racconterò un episodio recente: 1987, c’è un crollo della Borsa; un
giornale di Milano, che si occupa di finanza, esce con un articolo nel quale fa i
nomi di alcuni finanzieri, i quali si sono salvati dal crollo. Indovinate un po’ che
cosa avevano in comune questi finanzieri? Erano ebrei. Allora, 104 anni prima,
Germania, 1873, stessa identica cosa, stesso articolo. Per non parlare degli
articoletti che sono usciti durante il 1929, dopo il crollo di Wall Street; sempre
questi nomi: ma…il tizio…si è salvato, no? Senza neanche dire che è ebreo, ma
sottintendendo, collegavano, poi il lettore ci arrivava. E così si formava l’idea di
questo complotto finanziario giudaico internazionale. Quindi l’antisemitismo ha
un grande alleato: l’ ignoranza. Pochissime persone conoscono effettivamente gli
ebrei, a parte i grandi nomi: Einstein, Marx, Spinoza, cioè i grandi, ma tutto
sommato molti di noi non sanno. Vi faccio un esempio: secondo voi, quanti ebrei
ci sono in Italia? Chi non lo sa proprio, può rispondere secondo un’ idea. Io ho
fatto un test questa mattina ai miei studenti; allora, uno mi ha risposto 10
milioni, un altro mi ha risposto un quarto della popolazione, un altro massimo
un milione, insomma queste più o meno erano le cifre; allora, non sono più di
60.000. Questi sono i dati ufficiali: comunque, adesso i dati che avevano erano
46.000, però adesso sono aumentati…Però, voi direte, che c’entra adesso questo
“46.000” ? Sapete perché questo accade? Questo è un retaggio dell’antisemitismo,
è un retaggio inconscio dell’antisemitismo, è un retaggio della disinformazione.
Saviani: E’ possibile che ci siano altri ebrei che non lo dicono?
Sbailò: A questo ci arriviamo. Cosa significa essere ebrei? C’è una bellissima frase
di Carlo Rosselli, straordinario, grande uomo, martire della libertà, socialista
liberale, scrittore, giornalista, ebreo torinese, il quale diceva: ‘io non vado in
sinagoga, non leggo la Toràh, non osservo le prescrizioni, mangio quello che mi
pare, ma io sono ebreo’. Però di questo dobbiamo parlare a parte. Tu fai parte
della comunità, ti riconosci in qualche modo come dire, aderisci alla tradizione,
ma di questo parleremo tra un po’. L’ essere ebreo non si può identificare con
una specifica adesione a un qualche cosa, è una memoria appunto, una
tradizione e noi abbiamo difficoltà a pensarlo e a comprenderlo questo. Questa è
una cosa che spiegava benissimo Walter Benjamin, altro ebreo non osservante,
filosofo, che si suicidò al confine tra Francia e Spagna perché stava per essere
catturato dai nazisti. Carl Löwith, lo conoscete?
Saviani: Freud.
Sbailò: Ma io parlavo di quelli che avevano problematizzato la loro adesione
all’ebraismo; Hannah Arendt, conoscete Hannah Arendt? Allora…
Studente: richiesta di chiarimento sul nesso tra i due crolli della Borsa e
l’antisemitismo.
Sbailò: Sì, quella
cattiva informazione, cioè quel modo di parlare del
disastro della Borsa, attribuendone quasi la responsabilità agli ebrei, è
un frutto dell’ antisemitismo. Cioè, se io dico: “E’ scoppiato il colera a Milano”,
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poi aggiungo: “E in città infatti c’è il prof. Ciro Sbailò, che è di Napoli e il prof.
Lucio Saviani che è di Caserta”, che ho fatto?
Studente: Gli untori.
Sbailò: Esatto. Cioè, “Epidemia di colera a Milano”, poi sotto: “oggi in città
erano presenti il prof. Ciro Sbailò, che è di Napoli e il prof. Saviani, che è di
Caserta”. Che ho fatto? Ho posto le premesse perché i milanesi girino casa per
casa per prendere i napoletani e buttarli fuori.
Quanti ragazzini vengono investiti dalle automobili? Però quando lo fa un
albanese diventa un caso nazionale: è il meccanismo della criminalizzazione. Che
cos’è l’antisemitismo? Allora, io ogni volta che faccio una lezione su questo
argomento, cambio qualcosa, cambio sempre. Perché? Perché l’antisemitismo è
complicato da definire. Si dice: ci sono molti antisemitismi; bè, è vero, ci sono
molte forme di antisemitismo, ma io voglio capire qual è la forma specifica
dell’antisemitismo che fa sì che vi siano molte forme di antisemitismo.Cosa c’è
che tiene insieme le varie forme di antisemitismo? Allora, cominciamo col dire
subito, e io qui vi lancerò anche delle provocazioni, poi dopo starà a voi
raccoglierle o rigettarle: l’antisemitismo non è razzismo. Ci sono forme di
razzismo unite all’antisemitismo, per esempio Ku Klux Klan in America negli
anni ’20 e le campagne antisemite, ma io direi antiebraiche, finanziate da Ford,
quello delle automobili; quello è antisemitismo razzista, ma l’antisemitismo come
forma specifica non è razzismo, può essere collegato al razzismo ma non è
propriamente razzismo. Innanzi tutto perché non esiste la razza ebraica, a meno
che non esista anche la razza…cioè, se esiste la razza napoletana, va bene, allora
esiste anche quella ebraica. A quel punto sì, ma esiste un popolo, una tradizione
napoletana che si configura anche in tante cose materiali, concrete, anche di
gestualità, ma perché c’è un modo di agire, ma non esiste una razza napoletana.
Ma il razzismo poi non c’entra, perché il razzista tende a disprezzare l’altro e a
ritenerlo inferiore. L’antisemita non necessariamente disprezza l’ebreo e non
necessariamente, anzi quasi mai, lo ritiene inferiore. Lo teme, lo odia, ma il
timore e l’odio sono una cosa diversa dal disprezzo. E’ un po’ difficile fare del
razzismo di quel genere nei confronti di un popolo che ha dato…insomma i nomi
li abbiamo già fatti, e potremmo farne ancora, no? Abbiamo dimenticato il
campo della musica ma potremmo anche andare lì, l’arte, la pittura! Sì, ci hanno
provato ma insomma…In Italia fecero un giornaletto che si chiamava “Difesa
della razza” ma non è quello l’antisemitismo. Quindi io ritengo che
l’antisemitismo non sia razzismo; può integrarsi col razzismo ma la sua forma
specifica non è il razzismo. Non è antisionismo, ovviamente: l’antisionismo non è
razzismo e non è neanche antisemitismo evidentemente. Questo però, attenzione,
non significa che la questione ebraica può essere separata dalla questione
israeliana molto nettamente. Questo è un altro imbroglio; è l’imbroglio che
poneva in essere l’Unione Sovietica: l’Unione Sovietica si è sempre proclamata
antisionista e contro ogni forma di antisemitismo, tanto è vero che ogni tanto
sfoggiava come fiore all’occhiello qualche intellettuale, qualche scienziato ebreo,
tranne poi magari qualche altro mandarlo nei campi di lavoro. Però questa è
un’ipocrisia; non si possono identificare ma non si possono neanche separare del
tutto, perché lo stato d’Israele nasce dopo la Shoah. E questo non si può ignorare,
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non è un dato che possiamo prendere alla leggera. Certo, il progetto sionista
nasce prima della Shoah. Ma dopo la Shoah assume un significato radicalmente
diverso.
Allora mettiamola in questi termini: per rivendicare il loro posto come nazione
nell’ambito, diciamo così, della civiltà europea occidentale, in un certo qual
modo, pur essendo collocati fuori dell’Europa, ma molto vicini tutto sommato.
Questo pone un altro problema, cioè il problema del rapporto tra il concetto di
nazione, il concetto di stato e il concetto di popolo, no? Cioè quand’è che nasce il
problema di avere uno stato? Quando si deve difendere l’identità, altrimenti non
c’è il processo di statualizzazione ma se mai di disgregazione. Ma questo è un
problema che toccheremo successivamente. Quindi, l’antisemitismo non è
neanche un pregiudizio generalizzato nei confronti degli ebrei: io posso avere
pregiudizi verso i romani, verso i marocchini, verso gli zingari, verso i milanesi; o
verso gli ebrei, ma sono pregiudizi, non hanno niente a che fare con
l’antisemitismo. I pregiudizi che si possono avere contro gli ebrei non
necessariamente coincidono con l’antisemitismo. L’antisemitismo è un’altra
cosa.Io mi spingo ancora più in là e vi dico che l’antisemitismo si può dare varie
giustificazioni: religiose, economiche, razziali; può tentare delle coperture, delle
argomentazioni, ma non è nessuna di queste coperture che si dà. C’è stata una
lettura in chiave marxistica in passato, in particolare un teorico che si chiamava
Leòn, ma comunque vari autori, che identificavano, vedevano la questione
ebraica riassumersi nella questione del popolo-classe, cioè gli ebrei sono un
popolo-classe. Che cos’è un popolo-classe? E’ una entità politica nella quale la
collocazione sul piano dei rapporti di classe si riassume all’interno di rapporti
comunitari nati dentro una certa tradizione. Cioè, questa collocazione è
determinata da una certa posizione storica, da una certa appartenenza
comunitaria; e quindi gli ebrei sarebbero un po’ la contraddizione vivente del
processo di unificazione dei mercati, di razionalizzazione dei mercati, di
fluidificazione dei mercati, di unificazione, come si dice in linguaggio tecnico, di
liberalizzazione dell’istituto contrattuale, cioè tutti possono comprare tutto e tutti
possono vendere tutto e tutti possono vendere tutto da tutti, no? Cioè l’idea per la
quale non c’è più il feudalesimo, in cui io posso vendere e comprare solo queste
cose, un altro si occupa di altre cose, cioè non c’è la libertà contrattuale assoluta.
Gli ebrei, diciamo, dentro questo processo di razionalizzazione del mercato
avrebbero rappresentato una contraddizione, perché coltivando questa loro
identità, sarebbero entrati in contrasto con questo processo e quindi, in qualche
modo, hanno un po’ riassunto in sé le contraddizioni di questo processo e sono
diventati oggetto di discriminazione. Ma questo può essere un paradigma
interessante, che ha avuto varie versioni, però onestamente, non soddisfacente
per comprendere cos’è l’antisemitismo. Perché non mi spiego poi perché si
determini l’aggregazione, perché si determini l’identificazione di questi soggetti;
cioè il difetto di tutte le spiegazioni, di tutti i paradigmi classisti, economicisti, è
quello che poi non mi spiegano il senso dell’aggregazione, la ragione per cui si
costituisce un soggetto. Che cosa c’è che a un certo punto unifica e fa sì che si
determini questo popolo-classe? Allora, quindi non è soddisfacente il paradigma
del popolo-classe. Allora, vediamo un po’ a livello fenomenologico come si
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presenta la discriminazione contro gli ebrei: il mercante cristiano del tardo
Medioevo che cerca d’incamerare i beni del concorrente ebreo, è antisemita? Ma
forse farebbe lo stesso un mercante cattolico con uno protestante nell’età
moderna; non c’è una forma specifica in questo caso. Così come, per esempio,
quando in URSS viene proibito l’insegnamento della religione ebraica come le
altre, è antisemitismo questo? Neanche questo. Ecco allora che noi dobbiamo
distinguere bene il problema, dobbiamo capire che cosa c’è di specifico
nell’antisemitismo. Io non vi dico che adesso ve lo dirò, ma almeno cominciamo a
vedere cosa non è. Cominciamo dai romani. I romani sicuramente non erano
antisemiti; siccome erano agricoltori, contadini e guerrieri, avevano una certa
diffidenza nei confronti dei popoli mercanti, dei popoli mobili: i Fenici per
esempio -neanche dei Greci si fidavano tanto - e gli Ebrei, cioè tutti i popoli che
sfuggivano ai loro paradigmi abbastanza, come dire, ‘ruspanti’, no? Loro non
avevano dei paradigmi molto raffinati, diffidavano un po’ ma certamente non si
può parlare di antisemitismo nei romani. Erano preoccupati certamente del
nazionalismo ebraico, per dirla con termini odierni, cioè di questa fedeltà a
Israele, alle proprie origini, ma diciamo che i provvedimenti, anche quando c’è la
questione dei sacrifici e gli ebrei si ribellano, anche lì è stato dimostrato che non
si trattava di una pretesa religiosa dell’imperatore, cioè l’imperatore non voleva
imporre agli ebrei il sacrificio agli dei per una questione di religione, ma per una
questione politica, cioè per dimostrare che lì c’era l’imperium, in una fase di crisi
politica generale. Arriviamo al IV-V secolo: l’antisemitismo neanche qui, non lo
vediamo. Cioè abbiamo la persecuzione degli ebrei da parte della Chiesa, una
persecuzione che tuttavia non raggiunge mai dimensioni di massa; intanto non ci
dimentichiamo che il primo papa è un ebreo, oltre al fondatore del cristianesimo,
ma anche il primo papa e tutta la gerarchia ecclesiastica per un lungo periodo
continua ad essere ebraica. C’era un po’ un atteggiamento, che vediamo per
esempio anche in san Paolo nei confronti degli altri ebrei, di sfida, come a dire:
perché vi intestardite a non riconoscere il fatto che ormai il Messia è venuto.
Successivamente si afferma il mito dei “deicidi”, cioè l’ebreo deicida, perché
avrebbe ucciso il Messia; intanto, come ho già detto, anche Gesù era ebreo e
quindi non abbiamo certamente noi il diritto di mettere il naso in una questione
loro, giusto? Quindi che c’entra “deicida” ? L’accusa di “deicidio” nasce
all’interno della diaspora ebraica, non ha nulla a che fare con l’antisemitismo. E’
un’accusa che non ha senso al di fuori della polemica all’interno della diaspora
ebraica. In ogni caso, fondata o meno, non ha nulla a che fare con
l’antisemitismo. Qui voglio fare una precisazione anche sui ‘farisei’ . Per voi che
cosa indica questa parola? Ecco, se io dico ‘sei un fariseo’, che cosa intendo dire?
Intendo dire una persona ipocrita. Benissimo, questa è una balla pazzesca; cioè i
veri nemici di Gesù non erano i farisei ma i sadducei, i quali non credevano alla
vita dopo la morte, erano praticamente i burocrati del Tempio e sono quelli che,
alla fine poi, fanno condannare Gesù. Gesù invece aveva un rapporto amichevoleconflittuale con i farisei, perché si è capito che, grosso modo Lui veniva da quella
scuola. Il fariseo invece era colui che contestava l’attaccamento dei sadducei a
certe formalità e continuava la tradizione orale, cioè il confronto,
l’interpretazione e coltivava anche uno stile di vita molto rigoroso, molto serio. Il
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conflitto tra i farisei e Gesù è il conflitto tra persone che, tutto sommato, hanno
un avversario comune, che è il sadduceo. Quindi la parola “fariseo” porta
completamente fuori strada; cioè noi vediamo da un lato questi ebrei formalisti e
Gesù, invece non è vero perché Gesù con questi ebrei farisei aveva un rapporto di
amichevole conflittualità. Quindi questa è un’altra leggenda, per esempio, che poi
è scivolata man mano nel nostro inconscio senza che ce siamo resi conto.
Torniamo a noi: quindi durante la Chiesa ci sono delle persecuzioni ma la
comunità ebraica viene anche a volte protetta. Andiamo all’età carolingia:
nell’età carolingia, voi conoscete la tesi di Henry Pirenne, uno storico francofono,
non francese, è belga, che formula la seguente tesi: <<Maometto e Carlo Magno>>.
Cioè, nell’età carolingia l’Europa, come dire, si chiude, l’impero si contrae, gli
spazi si chiudono e quindi c’è una generale riduzione dello spazio politico, civile
ed economico. In questo periodo gli ebrei hanno una funzione importantissima,
perché hanno mantenuto i contatti col Medio Oriente e comunque mantengono i
contatti in genere in Europa; quindi hanno una importantissima funzione per le
attività di scambio e di prestito.
Saviani: Questa interpretazione di Pirenne è anche l’idea di fondo che soggiace
alla mostra di Carlo Magno fatta qui a Roma, sull’Europa, sull’idea e sulla sua
nascita; non so se avete visto questa mostra.
Sbailò: Tra l’altro gli ebrei hanno avuto una funzione importante per la nascita
dell’Europa, perché hanno garantito la circolazione, voi sapete che un corpo
senza circolazione muore, no? Gli ebrei hanno garantito la comunicazione
all’interno e tra l’interno e l’esterno. Quindi non esiste praticamente
persecuzione antiebraica in questa fase. Successivamente, io adesso accelererò un
po’, tanto riprenderò la prossima volta, perché voglio dedicare una ventina di
minuti a un confronto, alle vostre domande. Quand’è che cominciano a
manifestarsi in Occidente i primi sentimenti forti contro gli ebrei? Proprio
quando questa funzione di comunicazione non è più garantita, non è più
necessaria, cioè quando, dopo i grandi viaggi nel XII secolo, viaggi per terra,
stiamo parlando ancora di spostamenti alla Marco Polo, mercanti eccetera, con la
nascita dei primi nuclei di quelli che poi saranno gli istituti di credito, viene
meno questa funzione di collegamento degli ebrei che, in quanto esterni e al
tempo stessi interni alla cristianità, svolgevano un ruolo di interfaccia. Voi sapete
che, per esempio, nella lotta con l’Islàm, spesso i cristiani venivano fatti
prigionieri e venivano schiavizzati; questi schiavi naturalmente poi venivano
riscattati sulla base di una certa somma di denaro. Ed era una delle fonti di
reddito della comunità islamica nel bacino dell’Europa. I mercanti ebrei invece
avevano più o meno libero accesso sulle sponde anche islamiche, dipende dal
periodo ma insomma, c’era per lo più questa possibilità e molte volte i mercanti
ebrei venivano in contatto con questi mercati islamici che avevano questi schiavi
cristiani, e i mercanti ebrei li riscattavano di tasca propria e li portavano in
Europa. Questa è un’altra cosa che non si sa, per esempio, degli ebrei: che hanno
salvato, che hanno riscattato parecchi…Va bè, è un aspetto importante ma un po’
secondario rispetto al filo del discorso. Non sono più indispensabili all’economia
e a questo punto non servono più per prestare il denaro ai principi, ai potenti, e
vengono rinchiusi in un ambito molto ristretto, che è l’ambito del prestito piccolo,
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alla popolazione povera, agli artigiani. Di qui, poi nasce il mito dell’usura, degli
ebrei Shylock, il personaggio del “Mercante di Venezia” di Shakespeare.. Perché
nasce? Perché, essendo confinati in questo ambito, non avendo la possibilità di
acquistare terra, e questo spiega perché poi alla fine il problema della terra
ritorna sempre in questa storia, di possedere e di esercitare altre professioni, ed
essendo ai cristiani vietato prestare soldi con interesse ed essendo però necessario
che qualcuno lo facesse, alla fine tutto poi ricade nell’ambito di competenza degli
ebrei. Quindi vengono, come dire, rinchiusi in questo ghetto virtuale che però
molto spesso s’identifica con un ghetto reale. Tra l’altro, sapete da dove deriva la
parola ‘ghetto’? Moltissime cose non si sanno; ghetto è il luogo dove, a Venezia, si
coniavano le monete; c’era il ‘getto’, no? Ghéto, dove si coniava. E siccome nel
ghetto c’erano gli ebrei, poi la parola ghetto indica il luogo dove vengono tenuti
gli ebrei. Quindi diciamo, abbiamo, poi, le varie escursioni: Inghilterra 1290,
Francia 1306-1394, Spagna 1492, Portogallo anche, e poi Regno di Napoli,
eccetera eccetera. Quindi abbiamo una situazione di degrado della condizione
degli ebrei orientali e uno spostamento verso la Russia, la Polonia, l’Oriente, la
Germania orientale, la Prussia. E perché gli ebrei vanno in queste aree? Perché si
spostano? I principi, i potenti di quelle aree vogliono che gli ebrei vadano in
quelle aree: perché? Vi ricordate com’era lo sviluppo economico intorno al ‘600
di queste aree dell’Europa orientale, della Russia, nel ‘500-‘600? Com’era rispetto
all’Europa occidentale? Era molto, molto basso. C’era una situazione di
feudalesimo, c’era una situazione che addirittura forse potremmo paragonare
all’Europa carolingia, cioè una situazione di chiusura; l’ebreo serviva per far
circolare, per rianimare, per mettere in moto. Poi venivano dall’Occidente, quindi
rappresentavano un canale di comunicazione con quello; e qui per un certo
periodo gli ebrei sono protetti dalle autorità e qui si sviluppa la straordinaria
cultura yiddish. Però in questo periodo abbiamo anche, fino al ‘700…e fino al
‘700 la condizione degli ebrei in Europa occidentale sarà misera, mentre invece si
svilupperà molto la cultura dell’Europa orientale, la cultura yiddish. Allora,
ragazzi, quando per esempio vediamo un ebreo askenazita israeliano o
newyorkese, come dire, orgoglioso della propria tradizione, così legato alla
propria cultura, bè, dobbiamo capire da dove viene questo; cioè cosa c’è, qual è il
retroterra. Il retroterra è nella funzione culturale, politica ed economica, che gli
ebrei hanno svolto nell’Europa orientale nell’età moderna, fino al Novecento. E’
da lì che derivano Woody Allen, certe sue battute si capiscono solo se si capisce
questo: il suo rapporto con Dio, il suo rapporto col Talmùd, con la madre, perché
dietro c’è tutta questa tradizione, questo ruolo enorme che hanno avuto. Il teatro
yiddish: qua ci sarebbe da perderci un po’ di tempo…Voi dovreste sapere che
Broadway, l’avanspettacolo americano, in parte nasce proprio per opera di attori
yiddish, questa è un’altra cosa importante. E allora ecco, bisogna capire il ruolo
che hanno svolto.
Saviani: Apro una parentesi sullo spettacolo e la musica. Per esempio, l’opera di
Robert Zimmermann, sarebbe il nome di Bob Dylan.
Sbailò: L’ultimo profeta ebreo del Novecento, patriarca…
Saviani: Bob Dylan, quando scrisse la canzone che poi è rimasta nella storia
della musica popolare, “Blowing in the wind”, non aveva i soldi per fare il disco;
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glieli prestò un amico ebreo, italiano. Attualmente è uno più illustri studiosi
italiani dei media: è Furio Colombo, ebreo italiano che si trovava in America.
Sbailò: Si, adesso è direttore dell’Unità, comunque è uno dei massimi giornalisti
italiani. Bene, molto interessante, oltretutto non lo sapevo. Allora, cosa succede
nell’Europa orientale? In Europa orientale abbiamo un progressivo
indebolimento del potere centrale; abbiamo, come dire, una rimonta della
borghesia locale nei confronti del potere del sovrano e quindi abbiamo anche qui
un indebolimento già visto, come è successo in Europa nel ‘200, nel ‘600, con
l’affermarsi della borghesia locale: l’ebreo non serve più. Siamo a metà ‘800,
inizio ‘900. Comincia la migrazione di massa dall’Europa orientale verso la
Francia, verso la Germania e verso gli U.S.A. perché sono perseguitati intanto con
i pogrom, in Europa orientale. Pogrom è una sorta di parola che indica appunto
questo movimento popolare che porta a distruggere le case degli ebrei,
incendiarle, perseguitarli, ucciderli. Questo deriva dal fatto che venivano intanto
diffuse delle voci sul fatto che avvelenavano i pozzi. Per esempio, quando ci fu la
peste nera in Europa, nella metà del ‘300 (1348-1350), sapete che si diceva che gli
ebrei avevano avvelenato i pozzi. Qualcosa del genere accadeva anche per altre
calamità: se c’era la carestia, se il raccolto andava male, se un bambino moriva di
una malattia infettiva, qualsiasi cosa succedeva, la polizia zarista poi agiva
naturalmente in direzione di un rafforzamento di questi pregiudizi, questo
provocava appunto questi fenomeni di persecuzione: l’ebreo era il colpevole per
eccellenza. Tutto questo per due ragioni: primo per giustificarsi, ma anche per
liberarsi di un soggetto politico ed economico che aveva acquisito una sua
autonomia, una sua identità e che adesso ostacolava, secondo loro appunto,
l’espansione dei loro stessi affari. Facciamo un esempio concreto per capirci,
preso dall’Europa del ‘200- 300, perché le situazioni si somigliano: fino a qualche
tempo prima, l’ebreo svolgeva la funzione di cambiavalute, teneva i contatti tra le
diverse aree, eccetera; se io sono un mercante e comincio ad avere dei contatti,
faccio una mia banca, è chiaro che il mio concorrente ebreo diventa un ostacolo;
cioè, mentre prima mi era di aiuto, adesso è diventato mio concorrente e quindi
comincio ad accarezzare l’idea di cacciarlo e incamerare i suoi beni e i suoi
contatti, la sua credibilità, il suo nome. Questo l’abbiamo ricostruito basandoci
sul fatto di questa duplice collocazione dell’ebreo, che è integrato nella cristianità
senza essere cristiano, cioè rappresenta una memoria, ma non tutti appunto poi
amano avere una memoria. E’ questo è il problema: cioè tu mi stai chiedendo
perché l’antisemitismo ed è la questione intorno alla quale stiamo girando.
Professor Kamm…
Kamm: Volevo dire, non avendo patria non erano protetti da nessuno no? Non è
un caso no.
Sbailò: Gli ebrei francesi, tedeschi, polacchi, non avevano gli stessi diritti dei
francesi, dei tedeschi e dei polacchi. Se si naturalizzavano, se chiedevano la
cittadinanza sì, altrimenti restavano comunque ebrei.
Kamm: Anche se magari combattevano per quel Paese in cui stavano.
Sbailò: Ecco, basti vedere il caso Dreyfuss; era un ufficiale decorato, che si era
battuto, ebreo: viene accusato di spionaggio a favore della Germania. Poi dopo si
è dimostrato che era completamente falso ma lui stava rischiando di fare una
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brutta fine. E qua arriviamo al punto, alla Shoah: la Shoah livella tutto. Cioè: o
eri integrato, disintegrato, outsider, se avevi cambiato religione, non c’entra
niente; questo ci fa capire che cosa è l’antisemitismo: l’antisemitismo è una
questione che non può essere ridotta né a razzismo, né a puro pregiudizio
culturale. Abbiamo l’indebolimento del potere centrale, l’avanzare di una
borghesia, diciamo così, aggressiva, nei paesi dell’Europa orientale e quindi il
diffondersi di atteggiamenti ostili nei confronti degli ebrei. Tuttavia non abbiamo
ancora l’antisemitismo vero e proprio; io qua concludo, poi dopo volevo chiedere
alcune cose. L’antisemitismo nella forma specifica in cui noi lo conosciamo,
l’antisemitismo nel senso specifico di aggressione alla cultura dell’ebraismo, a ciò
che l’ebraismo rappresenta, noi lo vediamo effettivamente esprimersi solamente
dopo la sconfitta della Germania nella Grande Guerra, anche se ha le sue radici
nel romanticismo politico tedesco, nel mito della Mutter Erde, della “madre
Terra”. L’antisemitismo come problema globale, cioè non solo problema
culturale, ma religioso e politico, questo antisemitismo, si sviluppa soltanto dopo
la sconfitta della Germania nella guerra, cioè si sviluppa dopo il fallimento della
costruzione del grande Reich, dopo il fallimento del tentativo tedesco di costruire
un grande stato-nazione, di superare il gap con le altre grandi nazioni che
avevano costruito il loro impero precedentemente, soprattutto la Francia e
l’Inghilterra; nasce dunque col mito del complotto ebraico contro la Germania. E
di che cosa vengono accusati gli ebrei da parte dei tedeschi? Vediamo anzitutto
cosa confluisce nell’antisemitismo tedesco: la paura dell’alta borghesia per il
bolscevismo, e siccome si temeva, si diceva, che gli ebrei erano bolscevichi, questo
elemento era utilizzato per costruire argomenti contro gli ebrei. Nel gruppo
dirigente bolscevico c’erano molti ebrei: Trotzkij ad esempio. Poi un disagio della
sconfitta e quindi la crisi dell’identità e la paura della deterritorializzazione dello
spirito tedesco, cioè la paura di diventare una semplice cultura e di perdere
l’aggancio al potere, agli equilibri europei e poi veniva sfruttato anche questo
elemento dell’odio popolare nei confronti dei capitalisti, guarda caso erano
capitalisti ebrei; poi, vediamo che la realtà non era così. E allora: qual è l’accusa
fondamentale che una parte della cultura tedesca rivolge nei confronti
dell’ebraismo? Udite, udite: questo viene espresso da uno dei più grandi giuristi,
personalmente lo ritengo un grandissimo giurista e viene espresso in maniera
camuffata, non esplicita, perché era troppo intelligente e aveva troppo pudore per
esprimere esplicitamente certe cose, si chiama Carl Schmitt, era un tedesco
cattolico, grande giurista, filosofo del diritto, filosofo della politica, politologo,
storico; qual è l’accusa che egli fa balenare e che in effetti è la radice vera, o
quantomeno il rizoma che può condurci alla radice vera dell’antisemitismo? E’,
sentite un po’ il paradosso, il fatto che gli ebrei sono un popolo senza terra, sono
il popolo della deterritorializzazione, della perdita delle radici, il popolo
dell’affermazione dello spazio liscio, dei grandi commerci internazionali, delle
grandi potenze marittime, il popolo che ha causato, che è alla radice di questo
processo e la cui cultura è uno degli elementi che ha portato alla fine dello jus
publicum europaeum. Il titolo dell’opera è “Il Nomos della Terra”. In altre parole,
il popolo che era stato privato della terra, il popolo a cui si tentava di tagliare
continuamente le radici, il popolo la cui identità veniva contestata, questo popolo
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era accusato di aver dimenticato la terra in nome della fluidificazione dei
rapporti, era il popolo che voleva annientare le identità, il popolo del quale si
volevano recidere le radici; cioè abbiamo un processo straordinario, terribile,
diabolico, io non esito a definirlo tale, anche perché sto pensando a certe pagine
di Meinecke, ‘Il nazismo come opera diabolica’, o a certe pagine del grande
Benedetto Croce, pagine dimenticatissime, sull’Anticristo, processo terribile in cui
trasformiamo la vittima in nostro carnefice. Trasformiamo il popolo che
custodisce la memoria e la cui memoria ci mantiene nell’ambito della civiltà del
rispetto della persona, nella fonte della nostra distruzione. E’ una cosa,
un’operazione che ha, giustamente come dice Meinecke, del diabolico. E’ la
pietra di scandalo, questa è l’interpretazione che io qui lancio, la provocazione.
Cioè, nell’immaginario collettivo, gli ebrei venivano accusati di essere immagine
dello sradicamento; è vero che l’ebreo è errante radice, è vero che l’ebreo è
dislocalizzazione, ma è errante radice come richiamo all’importanza della radice
perché la radice è così importante che non può essere fissata in un punto, perché
la trascendenza è così importante che non può essere ridotta in una
rappresentazione, per questo è errante radice e memoria. E allora ecco che alla
base dell’antisemitismo c’è proprio questa avversione profonda, sorda, come dire,
al ‘dasein’, all’esserci proprio, dell’ebraismo e al suo costituirsi come errante
radice, cioè come una radice che disloca, che ti radica, proprio perché ti tiene
lontano dall’affezionarti a qualche cosa di specifico, a un simbolo, a una
rappresentazione specifica. Però questo è appunto il senso nostro, greco, anche di
civiltà, cioè della parresia, cioè del confronto, del tenersi aperti, no? Allora,
abbiamo cominciato col sistema elettorale israeliano e siamo finiti su Carl
Schmitt. Qual è il nesso? Il nesso c’ è: infatti abbiamo cominciato con un
problema giuridico e abbiamo finito con un giurista. Intanto tengo a sottolineare
questo e perché alla base c’ è questo: cioè, perché esiste oggi un problema, una
questione, israeliana? Perché c’ è un problema politico-culturale di fondo che
riguarda l’intera civiltà. Non possiamo affrontare questi problemi a prescindere
da questo contesto. Questo era il senso del mio intervento. Io mi fermo qua e
volevo intanto vedere se ci sono domande e poi chiedere al professor Kamm che
conosce benissimo la realtà, perché l’ha vissuta personalmente, dei rapporti tra
arabi e israeliani e mi ha spesso raccontato come in realtà, i contrasti che ci sono,
sono spesso frutto di sovrapposizioni politiche, ma in realtà la possibilità del
dialogo sul piano culturale è molto ampia, essendoci stato un periodo di dialogo,
soprattutto nel Nord Africa e anche in Israele. E’ così?
Kamm: Sono stato in Israele alcuni anni…
Sbailò: In un kibbutz, vero?
Kamm: Sì, noi eravamo nel nostro kibbutz e avevamo degli arabi che facevano
addirittura la guardia armata di notte. Avevamo delle squadre di gente che
lavorava da noi con i quali studiavamo la sera, io studiavo lo spagnolo con loro;
c’era un ottimo rapporto, per me. Io ero lì alla fine degli anni ’50, inizio anni ’60,
poco prima dell’arrivo della migrazione nordafricana degli ebrei, dopo la guerra
del ’67: già prima gli ebrei del Nord Africa (Libia, Egitto, Tunisia, eccetera)
cominciavano ad affluire in Israele in quegli anni e sono poi stati il nucleo della
Destra; la Destra in Israele è nata dopo il ’67: c’ è stato questo esodo massiccio
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degli ebrei ma non solo; tutti gli europei in Nord Africa sono tornati: gli italiani
per esempio, che erano in Libia, in Tunisia, eccetera, sono tutti tornati dopo la
guerra del ’67. E lì, comunque, in Israele, questo nucleo è stato il nucleo della
Destra. Mi ricordo che negli anni in cui c’ero io, gli anni di cui vi dicevo, la
Destra era forse il 2-3%, non di più.
Sbailò: I laburisti erano di più.
Kamm: E anche i partiti religiosi erano veramente irrilevanti come potere; c’era
un centro-sinistra abbastanza forte, la Sinistra era abbastanza forte ed erano
quasi tutti askenazim, cioè erano quasi tutti provenienti dall’Est, anche gente
proveniente dall’Est prima della guerra, quindi gente migrata negli anni ’20,
negli anni ’30…
Sbailò: E c’era anche un altissimo livello culturale.
Kamm: Bè, questo nei kibbutz di sinistra c’è sempre stato. Il teorico era Borofov,
un comunista ebreo russo che era il teorico di questa…Quindi chiaramente in
tutto il mondo dell’Est la cultura era abbastanza seguita: la gente studiava
musica, studiava matematica, anche a livello operaio la gente studiava
abbastanza, quindi anche in Israele era la stessa cosa. E gli arabi che lavoravano
con noi avevano percepito questa cosa e quindi nel kibbutz c’era una grande
apertura verso di loro proprio perché la sinistra si è sempre adoperata per una
pace fattiva, poteva fare questa pace. Poi appunto, la Destra, questa è la mia
lettura, e i partiti religiosi che l’ hanno appoggiata, hanno sfasciato un po’ tutto.
Sbailò: Sì, sì. Però, perché questi nuovi arrivi hanno rafforzato la Destra? E’
questo il punto.
Kamm: Perché gli ebrei che erano stati in Nord Africa avevano subìto
persecuzioni di ogni genere.
Sbailò: Quindi ritorniamo sempre là.
Kamm: Per un motivo o per un altro, insomma; c’era sempre qualche buon
motivo. E poi naturalmente, quelli che venivano a soffrire della situazione, erano
certamente le classi più disagiate. Per esempio, io ero in Libia in quegli anni, ero
bambino nel ’45-’47, ci sono stati dei pogrom degli arabi verso gli ebrei, loro
nemmeno sapevano che la mia famiglia era ebrea, perché mio nonno materno
era stato uno dei creatori della scuola italiana in Libia, erano tutti professionisti,
praticamente non c’erano questi problemi con gli altri italiani. Invece erano
quelli dei ghetti, gli ebrei locali, ad essere sottoposti a queste persecuzioni e
appena hanno potuto, se ne sono andati in Israele.
Sbailò: Ma gli ebrei provenienti adesso dalla Russia?
Kamm: Questi sono gli ultimi.
Sbailò: Sono gli ultimi. Sono poi la grande maggioranza in alcuni quartieri, in
alcune aree.
Kamm: Certo gli ebrei in Russia erano abbastanza numerosi, veramente milioni
di persone, ma molti sono andati in America, in Canada, nei paesi di grande
immigrazione e una certa parte è andata in Israele. Anche perché riuscivano ad
avere il permesso di uscire solo se andavano in Israele; dovevano pagare un tanto.
E’ giusto, secondo me, che pagassero per i loro studi, per quello che lo stato russo
aveva pagato per loro, per farli studiare. Questo è stato visto come uno strapotere,
invece secondo me è abbastanza giusto: è un’indennità che la Russia pretendeva.
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Tutta questa gente, è chiaro, è gente che ha sofferto in qualche modo: parliamo
di quelli del Nord Africa ma anche dei russi; c’è stato sempre un antisemitismo
strisciante. Insomma, se noi leggiamo la letteratura dell’Ottocento, vecchi libri di
Tolstoj eccetera, tutti i grandi romanzieri dell’Ottocento, troviamo sempre la
figura dell’ebreo o ridicolizzata o stigmatizzata; se era ricco era accusato di certe
cose, se era povero veniva accusato di altre, quindi…Quello che dicevo prima, un
popolo che aveva perso la patria, naturalmente viene considerato debole e, come
avviene anche per gli animali…Voglio dire, avrete visto nella trasmissione
Superquark un branco di leoni che assaltano un branco di gnù: o aspettano che
passi o che si isoli il più piccolo oppure l’animale malato, vecchio. E’ così, no?
L’avete visto: questo succede anche tra noi umani, purtroppo. Invece volevo dire
un attimo un’altra cosa: le leggi razziali del ’38, queste leggi vergognose, hanno
colpito gente che aveva giurato fedeltà all’Italia, che non pensava assolutamente
nemmeno a Israele o altro. Per esempio, nella famiglia di mia madre, mio nonno,
1860 Livorno, è stato un pittore di casa Savoia, ha avuto un fratello garibaldino,
ha insegnato all’estero, i figli sono cresciuti in Africa, il mio zio maggiore è stato
uno dei grandi architetti del periodo del fascismo, quindi ha creato, ha costruito,
insieme ad altri la Libia, ha combattuto tra l’altro nella prima guerra mondiale,
quando c’ è stata la legge del ’38, da un giorno all’altro, lui era il direttore del
Genio Civile in Libia, era un personaggio pubblico, in pratica: è stato degradato,
ha perso tutto. Dopo la guerra, chi è riuscito a sopravvivere poi è stato
reintegrato, però per esempio mio padre…era un polacco che si era laureato in
Chimica in Cecoslovacchia perché in Polonia gli ebrei non potevano andare
all’università, poi è venuto a fare Farmacia a Perugia, qui in Italia: era
innamorato dell’Italia, ha sposato un’italiana, faceva il farmacista a Roma; con
la legge del ’38 l’hanno mandato a casa, in Polonia, a morire insieme a tutta la
sua famiglia; solo una sorella si è salvata in Sud America. Voglio dire: mio padre
era innamoratissimo dell’Italia; siccome era ebreo straniero, è stato cacciato via:
queste storie sono tantissime, c’ è gente che dice che non è vero, che è tutto falso,
tutto inventato
Sbailò: Sono i revisionisti…
Kamm: Continuano a ripetere sempre le solite cose: gli ebrei sono tutti ricchi…io
vivo con il mio stipendio di scuola, c’è tanta gente povera, ci sono tanti ebrei
poveri, ci sono sempre stati, quindi è una grossa balla.
Sbailò: Sì, ma infatti non è un caso che questi argomenti propagandistici
vengano spesso utilizzati anche sul piano internazionale; allora perché non si
può separare completamente la questione israeliana dal discorso ebraico, anche
se vanno distinti? Perché io posso provare molta antipatia per Sharon, posso
considerarlo un pericolo pubblico, una bestia, un animale, d’accordo, però non si
possono completamente isolare, e non si può comprendere l’una senza
comprendere…non si può comprendere la questione israeliana senza
comprendere quello che nell’emisfero occidentale, non stiamo parlando di una
remota regione dell’Asia, nel cuore della civiltà europea, è accaduto e continua
ad accadere. A cicli.
Kamm: Bisognerebbe studiare, secondo me, il perché di questa ciclicità. Io, per
esempio, quando ero in Israele, stavo benissimo: eravamo lì un gruppo di italiani,
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svizzeri e austriaci, siamo stati inseriti in questo kibbutz, insomma siamo stati
benissimo. A un certo punto, noi italiani soprattutto, molti di noi italiani, siamo
tornati in Italia, perché abbiamo scoperto, stando lì, che eravamo più italiani che
non israeliani. Perché questo? Perché io, per lo meno, avevo amici dalle
elementari, medie, ho sempre avuto amici cattolici, non sono stato assolutamente
mai chiuso; già la mia famiglia non veniva da un ghetto; comunque non mi sono
mai sentito parte di una minoranza, nel modo più assoluto. Ho sposato una
cattolica, non abbiamo mai discusso di religione perché eravamo d’accordo che
tutto sommato la religione è essenzialmente un fatto intanto personale e intimo e
poi, condividendo un po’ la posizione marxista, la religione è una sovrastruttura.
Sbailò: L’oppio dei popoli. Tu sai che su questo non sono d’accordo.
Kamm: Non è l’oppio dei popoli ma è una sovrastruttura.
Sbailò: Bene, grazie al professor Kamm che col suo contributo ci ha permesso di
arricchire l’incontro di vita vissuta. Io vorrei sapere, ci sono domande, questioni?
Studente: In qualche modo gli ebrei sono sempre stati perseguitati in quanto
sono sempre una parte debole all’ interno della società?
Sbailò: L’immagine usata dal prof. Kamm è terribilmente convincente e infatti
qualcuno dice che l’antisemitismo è la parte bestiale dell’uomo, della civiltà, che
lotta per riemergere, riappropriarsi dell’uomo nella sua interezza, in questo caso
il popolo debole. L’uomo si dovrebbe distinguere dalla bestia perché non segue
l’istinto della soppressione del debole; in questo caso, la parte bestiale, “l’istinto
della bestia” come diceva Max Weber, prevale.
Saviani: Domande, interventi? Chiudiamo ringraziando di cuore il prof. Sbailò e
il prof. Kamm nostro ospite. Bene, come già vi avevo preannunciato, l’incontro di
oggi è stato molto particolare rispetto anche al nostro corso in generale. Ci
vediamo tutti il 21. Sarà presente anche il nostro arabista, il prof. Cipriano, che
ci arricchirà di conoscenze anche per quanto riguarda parole arabe, la politica
internazionale araba e gli integralismi.
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Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4D), Silvia Crupano (4D),
Jessica Ferretti (4D), Francesca Neri (5L),
Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)
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Prof. Lucio Saviani
14 Febbraio 2001
Saviani: Oggi parliamo dei profughi palestinesi, vedremo chi sono e qual è la loro
storia. Ho portato anche del materiale: uno è la rivista “Limes”, tratta di geopolitica,
quindi di confini, spostamenti, politica internazionale, questo numero è interamente
dedicato ad un tema: “Israele/Palestina, la terra stretta”, che ci fa ripensare anche al
discorso sulla terra che ci ha fatto il prof. Cipriano. A pag. 117 abbiamo un articolo
che si chiama: “Atlante geopolitico del conflitto israelo-palestinese. Dal mandato
britannico sulla Palestina agli accordi di Oslo, dal piano Peel a quello Clinton.
Attraverso le cartine la storia del conflitto arabo-israeliano e delle proposte di pace.
La fine del tabù di Gerusalemme”. In una pagina ci sono tre cartine che vanno dal
mandato della Gran Bretagna sulla Palestina al piano ONU del ’47, poi c’è un
primo piano sui piani ONU del ’49 e del ’67, il piano di pace con l’Egitto, il piano
Rabin e il piano Sharon del ’92 e il piano Clinton del 2000/2001 e poi c’è una
interessante cartina, “Israele e noi”, che mette a confronto le dimensioni di Israele e
Italia. Queste cartine sono accompagnate da delle schede che spiegano a cosa sono
dovuti i vari assetti e cosa comportano.
Questo lavoro di “Limes”, credo, dovrebbe essere presente nel nostro dossier finale.
Oggi parleremo del diritto al ritorno dei profughi palestinesi. E’ un problema la cui
soluzione è irrinunciabile. Per quanto riguarda la parola “profugo” dobbiamo capire
bene cosa significa e fare una distinzione tra varie parole che spesso usiamo in
maniera impropria: che significa “profugo”, che significa “rifugiato”, che significa
“esiliato”, che significa “esule”, che significa “emigrante”. Sono parole che vanno
analizzate un po’ più da vicino.
Io ho portato anche dei documenti e dei racconti presi da Internet, anche per fare da
pendant al discorso del popolo e della terra dell’altra volta. Uno si intitola “La
Palestina, uno spazio fisico e un luogo della mente” e l’altro, dell’associazione
Manitese, “Palestina, la terra negata”. Quest’ultimo dice: “Un solo dato, tanto per
cominciare a farsi un’idea della situazione. Il 70% dei palestinesi, più di cinque
milioni, sono rifugiati: un terzo di loro vive da 50 anni nei campi profughi di Gaza,
Cisgiordania, Libano, Siria, Giordania, gli altri dispersi tra paesi arabi e resto del
mondo– quindi già questo primo dato dovrebbe farci riflettere – Più dell’80% abita a
meno di 100 chilometri dai suoi luoghi d’origine. Nessuno vuol essere risarcito, tutti
vogliono tornare alle loro terre – vedremo anche il discorso del diritto al ritorno che è
irrinunciabile – Ma da 50 anni Israele, nonostante la risoluzione 194 dell’ONU che
sancisce il diritto al ritorno, emessa nel 1948 e riconfermata ben 110 volte, rifiuta di
riaccoglierli. Non solo: l’UNRWA, la sezione speciale dell’Alto Commissariato ONU
per i Rifugiati che si occupa dei profughi palestinesi, riceve sempre meno
finanziamenti – quindi abbiamo anche quest’altra questione, che il problema
sociale è sempre meno visto e meno finanziato – Stati Uniti e Israele vogliono
liquidarla, perché la sua semplice esistenza è la testimonianza di una tragedia che i
due paesi vorrebbero semplicemente cancellare”. Qui troverete delle frasi e anche dei
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toni che vi sembrano abbastanza schierati, evidentemente dalla parte dei palestinesi,
ma alla fine invece ci sarà una sorpresa che ovviamente non vi anticipo.
Prendo l’altro documento. Li alternerò, così anche i toni si alterneranno. Questo ci
dice: “Al centro della causa palestinese ci sono i profughi palestinesi. La risoluzione
totale del conflitto palestinese-israeliano ed il raggiungimento di un accordo di pace
globale nel Medio Oriente, significa che, fra i vari problemi, è necessario affrontare e
risolvere quello dei profughi palestinesi”. Quindi quello di cui sta parlando non è
uno tra i tanti e tanti problemi che affliggono quella parte del Medio Oriente, ma è
IL problema. Cioè, risolvere il conflitto significa risolvere il problema dei profughi.
Vi ho anche portato un articolo di Grossman, ebreo, che parla del diritto al ritorno
dei profughi palestinesi, quindi avremo tre fonti. “Il fallimento nel raggiungimento
di una soluzione soddisfacente al problema, costituisce una minaccia costante al
raggiungimento di una pace durevole, della stabilità e sicurezza della regione. La
forza fisica, le intimidazioni psicologiche, il terrore e la legittima paura per la
propria sicurezza, sono le ragioni che stanno dietro l’espulsione e l’esodo dei
profughi palestinesi dalla loro terra, la Palestina, nel 1948. Costretti, dopo la
catastrofe del 1948, ad accettare l’insostenibile fardello dell’esilio, quasi in un
tentativo di negare l’esilio, i profughi palestinesi conservarono le chiavi delle loro
vecchie case e gli atti delle loro terre, insieme a qualsiasi documento attestante un
legame con le proprietà perse” – vi ricordate il discorso del prof. Cipriano sul
possesso della terra e su tutto quello che poteva essere letto in questa chiave? Ecco,
qui ritorna. “Restavano aggrappati a questi documenti come se dovessero servire da
un momento all’altro. E anche se non servivano, tuttavia erano la prova che i
possessori non erano dei nomadi derelitti, ma gente con uno stato sociale e diritti,
detentori di case e proprietà. Anche coloro che si erano rifiutati di partire o erano
rimasti nelle proprie abitazioni, a rischio della propria vita, alla fine diventarono
profughi in patria” – quindi abbiamo già due situazioni diverse quando parliamo
dei profughi palestinesi. “Costretti a lasciare i loro villaggi, rimasti completamente
disabitati in quanto l’esercito israeliano aveva costretto gli abitanti a trasferirsi in un
unico villaggio. Le terre e le proprietà, che avevano lasciato dietro di loro, finirono
sotto la supervisione del governo e vennero dichiarate proprietà assenteiste” –
vedremo che dietro questa parola c’è una questione importante. “I Palestinesi, come
nazione, furono ‘vittimizzati’ nel 1948. In quell’occasione persero molto di più che
case e proprietà. Persero una patria. La coscienza palestinese –anche di coloro che
non furono espulsi o non fuggirono nel 1948 - è stata travolta, plasmata da questa
grande tragedia”; per i palestinesi la catastrofe del ’48 è un momento fondamentale
del loro autointerpretarsi come popolo e come nazionalità. “Nel corso degli anni
l’UNRWA (the United Nations Relief And Work Agency) ha costantemente rivisto la
definizione di profugo palestinese, fino al raggiungimento dell’attuale definizione.
Con essa si dichiara che ‘il profugo palestinese è colui che, risiedendo in Palestina
da almeno due anni precedenti il conflitto del 1948, ha perso, a causa del conflitto,
la casa ed i mezzi di sussistenza, diventando profugo in uno dei paesi in cui
l’UNRWA offre accoglienza (Giordania, Libano, Siria, West Bank, Gaza) ” vi
ricordate “Settembre Nero”, il massacro dei palestinesi da parte della Giordania, la
guerra in Libano, le stragi di Sabra e Chatyla? Questa dunque è la definizione
ufficiale di “profugo palestinese”. “Anche se il numero di profughi che rientrano in
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questa categoria è aumentato da 914.000 nel 1950 a oltre tre milioni nel 1995 –
quindi significa che a causa del conflitto la maggior parte dei palestinesi sono
diventati profughi. Nella definizione si dice che “profugo palestinese è colui che a
causa della guerra del ’48 ha perso la casa e i mezzi di sussistenza” ma dire che nel
’95 si è arrivati ad oltre tre milioni significa che questa definizione deve accogliere,
inglobare anche altre questioni: non ci sono stati solo i profughi della guerra del ’48
ma anche quelli delle guerre dopo, che sono stati a suo tempo scacciati e che ora
Israele rifiuta di riaccogliere. Oltre ai tre milioni del ’95, “esistevano alcuni gruppi di
esuli palestinesi che non rientravano nella definizione dell’UNRWA”. Quindi alcuni
gruppi di esuli non rientravano in questa definizione, bisognava risiedere in
Palestina dal ’46 e avere perso tutto a causa della guerra, allora erano profughi e
venivano ospitati dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania, ecc.
Studente: I profughi di oggi sono profughi anch’essi?
Saviani: Sì, erano ragazzini quindici anni fa, nella prima Intifada. Per il momento
abbiamo la definizione ufficiale che si riferisce alla catastrofe del ’48, quando
ottocentomila palestinesi dovettero abbandonare le loro terre; nel ’95 però superano
i tre milioni. “Questi ultimi riguardano alcune centinaia di migliaia di Palestinesi di
‘villaggi di frontiera’, sul lato giordano delle linee d’armistizio, che avevano perso i
propri mezzi di sussistenza una volta che erano stati tagliati fuori dai campi sul lato
israeliano del confine; in situazioni simili si trovarono alcuni abitanti di Gaza,
qualche migliaio di beduini tagliati fuori dalle tradizionali aree di pascolo e alcune
migliaia di Palestinesi indigenti. Agli inizi degli anni ’50, c’erano oltre 300.000
persone in queste condizioni e che non rientravano nella definizione di profugo
dell’UNRWA: venivano chiamati ‘altri rivendicatori’, che l’UNRWA non era in grado
di assistere per mancanza di fondi. La guerra del giugno 1967 creò una nuova
categoria – circa 800.000 in base ad una stima palestinese, mentre il numero
ufficiale dato da Israele era 200.000; questi si trovarono ad essere definiti profughi
per la seconda volta, in quanto avevano lasciato la propria casa nel 1948 e,
successivamente, la loro residenza temporanea nella striscia di Gaza o nella West
Bank” – quindi vengono cacciati di nuovo e questa volta non più dalla loro terra
d’origine ma addirittura dal luogo dove erano stati costretti a riparare dopo il ’48.
“Si trattava di Palestinesi che, ancora una volta, erano fuggiti, per ragioni di
sicurezza, con la speranza di poter tornare, una volta che i bombardamenti e gli
spari fossero terminati; altri furono catturati al di fuori del paese allo scoppio della
guerra; altri ancora a cui fu impedito il ritorno, perché i documenti di viaggio
israeliani erano scaduti prima che avessero avuto la possibilità di rinnovarli” quindi
ci sono diverse tecniche per non riconoscere il ritorno. Ora entra in gioco una
questione di carattere burocratico: i documenti sono scaduti e quindi non più validi.
“D’altra parte, i profughi del 1967 non riescono a capire perché è proibito loro il
ritorno alle loro case e terre nella West Bank e a Gaza. Volendo fare uno sforzo di
comprensione, il ritorno alle proprie case in Israele da parte dei profughi del 1948
potrebbe essere considerato una minaccia alla maggioranza ebraica e all’equilibrio
demografico in Israele, ma non si può comprendere perché Israele si opponga al
ritorno dei profughi o rifugiati alle loro case nella West Bank o Gaza, che nessuna
influenza ha sull’equilibrio demografico in Israele” quindi anche i motivi che sono
stati addotti per non riaccogliere i profughi almeno nei territori fuori di Israele non
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si capiscono. “La Dichiarazione dei Principi firmata fra Israele e l’OLP nel 1993,
permette di condurre il dibattito, sul problema dei profughi palestinesi, su due
livelli. Dei profughi del 1967 si sta discutendo tra israeliani e giordani. Dei profughi
del 1948 si discuterà, presumibilmente, nella fase finale degli incontri fra Palestinesi
ed Israeliani” quindi di questo problema, dei profughi, per cui i palestinesi
rivendicano il diritto la ritorno e in vista di questo hanno conservato le chiavi e tutti
i documenti, se ne parlerà solo nelle battute finali. Certamente alcuni palestinesi che
si riconoscono nell’OLP riconoscono lo Stato di Israele e quindi, rinunciando al
ritorno dei profughi, ammette l’esistenza degli ebrei ma ammette anche quello che
Israele dice e cioè che il ritorno in massa dei profughi altererebbe gli equilibri
demografici israeliani e sarebbe molto pericoloso perché non si capisce come, e in
poco tempo, i palestinesi, convivendo naturalmente con gli israeliani, possano
riconoscere come loro patria quello Stato di Israele che fino a poco prima era un
nemico mortale, quindi anche il ritorno dei profughi è una questione abbastanza
complicata e anche una volta ritornati i problemi non finirebbero, anzi. Vedremo
che gli israeliani sono abbastanza monolitici nella loro posizione politica, al
contrario di Arafat.
Qui abbiamo una sorta di cronologia molto breve sui vari atteggiamenti che Israele
ha assunto nel corso del tempo nei confronti dei profughi palestinesi. “Nel corso
della propria storia Israele ha adottato tre approcci, tra essi collegati, al problema
dei profughi. Primo, mostrare indecisione e temporeggiare di fronte alla richiesta di
risposta alle proposte riguardo il ritorno dei profughi palestinesi, in particolare
all’applicazione della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
che richiede che venga concesso il ritorno dei profughi palestinesi alle proprie case
ed il pagamento di un compenso a coloro che non vogliono ritornare. Secondo,
creare dei casi con gli stessi pretesti che Israele usava per affrontare le pressioni
esterne della comunità internazionale e, allo stesso tempo, per annullare qualsiasi
decisione che non fosse di suo gradimento” – lo vediamo anche oggi, gli integralisti
creano dei casi che possono essere o diplomatici o terroristici o semplicemente
provocatori, da una parte e dall’altra, succede sempre qualcosa, ogni qual volta si
intravede un barlume di speranza per una pace nei territori, per cui saltano tutte le
trattative. “Questa tattica, che ha il medesimo approccio che, sin dal periodo
precedente al ’48, il movimento sionista aveva adottato verso il problema
palestinese, rimane la caratteristica più durevole della politica israeliana verso i
palestinesi” – quindi non tanto prendere tempo quanto creare dei pretesti per cui
tutto si sospende. “-Terzo, adottare procedure burocratiche che offuschino, se non
complichino, la discussione del problema ed impediscano di fatto la realizzazione di
qualsiasi procedimento concordato”.
Abbiamo visto, allora, che Israele ha questi tre diversi comportamenti per
fronteggiare il pressante problema dei profughi, quindi differire nel tempo la
questione, poi far saltare i piani con dei pretesti e adottare procedure burocratiche
che complichino la discussione del problema e impediscano di fatto la realizzazione
di qualsiasi progetto. “Tre le argomentazioni regolarmente usate da Israele, che
vanno a sostegno di queste ragioni. La prima è il problema della sicurezza,
abbondantemente usato per giustificare la proibizione del ritorno dei profughi, sia
in Israele che nei territori palestinesi” – capite dunque che un attentato, una bomba,
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è funzionale alla parte avversa che sostiene la propria posizione giustificandola con
il problema della sicurezza. Vi ricordate la strana situazione della morte dei due
soldati israeliani? Un diplomatico italiano disse: “mah, qui, circola questa voce nei
corridoi dell’ONU, che in fondo quei due soldati israeliani sono stati mandati dagli
stessi israeliani a morire, perché era chiaro che andare là dopo quello che era
successo significava farli linciare; però questo poteva servire ad Israele per
riacquisire un po’ di benevolenza da parte dell’opinione pubblica dopo che c’era
stata l’uccisione di quel bambino palestinese vicino al padre” – vi ricordate le
immagini che circolarono continuamente su tutti i mass media. Quindi vedete che il
rapporto tra palestinesi e israeliani è pieno di sfaccettature e strane strategie, ci sono
molte ombre. “La seconda è il vecchio problema demografico, sempre invocato da
Israele per giustificare l’impedimento del ritorno dei profughi palestinesi alle loro
case del ’48, col pretesto che ciò costituirebbe una minaccia al carattere ebraico
dello stato”. Parentesi, dovremo anche vedere, nell’altro documento, perché
comunque è un termine ricorrente che quindi va conosciuto, cosa sono i famosi
“territori occupati”. “-La terza argomentazione è di ordine legale, usata da Israele e
dai suoi sostenitori per controbattere che il diritto al ritorno in patria, come stipulato
nella risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non può essere
applicato al caso palestinese. All’infuori dell’offerta fatta da Israele nel 1948, dietro
pressione degli Stati Uniti, di accettare 100.000 profughi del 1948, da allora Israele
non ha mostrato nessun’altra disponibilità del genere. All’epoca l’offerta fu rifiutata
dagli arabi perché ritenuta troppo bassa e di conseguenza fu ritirata da Israele. Per
circa cinquant’anni, Israele ha costantemente rifiutato persino di trattare del
problema dei profughi del 1948, se non all’interno di una risoluzione generale del
conflitto arabo-israeliano, che all’epoca si riteneva essere un obiettivo molto
lontano”. Capite? Israele ha rifiutato di trattare il problema in quanto tale, anche se
i profughi sono milioni; ha accettato l’ipotesi di prendere in considerazione il
problema soltanto però all’interno di una risoluzione globale del conflitto, che però
in quel periodo era abbastanza remota, anche qui quindi si trattava di un differire,
di un ritardare, di un allontanare, una presa d’atto, almeno una presa d’atto, del
problema. “Non deve sorprendere quindi che Israele sia riuscita a collocare il
problema dei profughi del ’48 in fondo all’agenda della dichiarazione dei principi,
lasciandola alle discussioni finali” – quello che abbiamo detto prima: si sta già
discutendo dei profughi del ’67 però di quelli del ’48 se ne parlerà alla fine di tutto;
questo è un atteggiamento doppiamente significativo perché mettere questa
questione in fondo all’agenda significa, innanzitutto, non riconoscerne l’urgenza e,
secondo, non riconoscerne l’importanza, come fosse un’appendice. “Per quanto
riguarda i profughi del 1948, il cui destino entrerà nelle discussioni finali, stando
all’accordo di Oslo, non esistono segnali che mostrino che Israele si sia preparata al
ritorno di alcun profugo del 1948.Esiste un accordo ufficioso secondo il quale, in
determinate circostanze, Israele potrebbe concedere il ritorno di un numero di
profughi fra i 50.000 ed i 75.000, una percentuale molto ristretta rispetto ai quasi
2,7 milioni di profughi palestinesi registrati dall’UNRWA; una scelta simbolica volta
a placare l’opinione pubblica internazionale. Questa, tuttavia, rimane una
possibilità remota in quanto la concessione del ritorno ad un numero, pur esiguo, di
profughi viene concepita da Israele come un’ammissione di colpa del loro esodo nel
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’48, per il quale Israele è responsabile”; quindi, sostanzialmente, per altre parti,
diciamo, più intransigenti della politica interna israeliana, anche questa ipotesi
potrebbe essere in sostanza un’ammissione di responsabilità e di colpa: se tu
riconosci il diritto al ritorno anche solo a mille persone stai comunque
ufficializzando una tua presa d’atto dell’errore che hai fatto in passato. “Alcuni
osservatori, per esempio Slomo Gazit, un osservatore israeliano, suggeriscono che,
come gesto finale per porre fine al secolare conflitto con i palestinesi, Israele
dovrebbe o accettare di rilasciare una dichiarazione, oppure entrare a far parte di
un corpo internazionale, come l’Assemblea Generale presso le Nazioni Unite, la
quale dovrebbe approvare una risoluzione, sostitutiva della risoluzione 194, che
prendesse atto della sofferenza umana dei profughi palestinesi. Tuttavia questo gesto
non dovrebbe essere considerato un’ammissione di colpevolezza, avendo solo
l’intento di prendere atto dei risvolti psicologici e morali del problema dei profughi”
cioè, è una tattica, un escamotage politico e diplomatico: sostanzialmente permette
ad Israele di uscire fuori da questo impaccio e di uscirne a testa alta, senza dover per
forza dare alla sua decisione un senso di ammissione di colpa. “In altre parole, pur
nelle migliori circostanze, la posizione israeliana non può minimamente avvicinarsi
a quella palestinese. Israele, alla fine, concederà il ritorno ad alcune migliaia di
profughi palestinesi della guerra del 1967, dilazionando l’ingresso in un lungo arco
di tempo. L’attenzione di Israele sarà rivolta fondamentalmente ai residenti
precedenti al 1967 e non a coloro che erano profughi già dal 1948 e si sono trovati
respinti per la seconda volta, in conseguenza della guerra del ’67” – quindi anche
qui la posizione di Israele sarà abbastanza vaga: accoglierà solo alcune migliaia di
profughi e solo quelli della guerra del ’67, non quelli del ’48, e tra quelli del ’67 non
quelli che erano già stati esiliati nel ’48 ma solo quelli che erano residenti da prima
del ’67. Concludiamo con questo documento: “Mentre i palestinesi, con l’appoggio di
altri governi, continuano a fare riferimento alla Risoluzione 194 dell’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, come nel dicembre 1993, gli americani e, da sempre
prima di essi, gli israeliani, hanno trattato questa risoluzione come irrilevante nella
soluzione del problema dei profughi, all’interno del quadro in cui si stanno
svolgendo le discussioni per i lavori di pace. In altre parole, il compito principale è
diventato trovare il modo per abbellire, o meglio svilire, la risoluzione 194 allo scopo
di svuotarla e quindi eliminarla dai documenti delle Nazioni Unite. La posizione
palestinese è stata, fino ad ora, caratterizzata da debolezza politica, economica ed
organizzativa, oltre che da mancanza di coordinamento con gli altri governi arabi e
dall’assenza di progetti concreti di vasta portata, in grado di assorbire il ritorno dei
profughi, che fossero del ’48 o del ’67. Diventa imperativa, quindi, una discussione
onesta ed aperta sul problema dei profughi, all’interno delle comunità profughe
palestinesi. Questa dovrebbe includere un plebiscito autonomo che stabilisca quanti
profughi vogliono realmente esercitare il diritto di rimpatrio e quanti vogliono
rimanere dove sono, purché vengano loro assicurati sicurezza ed un trattamento
dignitoso nel nuovo contesto in cui si trovano. La Società Nazionale Palestinese
dovrebbe, quanto meno, istituire proprie leggi per il rimpatrio e la cittadinanza. Il
fallimento di una soluzione soddisfacente al problema dei profughi, è garanzia del
protrarsi del conflitto palestinese-israeliano per un altro secolo”.
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Ora sentite cosa dice quest’altro documento, un po’ più ‘narrativo’: “Come possono
convivere due popoli per i quali la vittoria è la sconfitta dell’altro, la gloria dell’uno
è la gloria dell’altro? Ne sanno qualcosa gli insegnanti dell’unica scuola maternaelementare che da vent’anni accoglie sia bambini palestinesi che israeliani. Si
chiama ‘Oasi di pace’ (in ebraico Nevè Shalom, in arabo Waahat as-Salaam) e si
trova in territorio israeliano, tra le dolci e brulle colline che dividono Tel Aviv da
Gerusalemme. Ma praticare la pace non è facile in questa terra contesa dove tutto è
doppio, persino le indicazioni stradali, scritte in arabo e in ebraico oltre che in
inglese. Il 15 maggio, nell’Oasi della pace, viene celebrato separatamente, soprattutto
per volontà dei genitori palestinesi, che non vedono perché si debba fingere una
simmetria in una situazione che è tutto fuorché simmetrica. E poi, sottolineano, noi
non abbiamo nessuna indipendenza da festeggiare” – il 15 maggio, lo ricordate, era
la data ufficiale della nascita dello Stato di Israele anche se poi di fatto nacque il
giorno prima. “Oggi sulla Montagna delle Tentazioni si arriva in funivia, e per
vedere quel che resta delle Mura di Gerico si paga il biglietto. Ma per le strade c’è
ancora chi viaggia in cammello, e i ragazzini sorvegliano le greggi di capre a dorso
d’asino. Eccoli gli insediamenti ebrei, incongrui pezzi di metropoli fortificati e
sorvegliati dall’esercito in cima alle colline del deserto roccioso e ondulato che
circonda Gerico. Intorno, piccoli accampamenti di tende di juta e baracche di
lamiera, qualche capra e qualche asino: è quel che resta della comunità beduina che
gli israeliani hanno cacciato con le armi qualche anno fa. Nonostante gli impegni
presi a Oslo, gli insediamenti – incentivati dal governo con stipendi maggiorati,
sovvenzioni, prezzi delle case bassissimi – continuano ad aumentare, mentre i
palestinesi vengono cacciati e le loro case demolite. Gli insediamenti sono 140 e ci
vivono 175.000 coloni (più altri 180.000 a Gerusalemme est), collegati da strade
sorvegliate che isolano i villaggi arabi. Le due risoluzioni ONU sul ritiro dei coloni
dai Territori – la 242 del 1967 e la 338 del 1973 – sono rimaste, come sempre,
inascoltate. Il sistema escogitato per rubare la terra è semplice e geniale: grazie alla
‘Absentees Property Law’ (la legge sulle proprietà assenti), il governo può espropriare
le terre che non vengono coltivate per un certo numero di anni perché i proprietari
sono ‘assenti’ (leggi rifugiati) o perché mancano di acqua e di mezzi, e cederle a un
istituto statale che le vende a privati ebrei. In questo modo, al momento dell’accordo
finale, previsto nel settembre di quest’anno, Israele avrà buon gioco nel rivendicare
come propri buona parte dei territori palestinesi e nell’impedire il ritorno dei cinque
milioni di profughi, il 70% del popolo palestinese”. Quindi con questa legge, quando
si arriverà in fondo all’agenda e si dovrà trattare del diritto al ritorno dei profughi,
ci si ritroverà in una situazione di diritto, cioè, sono territori comprati legalmente
dallo Stato israeliano e rivenduti a privati; quindi, dove dovrebbero tornare i
profughi se quelle terre sono state vendute, non sono più di loro proprietà? “La
libertà di movimento e la situazione economica sono addirittura peggiorate rispetto
ai tempi dell’occupazione. Nella cosiddetta ‘zona C’, ancora sotto il controllo
israeliano, che comprende il 68% della Cisgiordania e della striscia di Gaza, i
palestinesi sono ormai solo il 5% del totale. I palestinesi possono muoversi
liberamente solo nelle zone A e B, meno del 30% della loro terra, controllate in tutto
o in parte dall’Autorità Nazionale Palestinese. Non possono entrare in Israele, non
possono andare dalla Cisgiordania a Gaza, non possono recarsi a Gerusalemme che
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pure è la loro vera capitale, non possono accedere alle strade che collegano gli
insediamenti se non hanno appositi permessi, che naturalmente devono pagare, in
cui viene specificato il motivo, la destinazione e la durata (a volte solo poche ore)
della visita. Le autorità israeliane possono concederli o no senza nessuna
spiegazione e anche bloccarli completamente. I militari israeliani possono trattenere
per ore ai check point i palestinesi che vogliono passare o rimandarli indietro. Per gli
oltre 100.000 arabi che lavorano in Israele – spesso pagati meno del salario minimo
legale – questo significa perdere centinaia di giorni di lavoro all’anno e, in molti
casi, essere licenziati”. E’ chiaro che questo è un documento esplicitamente
schierato, ma, come poi vi ho detto, c’è una sorpresa…
“Espropri, demolizioni di case, discriminazioni sistematiche degli arabi che vivono a
Gerusalemme est per costringerli ad andarsene. Migliaia di arresti, spesso senza
accuse precise né processi. L’ 85% dei detenuti palestinesi viene torturato: privazione
del sonno per settimane, scosse elettriche, bruciature di sigaretta. C’è chi viene
appeso al soffitto per le caviglie e chi viene picchiato con bastoni elettrificati. Israele
è l’unico paese ‘democratico’ in cui la tortura era legale fino al settembre scorso,
quando una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia l’ha vietata. Ma la destra ha
presentato una proposta di legge, firmata da un terzo dei membri del Parlamento,
per autorizzarla di nuovo. Difficile che passi, ma solo per timore dell’opinione
pubblica internazionale. E dove non arriva Israele provvede, sotto pressione
israeliana, l’Autorità Palestinese: arresti di massa, detenzioni senza processo,
processi sommari, tortura e pena di morte. Giornali censurati o chiusi, giornalisti
imprigionati. Dei 20 intellettuali palestinesi che il novembre scorso hanno firmato
un documento di critica al governo, 12 sono stati arrestati e gli altri otto, protetti
dall’immunità perché parlamentari, sono stati picchiati o sparati.
Chi mi fa quest’elenco di soprusi e atrocità, in un modesto ufficio di Gerusalemme
ovest, è una brunetta minuta sui trent’anni. Si chiama Yael Stein, è ebrea e lavora
per B’tselem, un’associazione israeliana che difende i diritti umani, che qui vuol
dire, di fatto, difendere i palestinesi. ‘Penso che il comportamento di Israele verso di
loro sia tra i più ingiusti e rivoltanti della storia umana. Ho cominciato a capirlo
verso i vent’anni, quando è scoppiata l’Intifada. Per questo ho deciso di studiare
legge e di lavorare qui, i primi anni come volontaria. Ho tanti amici palestinesi’. E
israeliani? Esita. ‘Qualcuno che mi sostiene c’è, altri mi criticano ferocemente. Ma
non me ne importa’ ”.
Un’ultima cosa: “Mutaz Husseini lavora per il Palestinian Agricultural Relief
Committee. Nato nell’83 come piccolo gruppo di agronomi volontari, oggi assiste, in
248 villaggi, circa la metà della popolazione rurale palestinese, a cui offre
formazione, assistenza tecnica, piccoli crediti, indagini di mercato per individuare i
prodotti più vendibili e assistenza nella distribuzione. ‘Gli israeliani, in 30 anni di
occupazione, hanno fatto di tutto per ostacolare lo sviluppo palestinese: ci sono
ancora villaggi senza acquedotti, elettricità, telefono, per non parlare della scarsità
di scuole e ospedali’, racconta Mutaz. ‘E continuano a boicottarci: requisiscono le
strade che abbiamo aiutato a costruire, ci vendono pesticidi di pessima qualità,
hanno sequestrato il 90% dell’acqua. Hanno la tecnologia per andare a pescare nelle
falde idriche più profonde, mentre ai palestinesi non è permesso scavare pozzi di più
di 250 metri. Molti villaggi sono costretti a comprare a caro prezzo l’acqua dalle
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autobotti israeliane. In compenso, controllano tutta la nostra economia: non
possiamo esportare liberamente perché Israele s’impone come intermediario, ci
obbliga a comprare i suoi prodotti a prezzi altissimi e acquista i nostri per pochi
soldi, per poi magari rivenderli al doppio sul mercato mondiale come se fossero
suoi.’ […]
L’emarginazione si misura anche da dettagli minuscoli: una carta telefonica
internazionale comprata a Gerusalemme (Israele) funziona da qualsiasi paese del
mondo ma non dalla Palestina. Ma quello che impressiona di più è la sistematica
negazione dell’altro come soggetto. I più recenti manuali di storia in uso nelle scuole
israeliane non accennano neppure all’esistenza dei palestinesi. ‘Un’identità non ne
nega un’altra’, ha scritto Mahmud Darwish, poeta palestinese. ‘La posizione
ideologica di Israele impone ai palestinesi di leggere come illegittime la propria
storia e la propria esistenza su questa terra. Per quanto ancora continuerà
l’insistenza sul diritto ideologico di formulare l’immagine dell’altro, la sua voce, il
suo rapporto con se stesso, persino le sue reazioni a ciò che l’israeliano desidera che
sia o non sia?’ […] La povertà e il rispetto dell’ambiente, a dispetto dei luoghi
comuni, vanno spesso insieme, a volte forzatamente. Basta guardare i tetti
palestinesi dall’alto: una distesa di pannelli solari e cisterne per conservare e
riscaldare l’acqua”.
Quindi ora sappiamo anche questo: abbiamo capito che il problema dei profughi
non è UN problema ma IL problema, abbiamo capito che se si risolve questo
problema, magari è possibile pensare anche ad una risoluzione globale del conflitto.
Ma se questo problema non si affronta, oppure non lo si interpreta come problema,
oppure lo si affronta ma non lo si risolve, oppure, al limite, se ne accetta in qualche
modo la gravità ma non la responsabilità da parte israeliana e però si danno
soltanto segnali minimi di interessamento, mettendolo in fondo all’agenda, finché si
farà così – cominciamo a capire – il conflitto non è destinato a risolversi in breve
tempo. Questi milioni di profughi non sono un’appendice, non sono un tassello di
tutto il mosaico della situazione arabo-israeliana, ma sono IL problema da
affrontare.
Per questo oggi ho portato questi documenti e li ho letti, per capire meglio insieme
l’urgenza, l’improrogabilità e l’importanza di questa situazione.
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Massimiliano Borelli (5L), Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4D),
Silvia Crupano (4D), Jessica Ferretti (4D), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),
Francesca Neri (5L), Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)
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Prof. Lucio Saviani, Prof. Rino Cipriano e Prof. Ciro Sbailò
21 Febbraio 2001
Sbailò: Io mi prendo la responsabilità di porre alcune questioni metodologiche,
perché parlerò qui, non certamente da esperto dei problemi medio-orientali, c’è già
il prof. Cipriano, quanto piuttosto da persona che per una serie di scelte e casualità
si deve occupare di politica, di giornalismo e d’informazione. Voglio partire dal
punto di vista dell’informazione, il mio problema è l’informazione adesso, perché?
Perché è finita la guerra fredda e tuttavia si continuano ad utilizzare, sul piano della
comunicazione, i paradigmi della guerra fredda. Questo è estremamente pericoloso
perché utilizziamo vecchi strumenti per comprendere una situazione estremamente
nuova, dove non ci sono più i due riferimenti fondamentali – gli USA e l’URSS – ma
ce n’è uno solo con una serie di soggetti mobili. Quindi: noi diciamo una cosa e ne
intendiamo un’altra, ci vengono date informazioni a volte distorte e comunque le
interpretiamo male. Io faccio una sintesi; non so se riuscirò a portare a termine il
mio ragionamento perché vorrei lasciare un po’ di spazio al prof. Cipriano.
Allora, partirò stigmatizzando la cattiva informazione sulla questione israeliana,
soprattutto a danno di Israele e partirò da questo per dire che si continua a fare
cattiva informazione, rendendo un pessimo servizio anche ai palestinesi, soprattutto
ai palestinesi; basti per esempio vedere con quanta rapidità noi associamo l’OLP,
che so, Arafat, con l’integralismo: Arafat è
un laico, nel ‘64 l’OLP è
un’organizzazione laica, politica, i dirigenti palestinesi sono persone che hanno una
mentalità del tutto laica, molto occidentale, e con l’integralismo dal punto di vista
culturale della formazione non hanno assolutamente nulla a che vedere. Questo è un
esempio di disinformazione. Altro esempio è quando si parla delle ‘inermi’ folle
palestinesi senza fare distinzioni. Perché non sono inermi, non sono affatto inermi;
certo dipende dal contesto in cui ci si trova ma usare sempre questo aggettivo
‘inerme’… questo è un caso di cattiva informazione.
Quindi sono stati costruiti dei paradigmi che si sono più o meno formati intorno al
1967 sulla stampa italiana, nel periodo della guerra dei sei giorni: sono nati dei
modelli che per pigrizia noi italiani continuiamo ad adottare; questo si vede dal
modo in cui viene gestita l’informazione. Ciò è estremamente pericoloso perché, e
questa vorrebbe essere la conclusione del mio discorso, non so se riuscirò a portarlo
a termine, non possiamo più permetterci di avere cattiva informazione su quello che
accade in quell’area, per il semplice fatto che noi europei siamo chiamati a risolvere
concretamente i problemi in quell’area, non essendoci più un sistema di equilibrio
tra due potenze. Gli Stati Uniti, al di là delle apparenze, tenderanno sempre di più a
rinchiudersi nei propri interessi. Noi europei e soprattutto noi italiani, al centro del
Mediterraneo, saremo chiamati a svolgere parte attiva per una serie di ragioni, siamo
direttamente coinvolti.
Io allora comincerei stigmatizzando alcune cose. Naturalmente gli eccessi ci sono da
una parte e dall’altra, io stigmatizzerò soprattutto gli eccessi e le distorsioni nei
confronti di Israele per la semplice ragione che sono quelli che meno si notano.
106
Allora, immaginate che un gruppo di persone profani la tomba di San Pietro,
immaginate la reazione che si può avere sulla stampa per i cattolici. Ora, all’inizio di
ottobre una folla ubriaca e urlante di giovani ha assaltato la tomba di Giuseppe. C’è
stato un po’ di sconcerto, qualche deplorazione, nessuna levata di scudi; un giornale
italiano ha sottolineato che si tratta della ‘presunta’ tomba di Giuseppe, sarebbe
come dire che se profanano la tomba di San Pietro giustamente un teologo
protestante può dire ‘ma quella non è la tomba di San Pietro quindi perché vi
arrabbiate?’ no?! Sapete questo no, che per i protestanti quella non è la tomba di
San Pietro.
Poi il 12 ottobre scoppia un incidente in Israele e tutte le televisioni del mondo
occidentale trasmettono non stop le informazioni. TUTTE, tranne una: l’Italia. Il
nostro è l’unico Paese dove non c’è il non-stop informativo, come se la cosa non ci
riguardasse. In uno di questi servizi trasmessi negli Stati Uniti, c’è una foto: c’è un
soldato israeliano vicino a una persona sanguinante e nella didascalia si legge: ‘la
repressione israeliana nei territori occupati’. E’ una bugia, perché quella persona
sanguinante è uno studente americano ebreo tirato fuori da una macchina e
picchiato e il militare israeliano era lì per cercare di salvargli la vita, e tra l’altro
senza usare le armi. Il giorno dopo i giornali americani si correggono, ripubblicano
con lo stesso spazio la stessa foto chiedendo scusa. Intanto cosa succede in Italia? A
ora di cena si comincia a sapere qualcosa sulle televisioni e si vede un elicottero
israeliano che lancia un razzo: dopo un po’ un qualcosa che esplode in mezzo alla
folla. Ora, come reazione “pavloviana”, uno che dice? Gli israeliani hanno sparato
sulla folla. Non è vero! Perché al giornalista dovrebbero dare il premio Pulitzer!
Come mai il cameraman si trova lì sapendo che l’elicottero arriva da lì, quindi
riprende l’elicottero, poi riprende…è stata un’associazione voluta da chi ha fatto il
servizio; bastava cambiare inquadratura. E appunto siamo al fatidico 12 Ottobre, a
quello che succede a Ramallah: che cosa succede a Ramallah? Tre israeliani militari
che erano lì per una serie di ragioni, in macchina tutti e tre, vengono presi, portati in
una caserma, linciati, i loro corpi vengono fatti oggetto di scempio, succedono delle
cose pazzesche; credo che l’avrete visto. Un ragazzo mostra alle telecamere le mani
grondanti di sangue. Passano alcune ore: Barak, che è il premier israeliano, decide
una misura di rappresaglia, informa la popolazione di evacuare, lancia questo
missile, non ci sono morti, ci sono dei feriti credo, ma, insomma, non succede niente
di particolarmente grave, posto quello che di solito succede da quelle parti. Un
missile e, il giorno dopo, titoli di alcuni giornali: ‘La furia di Israele’, ‘Israele
bombarda la pace’; la notizia del linciaggio a Ramallah - non sto parlando di tutti
i giornali ma di alcuni che comunque fanno opinione - viene data dopo, addirittura
nell’editoriale troviamo scritto che per comprendere quello che succede in Israele,
bisognerebbe rileggere un libro di Marx, ‘La questione ebraica’, dove appunto Marx
riprende, lui ebreo tra l’altro, geniale, discendente di rabbini, insieme a delle analisi
molto acute, anche alcuni stereotipi del vecchio antisemitismo germanico. Insomma:
a tutti i costi, si vuole dipingere qui, in questa fase, si cerca di far capire, che c’è un
mostro.
In questo periodo viene molto stigmatizzato il comportamento dell’attuale premier
israeliano, che è Ariel Sharon, il quale fa una provocazione: va sulla spianata delle
moschee che per i musulmani è sacra. In quel periodo però, non era premier Sharon,
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era semplicemente il capo di un partito e aveva una posizione notoriamente
intransigente. Comunque, calpesta effettivamente il suolo, fa questa provocazione,
stigmatizzata soprattutto in Israele; però qua c’è una differenza, perché anche qui
vorrei invitarvi.. se qualcuno di voi ha la fortuna della tv satellitare, di confrontare i
telegiornali israeliani con gli altri telegiornali dell’area: sui telegiornali israeliani si
possono sentire le critiche, feroci, a Sharon, cosa che non si vede sugli altri
telegiornali rispetto ai leader politici degli altri paesi dell’area. Gravissima, dunque,
la provocazione; Sharon tuttavia non è il capo, in quel momento, del governo e in
ogni caso...
Saviani: Lo è diventato.
Sbailò: Lo è diventato, anche purtroppo grazie alle contraddizioni non risolte, però
questo è un altro discorso. C’è chi dice che è stata colpa di Arafat, che ha indebolito
Barak, ma qui ci addentriamo in una disputa. Io voglio semplicemente offrirvi un
punto di vista possibile, che può essere accettato o meno, ma di cui va tenuto conto.
Anche nei momenti più duri, tranne che forse in un caso, il professor Cipriano mi
correggerà, Israele non ha mai vietato l’accesso ai luoghi di culto. Non mi risulta che
sia mai successo, tranne forse una volta ma credo che fosse qualcosa di molto
specifico, non so, ora mi sfugge. Viceversa, gli arabi, quando hanno avuto la
possibilità, hanno distrutto le sinagoghe e hanno vietato l’accesso ai luoghi di culto.
Bambini di nove anni sono stati armati, addestrati al martirio; insomma di tutto
questo non si è tenuto conto quando c’è stata la polemica su Sharon, che
effettivamente ha fatto un gesto odioso. Tra l’altro lo stesso giorno però,
intendiamoci, lo stesso giorno, se non vado errato, in cui Ariel Sharon fa la sua
provocazione, Barak propone la spartizione di Gerusalemme, cioè: assistiamo ad una
provocazione o ad una democrazia in crisi e a un conflitto tra le parti, un gioco tra
le parti? Quindi la situazione va vista nella sua complessità. Lo stesso giorno in cui
Barak dice: dividiamo Israele a metà, cioè fa una proposta che è stata considerata da
molti una proposta avanzata...successivamente non è che la ritira, successivamente
scoppia il conflitto; non è una questione di ritirare, smentire.
Stiamo parlando del momento in cui viene attribuita a Sharon la responsabilità... E’
chiaro che dopo è scoppiato un conflitto e Sharon naturalmente ha sempre
sostenuto le sue posizioni, che Gerusalemme è unica, non può essere divisa. E
arriviamo alla vicenda di Cristiano.
Cipriano: Volevo fare una piccola notazione: non è sufficiente che qualcuno
dichiari indivisibile un luogo che di per sé è già un’aggregazione di parti diverse:
cioè Gerusalemme, lo dicevo pure la volta scorsa, è la città in cui sono ben visibili,
si materializzano queste tre religioni fondamentali, ebraismo, cristianesimo e islàm.
Quindi, è indivisibile? Ma di per sé già è divisa, se vogliamo
Sbailò: Di per sé è già divisa. Va bé, un protocollo politico-giuridico, naturalmente.
Cipriano: Diciamo che quella più che altro è una determinazione assolutamente
politica.
Sbailò: E’ una determinazione politico-giuridica, non è che si può dividere ciò che è
già diviso.
Cipriano: Però allo stesso tempo Gerusalemme è anche il luogo dove coesiste tutto
questo: cioè queste divisioni, queste differenze, queste diversità, soprattutto
d’interpretazione della divinità, hanno coesistito per millenni.
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Sbailò: Allora, arriviamo alla famosa lettera del giornalista Cristiano, di cui credo
avete sentito parlare; che cosa succede? Che un giornalista della RAI accusa alcuni
telegiornali privati di aver mandato in onda le immagini del linciaggio dei tre soldati
israeliani e dice questo: ‘miei cari amici in Palestina, ci congratuliamo con voi e
pensiamo sia nostro dovere di farvi un quadro degli eventi di quanto è accaduto lo
scorso 10 ottobre in Ramallah; una delle emittenti private italiane che è in
concorrenza con noi, e non l’emittente televisiva ufficiale italiana, ha ripreso gli
eventi. (Normalmente un giornalista riprende gli eventi!). In seguito, la televisione
israeliana ha trasmesso le immagini attribuendole a delle emittenti italiane, creando
così l’impressione nel pubblico che si trattasse della RAI. Vogliamo sottolineare a
tutti voi che le cose non sono andate così, cioè non è stata la RAI a fare quelle
riprese perché noi abbiamo sempre rispettato, e continueremo a farlo, le procedure
giornalistiche con l’autorità palestinese’. Non si è mai capito quali siano queste
procedure; infatti è stata fatta un’interrogazione, il presidente della RAI non ne sa
nulla. Non possono esistere procedure, cioè un giornalista non può concordare col
governo quello che deve fare, fosse anche il governo più legittimo del mondo, no?
Figuriamoci poi in una situazione dove ci sono due realtà politiche che confliggono e
che rivendicano la titolarità e la giurisdizione: non esiste, è fuori da ogni deontologia
professionale. Cristiano ha poi cercato di difendersi, ha chiesto scusa, ha cercato di
giustificarsi, ma tuttavia se n’è dovuto andare. Però questo è un caso: cioè, che cosa
ha fatto questo giornalista? Si è scusato dicendo: ‘non siamo stati noi a riprendere’...
che cosa? Perché non bisognava riprendere il massacro dei tre? Il massacro dei tre
soldati non doveva essere ripreso. In quel caso non ha funzionato il meccanismo che
di solito viene messo in atto; allora vuol dire questo: che c’è un paradigma rispetto
al lavoro giornalistico, un paradigma che non è giornalistico.
Saviani: Scusa, posso aprire una parentesi brevissima? C’è stato però anche il caso
di quell’incidente diplomatico...
Sbailò: Vento, l’ambasciatore Vento; io non mi pronuncio in materia perché lui ha
detto che non... io devo prendere atto. Mentre Cristiano implicitamente ha ammesso.
Saviani: Qual è il fatto?
Sbailò: E’ successo che al nostro ambasciatore all’ONU è stata attribuita la seguente
frase: ‘ma in fondo quel massacro l’hanno voluto gli israeliani per accreditarsi e per
fare le vittime’. E’ scoppiato il caos. In realtà pare che Vento non abbia detto così,
ma abbia detto invece: ‘stanno cercando di diffondere la voce che gli israeliani
hanno fatto questo’. Qualcuno ha colto la frase... Però certamente questo è indice del
clima che esiste attualmente intorno alla questione. Quindi il messaggio di questo
primo blocco di cose che io vi propongo è il seguente: controllare le fonti, cioè
l’informazione sulla questione israeliana-palestinese non è un’informazione sempre
credibile; io vi ho messo in risalto naturalmente un aspetto, che è il mio, che io ho
scelto come mio approccio, come mio punto di vista ma in generale vale questo: lì è
difficilissimo capire effettivamente i fatti, perché vengono ancora utilizzati
paradigmi, guerra fredda e quindi si tratta di un’area molto delicata, una situazione
molto delicata, non possiamo permettercelo. Quindi abbiamo visto praticamente
che, tendenzialmente, si vuole vedere Israele come il grande mostro e i palestinesi...
tra l’altro questa confusione continua che c’è tra palestinesi: arabi, causa araba,
nazione araba. La prima domanda che io faccio al professor Cipriano a cui poi
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spero che potrà rispondere: ma si può parlare di nazione araba effettivamente
oppure no? Io ho dei dubbi e quali sono i rapporti dei palestinesi con gli arabi?
Cipriano: Per me si tratta di una provocazione, infatti era uno dei temi.
Sbailò: Esatto. Esiste la nazione araba? E quali sono i rapporti per esempio tra
mondo arabo e mondo palestinese?
Diciamo che, ultimamente, forse giustamente, si è infranto un mito del passato: qual
era questo mito? Il mito del popolo d’Israele come popolo che aveva ormai trovato la
propria identità politica intorno a leadership “pacifiste” e “progressiste” come quella
di Rabin. Questo era un mito costruito. Però simmetricamente, non è venuto meno
l’altro mito, cioè la situazione è asimmetrica, è questo il rischio: cioè una sorta di
asimmetria nella rappresentazione. Noi abbiamo giustamente focalizzato la
questione israeliana, la vediamo con chiarezza, vediamo i limiti della classe
dirigente israeliana, anche del loro sistema istituzionale e quindi ci siamo ‘tolti gli
occhiali’ del pregiudizio, dell’ideologia. Dall’altra parte non ci siamo ancora tolti gli
occhiali dell’ideologia sulla questione dei palestinesi e degli arabi; cioè continuiamo
a utilizzare due pesi e due misure, nel senso che da una parte ci siamo liberati
dell’ideologia, dall’altra continuiamo ad adottare paradigmi ideologici. E per
esempio non teniamo conto del fatto che Israele in quell’area, con tutti i suoi limiti,
è una grande democrazia, guidata fino a ieri da un partito che si richiamava a una
delle tradizioni fondamentali della politica europea che è il partito laburista ed è
una democrazia nella quale si discute, ci si confronta, c’è un movimento che si
chiama ‘Peace Now’, dove ci sono forti dissensi nei confronti della politica del
governo, dove è possibile manifestare apertamente questi dissensi. Israele non ha
una Costituzione scritta, ma ha una costituzione materiale dove si prevede il rispetto
delle libertà delle opinioni. Io non conosco a perfezione tutte le Costituzioni arabe,
ma mi pare che al primo posto c’è il riconoscimento dei diritti umani ma viene
stabilito che l’islàm è la religione naturale dell’uomo e tutto è sottoposto alla legge
islamica, dopo di che c’è il massimo riconoscimento dei diritti individuali ed è
anche questa la ragione per la quale io insisto nel considerare la questione
palestinese diversa dalla questione araba. Perché l’OLP di Arafat non può, secondo
me, essere assimilata alla questione arabo-islamica in quanto tale. Secondo me, lo
sforzo dev’essere proprio quello di essere più pragmatici su questo punto.
Per esempio, noi abbiamo avuto per anni, in Occidente, la parte, diciamo più
progressista o pretesa tale, del nostro schieramento politico, in una posizione che un
grande marxista israeliano, che è Jahari, definì negli anni ‘70 ‘antisemita’. Cioè lui
accusò una parte del mondo politico italiano, cioè la sinistra italiana, di essere
antisemita. In Italia è stato coltivato il mito di Nassèr...
Saviani: Ricordate Nassèr? La situazione egiziana nel 1956?
Sbailò: Nassèr era uno che aveva avuto rapporti stretti con i servizi segreti tedeschi,
con la Gestapo, e che manifestò pubblicamente il proprio disappunto per la sconfitta
della Germania. Io mi chiedo: ma i palestinesi non sono forse stati al centro di uno
scontro politico? Fior d’intellettuali italiani, faccio i nomi: Renzo Foa, Umberto
Terracini, Miriam Mafai, Furio Colombo (Furio Colombo e Renzo Foa poi
curiosamente entrambi direttori de l’Unità); tutte queste persone, con alcune delle
quali ho avuto anche qualche colloquio su questo tema - che purtroppo non sono
riuscito a trovare, altrimenti ve l’avrei portato – furono interrogati sulle ragioni di
110
questa preconcetta ostilità, di questa manipolazione informativa. Il punto cruciale
viene visto nella guerra dei sei giorni che voi conoscete bene: diciamo che la guerra
fredda ha imposto, in qualche misura, una visione ideologica del conflitto tra i
palestinesi o meglio, una parte dei palestinesi, ma comunque i palestinesi come
popolo sicuramente, e lo stato d’Israele. Un conflitto che poteva avere varie
configurazioni, non è detto che tutti i conflitti territoriali debbano configurarsi come
guerra; invece questo è diventato il luogo in cui si sono praticamente riassunte, e in
qualche misura esasperate, tutte le contraddizioni del periodo della guerra fredda.
Purtroppo noi non viviamo più in un mondo dove possiamo permetterci l’utilizzo di
questi paradigmi; poi viviamo in un mondo in cui le crisi non sono più prevedibili
come quelle di una volta, non solo in Medio Oriente, dove c’è una crisi che non è
scollegabile rispetto a quella del petrolio; non ci dimentichiamo che dal Càucaso
fino al Golfo, c’è il 60% della produzione mondiale del petrolio. Quindi non
possiamo, in questa fase, prevedere quali possano essere le evoluzioni nelle crisi.
Abbiamo un contrasto tra la locomotiva economica degli Stati Uniti d’America, che
al di là delle crisi, comunque riesce sempre ad imporsi, e le crisi ad andamento ‘a
termosifone’ del Sud Est asiatico e il fiato corto dell’Europa, nonché la povertà
crescente nell’America Latina (perché da qualche tempo ci siamo dimenticati
dell’America Latina). Ora tutto questo fa sì che una crisi come quella israeliana non
possa più essere riportata dentro schemi precostituiti, non può essere più controllata,
non è più governabile così come lo era una volta. Gli U.S.A. si sentono ormai, e sono,
l’unica grande potenza; ora, è fatale in questo caso, che possano accadere due cose:
una è quella del tentativo di isolamento che forse ci sarà; l’altra è quella di tentare
di isolarsi ma al tempo stesso di continuare comunque, sia pure indirettamente, a
esercitare un ruolo, come dire, poliziesco, di grande poliziotto planetario. Ma non è
un ruolo che piaccia agli americani, necessariamente; tuttavia è un ruolo che è nelle
cose. A questo punto vi chiedo, c’è una frase di Solana, della NATO, l’ha detta a una
riunione: ‘more Europe’, più Europa; cioè, dov’è l’Europa rispetto alla questione
Israele-Palestina? E’ questo il punto. Ma voi capite che se noi continuiamo a
interpretare quel conflitto come se da una parte ci fosse l’URSS e dall’altra parte
l’America, per cui gli uni sono sempre buoni e gli altri cattivi, dipende dallo
schieramento che si adotta, noi non capiamo che cosa sta succedendo lì.
Saviani: Scusa, una parentesi: ho l’impressione che però, per esempio, in Iraq ci sia
una ‘less Europe’, no?
Sbailò: ‘Less Europe’ sì . Adesso apriamo una parentesi, già che me lo dici: lì c’è
intanto l’azione militare che è stata praticamente decisa solo da Bush; in realtà è
scattato un automatismo con le forze militari britanniche, perché c’è un accordo;
ma lì c’è stato un automatismo di dispositivo militare. Per quanto riguarda la
questione dell’Iraq, io onestamente non saprei come interpretarla questa iniziativa
di Bush. C’è un fatto reale: indubbiamente è vero che l’embargo è una misura
infame, di per sé, perché mentre io adotto il paradigma poliziesco e dico che non
sono contro i serbi ma contro Milosevic, non sono contro gli iracheni ma contro
Saddam Hussein, e però al tempo stesso riconosco poi invece l’esistenza di uno stato
nazionale e quindi di una etnia che si identifica in questi confini e che quindi va
penalizzata per questo stesso fatto. Cioè mentre disconosco la sovranità nazionale e
agisco come un poliziotto, al tempo stesso poi penalizzo chi abita in quell’area,
111
adottando un paradigma stato nazionale. Questa è una forte contraddizione in atto
in questo periodo; tra l’altro c’è da dire che è lo stesso paradigma utilizzato per
l’arresto di Pinochet. Quindi chi è contrario dal punto di vista proprio giuridico ai
bombardamenti in Iraq o contro Milosevic, dev’essere contrario anche all’arresto di
Pinochet. Cioè il meccanismo mentale è quello, il meccanismo giuridico è quello.
Quindi c’è questa contraddizione in atto, indubbiamente. C’è da dire, dall’altra
parte, che Saddam Hussein stia, si dice, naturalmente non abbiamo prove,
utilizzando gli aiuti economici per il riarmo e che non stia utilizzando invece la
possibilità di annullare l’embargo per quanto riguarda i beni di prima necessità. In
Europa, in Occidente, vengono esportati prodotti medici prodotti in Iraq; com’è che
allora gli iracheni sono senza medicine? Posto che l’embargo, come tale, è una
misura contraddittoria rispetto alla politica di carattere, come dire, dei diritti umani
e quindi della deterritorializzazione della tutela dei diritti umani e dell’esaurimento
del principio di sovranità, posto questo, non si capisce però come mai gli iracheni
sono senza medicinali mentre i prodotti iracheni vengono venduti in tutto il mondo.
E comunque, per quanto riguarda la questione che sollevavi e cioè la presenza
dell’Europa, certamente in quel caso non c’è stata l’Europa; ma l’Europa non c’è
obiettivamente, non esiste da un punto di vista europeo, perché finché non ci sarà
una struttura giuridico-politico-militare, sia pure altamente umanitaria e pacifista,
ma che comunque formalmente venga riconosciuta come tale, non c’è il soggetto
europeo.
Studente: Ma Saddam è visto come un punto di riferimento anche dai palestinesi?
Sbailò: Mah, bisogna vedere com’è la leadership palestinese in questo momento: se
tu ti riferisci ad Arafat, Al-Fatah... Certamente c’è stata una fase in cui Saddam
Hussein alle popolazioni palestinesi sembrava il grande vendicatore.
Studente: Lei pensa che Bush abbia bombardato perché è con Israele e contro i
Palestinesi?
Sbailò: No, questo onestamente... mi chiedi un parere? Non un’informazione
evidentemente, perché non ce l’ho: il mio parere è che non c’entri niente, perché
l’interesse degli americani in questo momento è di far calmare Israele e di fare
l’accordo con i palestinesi, che io sappia. Cioè gli americani in questo momento non
sono proprio schieratissimi e sono abbastanza diffidenti nei confronti della nuova
leadership israeliana; quindi soprattutto poi i repubblicani che tradizionalmente
sono più tiepidi verso Israele; Bush è repubblicano, quindi non credo assolutamente
che ci sia questo. Dunque io lancio queste domande, queste provocazioni: il mio
obiettivo fondamentale di oggi, a differenza dell’altra volta, che era quello di cercare
di delineare un orizzonte problematico, è soprattutto quello di stimolarvi a prestare
maggiore attenzione al problema dell’informazione, perché non è possibile esercitare
un ruolo consapevole in quell’area senza avere informazioni adeguate e
continuando ad adottare paradigmi da guerra fredda. Concludo ponendo un’altra
domanda al professor Cipriano: il rapporto che gli altri paesi arabi hanno avuto con
i palestinesi, per esempio la Giordania negli anni ‘70, la Siria, lo stesso Libano,
contando i profughi, e vorrei sapere anche perché, ricordo che nel ‘47 non ero nato,
il gran muftì di Gerusalemme invitò i palestinesi ad abbandonare i territori. Cioè
veramente i palestinesi da questo punto di vista, se noi ci togliamo le lenti delle
ideologie, li vediamo veramente come al centro di una macchinazione e,
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paradossalmente, Israele può essere il loro miglior alleato. Naturalmente tra questi
alleati, come dall’altra parte, ci possono essere persone che non vanno d’accordo,
ma, come dire, è che questa possibilità sia tutta dentro la tradizione della politica,
della diplomazia e della cultura europea, come ha ultimamente scritto Edgàr Morin
proprio su questo punto e come ci ricorda continuamente il povero David Grossman
che, hai voglia a scrivere! E’ da tempo che egli cerca di indicare questa traccia, farci
vedere realmente come sono le cose, perché la guerra fredda è finita ma se noi
continuiamo ad adottare questi paradigmi, la questione diventerà assolutamente,
per quanto ne so, ingovernabile.
Saviani: Il discorso del professor Sbailò era una necessaria e ottima integrazione del
discorso fatto all’inizio del nostro lavoro, cioè il non prendere delle parti
immediatamente, cercare innanzitutto di conoscere, se è possibile, storicamente i
vari aspetti della questione e poi, soprattutto, di vedere come viene comunicato,
come siamo informati della situazione palestinese negli ultimi anni e mesi. Il
professor Sbailò faceva anche un accenno alla questione dei profughi: io direi di far
introdurre l’intervento del professor Cipriano dalla relazione di Castiglia
sull’articolo sui profughi, un discorso che comunque ritornerà. Il professor Cipriano
quindi risponderà alle questioni poste e a sua volta ci porrà delle questioni da
dibattere.
Castiglia: Il titolo dell’articolo è: ‘Il diritto al ritorno è irrinunciabile’, l’autore è
As’ad Abdul Rahman. Fa un’analisi di quattro tipi di diritto che, secondo lui, e
anche secondo le Nazioni Unite, hanno i palestinesi e sono: il diritto al ritorno, alla
restituzione, al risarcimento e all’autodeterminazione. Il diritto al ritorno è un
diritto essenziale ed irrinunciabile, perché secondo quanto detto anche da J.M.M.
Chan nel suo ‘The Right to a Nationality as a Human Right [...]’ del ‘91, che afferma
che ‘nel caso di un cambiamento di sovranità, tutte le persone che abbiano un reale
ed effettivo legame con il nuovo stato acquisiranno automaticamente la nazionalità
del nuovo Stato’, i profughi palestinesi sarebbero effettivamente israeliani perché
hanno un legame di territorialità con il nuovo stato formato. Invece sono stati
cacciati, ma il fatto che se ne siano andati non implica il fatto che essi non possano
tornare; dice infatti che il diritto al ritorno, che è tra l’altro un diritto personale,
implica che ciascuna persona che esce da quel paese, ha tutto il diritto di tornarci
quando vuole e a ritornare ad avere, nello stesso tempo, tutti i diritti che aveva
prima di andarsene.
Saviani: La famosa questione del ritorno.
Castiglia: Sì, ...dalla Convenzione di Ginevra. Ciò che dovrebbe effettivamente
mantenere questi diritti è un organismo dell’ONU, l’UNRWA, che è effettivamente
l’unico organismo internazionale che legittima l’esistenza della questione dei
profughi palestinesi. Cosa sta pensando di fare Israele? Sta tentando di eliminare
l’UNRWA, sta tentando di mediare, attraverso delle compensazioni economiche ai
profughi, allo scopo appunto di eliminare l’UNRWA.
Questo succede perché Israele sostiene che la restituzione economica dei danni per
esempio, dev’essere personale perché il diritto al ritorno è effettivamente un diritto
personale, non va data all’organizzazione, va data a ciascuna persona e a chi vuole
effettivamente tornare in Palestina. La posizione che l’autore prende nell’articolo,
quello che emerge, decisamente è filo-palestinese, ma tendente a cercare una
113
mediazione tra palestinesi ed ebrei. Infatti lui sostiene che i profughi palestinesi
potrebbero effettivamente tornare in Israele occupando quegli spazi che sono stati
lasciati dagli israeliani con l’abbandono dei kibbutz, perché nell’articolo dice che
l’11% della produzione agricola, che era effettivamente fatta dai kibbutz, è stata
abbandonata, ossia ci sono dei campi liberi in Israele che nessuno occupa e sono
incolti. Il rientro dei palestinesi incrementerebbe anche la produzione agricola.
Quello che emerge però è una cosa che mi sono chiesto io: perché mai Israele non
debba rispettare dei diritti universali, perché è logico da un punto di vista giuridico,
perché poi dice anche che gli ebrei di tutto il mondo hanno goduto di tutti quanti
questi diritti, sin dalla diaspora. Non ho capito questo e poi il fatto
dell’espropriazione, ossia il governo israeliano ha espropriato le terre dei profughi
palestinesi che le avevano abbandonate, ma le ha espropriate secondo le leggi
dettate dall’ONU o ha inventato una nuova legge per cui lo ha fatto?
Cipriano: No, non è che ha inventato una legge per espropriare la terra, di fatto le
ha espropriate.
Castiglia: Le ha espropriate ma non ha risarcito i profughi?
Cipriano: Fermo restando che una premessa è doverosa, che s’aggancia un po’
anche all’invito fatto del professor Sbailò poc’anzi: l’informazione, le informazioni,
comunque sono di parte, comunque fanno parte di una serie di messaggi, di segnali,
di versioni, che l’una e l’altra parte, e per me, la terza parte che è l’Occidente, che
comunque lotta in questo processo, deve lanciare all’opinione pubblica mondiale.
Anche perché la questione palestinese non dev’essere vista, questo è un ulteriore
invito, come una questione che riguarda soltanto due fazioni in guerra. E’ un
problema che riguarda innanzitutto uno scacchiere molto importante che è il
Mediterraneo, perché finché c’è instabilità in quella regione, comunque ci sarà
instabilità in tutta quest’area, quindi una parte dell’Asia, il Medio Oriente, una
parte dell’Africa, tutta la zona del Magreb e della Valle del Nilo e del Sinai, e tutta
l’Europa meridionale se vogliamo. Ovviamente, al Magreb è attaccato il resto
dell’Africa, al vicino e Medio Oriente è attaccato il resto dell’Asia e all’Europa
Meridionale è attaccato il resto dell’Europa. Quindi diciamo che geograficamente
più di un continente è coinvolto in questa situazione e il problema è una questione
che riguarda l’opinione pubblica nella sua totalità, non soltanto due fazioni
contrapposte. Per il discorso delle terre, degli espropri, non è che gli israeliani sono
andati là e hanno detto: “queste terre sono nostre, andate via”. Diciamo che, fra le
altre cose, ci sono state anche delle garanzie ben precise da parte innanzitutto delle
Nazioni Unite per favorire questo processo di acquisizione dei territori: sono cose
cioè che non sono state fatte con degli abusi, anche perché si è pensato in una
maniera preventiva a garantire, a livello di diritto internazionale, la possibilità di
questi insediamenti.
Castiglia: Quindi è stato legittimato.
Cipriano: Si, diciamo che è stato legittimato: è stato fatto un lavoro precedente
all’insediamento per legittimare queste acquisizioni. Tra l’altro, la creazione di uno
stato, quale è stata quella di Israele, non avrebbe certo potuto basarsi su un abuso:
sarebbe stato innanzitutto un precedente di una rilevanza importante e poi,
immaginate un po’ quante persone avrebbero potuto fare la stessa cosa in altre parti
del mondo.
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Castiglia: L’ONU ha legittimato queste acquisizioni e poi con la risoluzione 194 è
tornato indietro?
Cipriano: Allora, alla domanda sull’ONU io volevo rispondere anche prima con
un’altra domanda, anche se non è corretto fare così: l’ONU ha bisogno di
finanziamenti per poter esistere come struttura; chi è il maggiore finanziatore
dell’ONU ?
Castiglia: L’America?
Cipriano: Allora è normale che certi equilibri, anche all’interno dell’organismo,
debbano essere rispettati e mantenuti, in un interesse molto lato, quindi molto
virgolettato, dell’umanità. Cioè, se io che sono lo stato, il gruppo di rappresentanza
di determinati interessi economici e quant’altro, debbo mantenere in piedi questa
struttura, perché a sua volta questa struttura garantisca l’applicazione di
determinati istituti giuridici, allora è normale che una buona parte della mia
politica internazionale venga riversata all’interno di questa struttura.
Capiamoci: questa non è un’accusa all’Organizzazione delle Nazioni Unite, non è
che si sta dicendo che l’ONU è un organismo ‘venduto’, oppure l’ONU sta nelle mani
degli ebrei.
Sbailò: Anche perché poi di solito le risoluzioni dell’ONU sono state contrarie come
sai; e non solo, ma l’America ormai non paga più l’ONU e quindi essa è da tempo
invece schierata, a partire dagli anni ‘80 in poi, ma forse anche prima, in una chiave
completamente diversa. C’è stata una risoluzione dell’ONU contro la reazione
israeliana e l’unica nazione europea che si è astenuta è stata l’Italia: le altre hanno
votato a favore. Su questo poi si può aprire un discorso: perché l’Italia si è astenuta,
ma c’è una ragione specifica ed è quella che si comincia a capire che là bisogna
essere più neutrali possibili.
Cipriano: Teniamo sempre conto di una cosa: che determinati, come li chiamavi tu
prima, diritti universali vengono calpestati. Rendiamoci anche conto che stiamo
parlando di una regione dove c’è di fatto uno stato di guerra, (e quindi il razzo cui
accennava prima Sbailò, le mani insanguinate del fanatico palestinese), dove sono
stati calpestati dei diritti universali ben più importanti del possesso della terra;
stiamo parlando della vita umana, del diritto delle persone a vivere. Quindi, se ci
poniamo degli interrogativi, io sono sempre dell’opinione che dobbiamo farceli a
360 gradi. Non possiamo parlare di legittimazione o rivendicazione di alcuni diritti,
quando poi altri diritti ben più importanti vengono calpestati ogni attimo, ogni
minuto, dall’una e dall’altra parte.
Il concetto fondamentale, secondo me, è quello di essere contro le azioni di violenza.
Poi ci tenevo a partire, ad avviare questo mio intervento, cominciando man mano a
rispondere, ad accettare l’invito alla discussione del prof. Sbailò.
Il discorso dei rapporti tra stati arabi e i palestinesi nella zona, Giordania anni 70,
ecc. : è mia convinzione, al di là di quelle che poi sono le evidenze storiche e
politiche e quelle di più recente attualità, che questi rapporti sono regolati tra
Palestinesi e Arabi, da una politica di opportunità, di convenienza. Noi vediamo che
quando, per esempio, la Giordania aveva ancora la speranza di riappropriarsi di
quella striscia di territorio della Cisgiordania, a seconda della situazione, faceva
scattare la politica di solidarietà nei confronti dei Palestinesi. Quando queste sue
speranze venivano meno, perché magari i palestinesi puntavano a quel medesimo
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pezzo di terra per poter costituire il loro stato, allora ecco che si interrompevano i
rapporti. La Siria? La Siria ha fatto un po’ il “galletto” nello scacchiere. Era la
potenza militarmente ben preparata; ecco allora che quando arriva Israele c’è la
prima diffidenza. La Siria era il paese che a livello economico - militare appariva il
più forte, aveva una presenza più autorevole nella regione, autorità che è stata
minacciata innanzitutto dall’avvento di Israele e poi anche da questo interessamento
dell’opinione pubblica mondiale verso altri soggetti, tra cui i palestinesi.
Ovviamente, uno degli interessi della Siria è anche quello dello sbocco sul
Mediterraneo, del controllo degli scambi commerciali che avvengono attraverso il
Mediterraneo. Avere un paio di corazzate ormeggiate sulle sponde di questo mare
non fa mai male! Si diventa uno dei protagonisti di un processo, chiamiamolo di
pace, che poi implica comunque molte altre cose, soprattutto a livello economico. Il
commercio? Vogliamo parlare della finanza, delle banche? Parliamo del Libano a
questo punto.
Saviani: Sì. Perché parliamo del Libano parlando delle banche?
Cipriano: Parliamo del Libano perché, tra le altre cose, esso era definito la Svizzera
dell’Oriente: c’era un sistema bancario molto sostenuto, tant’è che anche dall’Italia,
ricordo Felice Riva, quelli che erano gli imprenditori più in vista, quando dovevano
portare i soldi in luoghi sicuri, li portavano o in Svizzera o in Libano perché lì
avevano delle rendite superiori, non erano soggetti a controlli. Il Libano era anche
un po’ questo paese dove, se andavi in particolari periodi dell’anno, la mattina
potevi andare tranquillamente a sciare, la sera facevi il bagno nel Mediterraneo;
quindi era un posto molto gradevole dal punto di vista climatico. Questo sempre
prima della guerra, appunto per questo grosso flusso di soldi che c’era. Fiorentissimo
tra le altre cose, era il contrabbando dell’oro, cioè là buona parte delle riserve di
Fort Knox in America provengono da ...
Saviani: Dalla Fenicia !
Cipriano: Esatto, da sempre terra di commerci. Per quanto riguarda poi l’embargo
di cui si parlava prima, delle azioni militari, l’Iraq, il recente bombardamento da
parte di Bush, fermo restando che condivido in pieno la tua interpretazione,
aggiungo una postilla: non vedo attualmente una connessione tra la questione
palestinese e l’Iraq, anche perché l’Iraq deve vedere come fare per uscire da solo da
questa situazione, figurarsi se può accollarsi in questo suo cammino un altro ferito
che può essere la Palestina! La mia opinione è che noi ci stiamo trovando di fronte
ad una sorta di politica - spettacolo: io ricordo la guerra del Golfo, dove tutte le sere
in casa nostra entrava, tramite la CNN, il portavoce di Saddam Hussein che dava la
sua versione dei fatti mentre poi una voce commentava un’altra versione, che magari
poteva essere quella degli ebrei o dell’Occidente; insomma, alla fine noi non
abbiamo mai capito cosa fosse successo. Però ci siamo trovati davanti allo schermo
di casa nostra questo bel videogioco dove non morivano i visitors, morivano degli
esseri umani, dove giocavamo, da spettatori, a fare la guerra.
Saviani: Voi ricordate qualcuna di queste scene di Bagdad di notte?
Cipriano: Oto Melara, un’azienda di La Spezia che produce armi, aveva fabbricato
per Saddam Hussein dei carri armati in sagoma, cioè sagome di cartonato,
compensato e quant’altro, che dietro avevano un motore perché i missili americani
erano a puntamento intelligente e quindi erano guidati da un infrarosso. Bastava
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una qualsiasi fonte di calore per attirare il puntamento di questi missili e farli
esplodere. Allora, gli iracheni simulavano colonne di carri armati che erano fatti di
cartone, praticamente riprodotti in grandezza naturale.
Sbailò: E’ significativo che sia stato un italiano ad avere questa idea perché questo
è un ideale.
Cipriano: Un missile che sta sotto uno degli aerei che venivano impiegati, se non
sbaglio erano gli F114, costa 700-800 milioni. Un carro armato può costare 2-3
miliardi: chiaramente io spendo 700/800 milioni per distruggere 3-4 miliardi
all’avversario perché c’è una certa convenienza. Con un costo minore, infliggo un
danno che ha un costo superiore: in quel caso, chiaramente, quel carro armato fatto
in quel modo costava una decina di milioni e gli alleati gettavano miliardi su queste
sagome, alimentate da motorini che producevano calore sufficiente ad attirare i
puntatori dei missili.
Anche questo, a mio modo di vedere, contribuisce a creare questo evento da dare
poi in pasto ai mezzi di comunicazione, perché poi effettivamente il problema della
guerra del Golfo era ben altro rispetto a quello che è apparso sui nostri schermi.
‘More Europe’, come è stato detto prima: una cosa che mi ha deluso profondamente
è stata che, al di là di tutte quelle che possono essere le motivazioni, le
interpretazioni e le opinioni, secondo me c’è stata una ‘No Europe’. Secondo me,
Solana (segretario Nato) ha taciuto, non ha neanche commentato questa cosa e per il
ruolo che riveste, per l’incarico che ha, secondo me deve dire qualcosa. Il suo
silenzio, a mio modo di vedere è scandaloso.
C’è stato questo recente bombardamento in Iraq: Solana, che è il responsabile della
Nato, non ha assolutamente commentato questa cosa, c’è chi dice per imbarazzo,
c’è chi dice perché sapeva e allora era un silenzio/assenso. Io non voglio entrare nel
merito delle interpretazioni, semplicemente questa latitanza dell’Europa e di
Solana, in quanto europeo nella Nato, socialista ecc., secondo me è grave. Io non
voglio assolutamente inventare la dichiarazione di Solana; qualunque essa sia mi sta
bene: quello che non condivido è questo silenzio.
Il collega Sbailò si poneva prima il quesito di una nazione araba: ebbene, una
nazione araba esiste, è quella che si chiama “Al Wàtan Al ‘Arabiyya”. Letteralmente
significa ‘la patria araba’. E’ un concetto di unione panaraba, panislamica, al centro
del quale però esiste non tanto un concetto di nazione, non tanto un concetto di
Stato, quanto un concetto di unità religiosa. Quindi noi parliamo di una nazione
araba dove però esistono i presupposti di un’unione religiosa di fondo.
Studente: E’ simile al discorso di Nasser?
Cipriano: Quella è un’altra cosa: perché Nasser, nelle sue manie di grandezza,
riprendeva un vecchio progetto, peraltro realizzato, dei faraoni egiziani di qualche
migliaio di anni prima, lui univa una parte, mentre il Wàtan Al Arabiyya comprende
anche quelle nazioni che non sono esplicitamente di lingua araba o anche non di
etnia, che però rientrano nell’Islam.
Saviani: Ricordate quando l’altra volta parlammo della diga di Assuan? Ebbene,
qualche anno dopo fu costruita, qualche chilometro più a sud e con un altro nome:
si chiamò ‘Lago Nasser’.
Cipriano: Sì, poi fu anche necessario spostare addirittura una collina che tra l’altro
al suo interno aveva un tempio, interamente scavato nella roccia, all’esterno c’erano
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due Ramses seduti. Gli italiani riuscirono a smontare pezzo per pezzo tutta questa
collina con il tempio annesso all’interno e nel sotterraneo e a spostare tutto più a
sud e a ricostruirlo tale e quale a prima.
Studente: Ma la patria araba quant’è grande?
Cipriano: Immagina un posto dove tu puoi camminare giorni e giorni e ti senti
sempre a casa tua; parliamo di 10-15 giorni di cammino in automobile non a piedi.
Ecco, questa è l’ Al Wàtan Al ‘Arabiyya. Se parti da Marrakesh, da Agadir, che sta
sull’Atlantico, e cominci a camminare andando verso Est, dopo quindici giorni ti
troverai ad Aqaba, per esempio, sul Mar Rosso: lì avranno la tua stessa religione, la
tua stessa lingua e più o meno si ciberanno così come tu ti cibi qui a casa tua.
Questo, grosso modo, può essere il concetto dell’ Al Wàtan Al ‘Arabiyya.
Sbailò: Questa è la domanda che ti volevo fare: questa è una cosa che esiste ma
esiste un po’ al di sopra pure di quelli che sono gli interessi politici, economici e
giuridici delle persone; Gabrieli lo chiamava ‘un afflato spirituale’, forse è il vecchio
concetto di cristianità che è ancora più forte.
Cipriano: Sì, perché il concetto di cristianità comunque aveva la barriera linguistica,
cosa che non hanno queste persone. Il latino per esempio, che era la lingua ufficiale.
Sì, qui esiste un arabo classico che è parlato dai dotti ma grosso modo è lo stesso
arabo parlato dal popolo; il popolo lo parla più al livello di, diciamo, dialetto.
Sbailò: Per semplificare: la lingua del Corano e la lingua della Casbah sono la stessa
cosa mentre invece nell’Europa di Carlo Magno la lingua della Bibbia e la lingua del
borgo non erano la stessa cosa.
Mi volevo agganciare a quello che dicevi tu prima. Il problema del territorio: si è
sviluppata una polemica su questo punto, e si sviluppa ancora, sul fatto che il
concetto di Islam è indissolubile da quello di controllo territoriale, quindi non ha
senso considerare l’Islam una vecchia religione rispetto alla quale adottare i vecchi
paradigmi del confronto religioso, della tolleranza... lì è una questione territoriale
non una questione religiosa. E quindi anche in questa luce va visto l’atteggiamento
nel conflitto che c’è .
Cipriano: Sono perfettamente d’accordo. Anche perché sul discorso della tolleranza
c’è una bellissima espressione che parla della tolleranza come concetto non tanto di
indifferenza (badate bene che c’è un versetto coranico che si presta a molteplici
interpretazioni: ‘A voi la vostra religione, a me – musulmano - la Religione’. Allora,
io la prima volta che l’ho letto ho detto ‘Bei classisti!’. Cioè: a voi la Vostra
religione...’ come se fosse un prodotto da discount, una cosa dozzinale e a me ‘La
Religione’ con tutte le maiuscole, a cominciare dall’articolo!)
Nella pratica poi, quando si è andati allo studio di quello che è stato il Califfato, la
teocrazia islamica se vogliamo, perché in alcuni momenti l’hanno realizzata, questa
tolleranza invece si è rivelata un profondo interesse verso gli altri; per esempio, ‘il
protetto’, vale a dire il cittadino ebreo o cristiano che voleva rimanere ebreo o
cristiano, non era costretto alla conversione dai musulmani, anche quando questi
sono arrivati in Europa. Semplicemente la cosa si risolveva in denaro: bastava che
questo pagasse una tassa e godeva di questo statuto di ‘protetto’, cioè ‘quello è
cristiano però paga la tassa, lasciamolo stare’. Però badiamo bene, c’è da fare una
distinzione: non stiamo parlando dei palestinesi in particolare ma dei musulmani
più in generale; c’è sempre stata una profonda curiosità e un profondo desiderio di
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conoscenza dell’altro ed è questo che ha reso accettabile la loro tolleranza e il loro
dominio. Il califfato è stato l’impero più esteso nel territorio che sia mai esistito nella
Storia e tutto questo, se vogliamo, si basava sul nulla perché un esercito vero e
proprio non esisteva, non esisteva un sistema di amministrazione centrale, anche
quando i califfi stavano a Bagdad avevano bisogno di una specie di vice-califfo a
Cordova perché l’impero era talmente ampio che da soli non ce la facevano ad
amministrare tutto; un impero molto strano, durante il quale anziché investire nei
settori quali l’armamento, le fortificazioni, si investiva in cultura, in opere di
idraulica, costruzioni di giardini e quant’altro.
Il califfato è cominciato verso il 700 ed è cominciato a crollare intorno al 1400, però
il grosso periodo di unità, di solidità del califfato è stato negli anni tra il 1000 e il
1200, il massimo splendore, poi è stato tutto un continuo recuperare questioni che si
stavano corrompendo e così via.
Un’altra cosa molto interessante a cui accennava prima Ciro Sbailò era quella delle
costituzioni arabe che si agganciava al discorso della nazione araba: le costituzioni
arabe all’inizio, se si può parlare di costituzioni.
Sbailò: Io ritengo che non si possa parlare di costituzioni
Cipriano: Adesso spiego perché no. Adesso sì, per il semplice fatto che per esempio
l’Arabia Saudita ha avviato un protocollo di intesa con la Svizzera per cui i giureconsulti svizzeri sono andati nel paese e stanno cercando di creare una costituzione
perché in effetti alcuni paesi, - l’Arabia Saudita è uno di questi, - si basano sulla
Shari’a, che è la legge coranica, la legge religiosa. A questo punto va fatto un discorso
di contestualizzazione di quello che è il Corano, perché al tempo stesso
rappresentava il testo religioso in cui erano contenute le norme di vita, che regolano
la pacifica convivenza tra musulmani, e anche fra non musulmani, e allo stesso
tempo rappresentava anche il codice civile: in un libro era contenuto tutto, non c’era
possibilità di errore. Ovviamente gestire una nazione avendo come punto di
riferimento un unico testo è difficile, perché le casistiche che si possono presentare
sono le più svariate. Subito a fianco a questo si è cominciato a collocare le tradizioni,
la vita del profeta, come egli si comportava, perché per dare interpretazioni
bisognava pure attingerle da qualche parte e quindi laddove queste non erano
contemplate nel Corano si attingeva un po’ alla tradizione, ai racconti. Questi
racconti, per essere poi validati, avevano bisogno di una catena di persone che
potevano sostenerne la validità e prima di poter arrivare ad un episodio del genere
bisognava tirar fuori tutto il repertorio, cioè “Giovanni ha sentito dal vecchio, che ha
sentito da Mario, che a sua volta l’ha visto scritto in questo libro, che è stato fatto
ecc…che l’ha sentito dalla voce del Profeta”. Perché poi tutto questo andava fatto
risalire ad un atteggiamento, ad una massima o ad un’espressione che derivava
direttamente dal Profeta, perché attraverso di lui si era rivelata la verità.
Quando si parla di religione e soprattutto quando si parla di Islàm, bisogna tener
conto del fatto che non è possibile scindere il contesto dal testo: il testo è il Corano e
addirittura quando parliamo di Corano ci troviamo di fronte ad uno Statuto
coranico, questo Statuto contempla la parola, che è quella di Dio, e l’azione. Per
molti anni si è vissuto con questo testo che era l’unica fonte di ispirazione religiosa,
civile e giuridica. Poi piano piano la cose hanno dovuto subire una metamorfosi.
Pensiamo alla Tunisia: la Tunisia è tra i paesi arabi quello più vicino all’Europa,
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non solo geograficamente ma anche come mentalità, atteggiamenti, e la Tunisia da
alcuni anni ha adottato una costituzione prendendo un modello italiano, spagnolo,
francese, ecc. Mubarak, quando parla alla televisione, fa continui riferimenti alla
costituzione egiziana: è stata un po’ ritagliata dalla costituzione inglese e dal sistema
francese. Uno Stato moderno, o uno Stato che si apre alla modernità, non può
poggiare le sue fondamenta su un testo scritto nel 600 d.C. scritto neanche però dalle
persone che lo avevano concepito, nel senso che Maometto era analfabeta, alcuni
dicono epilettico, (aveva queste visioni durante le quali gli appariva l’Arcangelo
Gabriele che gli portava su dei materiali più disparati, su dei pezzi di pergamena, su
delle stoffe, su dei pezzi di coccio, di legno, rivelazioni che gli venivano da Dio l’Arcangelo Gabriele era un messaggero di Dio - e lui non sapendo scrivere, le riferiva
alle persone che gli erano intorno, le quali a loro volta le scrivevano). Poi c’è stato il
grosso lavoro dei quattro Califfi ortodossi, che è stato quello di mettere insieme
questo materiale dai supporti più disparati. Molte volte, interpretare anche quella
che era la scrittura. Già l’arabo è quello che è: basta sbagliare un puntino per cui
una lettera si legge in modo diverso e assume tutto un altro significato. Alcune
parole, poi, si scrivevano nello stesso modo per cui o sapevi, dal contesto, cosa
significava quella parola, o non avresti mai potuto attribuirle un significato. Quindi
immaginate un po’ quello che ne è venuto fuori! Questo lavoro di sistemazione del
testo è andato avanti nel corso di centinaia di anni e gli si è data pure una forma che
potesse essere utilizzata anche da un punto di vista giuridico e come elemento per le
norme sociali.
Tornando sempre ai temi che sono stati affrontati prima da Ciro Sbailò, torno a
sottolineare il discorso dell’informazione. Lui parlava delle differenti forme di
informazione: io sono perfettamente d’accordo perché questo è quello che io chiamo
il ‘media-marketing’. Il giornalista a cui faceva riferimento lui - sentii per caso
un’intervista notturna passata su RaiDue, lui era in collegamento telefonico addirittura disse: ‘Ma io ho dovuto fare così perché voi non sapete noi giornalisti
italiani come siamo costretti a vivere’.
Sbailò: Ma infatti lui ha fatto ammenda, ha detto ‘io ho sbagliato’, ha ammesso
quello che ha fatto.
Cipriano: Apro e chiudo una parentesi: io ho un amico giornalista che vive a
Gerusalemme e scrive per il Manifesto, Michele Giorgio. Ha confermato che viene
esercitata una certa pressione anche sui giornalisti stranieri che vivono in quei
territori, ovviamente si intuisce il perché. Anche lui era della mia opinione: tutto
sommato, siccome lo scoop l’aveva fatto Mediaset, la Rai doveva rispondere a questo
scoop. Un po’ una risposta tra uffici marketing, sempre secondo il mio modo di
vedere.
Un altro elemento di cui bisogna sempre tener conto, ed è un concetto difficile
secondo me anche da riuscire a concepire, è che in Israele noi abbiamo due soggetti,
non è che abbiamo un esercito contro un altro esercito, non abbiamo due fazioni
che si contrappongono sul campo di battaglia armi alla mano ecc., anche nel
discorso dell’Intifada: quei ragazzi che tirano le pietre ai soldati e poi scappano via,
la mattina dopo magari coi libri sotto il braccio passano accanto agli stessi soldati
che il giorno prima hanno fatto oggetto delle loro sassaiole. Si parla di persone che
vivono le une contro le altre ma allo stesso tempo le une a fianco alle altre, nello
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stesso territorio e hanno una vita in comune. Nel governo Barak ci sono i
rappresentanti dei palestinesi, la lobby, chiamiamola, palestinese, il ministro arabo:
Israele non amministra un territorio fatto soltanto di ebrei, di proprietà soltanto
degli ebrei, lo Stato di Israele sorge su un territorio che nella stragrande
maggioranza è nelle mani dei palestinesi, la maggior parte delle terre che
compongono lo Stato di Israele non sono proprietà degli ebrei ma dei palestinesi,
degli arabi, di cristiani, di maroniti e di tanta altra gente che vive lì, che non ha una
collocazione netta, precisa, aperta.
Noi ci troviamo in effetti di fronte a delle cose incredibili: nella spianata delle
moschee abbiamo la Kubbat-il-Sakhràh, che è la pietra sulla quale si dice Maometto
sia asceso al cielo -quindi non è morto, è semplicemente ‘asceso’ al cielo- e intorno
alla quale è stata costruita la cupola rivestita d’oro che si vede nelle cartoline, che è
uno dei luoghi santi dell’Islam, e infatti in arabo ‘Kubbat-il-Sakhràh’ significa
proprio ‘la cupola della roccia’. Poco più avanti, ma proprio poco più avanti, c’è il
Muro del Pianto, che è IL luogo per eccellenza degli ebrei e quello non glielo può
negare nessuno, (io non ho una posizione schierata a favore degli ebrei però se sono
una persona che ha un minimo di discernimento, come faccio a negare a queste
persone il diritto al loro culto presso quel luogo?! Quello era il loro tempio che fu
distrutto dai Romani, tutta la loro concezione è lì, davanti a ciò che resta di quel
tempio. Io non ho nessun diritto, chiunque io sia, di negare a quelle persone di
andare a pregare lì). E poco poco più in là, c’è il Santo Sepolcro.
E poi, sempre a proposito di nazione araba, si sta cercando di far passare, presso
quei popoli, un concetto di nazione-Stato, concetto che, se vogliamo, è tipicamente
occidentale.
Sbailò: Pace di Westfalia, 1648.
Cipriano: E che si applica in Europa e che vede il suo culmine intorno al XVIII-XIX
secolo. Da una parte abbiamo, parliamo degli ebrei, forte non tanto questo concetto
di Stato-nazione quanto quello di ‘Israel’, ‘la famiglia’, ‘il popolo di Dio’.
Studente: Apparentemente sembrano due cose diverse: da una parte la famiglia, il
nucleo familiare e dall’altra il popolo di Dio.
Cipriano: Coincidono.
Sbailò: L’ebreo non crede, ricorda. Le cose coincidono.
Cipriano: E’ come se lui fosse un’enorme famiglia estesa di 30 milioni di persone. E’
una cultura nella quale bisogna nascere, innanzitutto, e nella quale bisogna essere
allevati. Per noi è diverso, per noi i valori sono altri.
Dall’altra parte invece, mi riferisco ad una buona parte dei palestinesi ma non a
tutti, perché abbiamo visto l’altra volta che non tutti poi sono arabi e musulmani,
esiste il concetto di comunità religiosa la “umma” - neanche a farlo apposta le radici
di “umma” sono le stesse di “mamma”, che si dice “um”- quindi nella comunità c’è
la madre
Saviani: Però la “um”, “mamma”, è maschile.
Cipriano: Sì perché lì il concetto di trasmissione avviene attraverso la donna ma
deve avvenire in modo lineare attraverso il padre, quindi per poter fondere le due
cose, è come se io chiamassi mia madre ‘mammo’! E nel ‘mammo’ io ho intessuti
questi processi.
Saviani: Quindi la “umma” è femminile.
121
Cipriano: Ed è la comunità, ed è quindi il concetto di appartenenza, perché il
concetto di mamma nel bambino è quello ‘sei mia, mi appartieni, io sono tuo, ti
appartengo, sono il figlio...’ però allo stesso tempo noi apparteniamo a un qualcosa
di più grande che sta intorno a noi ed è la ‘umma’. La umma che è l’insieme delle
famiglie, l’insieme delle tribù, l’insieme dei clan.
Sbailò: E’ estremamente interessante questo concetto dell’appartenenza territoriale.
Oltretutto è disperante perché significa che non c’è niente da fare là!
Cipriano: Non c’è niente da fare?
Sbailò: Io sono convinto che sia molto difficile venirne fuori.
Cipriano: Difficile sono d’accordo, ma che non ci sia niente da fare no, perché
facendo proprio quella che è l’anamnesi storica del caso che abbiamo di fronte, ve lo
dissi pure l’altra volta, se proprio vogliamo fare un discorso di diritti e
rivendicazioni, quella terra apparteneva agli ebrei dalla notte dei tempi. Quanti
Stati avevamo in Europa che prima esistevano e poi non sono esistiti più? Alcuni di
questi sono tornati ad esistere: penso all’Estonia, quella che una volta si chiamava
Slavonia, ecc., sono tornati ad esistere in seguito alle nuove determinazioni e ai
nuovi assetti geo-politici che si sono creati nell’area.
Sbailò: Se mi permetti mi inserisco un attimo. Secondo me, io credo che qui
possiamo fissare alcuni punti.
Primo, la questione dei dati di fatto, l’informazione, il fatto che questi dati di fatto
diventano sempre più importanti in misura dell’esaurirsi della situazione
precedente, quindi diventa sempre più difficile giudicare le cose obiettivamente.
L’altro punto fondamentale è una visione il più possibile obiettiva, oggettiva, di
quella che è la realtà del mondo islamico, delle sue categorie culturali. Quanto ne
sappiamo noi? Ne sappiamo pochissimo. Io leggo qui di allarmi terroristici ecc.
Questo significa che la questione palestinese, israelo-palestinese, non è una delle
tante questioni di cui ci dobbiamo occupare ma è la questione chiave del
Mediterraneo. Perché l’Europa unita sarà forte se riesce a giocare un ruolo in
quell’area e nel Mediterraneo, altrimenti se non ci riesce, come diceva un grande
giurista tedesco, Carl Schmitt, che cito spesso ma al quale sto dedicando i miei studi
per combatterlo, ‘il sovrano è colui il quale decide nello stato di emergenza’ e prima
ancora il vecchio Hegel nella Fenomenologia dello Spirito diceva: ‘il signore è tale
soltanto se riesce a rischiare la vita’.
Ora, se noi non riusciamo ad intervenire in Medio Oriente, il problema è la terra.
L’Islam non è una religione spirituale, è una religione terrestre. Ora, nell’età della
globalizzazione, stiamo assistendo a questo: che la terra è la pietra dello scandalo,
cioè il problema, il residuo, ‘l’uranio impoverito’, di cui non riusciamo a liberarci.
Hai voglia a fare moneta virtuale ecc, il problema lì è la terra!
Cipriano: Dunque, non è possibile aspettare che il conflitto si auto-estingua. E un
problema anche dell’Europa, per quel discorso che facevamo prima di stabilità e di
equilibri politici: se noi abbiamo pace, se abbiamo equilibri politici, se non abbiamo
guerra, riusciamo a far partire la prima cosa, che sono gli scambi commerciali, se ci
sono gli scambi commerciali poi c’è il benessere, per tutti, nessuno escluso. Questo
conflitto è il principale elemento di instabilità in una delle regioni che poi si trova al
centro di processi di trasformazione nell’assetto internazionale. Una cosa importante
sulla quale io insisto sempre è che l’Europa non deve limitarsi ad un’offerta. Bisogna
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andare giù con una proposta che debba poter essere accettata da tutte le componenti
schierate e per fare questo bisogna lavorarci, bisogna tornare a lavorarci, bisogna
mediare, bisogna vedere quali sono i punti che non vanno bene, bisogna anche
lavorare diplomaticamente sull’uno e sull’altro fronte, bisogna cercare delle
convergenze.
E’ innegabile che alla fine di tutto questo in quelle zone noi abbiamo due vincitori e
allo stesso tempo due sconfitti. Noi abbiamo Israele e i palestinesi che nel momento
stesso in cui si dichiarano vincitori, e lo possono fare a ragion veduta, nel momento
stesso sono due popoli sconfitti. Io sono stato in Israele, a Gerusalemme, a Tel Aviv,
in questi posti qui: vedere ragazzi come voi, della vostra stessa età, che girano con lo
zaino, con il mitra carico, con il caricatore inserito, sono delle situazioni incredibili.
Vedere persone di 17-18-20 anni, persone molto giovani, che vanno in giro con il
badge dei Pokemon, per dirvene una, e il mitra carico, con pallottole che vi
ammazzano, vi passano da parte a parte, è un contrasto che mi ha lasciato
interdetto. Ragazzi come voi che, beninteso, ridono, vanno in discoteca, si truccano
prima di scendere, quando hanno finito il loro turno di servizio appendono la divisa
poi mettono scarpe alla moda, jeans sdruciti. E quindi vedere questi forti contrasti
veramente ti fa dire: “ma questo qui, in questo momento, è il vincitore, perché ha
l’arma carica al fianco, o è lo sconfitto perché gli viene negata la sua gioventù, gli
viene negato di essere una persona normale?”. Guardate che non è bello, secondo
me, andare in giro con un’arma carica al fianco e col pupazzetto, col coniglietto di
peluche: e chi sei in quel momento? Sei un guerriero? O sei uno che vuole vivere il
suo tempo, la sua epoca, la sua libertà, la sua gioia di essere diciottenne, ventenne?
E questo vale anche per i bambini dell’Intifada. L’Intifada poi è un discorso ancora
molto più ampio, ancora molto più aperto. Dall’87 l’Intifada è stata la dichiarazione
di vittoria, se vogliamo, dei palestinesi ma al momento stesso con l’Intifada comincia
la loro sconfitta, il loro essere vittime; le famiglie fanno i figli perché quei figli
devono essere consegnati a questa guerriglia, a questa forma di protesta, di contrasto
dell’avversario israeliano. Per cui capiamo bene che quando i termini della
questione si spostano a questo livello, ecco, noi non possiamo più parlare di vincitori
e di sconfitti perché comunque al di fuori di quei territori, magari anche qui in
mezzo a noi, c’è chi è diviso: ‘io sto con la Palestina’, ‘io sto con Israele’ e quindi
questo dimostra come si possa essere vincitori e sconfitti allo stesso tempo. Vincitori
perché comunque poi riesce a creare un’opinione pubblica che ti sostiene a livello
internazionale, con falsa propaganda anche. Però alla fine poi sei uno sconfitto
perché il momento stesso in cui esci di casa ti può scoppiare qualcosa a due metri di
distanza e perdi la vita. Io ho provato a varcare la frontiera tra Egitto e Israele ed è
stata una cosa allucinante. Eravamo un gruppo, io viaggiavo con mezzi di fortuna; a
un certo punto sono arrivato lì e mi hanno detto: ‘ma lei da dove viene?’ ‘Dall’Egitto.
E perché ?’ e tutta una serie di domande. Viaggiavo con passaporto italiano e avevo
una strana somiglianza con un ‘Carlos’! Non ti dico i guai che ho passato! M’hanno
preso e m’hanno chiuso da una parte. Dopo che si sono accertati chi fossi, perché tra
l’altro io avevo un credito del Ministero degli Esteri, hanno controllato, hanno avuto
conferma, m’hanno rimesso insieme agli altri e mentre facevamo questo,
continuamente una persona girava e guardava nei posacenere, guardava nelle borse,
chiedeva a tutti quanti di aprire valige, borse, borsette: il pericolo delle bombe era
123
incredibile, è una delle zone di confine più calde del momento. Dopodiché ci hanno
presi e messi tutti in un recinto con un filo spinato e due guardiani: così, in attesa
della coincidenza, un autobus, che, per malasorte, è arrivata dopo un’ora e un
quarto mentre noi eravamo in una zona desertica, con un filo spinato, due sentinelle
armate e un sole a 45 gradi; siamo stati dalle undici di mattina all’una così!
Naturalmente sì, noi ce la siamo presa con quei disgraziati, ma come dargli torto?
Perché poi, come passavi, vedevi camion saltati in aria abbandonati sul ciglio della
strada dalla parte egiziana; i cannoni sbucciati, tipo banane, che erano ancora lì
lasciati a testimonianza di quelli che erano gli effetti devastanti della guerra. Mentre
si attraversava il Sinai si vedeva un’enorme distesa di sabbia e all’improvviso usciva
una figura umana che si avvicinava. Voi vi avvicinavate ed era un soldato, là sotto
era tutto vuoto e c’erano tutti cannoni puntati, nonostante ci sia una fase di
‘distensione’ ecc. ecc, sotto la sabbia ci sono obici puntati, dall’una e altra parte.
Non si vede nulla sopra, perché poi ci sono i satelliti che rilevano tutto, non si vede
nulla, solo all’improvviso spunta il classico soldato che chiede un passaggio e dice
semplicemente “portatemi a casa”. Capivi che c’era la guerra da questi particolari,
per queste cose che vedevi.
Per cui alla fine, e tornando anche al discorso che facevamo l’altra volta, io sono
comunque della convinzione che il conflitto si risolve una volta che si definisce la
questione della terra. Così, allo stesso tempo, come si pone una questione di diritto:
innanzitutto il diritto al legittimo possesso di quella terra, perché il possesso ci deve
essere e non basta che ci sia con la compravendita, il possesso deve essere
legittimato. E poi i diritti che scaturiscono dall’osservanza di un patto: tra quelle
persone deve essere fatto un patto, così come ci sono sempre stati patti, e sulla base
dei patti che venivano di volta in volta stipulati, anche se per brevi periodi, brevi che
possono essere stati anche cento e più anni, è stato possibile raggiungere la pace.
Però badate bene, la cosa più difficile è questo delicato equilibrio, l’osservanza del
patto: ‘ci sto io, ci sei anche tu. Ho diritto ad esserci io, hai diritto ad esserci anche
tu’.
Faccio subito un esempio di come, alla fine secondo me, questo processo effettivo
comincia ad essere sentito, al di là delle propagande, anche dalle parti in causa: il
nuovo leader che è stato eletto come primo ministro in Israele, Sharon, il giorno
prima della sua elezione, aveva tuonato: “adesso che vado al governo distruggo
questo, distruggo quello”, perché aveva bisogno ovviamente del consenso e ha
puntato sulla paura della gente, sulla paura degli ebrei, sulla paura dei coloni e
delle persone che si sentono minacciate. Provateci a vivere in uno stato di guerra,
avreste paura anche voi, ho avuto paura anche io a viverci come visitatore; se viene
qualcuno che ti dice “non ti preoccupare, io da domani faccio in modo che tu possa
girare tranquillamente per le strade ecc., con la forza delle armi” io ti credo, perché
l’esercito israeliano è all’avanguardia, è un esercito moderno, la polizia oltre che
l’esercito, il servizio segreto, fra le altre cose, è anche ben dotato. Il giorno dopo
essere stato eletto, ha cominciato a fare una clamorosa retromarcia, ha cominciato a
cercare il dialogo, vuole andare avanti, e in fretta, verso il processo di pace, non
vuole più, come giustamente diceva Ciro Sbailò, questo appoggio incondizionato
dell’America, soprattutto quando con Bush c’è questa, chiamiamola, raffreddatura
rispetto a quella che poteva essere un’amministrazione dei ‘democrats’ americani, e
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allora dice “sì, la pace io ve la voglio garantire, voglio darvi tutto ciò di cui avete
bisogno, però l’elemento fondamentale prima della pace è che bisogna vincere la
diffidenza” e la diffidenza viene dalla paura che loro si sveglino una mattina e gli
salti l’auto sotto casa, che escano per andare a fare la spesa al mercato e gli arrivi un
missile lanciato da un elicottero o che vadano a prendere l’autobus per andare a
scuola e un pazzo imbottito di tritolo gli si schianti contro l’autobus e lo faccia
saltare in aria. Quella è la paura, quello è il vero ostacolo da superare se si vuole
arrivare ad un processo di pace. Superare questa paura, come una volta diceva
Arafat “io ho messo dietro le spalle la mano con il mitra e sto porgendo la mano con
l’ulivo” allora io dico, parafrasando Arafat, “posiamolo il mitra e porgiamo tutte e
due le mani, soprattutto quella in cui c’è l’ulivo” se veramente vogliamo arrivare a
questa soluzione di pace, perché poi, al di là di quelle che sono le facili demagogie,
torno a ripetere, si tratta di due civiltà antichissime, degne del massimo rispetto e
dai profondi valori spirituali e sociali.
Saviani: Ringraziamo i nostri ospiti.
La nostra esperienza continua con il lavoro che dovremo fare di elaborazione e di
selezione dei materiali per produrre il nostro testo.
125
Silvia Antonucci (giornalista), Massimo E. Baroni (studente Psicologia),
Massimiliano Borelli (5L), Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4D),
Silvia Crupano (4D), Jessica Ferretti (4D), Silvia Giacomini (5M),
Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),
Tommaso Sanna (5L), Ramacandra Wong (2N)
126
Rassegna Stampa
127
Documenti
128
Palestina (Rizzoli Larousse 2000)
Regione storica del Medio Oriente tra il Libano e l'Hermon a nord, il Deserto Siriaco
a est, la regione desertica che forma, poi, la penisola sinaitica a sud, il mar
Mediterraneo a ovest. Il nome antico era Terra di Canaan dopo la conquista
israelitica, secc. XIII- XII a.C., fu designata anche come Terra d'Israele; il nome di
Palestina, nella forma Syria Palaestina, cioè la regione sira dei Filistei, diventò
comune (per indicare tutta la regione) dall'epoca ellenistica. Dal 931 a.C. fu divisa
tra i due regni ebraici, di Israele a nord, che nell'882 ebbe la sua nuova capitale a
Samaria, e di Giuda, a sud, con capitale Gerusalemme. A questa divisione politica si
sovrappose la divisione regionale; Giudea al sud, Samaria al centro, Galilea al nord.
Secondo i tempi col nome di Palestina si compresero anche le regioni che avevano
costituito gli antichi regni di Ammon e di Moab a est del Giordano e del Mar Morto.
Storia
La conquista di Gerusalemme a opera dei Romani (66-70) dopo la prima rivolta
giudaica, segnò la diaspora definitiva del popolo ebraico, che inutilmente tentò di
riacquistare l'indipendenza nel II sec. (seconda rivolta giudaica di BarKokheba, 132135). Con l'affermazione del cristianesimo (costruzioni promosse da Costantino e da
sant'Elena nei Luoghi santi), la Syria Palaestina diventò meta di pellegrinaggi e
centro di diffusione del monachesimo. Gravi danni subì la regione nel VII sec. per le
invasioni del sassanide Cosroe II (presa di Gerusalemme, 614) e degli Arabi
(conquista di Antiochia, 636, e di Gerusalemme, 637), che la sottrassero
definitivamente ai Bizantini, islamizzandola e arabizzandola in profondità. Il califfo
‘Umar vi stabilì un regime di tolleranza religiosa e tentò di garantire a Gerusalemme
la preminenza sugli stessi Luoghi santi dell'Islam. Nel X sec. la Palestina passò ai
Fatimidi d'Egitto e nel successivo ai Turchi Selgiuchidi (conquista di Gerusalemme,
1076). I nuovi conquistatori, mentre furono abbastanza tolleranti con gli ebrei,
resero difficile ai cristiani l'accesso ai Luoghi santi, perseguitando talora i pellegrini
e i cristiani indigeni (1011, distruzione della chiesa del Santo Sepolcro per ordine
del califfo Al- Hakim). L'Occidente cristiano reagì con le crociate (secc. XI-XIII), che
portarono alla conquista del Levante e alla costituzione degli Stati latini d'Oriente;
questi, e soprattutto il regno latino di Gerusalemme, furono tramite prezioso per i
mercanti latini che esercitarono i loro traffici con l'Oriente senza dover dipendere
dai Bizantini e dai Turchi. In questo periodo (secc. XII-XIII) gli ebrei costituirono
una ridottissima comunità spesso priva addirittura della sinagoga. I musulmani
riuscirono gradualmente a distruggere il regno di Gerusalemme (1187, battaglia di
Hattin e caduta di Gerusalemme; 1291, conquista di San Giovanni d'Acri) e la
regione siriaco-palestinese passò sotto i Mamelucchi d'Egitto. Effimera fu la
restaurazione cristiana nei Luoghi santi a opera di Federico II (trattato di Giaffa con
il sultano Al-Malik al-Kamil, 1229), poiché la Città santa fu riconquistata dai
musulmani nel 1244. Nel XIVe XV sec. si ebbe una certa immigrazione di Ebrei
(quelli provenienti dalla Germania furono però osteggiati dai correligionari
palestinesi); le espulsioni dei Sefarditi dai paesi iberici (1492 e 1495) portarono a
una nuova e più consistente immigrazione (90.000 circa nel Levante, e 10.000 in
Gerusalemme nel XVI sec.). Ai Mamelucchi d'Egitto nel XVI sec. subentrarono gli
129
Ottomani (1517-1917), la cui amministrazione, salvo il periodo di Solimano il
Magnifico, impoverì sia la popolazione araba sia le comunità ebraiche talora
soccorse dalle congregazioni giudaiche europee (per es. quella veneziana nel 1601).
Nel XVIII sec. ci fu il fallito tentativo di conquista napoleonica (febbraio-maggio
1799) e nel XIX l'occupazione del viceré di Egitto Mehmet Ali (1831-1840): per
quanto effimera, questa fu benefica per taluni miglioramenti nell'amministrazione;
la popolazione ebraica (ridottasi a Gerusalemme sulle 5.000 unità) fu accresciuta da
nuovi immigrati askenaziti; in genere le comunità mantennero scrupolosamente le
tradizioni giudaiche pur avendo anche adottato lingua e costumi della maggioranza
araba. L'infittirsi dei rapporti con l'Occidente portò una certa prosperità con la
fondazione di scuole, ospedali e istituzioni culturali; frequenti si fecero le spedizioni
scientifiche di ricerca storica e archeologica (per es. i viaggi di Renan). Man mano
che in Europa si affermavano nazionalismo e antisemitismo, l'immigrazione ebraica
assunse maggiore consistenza e nuove caratteristiche. Nel XX sec. in seguito alla
prima guerra mondiale e al crollo dell'Impero ottomano, la Palestina passò sotto
l'amministrazione prima militare (1918-1920), poi civile (1920-1923) della Gran
Bretagna, alla quale nel 1922 la Società delle Nazioni affidò il mandato sul paese. Il
mandato entrò in vigore l'anno successivo.
In seguito alla trasformazione dell'Organizzazione sionistica in Agenzia ebraica
(1922) e all'aumento dell'immigrazione ebraica (specie dopo l'applicazione della
politica razziale di Hitler, 1933), il paese fu teatro di sanguinosi disordini. Gli Arabi,
temendo di essere ridotti a una minoranza rispetto agli Ebrei, dal 1935 al 1939
condussero una rivolta armata contro gli Inglesi. Lo scoppio della seconda guerra
mondiale sospese le misure di pacificazione previste dal Libro bianco inglese del
1939. Al conflitto gli Ebrei parteciparono con un corpo di 27.000 volontari; alcuni
commandos, istruiti dal generale Wingate e comandati da Dayan, furono impiegati
nella campagna di Siria del 1941. Gli Arabi invece contribuirono con 13.000 uomini
ma non celarono le proprie simpatie per il gran mufti di Gerusalemme, fuggito a
Berlino nel 1941. Il rifiuto britannico di accogliere le raccomandazioni del congresso
sionistico di New York (1942) per la costituzione dello Stato ebraico, la formazione
della Lega araba (1945), l'organizzazione di un'immigrazione clandestina e di un
nuovo terrorismo ebraico (Irgun, gruppi Stern, 1945-1946) persuasero la Gran
Bretagna alla rinuncia del mandato (1947-1948). Poche ore prima dell'effettiva
cessazione del mandato (15 maggio 1948) fu proclamato lo Stato d'Israele, subito
attaccato dagli Stati arabi.
Nel 1949 la commissione mista d'armistizio delle Nazioni Unite divise la Palestina in
tre settori: il territorio di Gaza, occupato dall'Egitto; la maggior parte della Giudea e
della fossa del Ghor (o del Giordano), attribuite alla Giordania; l'alta Galilea, gli
altipiani occidentali e il Negev assegnati a Israele.
Tale divisione, seppur rispettata nel fatto, non fu mai intimamente accettata dagli
Arabi e la “questione palestinese” rimase aperta, esasperata dal problema dei
profughi (1 milione 250.000 nel 1956) rifugiatisi nei territori dei diversi Stati arabi
confinanti e vissuti in condizioni di estrema miseria. Nel 1964 i profughi furono
inquadrati militarmente nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP)
di Ahmad Shukayri, di cui la guerra dei sei giorni (giugno 1967) mise in luce la
fragilità.
130
La guerra del 1967 inoltre permise a Israele di controllare tutta la Palestina con
l'occupazione di Gaza, della Cisgiordania e del settore arabo di Gerusalemme.
Mentre Israele si insediava nelle posizioni conquistate, perseguendo la politica delle
“frontiere sicure” e respingendo la risoluzione n. 242 dell'ONU, la resistenza
palestinese si riorganizzava. Essa si presentava divisa in varie formazioni (Al- Fatah,
Fronte popolare di liberazione della Palestina FPLP, Fronte democratico popolare
di liberazione della Palestina FDPLP, ecc.), ma sostanzialmente unita contro Israele.
A partire dal 1969 la resistenza ebbe nell'OLP, passata sotto la direzione di ‘Arafat,
una sorta di governo- ombra della nazione palestinese in grado di collegare i diversi
movimenti e di stabilire rapporti con gli Stati arabi. Tuttavia, l'attività terroristica di
alcuni gruppi creò seri problemi con i paesi che accoglievano i profughi e nei quali si
trovavano le basi della resistenza, in particolare nel Libano e nella Giordania. Il
primo ridusse la libertà d'azione dei Palestinesi dopo il raid israeliano contro
l'aeroporto di Beirut (1968), mentre nella seconda si giunse a una guerra aperta tra
l'esercito di re Husayn e i fedayin nel settembre 1970. In seguito la guerriglia si
trasformò in terrorismo indiscriminato specie con la nascita di formazioni
estremiste, tra le quali una chiamata Settembre nero in onore dei morti nella strage
operata dall'esercito giordano. Sempre più frequenti divennero gli episodi di
pirateria aerea e gli attacchi contro la popolazione civile. Il 1972 fu un anno
particolarmente cruento con la strage dell'aeroporto di Lydda e quella di Monaco in
occasione delle Olimpiadi.
L'attività terroristica registrò in quegli anni un'allucinante escalation, alimentata,
anziché repressa, dai bombardamenti operati dall'esercito israeliano contro i campi
profughi. Dopo la guerra del Kippur (ottobre 1973), che ridimensionò il mito della
superiorità militare di Israele, il problema palestinese entrò in una fase nuova,
benché l'attività terroristica perdurasse (strage di Fiumicino nel dicembre 1973 e
incursioni di fedayin in territorio israeliano). Si iniziò infatti a parlare di uno Stato
palestinese, ‘Arafat intervenne per la prima volta all'ONU, dove fu votata (novembre)
una risoluzione in favore del diritto dei Palestinesi ad avere una patria; l'OLP
ottenne da più parti riconoscimenti come legittima rappresentante del popolo
palestinese (malgrado il ruolo le fosse conteso dal re di Giordania). Ogni tentativo di
risolvere la questione, però, si infranse di fronte al rifiuto del governo israeliano,
deciso a mantenere il confronto esclusivamente sul piano militare.
Il fatto nuovo fu costituito dal tentativo dell'OLP di inserirsi nella struttura
amministrativa dei territori occupati, riuscendo a far eleggere i propri candidati,
presenti nel Fronte nazionale, nelle elezioni municipali, tenutesi in Cisgiordania
nell'aprile 1976. Il fenomeno venne ostacolato dal governo israeliano, che però non
poté stroncarlo del tutto. Dopo un attentato di fedayin a Hebron (maggio 1980)
alcun sindaci palestinesi furono arrestati ed espulsi, mentre i sindaci di Nablus e
Ramallah subirono gravi attentati (giugno). Ad acuire le tensioni nei territori
occupati contribuì soprattutto la politica di confisca delle terre arabe e l'aumento
degli insediamenti ebraici nei territori occupati. L'ONU condannò tale politica
israeliana e denunciò la sistematica violazione dei diritti umani, ma tale condanna
non ebbe conseguenze per Israele. La resistenza palestinese, dopo il “settembre
nero” giordano, aveva intanto rafforzato le sue basi in Libano. La guerra civile in
questo paese finì quindi per coinvolgere l'OLP, che pure si era dissociata, e la
131
popolazione civile, contro la quale si diressero gli attacchi delle forze cristiane e
dell'esercito siriano. L'opinione pubblica rimase colpita dal lungo assedio cui venne
sottoposto il campo profughi palestinese di Tell al-Zatar. L'OLP, che nel 1976 era
entrata a far parte a pieno titolo della Lega araba, seppe dimostrare in questo
periodo la propria accortezza politica, resistendo alla pressione dei diversi governi
arabi che tendevano a subordinarla ai loro interessi, e la propria efficienza militare
resistendo agli attacchi sia dei Siriani che degli Israeliani. La linea politica dell'OLP
si trovò invece in difficoltà in seguito ai negoziati egizio-israeliani e l'organizzazione
respinse anche l'autonomia della Palestina, prevista negli accordi di Camp David.
Un valido appoggio la resistenza palestinese trovò dal 1979 nell'Iran islamico e nel
1981 ‘Arafat venne accolto trionfalmente a Teheran.
Nel 1982 Israele invase il Libano, arrivando ad assediare la capitale nel tentativo di
allontanare dai confini le basi palestinesi. La resistenza di questi ultimi e i massacri
compiuti da falangisti libanesi con la copertura israeliana nei campi palestinesi di
Sabra e Chatyla tramutarono il successo militare in sconfitta politica per il governo
israeliano, che da quel momento dovette contrastare la crescente opposizione
pacifista tra il popolo israeliano stesso. Israele poteva però contare, benché Begin
avesse respinto il piano di pace americano, sul sostegno dell'amministrazione
Reagan, mentre la resistenza palestinese si dilaniava in lotte intestine e il mondo
arabo si divideva tra i sostenitori dell'Iran e gli alleati dell'Iraq nella lunga guerra
che contrappose i due paesi del Golfo Persico. A prendere iniziative per risolvere la
questione palestinese fu re Hussein, che propose la formazione di uno Stato
palestinese confederato con la Giordania. La proposta portò all'avvicinamento tra
l'OLP e la Giordania e nel 1984, quando Hussein decise di riprendere le relazioni
con l'Egitto, l'iniziativa fu approvata da ‘Arafat. Si intensificarono anche le iniziative
per la convocazione di una conferenza di pace per il Medio Oriente, ma tutti i piani
proposti incontrarono l'opposizione del governo israeliano, che, da parte sua,
intensificò la colonizzazione dei territori occupati. Nel 1986 però i rapporti tra
Giordania e OLP divennero nuovamente tesi e le sedi della resistenza palestinese nel
territorio giordano furono chiuse. La svolta avvenne con lo scoppio dell'intifada nei
territori occupati. La dura repressione dell'esercito israeliano scosse l'opinione
pubblica internazionale, colpita anche dagli atti terroristici dei servizi segreti
israeliani all'estero contro i dirigenti palestinesi. L'OLP ottenne diversi
riconoscimenti internazionali e nel luglio 1988 il re giordano annunciò la rottura dei
legami legali e amministrativi con la Cisgiordania, riconoscendo di fatto l'OLP quale
unico rappresentante del popolo palestinese. In Israele l'intifada e le iniziative
internazionali provocarono la crisi nel governo di coalizione nazionale, ma le
elezioni del novembre 1988 ribadirono l'equilibrio tra partito laburista e Likud.
Nello stesso mese il consiglio nazionale palestinese, riunitosi ad Algeri, decise di
accettare la risoluzione n. 242 dell'ONU, riconoscendo di fatto il diritto di esistere
allo Stato d'Israele (rafforzato anni dopo, 24 aprile 1996, dalla cancellazione formale
dell'articolo della Carta del 1964 in cui si enunciava l'obiettivo della distruzione di
Israele) e proclamò lo Stato indipendente di Palestina. In dicembre si aprì il dialogo
tra OLP e Stati Uniti, i quali nel febbraio 1989 arrivarono a condannare la politica
israeliana nei confronti dell'intifada. L'invasione del Kuwait da parte dell'esercito
iracheno distolse l'attenzione dalla questione palestinese e l'appoggio, seppure
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tiepido, dato dall'OLP a Saddam Hussein provocò una serie di attacchi politici ad
‘Arafat. Nel frattempo in Israele si assisteva alla massiccia immigrazione ebraica
dall'Unione Sovietica e dagli altri paesi dell'Est europeo, tutti aspiranti coloni in
Palestina. Gli anni Novanta videro dispiegarsi un'intensa diplomazia che portò
inizialmente alla conferenza plurinazionale per la pace in Medio Oriente svoltasi a
Madrid nel 1991, sotto l'egida degli Stati Uniti e la presenza dell'Unione Sovietica;
ma il grande successo (dovuto molto alla volontà di mediazione del nuovo governo
laburista israeliano) fu lo storico incontro del 13 settembre 1993 (avvenuto a
Washington e per il quale ‘Arafat, Peres e Rabin furono insigniti del premio Nobel
per la pace nel 1994) in cui, oltre al riconoscimento reciproco, fu firmata la
“dichiarazione di principio sulle disposizioni interinali di autonomia” per i territori
occupati. Essa prevedeva l'entrata in vigore della stessa a un mese di distanza (13
ottobre), seguita dal trasferimento ai Palestinesi di alcune competenze
amministrative, dalla costituzione di un comitato di arbitraggio, uno di
collegamento israeliano-palestinese e uno di cooperazione economica israelianopalestinese, dall'apertura di un negoziato per il ritiro (entro due mesi) delle forze
militari israeliane e dell'elezione di un Consiglio (autorità provvisoria di gestione
palestinese che avrebbe dovuto portare allo scioglimento dell'amministrazione
israeliana); entro tre anni avrebbero dovuto aprirsi i negoziati per lo statuto
definitivo di autonomia e sulle questioni in sospeso. L'accordo (detto “di Gaza e
Gerico”) più definito fu poi siglato l'anno successivo al Cairo (4 maggio). Secondo
quanto stabilito, nel maggio 1994 l'autorità di controllo dei territori delle due città fu
assunto dai Palestinesi; fu ripristinata la legislazione vigente prima dell'occupazione
israeliana e prese forma il nuovo governo palestinese con una sua propria
amministrazione; in più, nel 1995, l'accordo fu ampliato sulle competenze
dell'autonomia palestinese in Cisgiordania (accordo “di Taba”). Ma fin dall'inizio la
linea distensiva trovò una feroce opposizione dalle frange estremistiche delle due
parti, la tensione, alimentata da attentati e repressioni, rimase altissima fino a
culminare con l'assassinio di Rabin da parte di un fondamentalista ebraico (4
novembre 1995). Il fragile equilibrio della pace si ruppe anche se inizialmente
qualche passo fu ancora fatto verso l'attuazione degli accordi. Nel gennaio 1996 si
svolsero le prime elezioni palestinesi, boicottate da Hamas, Fronte democratico per
la liberazione della Palestina e Fronte popolare, e ‘Arafat fu eletto presidente
dell'Autorità nazionale palestinese, il suo partito si aggiudicò 65 seggi su 88 del
Consiglio. L'evento decisivo per l'interruzione del processo di pace furono le elezioni
israeliane del 29 maggio successivo che furono vinte dal Likud e portarono al
governo il conservatore Benjamin Netanyahu. Ricominciò così la politica di appoggio
a nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati, accelerazione dell'acquisto di
manodopera straniera non palestinese, isolamento dei territori occupati,
rivendicazione di Gerusalemme, ecc. Davanti a queste scelte i Palestinesi non
poterono che irrigidirsi e, malgrado le critiche più volte espresse dalla comunità
internazionale, Israele ha proceduto nella non mediazione, disertando per periodi
più o meno lunghi la tavola delle trattative e sempre alzandosi da questa con un
niente di fatto. Una schiarita nel cielo della pace si è concretizzata dopo le elezioni
anticipate israeliane con il ritorno dei laburisti al potere, nella persona di E. Barak.
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Medio Oriente ( Gedea Multimediale )
Lessico
Termine con cui si indica l'insieme dei Paesi costieri del Mediterraneo orient.
(Turchia, Siria, Libano, Israele, Egitto) e inoltre l'Iraq, l'Iran, Cipro, la Giordania e
l'Arabia. Nell'accezione più vasta il M. comprende anche l'Afghanistan, la Libia e il
Sudan. In ingl., Middle East.
Storia: fino alla seconda guerra mondiale
L'insieme dei problemi (questione mediorientale) connessi all'avvenire dell'area,
popolata quasi esclusivamente da Arabi, che fino al 1914 era stata il fianco merid.
dell'Impero ottomano, appare la prosecuzione, al di là della scomparsa dell'Impero,
di uno dei temi della tradizionale Questione d'Oriente. La fine della I guerra
mondiale suscitò diffuse speranze d'indipendenza e di libertà nel M.: in particolar
modo quegli Arabi che avevano collaborato con gli Inglesi contro i Turchi
confidavano nella possibilità di costituire un grande regno arabo sotto la guida dello
sceriffo della Mecca Husayn. Ma nel corso della guerra la Gran Bretagna aveva preso
altri impegni: con i sionisti, ai quali era stata promessa la creazione di un “focolare
nazionale ebraico” in Palestina, e con i Francesi, ai quali era stata assegnata una
vasta zona d'influenza da Beirut a Mosul. Alla conferenza della pace fu la logica
imperiale che s'impose nettamente. Di qui una prima fase (1919-20) dall'impronta
decisamente repressiva che vide sconfitto dai Francesi l'esercito arabo di Damasco,
soffocati i moti nazionalisti egiziani, debellate le tribù ribelli della Mesopotamia. Più
avanti prevalse la tendenza a creare dei sistemi imperiali, all'interno dei quali
l'egemonia occid. fosse mitigata, senza però essere messa in dubbio, da concessioni
nei riguardi dei nazionalisti locali. La Gran Bretagna promosse la trasformazione
dell'Iraq da territorio sotto mandato a Stato indipendente (1930); concesse prima
l'indipendenza e poi (1936) un trattato relativamente avanzato all'Egitto; affidò la
parte transgiordanica del mandato palestinese ad !Abd Allah ibn al-Husayn, uno dei
figli di Husayn (a un altro, Faysal, era toccato il regno iracheno); tuttavia in
Palestina non fu in grado di trovare una soluzione che soddisfacesse gli Arabi come
gli Ebrei. Da parte sua la Francia, potenza mandataria in Siria e Libano, si
comportò con maggior rigidità: una breve parentesi di collaborazione con i
nazionalisti siriani (1936-38) fu bruscamente chiusa dalla cessione di Alessandretta
alla Turchia. La diffusa avversione anticolonialista che predominava nell'area sul
finire degli anni Trenta condusse molti nazionalisti arabi a simpatizzare con le
potenze dell'Asse: la manifestazione più preoccupante di questa tendenza si ebbe
nell'Iraq, dove nel 1941 i militari filogermanici presero il potere. Ma, nonostante
questa e altre minacce, il controllo dell'area finì per rimanere nelle mani degli
Alleati, che nel luglio strapparono Siria e Libano al regime di Vichy. La Gran
Bretagna approfittò della debolezza di de Gaulle per assicurarsi una posizione
egemonica anche in Levante: Londra appoggiò i nazionalisti locali e Siria e Libano
divennero due Repubbliche indipendenti. Ma questi vantaggi tattici – ai quali si
potrebbe aggiungere la creazione, nel 1945, di una Lega Araba sotto la regia inglese
– si dissolsero sotto il peso della crisi sopravvenuta nell'immediato dopoguerra. La
134
Gran Bretagna non fu all'altezza della tradizione e delle proprie ambizioni: incapace
di rifondare i propri rapporti con l'Egitto e con l'Iraq, vide il proprio prestigio
gravemente compromesso dalla nascita di Israele sulle rovine del mandato
palestinese.
Storia: dalla I guerra arabo-israeliana al 1956
Lo shock causato dalla sconfitta araba nella I guerra arabo-israeliana (1948-49)
parve dapprima esaurirsi in reazioni all'interno dei singoli Paesi arabi: nel 1949 un
colpo di Stato portò i militari al potere in Siria, nel 1952 fu la volta dell'Egitto. Anzi
sembrò che l'avvento di regimi diretti da una classe politica più “moderna” potesse
consolidare la presenza occidentale nell'area: nel 1954 fu sottoscritto un trattato
anglo-egiziano che poneva fine a un decennio di travagliati rapporti; nel 1955 il
Patto di Baghdad diede un colpo di spugna al contenzioso tra la Gran Bretagna e
l'Iraq. Ma la decisione anglo-statunitense di fare dell'Iraq il pivot di
un'organizzazione di difesa regionale in funzione antisovietica spinse Nasser e la
gran maggioranza dei nazionalisti arabi su posizioni ostili all'Occidente. L'Egitto
scoprì il neutralismo, acquistò armi dalla Cecoslovacchia. Ma l'anno spartiacque fu il
1956: le pesanti condizioni con le quali Washington e Londra accompagnarono la
proposta di finanziare la costruzione della diga di Assuan fecero fallire l'estremo
tentativo di recuperare l'Egitto. Nasser decise la nazionalizzazione della Compagnia
universale del canale di Suez.
Storia: dalla II guerra arabo-israeliana al 1967
Dopo settimane di inutili trattative, Gran Bretagna e Francia decisero di ricorrere
alla forza e organizzarono, assieme a Israele, quella che fu chiamata l'“aggressione
tripartita” (ottobre-novembre 1956).L'affare di Suez, militarmente una secca
sconfitta, politicamente una vittoria per Nasser, segnò la fine del vecchio
colonialismo: Washington e Mosca, ostili alla spedizione franco-britannica,
divennero da allora i principali interlocutori nell'area. Nel mondo arabo il
nasserismo trovò in Suez un trampolino di lancio: una svolta a sinistra in Giordania
fu soffocata nel 1957, ma nel 1958 la Siria decise di fondersi con l'Egitto nella
Repubblica Araba Unita (R.A.U.) e l'Iraq conobbe un colpo di Stato militare
repubblicano e progressista, mentre nel Libano soltanto un diretto intervento
statunitense permise di evitare preoccupanti sviluppi. Tuttavia dopo il 1958 la
posizione di Nasser conobbe un rapido deterioramento: Kassem (!Abd al Karin
Qasim), il leader della rivoluzione irachena, riprese sotto nuovi paludamenti e con
l'appoggio sovietico l'antica politica di Baghdad di rivalità nei confronti della R.A.U.;
nel 1961 la Siria, delusa dall'esperienza unitaria, uscì dalla R.A.U. Una nuova svolta
parve profilarsi nel 1962-63: rivoluzione filoegiziana nello Yemen, colpi di Stato
guidati dal Ba!th in Siria e Iraq. Ma l'intervento egiziano nello Yemen si rivelò
quanto mai controproducente e il Ba!th abbandonò il progetto federale a tre
accarezzato nel corso del 1963. Nasser risalì la china nel 1964, quando si riunì al
Cairo la prima Conferenza dei capi di Stato arabi: sembrò che la “solidarietà araba”
contro “le mire espansionistiche dei sionisti” divenisse, o ridivenisse, un leit-motiv
per gli Arabi. La mancata soluzione dell'affare yemenita, che opponeva di fatto
Arabia Saudita e R.A.U., riportò alla luce la tradizionale opposizione tra progressisti
135
e conservatori, due campi alle spalle dei quali esercitavano pressioni sempre più
pesanti Stati Uniti e Unione Sovietica.
Storia: dalla III guerra arabo-israeliana al 1972
Fu questo contesto che nel 1967 alimentò il terzo conflitto arabo-israeliano, risoltosi
con una rapida vittoria di Israele, che conquistò il Sinai, la Cisgiordania e le alture
di Golan. Il “nuovo 1948” condusse a una riedizione della politica dei vertici, una
politica fondata su un'intesa “pratica” tra la R.A.U., che rinunciava a esportare la
rivoluzione, e il blocco conservatore, che in cambio offriva consistenti aiuti
finanziari. Inoltre il fallimento dei governi e degli eserciti arabi rilanciò il
movimento della guerriglia palestinese, alla ribalta della scena mediorientale tra il
1968 e il 1970. Quest'ultimo anno vide l'avvio di una nuova fase della tormentata
questione mediorientale. In Giordania fu schiacciato il movimento palestinese (ma le
ultime basi furono espugnate nel 1971), la cui libertà d'azione fu ristretta al Libano,
anche qui non senza contrasti e conflitti. In Egitto la scomparsa di Nasser condusse
al potere il moderato Anwar as-Sadat, incline a contenere maggiormente l'influenza
sovietica nell'area e quindi disposto a migliorare le relazioni con gli Stati Uniti: del
resto lo stesso Nasser aveva accettato quel piano Rogers che prevedeva una soluzione
pacifica del conflitto arabo-israeliano. Nel 1971 la nascita, sulla carta, di una
Federazione delle repubbliche arabe tra Egitto, Siria e Libia parve consolidare
l'evoluzione dei regimi progressisti verso un islamismo riformista e anticomunista.
Storia: dalla IV guerra arabo-israeliana al 1982
Ma il fatto che il sensibile miglioramento dei rapporti tra U.S.A. e U.R.S.S. (1972-73)
non portasse ad alcun ammorbidimento delle tesi israeliane convinse Egitto e Siria a
lanciare un attacco contro Israele (ottobre 1973). La guerra, conclusasi con limitate
acquisizioni territoriali da parte di Israele, costituì un successo politico per Egitto e
Siria. Si sviluppò infatti un movimento di solidarietà tra i Paesi arabi che,
utilizzando la propria posizionequali esportatori di petrolio, indussero i Paesi della
C.E.E. ad assumere posizioni filoarabe, mentre l'Assemblea Generale dell'O.N.U.
riconosceva (22 novembre 1974) l'O.L.P. quale rappresentante del popolo
palestinese. Dopo gli accordi tra Israele ed Egitto (febbraio 1974) e Israele e Siria
(maggio) per il disimpegno militare sui rispettivi fronti, l'Egitto riaprì il Canale di
Suez (giugno 1975) e firmò un altro accordo con Israele (settembre) che portò a un
indebolimento della solidarietà interaraba. Mentre Israele, favorevole ad accordi
bilaterali con gli Stati arabi, persisteva nel subordinare il ritiro dai territori occupati
alla conclusione di un trattato di pace, i Paesi arabi si dividevano in un gruppo,
guidato dall'Egitto, deciso ad affrettare i tempi della distensione e un altro,
favorevole a una trattativa globale, che poneva come condizione preliminare a ogni
trattativa il ritiro di Israele da tutti i territori occupati e il riconoscimento dei diritti
dei Palestinesi. Mentre la mediazione degli U.S.A. portava agli accordi di Camp
David tra Egitto* e Israele (settembre 1978), restava irrisolta la questione palestinese
che finì per fare del Libano la sede principale del confronto militare araboisraeliano; la presenza nel Paese di basi dell'O.L.P. e le rappresaglie israeliane in
territorio libanese radicalizzarono la crisi politico-sociale e la conflittualità tra
136
O.L.P. e milizie cristiano-maronite cui pretese di porre fine la Siria invadendo il
Paese (v. Libano).
Storia: dall'invasione del Libano al 1990
Mentre si moltiplicavano i fattori di divisione del mondo arabo (tensioni ai confini
tra Iraq e Siria e tra Siria e Giordania, differenti posizioni dei singoli Stati di fronte
alla guerra tra Iraq e Iran), Israele, nel giugno 1982, invadeva il Libano merid.,
determinando l'allontanamento dell'O.L.P. dal Paese. Successivamente l'invio a
Beirut di una forza multinazionale di pace sembrava aprire una fase di tregua; ma
già alla fine del 1983 si intensificavano da un lato la lotta tra l'O.L.P. e i gruppi
palestinesi sostenuti dalla Siria, dall'altro le offensive tra le forze libanesi arabe e
quelle cristiane. Il ritiro (1984) degli uomini della forza multinazionale di pace e
quello (1985) degli Israeliani determinavano la ripresa della lotta fra le varie fazioni
conclusasi sostanzialmente solo nel 1990 con l'intervento siriano, che metteva fine
alla sobillazione del generale maronita Michel Aoun contro il presidente, anch'esso
maronita, Elias Hrawi. Per tutti gli anni Ottanta la situazione di crisi nell'area era
stata aggravata da altri conflitti. Nel 1979 l'U.R.S.S. invadeva l'Afghanistan per
sostenervi un regime fedele, ma incontrava una forte resistenza armata che le sue
truppe non riuscivano a piegare. Dopo il disimpegno militare sovietico (1989) le
formazioni ribelli riuscivano gradualmente a impossessarsi di tutto il territorio
conquistando (1992) la capitale, ma per i numerosi contrasti all'interno delle varie
fazioni armate la situazione in Afghanistan rimaneva lungi dall'essere normalizzata.
Nel 1980 l'Iraq attaccava l'Iran dando il via a una sanguinosa guerra che lasciava sul
terreno oltre un milione di morti e si concludeva solo nel 1988 con una situazione di
stallo.
Storia: dalla guerra del Golfo ad oggi
Un'ulteriore iniziativa irachena, questa volta contro il Kuwait invaso nel 1990,
faceva salire nuovamente la tensione internazionale e l'O.N.U. autorizzava l'uso della
forza per liberare il piccolo regno arabo. La guerra del Golfo*, conclusasi con la
sconfitta dell'Iraq (1991) favoriva una ridislocazione delle forze dell'area,
particolarmente della Siria nell'occasione alleatasi con gli U.S.A. Questo fatto,
insieme alla fine del bipolarismo, determinava un diverso scenario in cui, pur
rimanendo aperte molte questioni, tracui quella curda, si rendeva possibile l'avvio di
una fase di cauta distensione nell'area. In questo quadro poteva andare in porto
l'iniziativa statunitense di avviare una conferenza di pace che mettesse intorno allo
stesso tavolo Arabi, Palestinesi e Israeliani per discutere le soluzioni di una duratura
sistemazione della regione. La conferenza, che, apertasi a Madrid nel novembre
1991, nel 1992 proseguiva i suoi lavori negli U.S.A., riceveva nuovi impulsi dai
risultati delle elezioni politiche in Israele (1992), vinte dai laburisti. Benché ancora
lontano da una conclusione soddisfacente per tutte le parti e ostacolato anche dai
ripetuti scontri che continuano a verificarsi nei territori occupati e soprattutto nel
Libano meridionale, il negoziato avviato nel 1991 ha alimentato un moderato
ottimismo riguardo al futuro dell'area.
137
Decolonizzazione (Gedea Multimediale )
Lessico
sf. [sec. XX; da decolonizzare]. Processo di evoluzione storico-politica che ha condotto
i territori sotto tutela coloniale all'emancipazione e all'indipendenza.
Storia
In via generale la d., intesa come fenomeno di attualità storica, può ricollegarsi ai
due conflitti mondiali e alle conseguenze da essi determinate. Il concetto appare
tuttavia applicabile anche a un passato più remoto e trova precedenti significativi
nel sec. XVIII (ribellione delle colonie inglesi dell'America del Nord e nascita della
Confederazione degli Stati Uniti) e nel sec. XIX, allorché le colonie spagnole
dell'America Centrale e Meridionale e il Brasile si liberarono dal giogo delle
rispettive metropoli conseguendo l'indipendenza. La stessa creazione (in
conseguenza del rapporto Durham del 1839) dei Dominions come entità autonome
in seno all'Impero inglese (Canada nel 1867, Australia nel 1900, Nuova Zelanda nel
1907, Unione Sudafricana nel 1910) può ascriversi nel quadro d'una d. ante
litteram. Coi due conflitti mondiali, e in particolare col secondo, la d. acquistò però
un significato e una portata più chiari e determinanti. Il primo conflitto mondiale,
pur non intaccando sostanzialmente le posizioni del colonialismo, fu già apportatore
di fermenti e di principi nuovi: la risoluzione votata nel dicembre 1917 dal Partito
laburista inglese per l'internazionalizzazione delle colonie e sostenuta dallo stesso
Partito socialista italiano; i 14 punti del presidente Wilson recepiti in parte dalla
Carta della Società delle Nazioni; l'istituzione dei Mandati internazionali sotto il
controllo della stessa Società delle Nazioni; il sorgere e lo svilupparsi negli Stati
Uniti di movimenti per l'emancipazione della razza negra e degli africani
(movimento panafricano del Du Bois e movimento pan-negro del Garvey); la prima
presa di coscienza da parte dei sudditi di colore, chiamati a combattere a fianco
degli Alleati, furono tutti elementi destinati a svilupparsi e ad affermarsi nel periodo
compreso tra i due conflitti mondiali. Con la II guerra mondiale l'antitesi
colonialismo-anticolonialismo si fece più acuta. Vanno ricordate talune solenni
enunciazioni e impegni di carattere internazionale, quali: la Carta Atlantica che, già
nel 1941, riconosceva «il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto
la quale desideravano vivere e a vedere restaurati i diritti sovrani e l'autonomia a
favore di coloro che ne erano stati privati»; la formulazione, nel 1945, della Carta
delle Nazioni Unite, con la quale le potenze coloniali si assumevano il «sacro
mandato» di «sviluppare l'autogoverno e di prendere in debita considerazione le
aspirazioni politiche dei territori non autonomi» (art. 73) e di «promuovere il
progressivo avviamento all'autogoverno e all'indipendenza» dei territori in
amministrazione fiduciaria (art. 76); la successiva Dichiarazione Universale dei
Diritti dell'Uomo, votata nel 1948 dalle stesse Nazioni Unite, che, ripudiando
qualsiasi forma di discriminazione razziale, di soggezione politica e d'ingiustizia
138
sociale ed economica, suonava condanna inappellabile del colonialismo. Su un
piano ancor più diretto e specifico, le conferenze di Bandung (1955), del Cairo e di
Accra (1957-58) rappresentarono tre momenti decisivi dell'anticolonialismo.
Particolare valore e un consistente apporto dinamico furono poi conferiti al processo
di d. dalle élites e dai movimenti nazionalisti africani e asiatici che espressero
leaders autorevoli, destinati a sostenere una parte di primo piano nella lotta per
l'indipendenza dei rispettivi Paesi. Né vanno dimenticati, in questo contesto, l'azione
condotta dal comunismo internazionale, risoluto sostenitore dell'anticolonialismo e
dell'antimperialismo, lo stesso atteggiamento anticolonialista degli Stati Uniti, la
posizione spesso liberale della Chiesa, il contributo del sindacalismo quale
componente politica dei nazionalismi afroasiatici. Tutti questi fattori, e altri di
minore rilievo, dovevano portare, dopo la II guerra mondiale, al superamento del
fatto coloniale e all'affermarsi della d. che ha interessato soprattutto l'Africa e l'Asia e
si è concretata nell'indipendenza della quasi totalità dei territori. La d. politica non
ha però coinciso con la d. economica, le condizioni di sottosviluppo del Terzo Mondo
hanno costretto i Paesi di recente indipendenza a conservare vincoli e a ricevere
aiuti dalle ex potenze coloniali o dagli altri Paesi industrializzati, considerati spesso
lesivi, anche sul piano morale, della libertà conquistata. Questa situazione di fatto
viene oggi indicata col termine di neocolonialismo.
Storia: decolonizzazione in Africa
Il primo conflitto mondiale ebbe in Africa riflessi limitati ma significativi. Le colonie
ex tedesche anziché essere annesse direttamente dalle potenze vincitrici furono a
esse affidate come Mandati dalla Società delle Nazioni. In vari territori coloniali
(Tunisia, Algeria, Marocco, Senegal, Sudan anglo-egiziano, Nigeria, Sierra Leone,
Kenya, Gabon, ecc.) cominciarono tra la I e la II guerra mondiale a costituirsi
associazioni e movimenti di carattere politico, guidati da leaders di grande prestigio,
come Burghiba, Azikiwe, Kenyatta, Gueye, Mba, ecc. Tuttavia, allo scoppio del
secondo conflitto mondiale i soli Paesi indipendenti dell'Africa (un'indipendenza
condizionata, tra l'altro, da ipoteche di vario genere) erano l'Egitto, la Liberia e
l'Unione Sudafricana. Ma già nel 1941 l'Etiopia (conquistata nel 1935-36 dall'Italia)
riacquistava la sua indipendenza. Quindi, in conseguenza del Trattato di pace di
Parigi del 1947, l'Italia rinunciava ai suoi possedimenti coloniali, del cui destino
l'O.N.U. decideva con due risoluzioni del 1949 e del 1950. La Libia diventava
indipendente il 24 dicembre 1951, la Somalia era affidata in amministrazione
fiduciaria alla stessa Italia per un periodo di 10 anni (abbreviato poi di 5 mesi),
l'Eritrea era costituita in entità autonoma federata all'Impero etiopico a partire
dall'11 settembre 1952. In definitiva la d. trovava il suo primo e più concreto
incentivo in Africa proprio nelle decisioni riguardanti le ex colonie italiane. Su gran
parte del continente le forze politiche si erano andate, subito dopo il 1945,
organizzando in partiti popolari di carattere territoriale (come, p. es., il Convention
People's Party di Nkrumah nel Ghana) o interterritoriale (come, p. es., il
Rassemblement Démocratique Africain di Houphouet-Boigny nell'Africa Occidentale
ed Equatoriale Francese), facendosi portatrici di rivendicazioni di chiaro tenore
nazionalista e anticolonialista. Nel 1956 accedevano all'indipendenza il Sudan
139
anglo-egiziano, la Tunisia e il Marocco, seguiti nel 1957 dalla Costa d'Oro che
assumeva il nome di Ghana. La Francia, intanto, dopo la Loi Cadre del 1956, dava
vita nel 1958, col generale De Gaulle, alla Comunità francese*. Fautore della piena
indipendenza, Sekou Touré rifiutò l'ingresso della Guinea nella comunità e ne
proclamò l'indipendenza (2 ottobre 1958). Il 1960 fu l'anno cruciale della d. in
Africa: 14 territori amministrati dalla Francia (Camerun, Togo, Senegal, Sudan
occid., Madagascar, Alto Volta, Dahomey, Niger, Costa d'Avorio, Ciad, Rep.
Centrafricana, Gabon, Rep. Pop. del Congo, Mauritania) e Nigeria, Somalia ex
italiana e Somaliland, Rep. Dem. del Congo, accedevano all'indipendenza. Sola nota
drammatica fu il Congo ex belga, il cui iter verso l'impegnativo traguardo s'era svolto
all'insegna dell'improvvisazione e della disarmonia. Negli anni successivi la d.
interessava la Sierra Leone e il Tanganica (1961), l'Algeria (unica indipendenza
scaturita da un lungo e sanguinoso conflitto), il Ruanda, il Burundi e l'Uganda
(1962), Zanzibar e il Kenya (1963), il Malawi, già Nyasaland, e la Zambia, già
Rhodesia del Nord (1964), la Gambia (1965), il Botswana, già Bechuanaland, e il
Lesotho, già Basutoland (1966), e infine Maurizio, la Guinea Equatoriale, già
Guinea Spagnola, e Swaziland (1968). Alla prima d., avvenuta tra il 1951 (Libia) e il
1968, fece seguito una pausa di 6 anni. La caduta, nel 1974, della dittatura
portoghese e la dichiarazione ufficiale del 27 luglio 1974, con la quale il nuovo
governo di Lisbona s'impegnava sulla via della d., inauguravano la seconda fase
delle indipendenze africane, apertasi nello stesso 1974 con la Guinea-Bissau e
proseguita nel 1975 col Mozambico, le isole del Capo Verde, le isole Sâo Tomé e
Principe, l'Angola. Al di fuori del quadro dell'Africa ex portoghese, si realizzavano
ancora tre indipendenze: quelle delle isole Comore (1975), delle isole Seicelle (1976)
e di Gibuti (1977). A parte le modeste dipendenze amministrate dalla Gran
Bretagna, Francia e Spagna, la d. in Africa, sul piano politico, si può considerare
definitivamente conclusa alla fine degli anni Ottanta con la caduta dell'apartheid.
Nello Zimbabwe (ex Rhodesia) solo con la revisione costituzionale (1987) si
aboliscono i privilegi politici dei bianchi consentendo una reale libertà alla
popolazione nera; in Namibia la piena indipendenza viene raggiunta nel marzo
1990, mentre nella Rep. Sudafricana la liberazione di Nelson Mandela* (febbraio
1990) e le successive elezioni multirazziali del 1994 che lo vedono vincitore
sanciscono la fine della discriminazione razziale. Tuttavia tutto il fenomeno storico
della colonizzazione e della successiva d. lascia aperti notevoli problemi, da quelli
economici a quelli della stabilità politica, a quelli dei numerosi contrasti per motivi
di confine o interetnici (Marocco-ex Sahara Occ., Libia-Ciad, Somalia-Etiopia,
Etiopia-Eritrea, ecc.) per i quali il continente africano del dopoguerra è teatro di
continui conflitti.
Storia: decolonizzazione in Asia
Difficile una sintesi rapida e unitaria della d. in Asia, dove in molti casi il concetto
stesso di colonialismo sembra applicabile solo in maniera parziale o anomala
rispetto al modello tipico, all'immagine che il termine stesso evoca, quella cioè di
un'amministrazione diretta e autoritaria da parte di una potenza occidentale
(bianca, cristiana, industrializzata) su una popolazione totalmente diversa (di colore,
140
non cristiana, preindustriale). Il processo di d., in Asia, iniziò attraverso una
graduale presa di coscienza di élites intellettuali dei Paesi colonizzati. In linea di
massima si può dire che una prima fase non ebbe i caratteri della lotta frontale
contro i Paesi colonizzatori, anzi, i piccoli gruppi “illuminati” non pensavano che a
introdurre nei rispettivi Paesi i valori e le istituzioni europee (soprattutto inglesi)
nella convinzione (quasi sempre delusa) di avere in questo progetto l'appoggio dei
bianchi stessi (basti pensare all'anglofilia dei primi leaders del Congresso indiano o
alle forme di religione sincretistica, dai T'ai-p'ing ai caodaisti vietnamiti). Inoltre,
l'espansionismo giapponese, se da un lato allargava lo specifico impero coloniale
giapponese (comprendente a diverso titolo Corea, Taiwan, Manciuria e, poi, i
territori conquistati durante la II guerra mondiale), allo stesso tempo minava di fatto
la presenza occidentale del continente. Questo spiega come e perché numerosissimi
combattenti della d. asiatica si siano schierati al fianco dei Giapponesi durante
l'ultimo conflitto mondiale, dall'indiano Chandra Bose all'indonesiano Sukarno, al
birmano Aung San. Già prima della fine del conflitto, comunque, il governo
britannico, con una revisione delle costituzioni, concesse una maggior
rappresentanza agli autoctoni per cercare di frenare i movimenti indipendentistici.
In India non riuscì tuttavia a contenere il movimento di disobbedienza civile e nel
1945 il governo laburista pensò di sostituire al vincolo coloniale un'associazione
volontaria favorendo l'autodeterminazione dei popoli e vincolandoli nel
Commonwealth. Nel marzo del 1947, 250 delegati di 25 Paesi asiatici, riuniti a
Nuova Delhi, espressero chiaramente l'intenzione di respingere qualsiasi tentativo di
ritorno offensivo delle potenze coloniali; il 15 agosto dello stesso anno India e
Pakistan proclamarono la propria indipendenza, lo stesso fecero nel 1948 Ceylon e
Birmania. Il Commonwealth, non senza resistenza, si trasformò per permettere
l'ingresso dei nuovi membri. Solo più tardi, nel 1957, raggiunse l'indipendenza la
penisola malese e ancora più tardi il Borneo Settentrionale (1963) che entrò a far
parte della Malaysia. Hong Kong sopravvive ancora come colonia britannica, ma il
Trattato cino-inglese del 19 dicembre 1984 stabilisce che quel territorio tornerà alla
Cina dal 1º luglio 1997 con un'ampia autonomia amministrativa e il mantenimento
per 50 anni dell'attuale sistema economico. Più complessa fu la soluzione del
problema nelle colonie olandesi e nell'Indocina francese; nelle Indie Olandesi il
governo dell'Aia tentò di frenare l'evolversi della situazione con una vera e propria
guerra coloniale ma nel 1950, internazionalmente isolati e osteggiati all'O.N.U., i
Paesi Bassi dovettero riconoscere l'indipendenza della Repubblica Indonesiana. In
Indocina, dopo decenni di guerriglia e poi di guerra aperta, non interrotti che per
brevi momenti dopo gli aleatori accordi di Ginevra con i Francesi (1954) e di Parigi
con gli Americani (1973), Viet Nam, Cambogia e Laos raggiunsero finalmente (1975)
l'indipendenza eliminando le forze filoamericane dai rispettivi Paesi. Nel 1946, gli
Stati Uniti avevano pacificamente lasciato le Filippine. Goa e gli altri territori
minori sono entrati a far parte dell'India in seguito a un'azione militare di
quest'ultima nel 1961, mentre Macao rimane per ora dipendenza portoghese
(secondo un accordo sottoscritto a Pechino nel 1987, tornerà sotto la sovranità cinese
nel 1999, e godrà di ampia autonomia mantenendo invariato per almeno 50 anni
l'attuale sistema economico e sociale). Nel Medio Oriente, Siria e Libano furono
evacuati nel 1946 dalle truppe francesi (formalmente l'indipendenza era stata
141
proclamata nel 1941, ma l'applicazione era stata rinviata alla fine del conflitto),
mentre la Gran Bretagna, che già nel 1932 aveva concesso l'indipendenza all'Iraq,
incapace di comporre la rivalità tra Arabi e Israeliani, nel 1947 chiese l'intervento
dell'O.N.U. che stabilì una suddivisione del territorio; questo assetto fu inficiato dal
primo scontro tra Arabi e Israeliani in concomitanza col quale fu proclamata
l'indipendenza dello Stato d'Israele (1948). Ma proprio il permanere di una
situazione di forte conflittualità tra Paesi arabi e Israele ha determinato nel corso di
successive guerre (1956, 1967, 1973, 1982) un allargamento dei territori israeliani
nella regione e una conseguente loro colonizzazione in particolare in Cisgiordania e
Gaza.
Bibliografia
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Deschamps, La fin des empires coloniaux, Parigi, 1959; W. M. Mac Millan, La via
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Imperialism, Londra, 1965; P. Auphan, Histoire de la décolonisation, Parigi, 1967;
S. Berstein, La décolonisation et ses problèmes, Parigi, 1969; R. Delavignette, Du
bon usage de la décolonisation, Parigi, 1969; C. Giglio, Colonizzazione e
decolonizzazione, Cremona, 1971; G. Vedovato, Decolonizzazione e sviluppo,
Firenze, 1973; G. Calchi Novati, La decolonizzazione, Torino, 1983.
142
Sionismo ( Gedea Multimediale )
Lessico
sm. [sec. XIX; da Sion, una delle alture su cui sorge Gerusalemme]. Moderno
movimento ideologico-politico volto a realizzare la definitiva emancipazione del
popolo ebraico mediante la costituzione di un “focolare nazionale” indipendente
nella patria storica del popolo biblico: la Palestina. Gli antecedenti storici di tale
movimento sono certo molto antichi e andrebbero ricercati nei tempi più lontani
della diaspora* ebraica, o addirittura nel profondo legame politico-religioso che
unisce il popolo mosaico alla terra promessa.
Cenni storici:
Il sionismo dalle origini a T. Herzl. Durante tutti i lunghi secoli della diaspora (ma
la storiografia ebraica non parla di “dispersione”, tefuzah, bensì di galut, che
letteralmente significa esilio) non venne mai meno negli Ebrei un sentimento di
accorata nostalgia per l'antica patria perduta, né la sofferta aspirazione di ritornarvi
un giorno. Furono, anzi, questi due stati d'animo, strettamente legati al sentimento
religioso, alla base del messianismo* ebraico, di tanto in tanto, nei periodi più bui
delle persecuzioni e dei massacri, personificato da alcuni falsi messia che
suscitavano al loro passaggio speranze ed entusiasmi nelle comunità ebraiche
martoriate e prostrate, promettendo la liberazione e un prossimo ritorno in Palestina
(p. es. gli episodi di D. Reubeni, 1524, S. Molcho, 1530, S. Zevi, 1665, J. Frank,
1756). Perché i tempi fossero maturi per la nascita del moderno s. si dovettero
attendere anzitutto gli esiti della Rivoluzione francese, che concedendo la piena
emancipazione giuridica e politica agli Ebrei contribuì a ridare loro il senso del
valore di una pari dignità personale per Ebrei e non Ebrei; in secondo luogo le
involuzioni della Restaurazione*, allorché, ripristinati quasi ovunque i ghetti e le
“interdizioni israelitiche”, gli Ebrei risentirono maggiormente i contraccolpi della
perdita della loro dignità umana da poco conquistata; e, da ultimo, il diffondersi
inarrestabile dei programmi indipendentistico-nazionali degli altri popoli. Ma allora
il s. dovette necessariamente sorgere e svilupparsi come reazione al rinascente
antisemitismo dell'Europa occid. e ai continui pogrom dell'Europaorientale. Da
principio si ebbero dunque così (con scarso successo) i primi parziali tentativi di
colonizzazione della Palestina (fondazione della fattoria modello di M. Montefiore
nel 1856 e della scuola di agricoltura di Mikveh Israel voluta da Ch. Netter nel
1870), mentre con altrettanto scarso seguito Zvi Hirsch Kalischer e M. Hess (Roma e
Gerusalemme, 1862) cominciarono a teorizzare la necessità di creare uno Stato
ebraico in Palestina a rifugio dei connazionali perseguitati. Analogamente, non
molto maggiore successo ebbe anche L. Pinsker con lo scritto Autoemancipazione
(1882). Tuttavia, egli con questo suo opuscolo riuscì in parte a influenzare i
movimenti Choveve Zion (Amanti di Sion, 1881) e Bilu (1882; nome derivante
dall'acrostico del versetto di Isaia II, 5: Beth Jakov Lechù Venelechah, casa di
143
Giacobbe alzati e vieni), che animarono la Aliyah, cioè la prima modesta
immigrazione ebraica in Terra Santa, dove fondarono le colonie di Zikhron Yaakov,
Petach Tikvah e Rishon Le-Zion. Insomma, alla fine del sec. XIX il s. politico
rimaneva un ideale vissuto da piccole minoranze fra stenti incredibili e in modo
precario. Chi ne fece, con instancabile attività e trascinanti doti di propagandista
ispirato, un movimento di ampie dimensioni fu T. Herzl.
Cenni storici: l'opera di T. Herzl
Questi, inizialmente tipico rappresentante dell'ebraismo mitteleuropeo colto e
integrato, sotto lo shock dell'antisemitismo francese esploso in modo virulento in
occasione del processo Dreyfus, si fece banditore di un programma sionista
pubblicando nel 1896 Der Judenstaadt (Lo Stato ebraico), dove sosteneva come
unica soluzione possibile della “questione ebraica” la costituzione di uno Stato
ebraico. Certo, in tale scritto non era ancora stabilita una chiara connessione
necessaria fra Terra d'Israele e Stato ebraico da fondare (alcuni esponenti del mondo
ebraico, infatti, pensarono anche all'Argentina o all'Africa), ma già era compresa da
Herzl la necessità di “organizzare le masse ebraiche” in senso politico nazionale. A
tale scopo, Herzl promosse il I Congresso sionista, tenuto a Basilea il 29 agosto 1897,
cui parteciparono 197 delegati eletti dalle comunità ebraiche di tutto il mondo (70
provenivano dall'Europa orient.) e in seno al quale furono approvati la bandiera e
l'inno nazionale, fondata l'Organizzazione sionista mondiale e votato il Programma
di Basilea, chiaramente impegnato a preparare e favorire l'immigrazione degli Ebrei
in Palestina in vista di un loro “focolare nazionale garantito dal diritto pubblico
internazionale”. Per attuare simili impegni sia sul piano diplomatico sia su quello
economico-finanziario (inizialmente assunti direttamente da Herzl), vennero in
seguito creati appositi organi, quali la Jewish Colonial Trust e il Keren Kayemet LeIsrael (fondo nazionale ebraico), destinati a raccogliere fondi per l'acquisto di terre
in Palestina e sottoposti al controllo annuale del Congresso sionista mondiale, che in
tal modo fungeva da organo supremo dell'ebraismo intero. Ben presto però, in seno a
tale organo, le forti comunità della Russia andarono prendendo sempre più potere.
Lo si vide al VI Congresso (1903) allorché il gruppo dei Sionisti di Sion, in gran parte
provenienti appunto dalla Russia e capeggiati da Ch. Weizmann, respinse l'idea di
Herzl di accettare la proposta inglese di un Circolo nazionale ebraico in Uganda,
riaffermando definitivamente la scelta “palestinese” del movimento. Nacque allora
la scissione dei moderati di I. Zangwill, che diedero vita all'International Jewish
Territorial Organization, favorevole a un insediamento ebraico in America Latina o
in Africa. Frattanto in Russia, mentre infuriavano i pogrom di Kisinev e d'ottobre (a
seguito dello scoppio della I Rivoluzione russa, 1905) il movimento sionista veniva
sempre più diffondendosi sia sotto l'influenza del socialismo umanitario (predicato
nella “religione del lavoro” di A. D. Gordon) sia sotto quelle del s. culturale (A.
Haam, H. N. Bialik) determinando quella II Aliyah (detta anche dei pionieri) che
trasferì in Terra d'Israele i propri ideali di eguaglianza sociale e dignità nazionale,
disseminando la Giudea e la valle del Giordano di villaggi collettivi (kibbutz) o
cooperativi (moshav). In tale modo allo scoppio della I guerra mondiale, nonostante
le crisi politiche interne, il s. poteva già vantare al proprio attivo un forte incremento
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della popolazione ebraica in Palestina, una larga diffusione in essa della lingua e
della cultura ebraica a discapito dei vecchi dialetti del galut (yiddish e ladino) e
un'estesa opera di bonifica agricola.Cenni storici: il sionismo nel periodo delle due
guerre mondialiLa I guerra mondiale fermò le realizzazioni pratiche del s., ma lo
rilanciò sul piano politico internazionale. Durante la guerra, infatti, vennero
organizzati corpi volontari ebraici (il Sion Mule Corps e la Legione Ebraica), che si
batterono a fianco degli Alleati contro l'Impero turco; ma soprattutto, a Londra,
Weizmann (nuovo capo del s. dopo la morte di Herzl) riuscì a convincere gli Inglesi
ad appoggiare le richieste del suo memorandum Programma di reinsediamento
ebraico in Palestina in accordo con le aspirazioni del movimento sionista. Ne
nacque la Dichiarazione Balfour (1917) secondo la quale il governo inglese si diceva
«favorevole all'insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo
ebraico» e si impegnava a fare «ogni sforzo possibile per facilitare la realizzazione di
questo obiettivo». Alla fine della guerra, inserita la Dichiarazione nel trattato di pace
con la Turchia e affidata la Palestina al mandato britannico, per controllare
l'applicazione dei principi della Dichiarazione e intrattenere i rapporti con la
potenza mandataria, venne creata la Jewish Agency (Agenzia Ebraica, A.E.), che
molto spesso dovette scontrarsi con i nuovi indirizzi filoarabi d'Oltremanica. Le
nuove ondate di antisemitismo in Europa orient., prima e dopo l'avvento del
nazismo in Germania, alimentarono correnti di immigrazione ebraica sempre più
numerose (e spesso clandestine) creando gravi problemi organizzativi agli organismi
del s. che già dovevano affrontare anche i primi attacchi arabi (tumulti di Jaffa,
1921; eccidio di Hebron, 1929; tumulti del 1936) tollerati dall'amministrazione
inglese. Per garantire la sicurezza degli insediamenti ebraici, l'A.E. organizzò allora
la formazione di “autodifesa” Haganah, mentre contemporaneamente proseguiva
negli sforzi per risolvere i gravi problemi economici e sociali dei nuovi immigrati
continuando nelle opere di bonifica territoriale, fondando altre comunità agricole e i
primi opifici, creando inoltre una rete di infrastrutture sociali (scuole, ospedali,
servizi pubblici) per una popolazione ormai salita (nel 1939) a 450.000 abitanti, di
cui 145.000 ripartiti in 270 centri rurali. Uscito l'ebraismo dalla tremenda prova del
nazismo, ancora più gravi furono i compiti del movimento sionista alla fine della II
guerra mondiale.Cenni storici: il sionismo dopo la fondazione dello Stato
d'IsraeleRinnovata la richiesta di uno Stato ebraico indipendente (XXII Congresso,
1946), il s. dovette subito affrontare il rifiuto arabo di una spartizione della
Palestina in due Stati (uno arabo e uno ebraico), decisa dall'O.N.U. il 28 novembre
1947, e arrivare con la lotta armata alla proclamazione dello Stato d'Israele il 14
maggio 1948. Ma neppure allora la sua funzione poté dirsi esaurita. Nella sua
tensioneuniversalistica di liberazione ebraica doveva rendere possibile
l'immigrazione di ogni ebreo in Israele (“legge del ritorno”, 1950) e soprattutto
organizzare l'inserimento nella vita dello Stato della nuova corrente migratoria
proveniente dagli Stati arabi (Yemen, Iraq, Marocco, ecc.): i nuovi arrivati, che nel
giro di 5 anni raddoppiarono la popolazione iniziale di Israele, provenivano da
Paesi dove avevano sempre vissuto in condizioni di inferiorità morale nello squallore
dei mellah e al di fuori di ogni contatto con gli sviluppi del mondo moderno e della
civiltà occidentale. La convivenza di questi Ebrei “orientali” con i più istruiti ed
evoluti Ebrei europei poteva sfociare in conflitti sociali non sempre evitabili e di
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enorme pericolosità in una situazione di accerchiamento bellico e di isolamento
internazionale dello Stato. Il s., nei suoi organismi esterni e nazionali, è oggi
caratterizzato da una straordinaria vivacità e pluralità di voci, espressione di varie
tendenze politiche (religiose o laiche, liberali, socialiste e comuniste, ecc.) molto
spesso anche complicate dallo scottante problema dei rapporti con gli Arabi e dalle
rivendicazione dei Palestinesi a costituire una propria entità statale. Proprio la
questione dei territori occupati ha radicalizzato alcune posizioni in seno al sionismo.
Ne è riprova la nascita (1974) del Gush emunim (blocco dei fedeli), un gruppo
sionista oltranzista, contrario alla restituzione del Sinai all'Egitto (1982) e
decisamente schierato a difesa dei coloni dei “territori” organizzandone, anzi,
l'aumento. Assertore dell'annessione dei territori occupati, durante il governo del
Likud il Gush emunim ha esercitato una larga influenza negli ambienti conservatori
e di stretta osservanza religiosa. La vittoria elettorale dei laburisti nel 1992 ha fatto
risalire le quotazioni del s. di sinistra, propugnatore di una concreta trattativa con
gli Arabi e i Palestinesi sfociata poi nella firma dell'Accordo di Washington (13
settembre 1993) tra Israele e O.L.P. Contro il s. (inteso come elemento di
discriminazione razziale e quindi negatore di qualsiasi integrazione con il
circostante mondo arabo) si era pronunciato l'O.N.U. nel 1975, con una controversa
risoluzione poi revocata nel 1991. Per gli stessi motivi Israele era stato estromesso
dall'U.N.E.S.C.O. nel 1975.
Bibliografia
C. Roth, Storia del popolo ebraico, Milano, 1962; E. Levyne, Judaïsme contre
sionisme, Parigi, 1969; N. Weinstock, Storia del Sionismo, Roma, 1970; L. Poliakov,
Dall'antisionismo all'antisemitismo, Firenze, 1971; Autori Vari, Zionism,
Gerusalemme, 1973; R. J. Zwi Werblowsky, Le Sionisme, Israël et les Palestiniens,
Gerusalemme, 1976; M. Buber, Sion, storia di un'idea, Genova, 1987.
146
La Palestina era una terra araba. Il diritto arabo alla Palestina riposa su tre distinti
motivi:
• il diritto naturale del popolo a rimanere in possesso della terra del suo diritto
di primogenita;
• gli arabi palestinesi vi hanno vissuto per più di 1300 anni
• essi sono tuttora i legittimi proprietari della maggior parte delle dimore e dei
campi, nei quali gli israeliani attualmente vivono e lavorano.
Quarant’anni fa la Palestina era un paese arabo nella stessa misura di altre parti del
mondo arabo. Essa aveva un popolazione di circa 700.000 abitanti, dei quali
674.000 erano Arabi musulmani e cristiani e 56.000 erano ebrei, che vivevano col
resto degli abitanti del paese in pace e armonia e godevano di uguali diritti e
privilegi. Questi ebrei possedevano circa il 2% della superficie totale.
Oggi il 77% del territorio della Palestina è occupato dagli israeliani. Invece dei
56.000 "arabi di religione giudaica" ci sono 2.000.000 di ebrei stranieri introdotti nel
paese da tutte le parti del mondo. Gli arabi musulmani e cristiani, che nel 1948
costituivano il 67% della popolazione totale, sono ridotti soltanto al 10%. Il resto è
stato espulso e spogliato ed ora circa un milione di essi sono in campi per profughi e
vivono dell’elemosina delle Nazioni Unite. Il 2% delle proprietà terriere ebraiche è
salito al 77% non con mezzi legittimi e pacifici, ma con la forza delle armi e la
confisca.
Gli arabi sono decisi a respingere qualsiasi sistemazione, che non riconosca il loro
pieno diritto alle loro dimore e alla loro patria.
147
La terra d’Israele fu la culla del popolo ebraico. Qui esso conquistò l’indipendenza e
creò una civiltà di significato nazionale ed universale. Qui scrisse e dette la Bibbia al
mondo.
Esiliato dalla Palestina, il popolo giudaico rimase ad essa fedele in tutti i paesi della
sua dispersione, non cessando mai di pregare e sperare per il ritorno e per la propria
libertà nazionale. Spinti da questa speranza gli ebrei, lungo tutti i secoli, si
sforzarono di tornare alla terra dei loro padri e di recuperare la dignità di stato. In
decenni recenti sono ritornati in massa, hanno bonificato il deserto, fatto rivivere la
loro lingua, costruito città e villaggi e stabilito una comunità vigorosa ed in continua
espansione, con una propria vita economica e culturale. Cercando la pace, erano
comunque preparati a difendersi. Recarono la benedizione del progresso a tutti gli
abitanti del paese.
Dopo che numerosi congressi internazionali riconobbero lo storico legame del
popolo ebraico con la Palestina e dopo che la persecuzione nazista inghiottì milioni
di ebrei in Europa, risultò ancora più chiara l’urgenza della costituzione di uno
stato ebraico, capace di risolvere il problema della mancanza di patria per gli ebrei,
aprendo le porte a tutti gli ebrei ed innalzando il popolo ebraico al livello degli altri
popoli nella famiglia delle nazioni.
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato una decisione a
favore della fondazione di uno stato ebraico indipendente in Palestina ed invitati gli
abitanti del paese a prendere le misure richieste da parte loro per attuare il piano.
Questo riconoscimento da parte delle Nazioni Unite, del diritto al popolo ebraico di
stabilire un proprio stato indipendente, non può essere annullato dalla
proclamazione dell’indipendenza israeliana (1948).
C. Cartiglia, Storia, vol III . Il Novecento, tomo 1 (La politica) Loescher, Torino, 1997
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