LA TRASPARENZA DELL`ATTO AMMINISTRATIVO 1. La disciplina

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LA TRASPARENZA DELL`ATTO AMMINISTRATIVO 1. La disciplina
LA TRASPARENZA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
1. La disciplina del procedimento prima della Legge 241/90
Nel nostro ordinamento la Pubblica Amministrazione non agisce ponendosi sullo
stesso piano dei soggetti privati, al contrario di altri ordinamenti come quello
anglosassone, ma fa ricorso (anche) a strumenti autoritativi. Questa circostanza ha
determinato, fin dai primi anni successivi all’unificazione del paese, la necessità di
creare meccanismi atti a garantire il cittadino di fronte all’uso di questo potere
amministrativo. Un potere (pubblico o privato che sia) in tanto può essere
assoggettato a controllo in quanto venga “procedimentalizzato”, venga cioè
sottoposto a regole precise nel suo esercizio il cui rispetto diventi condizione di
legittimità. Ma prima dell’emanazione della Legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel
testo: legge 241), vale a dire per oltre un secolo dall’unificazione italiana, non
esisteva nel nostro ordinamento una normativa generale sul procedimento
amministrativo, anche se la legge 25 giugno 1865, n. 2359, in materia di
espropriazione previde la necessità di una concatenazione di atti affinché un bene
appartenente ad un privato passasse coattivamente nelle mani di una Pubblica
Amministrazione. In questa concatenazione erano previsti diversi passaggi
amministrativi, quali ad esempio le comunicazioni, che consistevano in attività
preparatorie rispetto all’effetto ablativo finale ed erano privi dei caratteri tipici del
provvedimento, vale a dire l’autoritarietà (capacità di intervenire in una sfera
soggettiva altrui anche in assenza di consenso del destinatario) e l’efficacia
(creazione di un effetto permanente in conseguenza dell’emanazione del
provvedimento). Questa normativa era posta a tutela di un interesse legittimo
“oppositivo”, caratterizzato dal fatto che un soggetto privato (nel nostro caso il
proprietario del fondo da espropriare) si oppone a che l’Amministrazione lo privi
di un suo bene. L’espropriazione venne sottoposta a vincoli procedurali, all’interno
di uno schema garantistico per il destinatario, a causa della rilevanza che,
all’epoca, assumeva il diritto di proprietà.
Il successivo emergere dell’interesse pretensivo, caratterizzato dalla pretesa del
privato a che l’Amministrazione ampli la sua posizione giuridica con una
concessione, un beneficio economico ecc., portò alla formazione delle basi per la
disciplina complessiva del procedimento amministrativo. Avendo l’interesse
legittimo perduto il carattere esclusivo di opposizione al potere di supremazia della
Pubblica Amministrazione, la subordinazione del privato a quest’ultima venne ad
attenuarsi, con la conseguenza che la partecipazione allo svolgersi del
procedimento amministrativo cominciò ad essere richiesta non più, soltanto,
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nell’evitare la perdita di un bene, ma per vedere realizzato un certo assetto
complessivo di interessi ad opera dell’azione amministrativa. In questo senso,
l’emanazione della Legge 241 non è solo l’esito di una evoluzione ordinamentale o
dell’applicazione piena delle norme costituzionali, ma sancisce soprattutto un
mutamento della figura dell’interesse legittimo, da posizione oppositiva a
posizione pretensiva verso la Pubblica Amministrazione.
L’evoluzione fu lenta, ed in una prima fase si cominciò a distinguere tra le diverse
fasi in cui si svolge l’attività amministrativa procedimentale, alcune delle quali si
concludono con provvedimenti impugnabili, altre con atti non (ancora)
impugnabili. Da qui la distinzione tra atti endoprocedimentali, che non sono
impugnabili autonomamente poiché non determinano una lesione a posizioni
giuridiche del privato, ed atti finali che invece sono impugnabili. E’ il caso di un
provvedimento la cui emanazione interessa al privato e deve essere preceduta
obbligatoriamente dall’acquisizione di un parere non vincolante: se questo è
negativo, non può essere immediatamente impugnato dal privato interessato poiché
l’Amministrazione se ne può discostare (ma ne deve dare adeguata motivazione)
ed emanare egualmente il provvedimento finale. Se, viceversa, l’emanazione di
questo viene rifiutata proprio in riferimento al parere negativo, quest’ultimo potrà
essere impugnato congiuntamente al diniego. La situazione cambia se il parere
negativo, oltre che obbligatorio, è anche vincolante per l’Amministrazione: in
questo caso il privato deve impugnarlo non appena ne ha conoscenza, poiché la sua
emanazione produce immediatamente una lesione, non potendo l’Amministrazione
discostarsene.
Tornando all’evoluzione nella disciplina del procedimento amministrativo, in una
seconda fase emerse la necessità di assicurare l’imparzialità non solo del
provvedimento finale, ma anche nella fase procedimentale, il cui corretto esplicarsi
iniziò ad essere considerato come condizione di legittimità del primo. Si cominciò
ad affermare il diritto al giusto procedimento nella stessa giurisprudenza della
Corte Costituzionale, inteso nel duplice senso che da un lato, il procedimento non
deve essere complicato o farraginoso; dall’altro, deve rispettare canoni di
imparzialità. Questa è l’ultima fase in cui i principi in materia di procedimento
nacquero dalla giurisprudenza; d’ora in poi sarà la normativa ad individuarli.
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Prima di analizzare i principi del procedimento posti dalla Legge 241 dobbiamo
ricordare che la Pubblica Amministrazione, nel corso degli anni novanta, ha subito
numerose trasformazioni organizzative la cui sostanza si può riassumere nel
passaggio da una amministrazione “per atti” ad una “amministrazione per
obiettivi”. All’operatore pubblico non si chiede più la confezione di un
provvedimento perfetto: la perfezione e la completezza dell’atto diventano
importanti in tanto in quanto sono strumenti per raggiungere i risultati che il potere
politico ha indicato all’Amministrazione stessa. L’attenzione viene quindi
concentrata sull’intero svolgersi dell’azione amministrativa ed in particolare, sulla
concatenazione degli atti il cui “sommarsi” porta ad un certo risultato, cioè sul
procedimento. Visto dal lato dell’Amministrazione, ciò comporta una maggiore
attenzione al momento organizzativo, per rendere più celere ed efficiente l’azione
amministrativa eliminando duplicazioni procedimentali e passaggi inutili di carte.
Vista dal lato del soggetto privato, questo comporta una pretesa di tutela non solo e
non tanto in relazione al singolo provvedimento, ma con riguardo all’intero
svolgersi dell’azione amministrativa in ordine a un determinato affare. Si reclama
che i principi di legalità, imparzialità e buon andamento devono informare tutti i
passaggi in cui si articola l’operato degli enti pubblici. Da qui la concezione della
trasparenza amministrativa come “controllabilità di tutte le fasi in cui si articola
l’operato della Pubblica Amministrazione” e che, fino all’emanazione della Legge
241, trovava riconoscimento solamente a livello programmatico nella Legge
quadro sul pubblico impiego n. 93/1983 (ora abrogata). E’ discusso il fondamento
costituzionale di tale principio: secondo alcuni, sarebbe da ricollegare ai principi di
imparzialità e buon andamento; altri affermano invece che abbia fondamento solo
nella legge ordinaria.
Nella lezione odierna vedremo come il legislatore abbia cercato di dare risposta a
questa esigenza da un lato, emanando una disciplina compiuta del procedimento
amministrativo; dall’altro, imponendo di motivare tutti i provvedimenti. Si tratta di
due facce della trasparenza amministrativa. Grazie all’intervento degli interessati
nel procedimento, l’organo pubblico può meglio comparare e valutare tutti gli
interessi in gioco e giungere, con il provvedimento finale, ad un assetto di questi
che sia non solo rispettoso delle norme vigenti, ma anche il più conforme possibile
a tutte le esigenze pubbliche e private in gioco. L’obbligo di motivazione, poi,
costringe le Amministrazioni a rendere conto in modo preciso delle proprie scelte,
in modo tale che tutti gli interessati possano assumere le decisioni più opportune
di fronte ai provvedimenti che li riguardano.
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Un ulteriore pilastro della trasparenza amministrativa è infine costituito dal diritto
di accesso alla documentazione amministrativa. Uno dei problemi più evidenziati
nel passato era infatti costituito dalla difficoltà (o, addirittura, impossibilità) di
conoscere tutte “le carte” di una pratica amministrativa il cui esame precedeva
l’adozione delle decisioni in merito. Questo è venuto meno quando il legislatore ha
garantito il diritto di accesso alla documentazione amministrativa, istituto che
costituisce condizione indispensabile per garantire la trasparenza.
Nella lezione odierna vedremo anche le numerose modificazioni subite dalla Legge
241 ad opera sia della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (nel testo: “legge 15”) i cui
effetti incidono principalmente nel rapporto tra accesso e riservatezza, nonché dal
d.l. 14 marzo 2005, n. 35 convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80 (cd. “decreto
sulla competitività”, nel testo “d.l. 35”).
2. La disciplina del procedimento amministrativo posta dalla legge 241
2.a Definizione di procedimento amministrativo
La dottrina tradizionale definisce il procedimento amministrativo come “una
pluralità di atti, eterogenei tra loro, ma preordinati al raggiungimento di uno stesso
fine costituito dal provvedimento finale del procedimento stesso”. Si tratta di una
concezione del procedimento legata all’amministrare (appunto) per atti, che risente
l’influenza dei più tradizionali modelli organizzativi degli enti pubblici.
La dottrina più moderna identifica invece il procedimento come il luogo in cui
l’Amministrazione acquisisce tutti gli interessi (pubblici e privati) coinvolti in una
determinata pratica, e ne effettua la ponderazione con l’interesse pubblico primario
che essa persegue.
Si distinguono procedimenti attivati per iniziativa della stessa amministrazione
(d’ufficio) o su iniziativa di soggetti esterni (a istanza di parte). Va ricordato che in
alcuni casi il procedimento può mancare, come per l’emanazione delle ordinanze
di urgenza.
2.b I principi generali del procedimento amministrativo
Il procedimento è espressione di attività amministrativa, consistente nella cura
concreta degli interessi pubblici identificati ed assunti dagli organi di indirizzo
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politico. Le sue regole sono state prima individuate dalla giurisprudenza e poi
sistematizzate dall’art. 1 della Legge 241. Esaminiamole in dettaglio
Nominatività e tipicità. Tradizionalmente venivano intesi come numero chiuso dei
provvedimenti. E’ una tesi criticata, perché ciò cui attiene la tipicità non è il tipo di
provvedimento ma la funzione esercitata con esso. Il provvedimento, cioè, deve
essere conforme e coerente con la funzione pubblica in concreto esercitata. Questo
non deve però essere inteso come un vincolo assoluto per l’Amministrazione, ma
come necessità di adottare quei procedimenti (e quei provvedimenti) adeguati alla
potestà pubblica che viene in gioco. Così, nel caso dell’impiego pubblico non
privatizzato, non si può adottare un provvedimento di trasferimento coattivo al
posto del provvedimento disciplinare per punire un dipendente.
In applicazione di questi principi è ammissibile l’apposizione di clausole
accessorie, termini o condizioni, purché siano in linea con il potere esercitato.
Per gli atti di controllo è ammissibile la condizione, intesa come momento da cui
decorrono gli atti controllati. L’atto diventa così un atto di controllo positivo
condizionato. La giurisprudenza li considera validi solo se le condizioni consistono
in comportamenti e non in condizioni di fatto.
Articolazione del procedimento: significa suddivisione in fasi diverse dello stesso
procedimento (subprocedimenti). Un esempio è costituito dall’espressione di un
parere: si tratta di un subprocedimento rispetto ad un altro procedimento
principale, nel corso del quale il parere stesso viene richiesto. Tale principio
implica la diluizione del potere, vale a dire un minor impatto del provvedimento
finale che si svuota parzialmente del proprio contenuto. Pensiamo al decreto di
esproprio, che ha un contenuto discrezionale limitato perché viene preceduto
dall’emanazione dagli altri atti del procedimento di espropriazione. Ciò comporta
per l’Amministrazione, la diluizione dell’onere di motivazione poiché questa in
parte viene riferita agli atti precedenti, e per il privato, l’onere di impugnare
immediatamente gli atti terminali dei vari subprocedimenti che siano
immediatamente lesivi.
Inoltre va ricordato che tutti i procedimenti di secondo grado devono seguire il
principio del contrarius actus, devono cioè essere emanati con lo stesso
procedimento adottato per quello su cui intervengono.
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Impegnatività per cui ogni procedimento deve giungere al termine, e
partecipazione. La legge 241 ha cristallizzato in legge principi che erano stati
individuati in sede processuale, il cui mancato rispetto ora costituisce violazione di
legge (onere della motivazione, principio dell’impegnatività, principi
dell’istruttoria). Ha aggiunto i principi dell’onere di comunicazione dell’inizio del
procedimento e l’istituto della partecipazione, con il quale il bilanciamento degli
interessi in gioco viene anticipato dalla fase contenziosa a quella procedimentale,
offrendo agli interessati la possibilità di presentare fin da subito le proprie
osservazioni. In questo modo è nata una nuova categoria di interesse legittimo,
l’interesse “partecipativo” che è indipendente dalla lesione di beni giuridici
specifici. Esso si sostanzia, infatti, nella pretesa a partecipare al procedimento e
consiste in un’utilità strumentale per il privato, vale a dire nella possibilità di
influire sull’azione delle Amministrazioni in vista del conseguimento di un
determinato assetto degli interessi in gioco. La violazione dell’interesse
partecipativo determina l’illegittimità del provvedimento finale e può anche
influire sul risarcimento dei danni, laddove il privato riesca a dimostrare che il
contenuto dell’atto finale sarebbe stato diverso se avesse potuto presentare proprie
memorie o documenti. I poteri dei titolari dell’interesse partecipativo sono stabiliti
dall’art. 7 della Legge 241, che vedremo tra breve.
Principio di legalità, per cui l’Amministrazione deve agire nel rispetto non solo dei
limiti esterni di liceità previsti per qualunque soggetto giuridico, ma anche dei
limiti interni che le impongono di rivolgere la propria azione unicamente alla tutela
dell’interesse pubblico (art. 1, comma 1, legge 241: “L’attività amministrativa
persegue i fini determinati dalla legge”).
Principio di economicità che impone l’uso ottimale delle risorse a disposizione
delle amministrazioni al fine di evitare sprechi.
Principio di efficacia che impone il raggiungimento, per quanto possibile, di tutti
gli obiettivi posti dal potere politico all’azione amministrativa. Rientra in questo
ambito il principio di “speditezza”, per cui l’azione amministrativa deve procedere
senza interruzioni inutili, non giustificate da ragioni di interesse pubblico.
Principi di pubblicità e trasparenza che impongono la facile controllabilità di tutti i
momenti in cui si articola l’azione amministrativa. Espressione di questi principi
sono l’obbligo di rendere noti i termini di conclusione dei procedimenti, di
comunicarne l’avvio e di consentire la partecipazione ad essi, nonché quello di
consentire agli interessati l’accesso ai documenti amministrativi.
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Divieto di aggravare il procedimento che vieta alle amministrazioni di imporre ai
soggetti privati oneri o obblighi che non siano previsti dalle norme di disciplina del
singolo procedimento, o non siano effettivamente necessari, nel caso concreto per
“esigenze straordinarie”, delle quali l’amministrazione procedente dovrà dare
conto all’interno della motivazione del provvedimento, a pena di illegittimità del
medesimo.
Principi dell’ordinamento comunitario: la nuova legge sul procedimento, legge 11
febbraio 2005, n. 15 (nel testo: “legge 15”), ha introdotto l’obbligo di rispettare
anche questi principi, per rendere sempre più stretta l’integrazione tra ordinamento
nazionale ed europeo. Tra i principi del diritto comunitario riveste particolare
importanza quello di proporzionalità dell’azione amministrativa, che impone di
misurare i poteri pubblici da esercitare nel caso concreto in relazione agli obiettivi
da raggiungere, senza imporre ai privati obblighi od oneri eccessivi. Altro principio
importante è quello del legittimo affidamento, in base al quale ove
l’Amministrazione Pubblica abbia creato una posizione di vantaggio a favore di un
soggetto privato, non potrà privarlo di tale posizione senza dare conto dei motivi
di pubblico interesse connessi.
Divieto di utilizzare poteri pubblici per adottare atti non autoritativi (art. 1, comma
1 bis): anche questo principio è stato posto dalla legge 15, ed inverte il tradizionale
principio per cui le Amministrazioni agiscono con norme di diritto pubblico salvo
che sia disposto diversamente dalla legge. Questo nuovo principio impone loro di
limitare l’uso dei poteri pubblici ai soli casi in cui esistono interessi pubblici da
tutelare, che giustificano l’utilizzo di poteri, appunto, pubblici. Ove invece
l’Amministrazione agisca per tutelare interessi propri, e non della collettività, deve
porsi sullo stesso piano dei soggetti privati. Così, per esempio, se è stato locato uno
stabile (non demaniale) dell’Amministrazione con un normale contratto di diritto
privato, a fini di lucro e non per scopi pubblicistici, lo sfratto dovrà essere intimato
con le procedure del diritto privato, senza ricorrere a procedure di diritto pubblico.
Non solo: le Amministrazioni dovranno evitare di utilizzare le potestà
pubbliche nei casi in cui sia egualmente possibile raggiungere gli obiettivi di
interesse collettivo mediante il ricorso a strumenti di diritto civile. Così, ad
esempio, sarà da preferire l’affitto alla requisizione, o la compravendita
all’espropriazione.
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Uso degli strumenti telematici: l’art. 3 bis, a fini di speditezza, impone alle
Amministrazioni di incentivare l’utilizzo di strumenti telematici sia nei rapporti
interni, che in quelli esterni, anche con soggetti privati. Pertanto è necessario
utilizzare il più possibile le e-mails al posto del fax e delle ormai obsolete
raccomandate con avviso di ricevimento. Questi principi hanno trovato
applicazione concreta con l'emanazione del Codice dell'amministrazione digitale, il
quale ha tra l'altro sancito il diritto dei cittadini e delle imprese all'uso delle
tecnologie informatiche nei rapporti con le pubbliche amministrazioni, in
particolare per quanto attiene all'intervento nel procedimento, ed il principio di
interscambiabilità dei dati tra gli enti pubblici1.
Le amministrazioni sono inoltre obbligate, ai sensi dell’art. 12 della Legge 241, a
predeterminare i criteri per decidere su richieste di sovvenzioni, contributi, sussidi,
ausili finanziari ed in generale di qualsiasi vantaggio economico a persone sia
fisiche che giuridiche, pubbliche e private. La violazione dei criteri determina
l’invalidità del provvedimento per violazione di legge.
2.c Obbligo di conclusione del procedimento (art. 2, Legge 241)
Le Amministrazioni devono concludere i procedimenti in un termine
preventivamente determinato; se esse non lo individuano, il termine è stabilito per
legge in novanta giorni, e decorre dall’inizio di ufficio del procedimento; nei
procedimenti a istanza di parte, decorre invece dal ricevimento della domanda da
parte dell’Amministrazione. Il decorso dei termini è sospeso, per un periodo non
superiore a novanta giorni, se per la conclusione del procedimento é necessario
acquisire valutazioni tecniche; può essere sospeso (ed in questo caso occorre
quindi una determinazione del responsabile del procedimento) laddove sia
necessario acquisire informazioni o certificazioni che non sono possedute né
dall’amministrazione procedente, né da altre amministrazioni.
La riforma dell’art. 2 della legge 241 operata dal d.l. 35 ha previsto che i termini
di conclusione dei procedimenti debbano essere stabiliti secondo due parametri, la
natura degli interessi pubblici tutelati e la situazione organizzativa degli uffici.
Quanto più importanti sono i primi, e quanto più difficile la seconda, tanto più
lunghi dovranno essere i termini per l’emanazione dei provvedimenti finali. Ne
segue che gli atti con i quali detti termini saranno modulati dovranno dare conto
1
Il codice è stato emanato con il d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successivamente modificato con il d. lgs. 4 aprile
2006, n. 159. Il testo coordinato è pubblicato nel Supp. Ord. G.U. 199 del 29 aprile 2006.
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del rispetto di tali parametri e, pertanto, sia pure entro tali limiti, dovranno essere
motivati.
Spunti di riflessione: il comma 2, primo periodo,
dell’art. 2 della legge 241 sancisce la natura
regolamentare degli atti con i quali le amministrazioni
devono individuare i termini per la conclusione dei
loro
procedimenti.
Ma
il
regolamento
è
un
provvedimento a motivo libero (art. 3, comma 2, legge
241), mentre, come visto sopra, tali atti devono
essere, sia pure sommariamente, motivati in riferimento
alla natura degli interessi pubblici tutelati ed alla
situazione organizzativa degli uffici. Possiamo quindi
ancora dire che gli atti con i quali le amministrazioni
devono individuare i termini per la conclusione dei
loro procedimenti hanno natura di “regolamenti”?
Per i procedimenti i cui termini di conclusione non siano stabiliti espressamente
vale il termine legislativamente indicato di novanta giorni (art. 2, comma 3, legge
241 come modificato dal d.l. 35)
L’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso viene
meno a fronte di richieste sulle quali l’Amministrazione si sia già espressa con una
decisione non impugnata, o a fronte di richieste manifestamente assurde,
totalmente infondate o illegali2.
La legge 15 prima, e successivamente il d.l. 35, hanno profondamente modificato
l’istituto dell’autorizzazione tacita o “silenzio assenso”. Con questa espressione si
indica la fattispecie nella quale l’inutile decorso del termine previsto per la
conclusione del procedimento, sia quello previsto legislativamente che quello
diverso determinato dalle singole Amministrazioni, comporta l’accoglimento
dell’istanza presentata dall’interessato. Il d.l. 35 ha infatti modificato l’art. 20 della
legge 241 generalizzando l’istituto: pertanto, il silenzio dell’amministrazione su
un’istanza equivale ad accoglimento della stessa, senza necessità per il privato di
presentare ulteriori domande o diffide. Le amministrazioni possono evitare il
formarsi del silenzio assenso solo comunicando, nei termini, il provvedimento di
diniego (preceduta dal preavviso di diniego ex art. 10 bis legge 241), oppure
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C.d.S. sez. IV, 11.6.2002 n. 3256 in Giust.it n. 6/02.
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convocando una conferenza di servizi entro trenta giorni dalla presentazione
dell’istanza.
Anche dopo la formazione del silenzio assenso, l’Amministrazione rimane titolare
del potere di autotutela e potrà quindi annullare o revocare i silenzi così formatisi.
Fanno eccezione alla regola del silenzio assenso i procedimenti indicati dal comma
4 dell’art. 20, legge 241, nei quali sussiste una connessione ad interessi pubblici
particolarmente rilevanti quali la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico,
l’ambiente, la difesa nazionale ecc., nonché i casi di silenzio rigetto e le fattispecie
per le quali la normativa comunitaria richiede un provvedimento finale espresso.
Con disposizione di chiusura, la stessa norma prevede che il Presidente del
Consiglio dei Ministri possa individuare (deve ritenersi solo per amministrazioni
statali od enti pubblici nazionali), con proprio decreto, altri atti e procedimenti per i
quali è esclusa l’applicazione del silenzio assenso.
Spunti di riflessione: si può ritenere che alle
amministrazioni locali spetti un analogo potere, di
individuare, con gli strumenti previsti dai rispettivi
ordinamenti, altri atti e procedimenti per i quali è
esclusa l’applicazione del silenzio assenso?
Per i procedimenti esclusi dall’applicazione del silenzio assenso vale la regola di
cui all’art. 2, comma 5, legge 241, introdotta dalla legge 15, in base alla quale
l’azione per fare constare il silenzio inadempimento dell’amministrazione, ex art.
21-bis della L. n. 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposta senza alcuna
previa diffida dopo l’inutile decorso dei termini di conclusione del procedimento.
Per ovviare ai rischi che il privato possa, incolpevolmente, farsi sfuggire il breve
termine decadenziale di sessanta giorni, per la proposizione dell’azione in esame è
previsto il più lungo termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione
del procedimento. Il ricorso può essere proposto “fin tanto che perdura
l’inadempimento” dell’Amministrazione procedente: se ne deduce che, trascorso il
termine di conclusione del procedimento, essa può comunque provvedere
tardivamente, senza che l’inutile decorso del termine cagioni alcuna decadenza.
Inoltre il procedimento può concludersi anche con accordi tra amministrazione ed
interessati. Esistono due tipi di accordo: procedimentale, con il quale
l’Amministrazione si impegna a formare un certo contenuto del provvedimento
finale, e sostitutivo, che invece sostituisce il provvedimento finale. Il responsabile
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del procedimento può predisporre un calendario di incontri con gli interessati per
arrivare alla conclusione degli accordi. In tal modo viene superato il concetto
dell’unicità del provvedimento finale come fonte lesiva per il privato, poiché la
fase preparatoria condiziona l’atto finale e l’esito del procedimento può essere un
atto diverso dal provvedimento. Non è ammessa la conclusione di accordi
nell’ambito di procedimenti volti ad emanare provvedimenti finali con contenuto
normativo, generale, pianificatorio o programmatorio, né per procedimenti
tributari.
2.d Il Responsabile del procedimento (artt. 4, 5, 6, 7, 8 Legge 241)
La Legge 241 stabilisce che ogni procedimento venga assegnato ad una specifica
“unità organizzativa”, in modo che il cittadino abbia sempre un interlocutore
identificabile. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa deve assegnare a sé o ad
altro dipendente addetto all’unità stessa la responsabilità del procedimento; se non
lo fa, è considerato egli stesso responsabile di procedimento. Non è indispensabile
che il responsabile sia competente anche all’adozione del provvedimento finale: vi
sono infatti casi in cui questo è di competenza di organi politici, come avviene per
i provvedimenti programmatori o di indirizzo, (piano regolatore, criteri per la
concessione di benefici economici, ecc.) ed in tal caso l’unità organizzativa
(dirigente o altro addetto) svolgerà solo l’istruttoria; in altri casi, il dirigente
dell’unità organizzativa potrà riservarsi l’adozione del provvedimento finale ed
assegnare l’istruttoria ad un dipendente. La legge 15 ha modificato la lett. e)
dell’art. 6 della Legge 241, prevedendo che se l’organo competente ad adottare il
provvedimento finale intende discostarsi dalla proposta formulata dal responsabile
del procedimento, deve indicarne la motivazione.
Il nome dell’unità organizzativa competente e del responsabile del procedimento
devono essere comunicati d’ufficio ai soggetti che possono intervenire nel
procedimento e, a richiesta, agli altri soggetti che ne abbiano interesse. I compiti
del responsabile del procedimento sono:
1) verificare se sussistono le condizioni per iniziare il procedimento (esistenza
della legittimazione del richiedente e dei presupposti per l’avvio del
procedimento).
2) Comunicare l’inizio del procedimento, ai sensi degli artt. 7 ed 8, ai soggetti
destinatari del provvedimento, a quelli che per legge debbono intervenirvi e a tutti
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gli altri soggetti, individuati o facilmente individuabili, nei cui confronti il
provvedimento inciderà. La comunicazione può essere omessa unicamente se vi
sono ragioni, straordinarie, di celerità che devono comunque essere motivate.
L’amministrazione può adottare, anche prima di inviare le comunicazioni di avvio
del procedimento, i provvedimenti cautelari che si rendessero necessari. La
comunicazione deve essere “personale”, e solo quando siano troppo numerosi i
suoi destinatari può essere effettuata con forme di pubblicità diverse. Deve
contenere i seguenti elementi:
a) nome e sede dell’ente competente,
b) oggetto del procedimento,
c) indicazione dell’unità organizzativa e della persona responsabile del
procedimento e dell’ufficio ove possono essere visionati gli atti dello stesso.
d) la data entro il quale il procedimento deve terminare e l’indicazione dei rimedi
in caso di inerzia dell’Amministrazione;
e) la data di presentazione dell’istanza;
f) in base all'art. 41, comma 2, del Codice dell'amministrativa digitale, le modalità
con cui effettuare l’intervento procedimentale con strumenti telematici.
Oltre che in caso di urgenza, la comunicazione di avvio del procedimento può
essere evitata se questo è stato attivato su iniziativa dell’interessato, o quando
questi abbia comunque avuto notizia del suo inizio ed è quindi in grado di
presentare le proprie osservazioni (la prova incombe sull’Amministrazione).
Pensiamo al caso in cui il privato abbia presentato osservazioni ancor prima
dell’inizio del procedimento, o a quello in cui lo scopo della comunicazione sia
stato comunque raggiunto perché è già avvenuto uno scambio di scritti. La
giurisprudenza afferma che la consegna del verbale di accertamento dell'infrazione
equivale a comunicazione di avvio del procedimento per l'irrogazione della relativa
sanzione amministrativa.
La giurisprudenza si è interrogata se l’Amministrazione sia obbligata a comunicare
l’avvio dei procedimenti destinati a concludersi con un provvedimento vincolato.
A fronte di un orientamento che afferma tale obbligo, un’altra dottrina sostiene che
la comunicazione non é necessaria qualora la partecipazione dell’interessato non
possa in alcun modo influire sull’esito finale del procedimento. Una dottrina
estende questo concetto fino a sostenere che la mancata comunicazione non deve
essere causa di illegittimità del provvedimento in tutti i casi in cui la partecipazione
del privato non sarebbe stata, comunque, idonea ad influire sul contenuto del
provvedimento finale poiché, se le norme in materia di partecipazione tutelano
l’interesse (non formale al mero intervento ma) sostanziale a che sia definito
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dall’Amministrazione un certo assetto degli interessi in gioco, annullare il
provvedimento nel caso suddetto per la mancata comunicazione di inizio
procedimento significherebbe imporre un onere del tutto inutile in capo alle
Amministrazioni, che si vedrebbero costrette a ricominciare il procedimento per
giungere ad un assetto identico degli interessi coinvolti.
Questa dottrina è stata fatta propria dalla legge 15, la quale ha stabilito che la
mancata comunicazione di avvio del procedimento non costituisce causa di
invalidità del provvedimento finale, se il suo contenuto non avrebbe potuto essere
diverso, anche in caso di atti non vincolati. La prova spetta all’Amministrazione.
L’obbligo della comunicazione non sussiste per l’inizio di procedimenti volti ad
emanare provvedimenti finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o
programmatorio, né per i procedimenti tributari.
L’erronea indicazione del responsabile del procedimento genera solo responsabilità
disciplinare, ma non incide sulla validità del provvedimento finale.
La legge 15 ha inserito l’art. 10 bis nella Legge 241, in base al quale l’organo
procedente, prima di adottare un atto di diniego, deve comunicare al richiedente i
motivi che impediscono l’accoglimento della domanda. Il compito spetta al
responsabile del procedimento o, se diverso, all’organo competente per l’adozione
del provvedimento finale. Entro i successivi dieci giorni gli interessati possono
presentare le proprie osservazioni, delle quali la motivazione del provvedimento
finale dovrà dare conto. La comunicazione del preavviso di diniego sospende3 i
termini per la conclusione del procedimento, che riprendono a decorrere dalla data
in cui le osservazioni vengono presentate o, in mancanza, dopo il periodo di
sospensione di dieci giorni. L’omissione del preavviso rende illegittimo il
successivo diniego. In questo modo si anticipa sempre più il contraddittorio
processuale alla fase procedimentale, in qualche modo delimitando la futura
materia del contendere, con l’intento di deflazionare il contenzioso giurisdizionale.
Resta comunque ferma l’impugnabilità del provvedimento finale da parte di chi
non presenta alcuna osservazione.
La legge usa il termine “interruzione” dei termini di conclusione del procedimento, ma
deve ritenersi che l’espressione sia impropriamente utilizzata in luogo di “sospensione”,
poiché è questo istituto che viene in rilievo nel caso di specie.
3
13
L’ultimo periodo dell’art. 10 bis della legge 241 esclude l’applicazione dell’istituto
ai “procedimenti in materia previdenziale ed assistenziale sorti a seguito di istanza
di parte e gestiti dagli enti previdenziali” ed ai “procedimenti concorsuali”, nella
quale ultima categoria, a mio parere, stante l’identità della ratio acceleratoria,
devono essere ricomprese tutte le procedure selettive, non solo i concorsi a
pubblici impieghi ma anche le gare di appalto, le selezioni interne nel pubblico
impiego non privatizzato, ecc.
Spunti di riflessione: l’art 21 octies, comma 2,
secondo periodo, della legge 241 non fa menzione
dell’omissione del preavviso di diniego: questa forma
di sanatoria é applicabile anche in tale caso? Logica
vorrebbe che, dato che si tratta di una disposizione
tesa
a
salvare
il
provvedimento
adottato
senza
intervento dell’interessato, essa possa valere anche
nel caso in cui l’amministrazione non abbia inviato il
preavviso di diniego; però a questa interpretazione
osta il fatto che la norma in esame ha carattere
eccezionale e non può pertanto essere applicata fuori
dei casi espressamente previsti.
3) Acquisire tutti gli interessi rilevanti per il procedimento, mediante richiesta di
dichiarazioni e rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (cd.
“dovere di soccorso istruttorio”), mediante lo svolgimento di accertamenti tecnici,
ispezioni od esibizioni documentali nonché con l’indizione delle conferenze di
servizi. In questo contesto il responsabile del procedimento appare più come
“arbitro” che come parte, tant’è che le sue conclusioni possono anche essere
sfavorevoli alla stessa Amministrazione. Un’applicazione specifica di questo
istituto alle procedura contrattuali è prevista dall’art. 46 del Codice dei Contratto
pubblici.
2.e L’intervento degli interessati nel procedimento (art. 9, 10 Legge 241)
La moderna concezione del procedimento come luogo di acquisizione degli
interessi coinvolti nell’affare presuppone che i portatori di questi siano messi in
grado di esprimerli. Pertanto, la Legge 241 consente a qualunque soggetto, non
solo privato ma anche pubblico, di “intervenire” nel procedimento. L’intervento si
14
realizza con due strumenti. Anzitutto, con l’accesso agli atti del procedimento
stesso: questa forma di accesso, cd. “interno”, differisce da quella disciplinata dagli
artt. 22 ss. della legge 241 (cd. accesso “esterno”) poiché riguarda i soli soggetti
che potranno essere incisi dal provvedimento finale e, pertanto, non é subordinata
alla presentazione di una specifica istanza motivata. In secondo luogo, l’interessato
ha diritto di presentare memorie e documenti, che l’amministrazione procedente è
obbligata a prendere in considerazione. Essa dovrà quindi motivare il
provvedimento finale anche in relazione alle memorie e documenti presentati dagli
interessati. Possono intervenire nel procedimento anche associazioni e comitati per
fare valere interessi collettivi.
Con la garanzia dell’intervento nel procedimento di formazione dell’ atto
amministrativo, quest’ultimo non si presenta più come manifestazione della
volontà unilaterale dell’Amministrazione e diventa, invece, il prodotto del
concorso di tutti i soggetti partecipanti e riepilogo dei loro diversi contributi. Il
principio di partecipazione consente quindi di soddisfare i seguenti criteri
informatori dell’azione amministrativa:
- trasparenza, perché i suoi destinatari ne hanno conoscenza e possono influire sul
suo svolgimento;
- economicità, poiché l’Amministrazione è in condizione di meglio valutare gli
interessi in gioco e giungere, così, a determinare col provvedimento un equilibrato
assetto di interessi in modo da evitare successivi ricorsi giudiziari con i relativi
costi;
-efficacia, poiché in tal modo l’Amministrazione può individuare la strada migliore
per centrare gli obiettivi assegnati dal potere politico.
L’intervento non è ammesso nei procedimenti attivati per emanare provvedimenti
finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o programmatorio, né per i
procedimenti tributari. Per questi ultimi la ragione della deroga è evidente; per gli
altri, va ricordato che nelle leggi di settore esistono disposizioni specifiche atte a
garantire la partecipazione degli interessati, che in tali procedimenti si presentano
in numero molto alto, e richiede, pertanto, una disciplina specifica.
2.f La conclusione del procedimento (artt. 2, comma 4 bis, 3 e 11 Legge 241)
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Ogni procedimento si deve concludere con l’emanazione di un provvedimento
motivato. La motivazione deve indicare le ragioni di fatto e di diritto che hanno
determinato la decisione. La motivazione non è richiesta solo per gli atti normativi
(regolamenti) e per quelli a contenuto generale (es. piano regolatore, atti di
indirizzo). Se le ragioni della decisione risultano da altro atto
dell’Amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla
comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto
cui essa si richiama. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il
termine e l’autorità cui è possibile ricorrere: l’omissione di queste indicazioni però
non comporta l’illegittimità dell’atto, ma il mancato decorso del termine
decadenziale per l’impugnazione al T.A.R..
Il procedimento può però concludersi non solo con provvedimenti autoritativi, ma
anche con accordi tra Amministrazione ed interessati. Esistono due tipi di accordo:
procedimentale, con il quale l’Amministrazione si impegna a formare un certo
contenuto del provvedimento finale, e sostitutivo, che invece sostituisce il
provvedimento finale. Il responsabile del procedimento può predisporre un
calendario di incontri con gli interessati per arrivare alla conclusione degli accordi.
Quanto alla disciplina di questi accordi essi, sia procedimentali che sostitutivi,
devono essere stipulati per iscritto, a pena di nullità, e sono soggetti ai princìpi del
codice civile in materia di obbligazioni e contratti, nei limiti della compatibilità
reciproca. Gli accordi sostitutivi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i
provvedimenti che sostituiscono. Può accadere, però, che mutamenti della
situazione facciano venir meno le ragioni di pubblico interesse sottostanti
all’accordo: in tal caso all’Amministrazione, poiché ha il compito istituzionale di
perseguire l’interesse pubblico, è riconosciuto un diritto di recesso che può essere
esercitato a due condizioni: a) esplicitazione delle ragioni di pubblico interesse al
recesso; b) corresponsione (non di un risarcimento ma) di un indennizzo per
limitare l’effetto di eventuali pregiudizi a danno del privato. Il giudice
amministrativo ha giurisdizione esclusiva in materia di formazione, conclusione ed
esecuzione degli accordi.
Va ricordato che la dottrina è divisa sulla concezione “pubblicistica” o
“privatistica” di questi accordi: una parte di essa ritiene che siano veri e propri
negozi di diritto civile; altra parte ritiene invece che siano istituti di diritto
pubblico. L’adesione all’una o all’altra concezione non è irrilevante sotto il profilo
pratico, poiché se si aderisce alla prima tesi, si riterranno ammissibili gli strumenti
civilistici di tutela delle parti contraenti (azione di condanna, eccezione di
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inadempimento ecc.); mentre nel caso opposto, dovranno essere attivati gli
strumenti di tutela pubblicistica, e il privato dovrà così ricorrere al silenzio rifiuto
in caso di mancata emanazione del provvedimento concordato, e all’impugnazione,
nel caso di emanazione di un provvedimento con contenuto diverso da quello
concordato.
Non è ammessa la conclusione di accordi nell’ambito di procedimenti volti ad
emanare provvedimenti finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o
programmatorio, né per procedimenti tributari.
La legge 15 ha introdotto l’art. 21 bis della Legge 241, in base al quale i
provvedimenti che dispongono limitazioni nella sfera giuridica dei terzi diventano
efficaci solo ad avvenuta comunicazione, con ciò sancendone legislativamente il
carattere recettizio che la dottrina aveva loro già attribuito. La comunicazione
personale può essere sostituita da forme diverse di pubblicità, che
l’Amministrazione procedente deve individuare volta per volta, quando risulti
eccessivamente gravosa a causa del numero dei destinatari. I provvedimenti
cautelari, invece, sono immediatamente efficaci, ancor prima della comunicazione.
L’esecuzione del provvedimento può essere sospesa, e in tal modo l’atto resta
inefficace in attesa delle decisioni definitive dell’Amministrazione, che devono
sopraggiungere in tempi ragionevoli, poiché l’istituto della sospensione ha
carattere cautelare. L’art. 21 quater della Legge 241, introdotto dalla legge 15, al
comma 2 afferma il generale principio della sospendibilità degli atti
amministrativi, subordinandolo all’esistenza di “gravi ragioni” che devono essere
indicate nella motivazione dell’atto di sospensione. La sospensione stessa, inoltre,
deve essere limitata al tempo “strettamente necessario” all’Amministrazione per
assumere una decisione definitiva, da indicare anch’esso nell’atto di sospensione.
Il termine di sospensione può essere prorogato per una sola volta, e può anche
essere ridotto, qualora l’Amministrazione riesca ad assumere una determinazione
definitiva in un lasso di tempo minore rispetto a quello programmato.
3. I pareri e le valutazione tecniche
Gli organi consultivi devono rendere i pareri obbligatori entro quarantacinque
giorni dalla richiesta; per i pareri facoltativi, devono comunicare alle
amministrazioni richiedenti il termine entro il quale il parere sarà pronunciato, che
può essere interrotto per una sola volta se l’organo consultivo necessita di elementi
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istruttori (documenti, chiarimenti, ecc.); avvenuta l’acquisizione di detti elementi,
il parere deve essere reso entro i successivi 15 giorni. Se trascorre il termine senza
che sia stato comunicato il parere (obbligatorio o facoltativo che sia) e senza che
siano state evidenziate esigenze istruttorie, l’amministrazione richiedente può
procedere indipendentemente dall’acquisizione del parere.
Queste disposizioni non si applicano ai pareri che devono essere rilasciati da
Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della
salute dei cittadini: in tal caso l’amministrazione richiedente deve attendere il
parere.
Diversa è la disciplina per le valutazione tecniche. L’organo competente ad
effettuare la valutazione deve provvedere entro il termine stabilito dalla norma di
legge o di regolamento che prevede la sua acquisizione; se nessuna norma prevede
un termine, questo è stabilito legislativamente in novanta giorni dalla richiesta. Se
il termine decorre senza che la valutazione sia stata effettuata, il responsabile del
procedimento deve rivolgersi ad altre amministrazioni competenti o ad istituti
universitari. Anche queste disposizioni non si applicano in caso di valutazioni che
debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale,
paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini: in tal caso l’amministrazione
richiedente deve attendere la valutazione tecnica. Il termine può essere interrotto
per una sola volta se l’organo consultivo necessita di elementi istruttori
(documenti, chiarimenti, ecc.); avvenuta l’acquisizione di detti elementi, la
valutazione deve essere fornita entro i successivi 15 giorni.
4. La denuncia in luogo di autorizzazione (d.i.a.)
Il d.l. 35 ha innovato profondamente anche l’istituto della dichiarazione di inizio
attività mediante la novellazione dell’art. 19 della legge 241. Nella versione
attuale, questo stabilisce che quando un soggetto privato intende iniziare un’attività
per la quale è necessaria un’autorizzazione, una licenza, una concessione non
costitutiva, un permesso o un nulla-osta comunque denominato, il cui rilascio
dipende dall’accertamento dei presupposti stabiliti da leggi o provvedimenti
amministrativi generali (deve intendersi anche da regolamenti), e per il quale non é
previsto alcun contingente, il provvedimento viene sostituito da una dichiarazione
di inizio di attività (nel seguito: “d.i.a.”) che l’interessato deve produrre alla
pubblica amministrazione, con autodichiarazione del possesso delle certificazioni e
delle attestazioni necessarie. In questi casi il privato può iniziare l’attività decorsi
trenta giorni, salva la previsione di un termine diverso da parte di una legge di
18
settore,
dalla presentazione della d.i.a., e deve darne comunicazione
all’amministrazione. Entro tale termine, che viene sospeso se è necessario
acquisire pareri obbligatori, questa deve verificare d’ufficio la sussistenza dei
presupposti e dei requisiti necessari all’esercizio dell’attività in questione, e in caso
negativo disporne il divieto di prosecuzione e la rimozione degli effetti a meno
che, ove possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa l’attività
svolta entro un termine stabilito dall’amministrazione stessa, che comunque non
può essere inferiore a trenta giorni. La conformazione, in base all’art. 21, comma
1, legge 241, non è ammessa se la d.i.a. è stata corredata da false autodichiarazioni.
La d.i.a., analogamente all’istituto del silenzio assenso, non trova applicazione nei
procedimenti connessi ad interessi pubblici particolarmente rilevanti quali la tutela
del patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa naturale ecc. e le
fattispecie per le quali la normativa comunitaria richiede un provvedimento finale
espresso. L’elenco delle eccezioni, contenuto al comma 1 dell’art. 19 della legge
241, è più lungo di quelle previste rispetto al silenzio assenso, a causa della
delicatezza dell’istituto in esame.
Ove sia scaduto il termine di trenta giorni per effettuare le verifiche d’ufficio
l’amministrazione non perde il potere di provvedere, ma può intervenire solo in
autotutela per annullare o revocare il provvedimento, rispettivamente, illegittimo
od inopportuno.
Infine, il d.l. 35 ha rimesso la cognizione di tutte le controversie sull’applicazione
dell’istituto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La riforma dell’istituto in esame è orientata non solo ad uno scopo acceleratorio,
come per la generalizzazione del silenzio assenso, ma anche ad una logica di estesa
liberalizzazione delle attività private.
Spunti di riflessione
- Le norme dettate dalla legge 241 per la d.i.a.
possono essere considerate quali norme di principio
dirette
alla
tutela
nei
confronti
dell’azione
amministrativa,
con
conseguente
applicabilità
ai
procedimenti
di
competenza
delle
amministrazioni
regionali e locali?
19
-
Il
decorso
di
trenta
giorni
concessi
all’Amministrazione per effettuare i controlli sulla
d.i.a. inoltrata dal privato comporta il formarsi di un
provvedimento amministrativo tacito di assenso oppure,
essendo la d.i.a. una mera comunicazione privata circa
l’intenzione di dare corso ad una determinata attività,
costituisce
un
mero
comportamento
(omissivo)
dell’amministrazione stessa?
Il problema sembra
risolto dal d.l. 35, che ha devoluto alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo la cognizione
sulle controversie relative all’istituto in esame, con
ciò indicando il suo carattere non provvedimentale. La
presentazione della dichiarazione e l’inutile decorso
del
termine
concesso
all’amministrazione
per
controllare
l’effettiva sussistenza dei presupposti
per l’attività privata comporta la nascita di un
diritto
soggettivo
in
capo
all’interessato
relativamente all’esercizio della medesima, che può
essere
oggetto
di
affievolimento
qualora
tali
presupposti, pur dichiarati dall’interessato, in realtà
non esistano, ed a condizione che l’amministrazione
agisca
secondo
i
canoni
e
le
regole
proprie
dell’autotutela.
- Quanto alla tutela del terzo può ritenersi, in
base alle attuali previsioni, che poiché l’inutile
decorso del termine per la verifica della d.i.a.
costituisce
un
diritto
in
capo
al
dichiarante
all’esercizio dell’attività dichiarata, il terzo che
contesti l’esistenza di tale diritto per la mancanza
dei presupposti necessari potrà direttamente ricorrere
al
giudice
amministrativo,
che
ne
valuterà
la
sussistenza e procederà all’accertamento del contestato
diritto del dichiarante.
5. Conferenza dei servizi ed accordi tra amministrazioni (artt. 14, 14 bis, 15)
La Legge 241 ha istituito questo strumento, che consente di “mettere attorno ad un
tavolo” tutti i soggetti pubblici portatori di interessi nell’ambito di un
20
procedimento. Esistono due tipi di conferenza di servizi: istruttoria, per “effettuare
un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento
amministrativo”, e decisoria, che consente di sostituire ogni atto di intesa con altre
amministrazioni (intese, concerti, nulla osta, ecc.): in tale ultimo caso il
provvedimento finale che sia conforme alla decisione favorevole della conferenza
sostituisce ogni atto di assenso delle amministrazioni partecipanti o comunque
invitate a partecipare alla conferenza. E’ facoltativa la prima, mentre la seconda
deve essere convocata dal responsabile di procedimento quando siano trascorsi
inutilmente trenta giorni dalla ricezione della richiesta di tali atti di assenso da
parte dell’Amministrazione competente a rilasciarli. La conferenza può essere
convocata anche su richiesta dell’interessato e diventa, allora, non solo strumento
di semplificazione ma anche di partecipazione per stimolare lo svolgimento
dell’attività amministrativa.
La conferenza per le grandi opere (art. 14 bis) consente di conoscere in anticipo a
quali condizioni le amministrazioni interessate rilasceranno gli atti di assenso
all’esecuzione delle stesse. Viene convocata su richiesta dell’interessato; il suo
svolgimento determina l’impossibilità per le amministrazioni coinvolte di negare
gli atti di assenso per motivi diversi da quelli espressi in sede di conferenza di
servizi.
Ogni amministrazione partecipa alla conferenza dei servizi attraverso un unico
rappresentante autorizzato dall’organo competente ad esprimere in modo
vincolante la volontà dell’amministrazione stessa. Si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la
volontà della stessa.
Nelle conferenze per le grandi opere possono essere chiesti, ai privati interessati
(proponenti dell’istanza o progettisti), chiarimenti o ulteriore documentazione. Se
questi ultimi non sono forniti entro trenta giorni, si procede egualmente.
La legge 15 ha abolito il principio di maggioranza: l’Amministrazione competente
deve ora assumere la determinazione di conclusione del procedimento sulla base
delle risultanze della conferenza “tenendo conto delle posizioni prevalenti” emerse
nella stessa, e il provvedimento finale che sia conforme a detta determinazione (e
non più alla determinazione conclusiva “favorevole” della conferenza stessa)
sostituirà gli atti di assenso di tutte le Amministrazioni presenti o comunque
invitate.
21
La procedura si complica quando il dissenso sia espresso da amministrazioni
preposte alla tutela di interessi pubblici rilevanti come quello alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, della salute
o della pubblica incolumità. In tali casi, la decisione finale sarà assunta dal
Consiglio dei ministri, se il dissenso interviene tra Amministrazioni statali; dalla
Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, regioni e province autonome di
Trento e Bolzano se il dissenso coinvolge amministrazioni regionali o
amministrazioni statali e regionali; dalla Conferenza unificata se il dissenso
coinvolge enti locali. La decisione deve essere assunta entro trenta giorni,
prorogabili a sessanta in caso di istruttoria complessa.
Analogamente, se il dissenso riguarda materie di competenza regionale, la
decisione finale dovrà essere assunta dalla Conferenza permanente per i rapporti
tra Stato, regioni e province autonome di Trento e Bolzano, se il conflitto riguarda
una regione e amministrazioni statali o regioni diverse in conflitto tra loro; dalla
Conferenza unificata, se interviene tra una regione ed un ente locale. Il termine per
la decisione è il medesimo.
In caso di inerzia da parte delle Conferenze la competenza passa al Consiglio dei
Ministri, se la materia rientra tra quelle attribuite alla competenza statale esclusiva;
alla Giunta della Regione interessata negli altri casi, con la possibilità di un
intervento statale sostitutivo ove questa non decida in trenta giorni.
Al di fuori di queste ipotesi, le amministrazioni pubbliche possono comunque
concludere tra loro (non con i privati) accordi per disciplinare lo svolgimento in
collaborazione di attività di interesse comune. A tali accordi si applicano le norme
previste per gli accordi sostitutivi e procedimentali contenute nei commi 2, 3 e 5
dell’art. 11.
6. La motivazione
La Legge 241, all’articolo 3, ha stabilito che ogni provvedimento amministrativo
deve essere motivato. La motivazione è composta da due elementi:
- i presupposti di fatto, cioè quelle circostanze che hanno condotto
l’Amministrazione ad attribuire un determinato contenuto al provvedimento finale,
22
- le ragioni giuridiche di quest’ultimo, cioè le norme sia legislative che
regolamentari sulle quali il medesimo è basato.
Prima della legge 241 la dottrina e la giurisprudenza avevano individuato alcuni
casi in cui i provvedimenti amministrativi dovevano essere obbligatoriamente
motivati, per evitare che la venisse a diminuire la possibilità di tutela per i
destinatari dell’azione amministrativa. Si trattava degli atti di valutazione e scelta
comparativa, non solo i concorsi o le gare di appalto ma in generale tutti i
provvedimenti con i quali l’amministrazione effettua una scelta per la concessione
di benefici; degli atti di diniego a un’istanza presentata dal privato e di quelli che
comportano il venir meno di benefici già concessi o, comunque, l’estinzioni di suoi
diritti (cosiddetti atti sacrificativi). La legge 241 ha generalizzato l’obbligo: tutti i
provvedimenti devono oggi essere motivati, con la sola eccezione degli atti
normativi (i regolamenti) che, essendo fonte del diritto, hanno carattere politico, e
degli atti generali i cui destinatari possono essere determinati solo dopo la loro
emanazione, come i bandi di concorso e di gara. Va rilevato che la partecipazione
procedimentale è esclusa nei procedimenti che si concludono sia con gli atti
suddetti, sia con atti di pianificazione o programmazione: questi ultimi, dunque,
devono essere obbligatoriamente motivati, a meno che abbiano un contenuto
generale come il piano regolatore urbano. La deroga all’obbligo di motivazione,
quindi, non coincide completamente con la deroga al diritto di partecipazione
procedimentale degli interessati.
Oltre a quelli esclusi espressamente dalla legge 241, non sono soggetti a
motivazione obbligatoria gli atti di accertamento perché devono esporre i fatti
accertati e gli atti di diritto privato posti in essere da Amministrazioni. Riguardo a
questi ultimi, occorre ricordare che devono essere motivati i presupposti che hanno
condotto all’emanazione dell’atto privatistico: così l’Amministrazione deve
motivare il ricorso alla trattativa privata ma non il contratto che stipula.
Si discute se debbano essere obbligatoriamente motivati gli atti vincolati: opinione
dominante è che esiste un obbligo di motivazione ridotto alla sola indicazione del
fatto e delle norme sulla base della quali il potere amministrativo viene esercitato.
La giurisprudenza ritiene che debbano essere motivati anche gli atti di alta
amministrazione quando comportano una scelta comparativa, come nel caso di
nomina a cariche di alta dirigenza (es. direttori generali AUSL).
23
Vi è incertezza circa l’ampiezza della motivazione in materia di concorsi ed esami:
sembra prevalere l’opinione per cui, una volta predeterminati i criteri di
valutazione, non è necessaria la motivazione del singolo punteggio perché il voto
rappresenta di per sé motivazione. Negli atti negativi basta indicare la norma
violata, che di per sé costituisce una motivazione. Se viene dato un parere non
obbligatorio l’Amministrazione procedente se ne può discostare, ma deve motivare
in proposito. Con riguardo agli atti emanati da organi collegiali una dottrina meno
recente ammetteva la motivazione implicita, risultante cioè non dal provvedimento
stesso ma dai verbali della seduta dell’organo collegiale. La dottrina e la
giurisprudenza respingono questa tesi, ritenendola contrastante con il principio di
trasparenza.
Possiamo dire che la motivazione assolve alle funzioni seguenti:
1. funzione giuridica: permette il controllo giurisprudenziale sull’atto;
2. funzione metagiuridica: permette di dare conto delle necessità pubbliche del
provvedimento e favorire, così, la sua accettazione (funzione di pacificazione
sociale),
3. la necessità di motivare il provvedimento obbliga l’Amministrazione a
ponderarne con cura il contenuto.
La motivazione deve essere:
congrua, deve cioè rispettare tutti gli elementi introdotti nel procedimento
(memorie dei privati interessati, pareri di altre Amministrazione ecc.) indicando le
ragioni del provvedimento in relazione a questi;
logica, cioè deve dare esattamente contezza del contenuto del provvedimento sulla
base dei presupposti introdotti nel procedimento a cura sia del privato, sia
dell’Amministrazione procedente, che di altre Amministrazioni coinvolte;
sufficiente, cioè deve consentire di comprendere le reali ragioni che hanno indotto
l’Amministrazione ad emanare il provvedimento, non deve essere quindi né troppo
sintetica, né ridondante, né sfumata.
La motivazione deve essere contemporanea alla produzione degli effetti
provvedimentali nella sfera giuridica del destinatario, per metterlo in condizione di
24
controllare l’operato dell’Amministrazione, sicché finché il provvedimento non
viene motivato, non inizia a decorrere il termine decadenziale per l’impugnazione.
In caso di emanazione di un provvedimento non motivato il destinatario potrà
subito impugnarlo per illegittimità, a causa della mancanza di motivazione; una
volta prodotta la motivazione successiva, avrà a disposizione un nuovo termine di
60 giorni per produrre motivi aggiunti. A proposito della “motivazione successiva”
va rilevato che dottrina e giurisprudenza hanno sempre rifiutato questo istituto,
ritenendo che l’Amministrazione non possa essere ammessa a motivare un
provvedimento dopo la sua emanazione, in corso di giudizio. La Legge 249/68
all’art. 6 consente la convalida (più propriamente definibile “ratifica”) in sede
processuale degli atti viziati da incompetenza. Ma ciò che vale per tale vizio non
può valere anche per gli altri, perché la mancata previsione legislativa della
possibilità di riferire la convalida in corso di causa agli altri difetti formali, in
particolare al difetto di motivazione, evidenzia la volontà del legislatore di
(continuare ad) interdire alle Amministrazioni la correzione in corso di causa dei
provvedimenti impugnati. Sugli atti vincolati, vedi il paragrafo successivo.
Se questo è vero ai fini della validità dell’atto non vale, però, per il giudizio sul
risarcimento dei danni. Per emettere un giudizio in proposito, infatti, il Giudice
Amministrativo deve analizzare in sede processuale anche il rapporto
amministrativo, non solo il provvedimento, e valutare se si sia verificata una
lesione al bene della vita oggetto dell’azione amministrativa. Presupposto per il
risarcimento non è, infatti, la sola illegittimità dell’atto, ma anche il danno che
questo ha provocato nelle posizione giuridiche sostanziali dell’interessato. Questo
implica una verifica sostanziale, e non meramente formale, dell’agire
amministrativo nel corso della quale l’Amministrazione ben potrà dimostrare, a
posteriori, la sussistenza di ragioni sostanziali a supporto dell’atto impugnato, pur
affetto da vizi formali. Una volta verificata la presenza di tali ragioni il Giudice
dovrà dichiarare l’assenza della lesione ad un bene della vita, e respingerà quindi la
richiesta di risarcimento danni, pur obbligando l’Amministrazione a ricominciare il
procedimento per emettere un nuovo atto privo di vizi formali.
Il comma 3 dell’articolo 3 della legge 241 consente che la motivazione di un
provvedimento possa essere desunta da un altro atto dell’Amministrazione, ma in
tal caso quest’ultimo deve essere richiamato dal primo provvedimento e la
comunicazione di questo deve indicare le modalità con cui l’altro può essere
acquisito. La mancata indicazione di tali modalità non comporta, però, l’invalidità
del provvedimento ma il mancato decorso del termine di impugnazione. La
giurisprudenza ammette che la motivazione del provvedimento finale possa
25
desumersi dalla lettura degli atti del procedimento: in tal caso è infatti irrilevante
che le ragioni del primo non siano esplicitate completamente, se l’interessato è
stato in grado di acquisire i secondi4
Il comma quarto dall’articolo 3 della legge 241 prevede che ogni provvedimento
notificato al destinatario deve indicare sia il termine per ricorrere, che l’autorità,
amministrativa e giudiziaria, presso la quale può essere presentato ricorso avverso
il provvedimento stesso. L’omissione di questi elementi non comporta l’invalidità
dell’atto, ma costituisce causa di errore scusabile a favore dell’interessato, che
potrà quindi impugnare l’atto anche se i termini sono scaduti.
7. L’invalidità degli atti
La legge 15 ha introdotto gli artt. 21 septies e 21 octies in materia di invalidità
degli atti.
Il primo regolamenta l’istituto della nullità, di creazione giurisprudenziale, e
prevede che l’atto amministrativo sia nullo in caso di mancanza degli elementi
essenziali, di difetto assoluto di attribuzione, di violazione o elusione del giudicato,
ed infine nei singoli casi indicati specificamente da disposizioni legislative.
Il secondo articolo prevede il mantenimento dei tradizionali motivi di annullabilità
dell’atto per violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza, ma al secondo
comma introduce modificazioni rilevanti.
Al primo periodo del secondo comma esclude che il provvedimento possa essere
annullato laddove: 1) abbia carattere vincolato; 2) il vizio consista nella violazione
di norme che disciplinano la forma o il procedimento, compresa la mancanza o
l’incompletezza della motivazione, e 3) sia palese che il contenuto precettivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, anche se la norma violata fosse
stata rispettata. Le tre condizioni debbono sussistere congiuntamente.
Al secondo periodo del secondo comma prevede che l’atto amministrativo non
possa essere annullato in caso di omissione della comunicazione di avvio del
procedimento, se l’Amministrazione dimostra in giudizio che il suo contenuto non
avrebbe potuto essere diverso.
4
C.d.S. IV, 14.2.2005 n. 435 in “In Consiglio di Stato” n. 2/05, pt. I.
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Il primo periodo si riferisce in generale a tutti gli i vizi di procedimento o di forma,
comprendendo quindi (e soprattutto) il difetto di motivazione. I casi di
applicazione del disposto sono però limitati dal fatto che questa sanatoria
processuale può intervenire solo su provvedimenti vincolati, rispetto ai quali sia
anche “palese” che il loro contenuto non avrebbe potuto essere diverso: pertanto,
ove il relativo accertamento richieda indagini complesse, la sanatoria non potrà
operare. Il secondo periodo riguarda anche gli atti discrezionali, ma la sanatoria
opera solo sul vizio consistente nella mancanza della comunicazione di avvio del
procedimento. Ci si deve chiedere sia applicabile in caso di omissione del
preavviso di diniego, poiché la norma in esame non fa menzione di quest’ultimo
istituto.
8. Annullamento e revoca
8.1 Concetti generali
Con questi istituti l’Amministrazione può porre nel nulla, autonomamente, i propri
provvedimenti precedentemente emanati. La facoltà dellea Amministrazioni
Pubbliche di eliminare i provvedimenti amministrativi viziati o inopportuni rientra
nella generale prerogativa che l’ordinamento riconosce loro, di tutelare da sé la
propria sfera di azione. E’, cioè, espressione di “autotutela amministrativa” posta
in essere allo scopo di rivedere le scelte già compiute, per renderle coerenti in ogni
momento con il pubblico interesse.
Questi provvedimenti, cosiddetti “di secondo grado”, sono discrezionali poiché
l’Amministrazione non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi ma deve valutare, di
volta in volta, se esiste un interesse pubblico alla loro eliminazione, che sia diverso
dal semplice ristabilimento della legalità violata; devono essere adottati con lo
stesso procedimento e le stesse forme previste per l’atto da eliminare, sicché, ad
esempio, se per l’emanazione di quest’ultimo era richiesta l’acquisizione di un
parere, esso dovrà essere sentito anche per l’emanazione dell’atto di ritiro; sono
recettizi, poiché diventano efficaci solo con la comunicazione al loro destinatario e
sono soggetti alle regole della legge sul procedimento amministrativo in materia di
comunicazione di avvio del procedimento e partecipazione.
Se l’atto di ritiro presenta vizi di illegittimità, può essere impugnato dinanzi al
giudice amministrativo e, in caso di annullamento, l’atto ritirato riacquisterà
efficacia. Il destinatario potrà godere anche della tutela risarcitoria per i danni che
abbia nel frattempo subìto a causa dell’inefficacia dell’atto originario.
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8.2 L’annullamento d’ufficio
La legge 15 ha introdotto l’art. 21 nonies nella Legge 241, che disciplina il potere
di annullamento d’ufficio. Questo potere deve essere esercitato entro un termine
ragionevole, e a condizione che ne sussistano le ragioni di interesse pubblico.
L’atto di annullamento dovrà dare conto, nella motivazione, del bilanciamento
effettuato fra tali ragioni e gli interessi dei soggetti privati (destinatari dell’atto e
controinteressati) coinvolti nell’affare.
L’annullamento è quindi un provvedimento di secondo grado, che opera con
efficacia retroattiva su atti affetti da invalidità. Può essere posto in essere
dall’autorità gerarchicamente superiore, in attuazione del potere di vigilanza che le
compete: si parla allora di annullamento gerarchico. E’ ancora in vigore, pur dopo
la riforma della disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche
Amministrazioni, il potere di annullamento ministeriale degli atti dirigenziali per
motivi di legittimità (art. 14, comma 3, ultimo periodo del d. lgs. 165/01). Il
Governo inoltre, per motivi di tutela dell’unità dell’ordinamento, può in qualunque
tempo annullare gli atti degli enti locali viziati da illegittimità. Si tratta del cd.
potere di annullamento governativo previsto dall’art. 138 del d.lgs. 18 agosto
2000, n. 267.
L’annullamento d’ufficio è un atto discrezionale, ma la dottrina afferma che
diventa doveroso quando l’illegittimità dell’atto da annullare sia stata dichiarata
con sentenza, passata in giudicato, del giudice ordinario, che non dispone del
potere di annullarlo, o da un’autorità di controllo che non disponeva del potere di
annullamento.
Questa normativa tradizionale deve ora essere raccordata con il non chiarissimo
comma 136 dell’art. 1, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005).
Questo, al primo periodo, stabilisce che l’annullamento d’ufficio di provvedimenti
illegittimi può “sempre” essere disposto per conseguire risparmi di spesa o minori
oneri finanziari per le amministrazioni, anche se l’esecuzione dell’atto da annullare
sia ancora in corso. Al secondo periodo introduce un’eccezione a questa regola
relativamente ai provvedimenti che incidono su rapporti contrattuali o
convenzionali con soggetti privati: in tali casi, l’annullamento può essere esercitato
solo entro tre anni dal momento in cui l’atto da annullare è divenuto efficace, e
comunque, i soggetti privati coinvolti devono essere tenuti indenni da ogni
pregiudizio patrimoniale.
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L’esame di questa disposizione pone un primo interrogativo in ordine al suo
rapporto con la legge 15: poiché quest’ultima è successiva, ci si chiede se ne abbia
determinato l’implicita abrogazione. Ritengo che la risposta sia negativa, poiché la
nuova legge 241/90 disciplina in via generale l’annullamento d’ufficio, mentre il
comma 136 regolamenta casi di specie e, pertanto, può definirsi come norma
speciale, inidonea ad essere implicitamente abrogata ad opera di norme generali
posteriori.
Le fattispecie particolari cui è applicabile il comma 136 sono quelle in cui dal
provvedimento illegittimo derivano spese a carico dell’Amministrazione: in tali
casi esso può sempre essere annullato, anche se la sua esecuzione sia ancora in
corso. Peraltro nessuno ha mai dubitato che le pubbliche amministrazioni possano
agire in autotutela anche in queste ipotesi, e se il comma 136 (primo periodo)
dovesse essere interpretato nel senso di ribadire il concetto, la sua emanazione
sarebbe stata del tutto inutile. Per attribuire un significato alla disposizione si deve
ritenere che essa abbia legislativamente attribuito prevalenza all’interesse al
risparmio di spesa rispetto agli altri interessi incisi dall’esercizio del potere di
annullamento. Laddove cioè una pubblica amministrazione si avveda che un
provvedimento illegittimo precedentemente emanato comporti un esborso
finanziario essa, in base alla disposizione in esame, può ritenersi sempre
autorizzata ad annullarlo d’ufficio, poiché il bilanciamento degli interessi coinvolti,
pubblici e privati, è effettuato direttamente dalla disposizione legislativa in esame.
L’interpretazione può suscitare dubbi di costituzionalità in relazione all’importanza
che attribuisce alle ragioni di bilancio, anche se si ricollega ad una giurisprudenza
che ritiene sussistere in re ipsa l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio,
laddove dal provvedimento illegittimo derivino esborsi finanziari a carico
dell’Amministrazione5.
Il rigore del primo periodo del comma 136 viene però smentito dal periodo
successivo della stessa disposizione, in base alla quale se dall’emanazione di un
provvedimento legittimo è scaturito un rapporto contrattuale o convenzionale con
un soggetto privato, l’annullamento (con conseguente travolgimento del contratto o
della convenzione stipulata) non può essere effettuato oltre tre anni dalla data in
cui è divenuto efficace l’atto da annullare e, comunque, i privati interessati devono
essere tenuti indenni da eventuali pregiudizi patrimoniali. La norma disciplina
un’ipotesi speciale all’interno della fattispecie, a sua volta speciale, di cui al primo
periodo del comma 136. Questo è costituito da due cerchi concentrici, dei quali il
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T.R.G.A Bolzano, 18.12.2002 n. 579
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più largo disciplina l’annullamento d’ufficio per le ipotesi in cui dal
provvedimento illegittimo derivano esborsi finanziari per l’Amministrazione; il più
stretto riguarda invece i casi in cui dal medesimo provvedimento siano sorti
rapporti contrattuali o convenzionali. In quest’ultima ipotesi, l’annullamento
d’ufficio non può essere effettuato dopo tre anni successivi all’acquisizione di
efficacia del provvedimento illegittimo; ove poi l’Amministrazione agisca in
autotutela entro tale termine, i privati interessati devono essere “tenuti indenni” da
pregiudizi patrimoniali conseguenti. Ci si deve chiedere come vada quantificata
tale indennità. La lettera della norma, se pure non usa il termine “risarcimento”
(poiché l’attribuzione al privato consegue ad un atto lecito dell’Amministrazione),
sembra abbastanza chiara nel senso di stabilire che essa debba corrispondere alla
somma che copre l’intero pregiudizio subito dal privato a causa dell’annullamento.
Se è così, ne segue che l’Amministrazione dovrà corrispondergli una somma pari
non solo all’interesse negativo, ma comprendente anche l’interesse positivo
all’integrale esecuzione del rapporto contrattuale o convenzionale. Ma a questo
punto sfugge il senso della disposizione, perché non si vede come
l’Amministrazione possa ottenere risparmi di spesa dall’annullamento d’ufficio
(come prescrive il primo periodo del comma 136) se poi deve indennizzare
integralmente il privato danneggiato dall’esercizio dell’autotutela. Per di più, la
norma sembra esposta a censure di costituzionalità rispetto agli artt. 3 (sotto il
profilo della ragionevolezza) e 97 (violazione dei principi di imparzialità e buon
andamento) Cost. perché da un lato, il decorso del termine di tre anni comporta che
atti illegittimi possano consolidarsi e continuare a produrre effetti non più
eliminabili dall’ordinamento; dall’altro, prevede l’obbligo per l’Amministrazione
di indennizzare il privato leso dall’esercizio (entro il suddetto termine)
dell’autotutela senza tenere in alcuna considerazione l’eventuale contributo che
questi possa avere fornito all’emanazione del provvedimento illegittimo, ad
esempio con false dichiarazioni sostitutive6.
8.3 La revoca
La legge 15 ha anche disciplinato l’istituto della revoca, al nuovo articolo 21
quinquies della Legge 241. La revoca è un provvedimento di secondo grado con
cui la Pubblica Amministrazione provoca l’eliminazione con efficacia non
retroattiva di un atto amministrativo (non illegittimo, ma) inopportuno, in base ad
una nuova valutazione degli originari interessi in gioco od anche per il
sopravvenire di nuove circostanze.
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Forlenza, Sugli atti illegittimi scatta l’annullamento in Guida al diritto - dossier mensile n. 1/05
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E’ differente dall’annullamento poiché opera su atti viziati nel merito e
presuppone, quindi, una nuova valutazione degli interessi in gioco; inoltre, ha
efficacia non retroattiva.
L’art. 21 quinquies della Legge 241 prevede, in via generale, la possibilità di
revocare gli atti amministrativi sia ove sopravvengano fatti nuovi, che non
esistevano al momento dell’emanazione del provvedimento originario, sia anche
per una nuova valutazione delle circostanze di fatto originarie. L’Amministrazione
revocante ha però l’obbligo di corrispondere un indennizzo ai privati che siano
danneggiati dalla revoca, ed attribuisce la cognizione delle controversie in materia
di determinazione e corresponsione dello stesso alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo
La revoca è, anch’essa, espressione del generale potere di autotutela riconosciuto
alle pubbliche amministrazioni e presuppone una valutazione degli interessi in
gioco nell’affare: il relativo potere è quindi strettamente collegato alla competenza
dell’organo agente. Non è perciò ammissibile un generale potere di revoca
governativo. Inoltre, la riforma del rapporto di lavoro alle dipendenze della
pubblica amministrazione ha soppresso il potere di revoca ministeriale degli atti
dirigenziali. Allo stato, pertanto, esiste solo la autorevoca da parte dell’organo che
ha emanato l’atto originario e la revoca gerarchica operata dall’autorità
gerarchicamente superiore, a condizione che questa abbia la stessa competenza di
quella inferiore e possa sostituirsi ad essa nell’esercizio di una sua competenza, ciò
che non è ammissibile laddove questa le sia conferita in via esclusiva.
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