laboriose conversazioni
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LABORIOSE CONVERSAZIONI Primi spunti di riflessione sul lavoro dopo gli incontri al MAP- Museo di Arti Primarie del 2010-2011 a cura di Eredibibliotecadelledonne PRIMA PARTE QUI, OGGI Ci siamo incontrate per parlare del lavoro. Del nostro, quello che alcune stanno ancora facendo, o qualcuna ha smesso di fare; dell'altro lavoro sociale, nel volontariato o nel sindacato, che facciamo o abbiamo smesso di fare; di quello per mandare avanti il mondo, che non si può smettere di fare. Lo stimolo è stata la lettura del Sottosopra rosso “Immagina che il lavoro” del Gruppo Lavoro della Libreria delle donne di Milano e degli inserti sul tema nella rivista Via Dogana. Volevamo capire quanto conta per noi questa attività umana che svolgiamo per tante ore, e quanto noi contiamo per il lavoro; dove si ferma il lavoro che porta denaro e dove inizia il lavoro delle relazioni e della manutenzione della vita che svolgiamo noi donne per la maggior parte. Che rappresentazione sociale c'è del nostro lavoro; cosa ha comportato uscire dalla dimensione puramente gratuita e familiare della donna ottocentesca; che vantaggi ne abbiamo tratto e che vantaggio ne ha tratto il mondo. IL PAGATO E IL GRATUITO Siamo state d'accordo che il lavoro pagato nel sistema di produzione è solo una parte del lavoro che facciamo; mentre tutto il lavorìo per accudire persone, far quadrare bilanci, assistere alla nascita, al crescere e al morire, pagare le tasse, pulire gli alloggi, acquistare e preparare il cibo, e ognuna sa cos'altro, è tutto lavoro necessario a vivere. Noi lo teniamo in conto; i parametri dell'economia classica continuano a ignorare tutta la massa del lavoro per vivere e misurano la ricchezza solo conteggiando il lavoro retribuito. Sempre secondo i parametri dell'economia siamo in un momento di crisi; poco lavoro, pagato male e a ritmi sempre meno sostenibili. A far quadrare i conti è ancora l'economia del gratuito, che subentra dove l'economia del a-pagamento traballa: più famiglie che assistono più a lungo i figli, più stipendi condivisi tra le famiglie, più pacchi viveri delle diocesi alle famiglie in difficoltà. Crediamo che il lavoro gratuito che facciamo non abbia un prezzo ma realizzi un guadagno per tutti, sociale, e alla fine umano; non svolgerlo mina la convivenza fra le persone, si può delegare e pagare, ma non tutto e non sempre. CAMBIAMENTO 1 Il lavoro delle donne ha rappresentato forse il più vistoso cambiamento del secolo passato. Ci siamo adattate nel nuovo ambiente, ma è come se si ignorasse che il lavoro è stato anche cambiato dalla presenza delle donne. Quelle di noi che giorno dopo giorno cercano di modificare le logiche interne del lavoro, dal tempo al salario alla produttività, sono viste come delle donchisciotte idealiste, quasi che quando è in ballo la produzione il sistema reagisse chiudendosi a riccio, rifiutandosi di lasciarsi contaminare da altre idee. I datori di lavoro e i sindacati sembrano condividere in modi diversi questa paura, anche quando la manodopera è in prevalenza femminile. Cambiare l'immaginario del cambiamento è una sfida che si presenta dura, complice la crisi del capitalismo in atto, che rende tutti gli attori più arroccati in difesa. MODERATE Molte di noi registrano che il lavoro non sia più così faticoso e opprimente come un tempo, grazie al fatto che le donne studiano di più e accedono a livelli spesso medio-alti del sistema; tuttavia è come se le nostre energie venissero come imbrigliate o moderate o sprecate dall'ambiente lavorativo; o addirittura che fossimo noi stesse a moderarci, a farci andare bene situazioni che potremmo con poco migliorare, per evitare un possibile scontro: con le altre, gli altri con cui lavoriamo, con chi fornisce il lavoro.E forse con quel fantasma peggiore di tutti che è il nostro io automoderato che ci minaccia puntando il dito: “Mio Dio, cosa ti sei messa in testa?” Abbiamo ipotizzato che il grande lavoro -questo sì senza moderazione – dei mass media sul corpo femminile, che si vuol fare apparire svuotato di ogni linguaggio che non sia il puro richiamo sessuale, abbia contribuito a rendere opaco il nostro agire e modificare; tuttavia avvertiamo un senso di inadeguatezza nel nostro operare che pensiamo dipenda da noi donne in un senso profondo e che sta a noi superare. OLTRE LO SCHERMO La difficoltà potrebbe dipendere dal fatto che con il femminismo abbiamo imparato a pensare a partire da noi stesse e rapportandoci alle altre in termini di riconoscimento di forza e fiducia reciproca, piuttosto che di condivisione di oppressione e miseria; ma abbiamo forse operato nel mondo attraverso una sorta di schermo o di rete, rappresentato dai gruppi di donne di cui abbiamo fatto e facciamo parte, condividendo la “logica” della libertà femminile, ma non dialogando direttamente col mondo. Dobbiamo forse superare il filtro, ed anche il comodo appoggio, del gruppo di donne, senza smettere di alimentarlo, ma traendo da questo forze che ci consentano di rapportarci anche con quelle e quelli che non condividono il discorso e le pratiche del femminismo; alcune donne di pensiero lo hanno già ipotizzato e non è da intendere come un passo indietro ma semmai come un salto che liberi le energie latenti di cui ci sentiamo circondate. DIRE Abbiamo notato che tante hanno fatto gesti concreti per migliorare non il Mondo, ma quel piccolo spazio di realtà che ci gira intorno, senza però che vi sia uno scambio di parole significative su 2 questo e senza che il tutto esca dalla prospettiva individuale. C'è bisogno di spazi pubblici dove donne e uomini riprendano la parola sulle proprie esperienze reali e ne divulghino le novità, le buone pratiche ed anche gli insuccessi; una parola che sfugga dai tecnicismi sul lavoro e dai saperi fintamente specialistici (management, pil, default,contrattazione in deroga, ad, ... ) per tornare alla forma umana della politica che è sempre e soltanto un incontro tra persone e le loro uniche ed iripetibili singolarità individuali. La forza dell'immaginazione che si può liberare può essere l'innesco di un processo politico inedito ed inaudito. FARE \ CONTRATTARE Ricordandoci di quando eravamo piccole ci è venuto in mente di quanto abbiamo contrattato allora, e di come fosse naturale cercare di ottenere ciò che volevamo in un regime semi-libero come quello che la famiglia costituiva; dov'è finita tanta forza di contrattazione ora che siamo adulte, e c'è tutto un mondo che aspetta il nostro contributo? Sembra un momento in cui o si è strapotenti o si viene schiacciati come formiche; l'arroganza del capitalismo pare avere raggiunto limiti impensati, attraverso l'imposizione di condizioni di lavoro alienanti o rendendo estremamente fragili i mezzi per procurarsi da vivere. Sentiamo che noi donne abbiamo un modello della ripartizione degli spazi della vita (lavoro, cura, studio, politica) migliore per la sopravvivenza del pianeta e della nostra specie, che però rimane in sordina, agìto ma non messo in parole, non proposto sullo scenario del mondo con adeguata forza e convinzione. I canali classici della contrattazione tramite forze di rappresentanza come il sindacato appaiono inadeguati a tradurre questo capitale di sapere umano in forze spendibili, non essendo previsto che elementi che appaiono esterni al lavoro siano oggetto di mediazione. Le legislazioni di parità non tengono conto di questa complesso soggetto giuridico vivente che le donne non vogliono rinunciare a rappresentare , e risolvono il problema con la richiesta di uguaglianza sul posto di lavoro e l'aggiunta dei servizi sociali per la maternità (come se gli uomini non facessero figli). Negli anni '70 scoprimmo che il privato è politico; ora che ci siamo prese tante responsabilità in campi così diversi possiamo affermare che tutto il vivente è politico, e pone alla politica una domanda di rappresentazione proprio in quanto è venuto al mondo. SECONDA PARTE OLTRE , DOVE? IL LUSSO E IL RIBASSO Ogni volta che dichiariamo il desiderio di un lavoro che non sia determinato soltanto dalla necessità ma sia anche costruzione della nostra intelligenza, che si alimenti della ricchezza emotiva che caratterizza le nostre complesse e variegate vite, ci viene immancabilmemte risposto che è un lusso che solo poche privilegiate, per lo più anziane, si possono permettere, mentre per la gran massa delle donne, e soprattutto le giovani, si profila soltanto il destino della precarietà e di un lavoro qualunque e mal retribuito. Vero, ma quale via d’uscita viene indicata? Al massimo aspirare alla ‘sicurezza’ del doppio lavoro garantito (in casa e fuori) per tutte, e quindi al ‘doppio 3 sfruttamento’ che ha sfiancato più di una generazione di donne. Sembra che in questa partita circoli un oscuro invito a giocare al ribasso, complice il “mala tempora currunt” (ma quando mai ne sono corsi di veramente buoni per il cambiamento?). IMMAGINAZIONE Crediamo, invece, che bisogna sconfiggere la sindrome dell’automoderazione e fare appello alla forza e all’intelligenza dei nostri desideri per trasformare e non reiterare l’esistente. Non ci dicono nulla gli esempi di donne che da ogni angolo del pianeta reagiscono alla disperazione sociale, alla necessità, proprio grazie all’intelligenza creativa, inventando strategie di vita e di lavoro atte ad assicurare un futuro a se stesse e ai figli (come ricorda il proverbio malgascio scelto come slogan per la campagna al premio nobel alle donne africane “Hai un dente solo? Sorridi almeno con quello.” ). Ma, per restare nel nostro mondo, come considerare la dilagante diffusione tra le donne di pratiche di lavoro, scarsamente e a volte affatto retribuite, mirate alla produzione simbolica e artistica, come anche alla promozione sociale e culturale, che vengono messe in atto spesso in aggiunta e come reazione ad altro lavoro meno gratificante ma meglio retribuito? In entrambi i casi vediamo all’opera il sapere femminile nuovo quanto antico di volgere lo svantaggio in opportunità, di fluidificare le rigidità, scomporre e ricomporre il proprio puzzle esistenziale, per perfezionare sempre più il proprio disegno di vita. Trasformare l’esistente oggi per le donne non può più significare quindi perseguire il modello di lavoro maschile classicamente inteso, rigidamente normato e sempre uguale a se stesso. Quel modello intanto è al tramonto e chi oggi guarda la realtà con occhio non perturbato da miti e ideologie, le donne più che gli uomini, non può che convenire sulla necessità di andare oltre: andare al cuore della realtà non per rattoppare i buchi dell’esistente, ma per ricomporre i pezzi alla luce dei nuovi bisogni e desideri degli esseri umani in carne ed ossa. In questo ‘oltre’ oggi ci sono progetti di vita che si costruiscono sulla contaminazione e lo sconfinamento tra i tempi e i luoghi della produzione e della riproduzione, del lavoro retribuito e di quello ‘volontario’. Perché non dovrebbe divenire senso comune il poter portare avanti il lavoro produttivo da casa o secondo differenti orari in determinati periodi, come anche la possibilità di seguire anche dal luogo della produzione, ove necessario, gli aspetti legati alla cura degli affetti e viceversa? D’altronde per quale ragione il lavoro retribuito deve rimanere impenetrabile e indifferente rispetto ai mille altri lavori che facciamo sia per ciò che riguarda le competenze come anche il tempo e persino il reddito: perché mai, per paradosso, pulire i gabinetti consente un meritato stipendio, mentre fare animazione per i bambini o per gli anziani, recitare nel teatro parrocchiale o scrivere poesie merita solo riconoscimenti ‘simbolici’? Perché non deve essere normale, invece, pulire i gabinetti part.time, recitare per i bambini e gli anziani del quartiere nel tempo restante, e ricavare un reddito da entrambi i lavori e magari, nei primi anni di maternità, svolgere solo la seconda attività per il medesimo reddito? La capacità femminile di saper disegnare puzzles esistenziali inediti dai pezzi di realtà che la crisi sociale e le trasformazioni produttive stanno scomponendo deve potersi avvalere di più e meglio degli strumenti giuridici e contrattuali esistenti (part-time, telelavoro, ecc..) ma soprattutto ha bisogno di nuove ‘flessibilità’, non codificate, da costruire di volta in volta a secondo delle esigenze, e deve essere accompagnata da politiche di welfare (non necessariamente solo pubblico) molto flessibili anch’esse e adeguate ad un più ampio spettro di bisogni della persona, quelli materiali ma anche quelli culturali. 4 UNA MISURA A NOSTRA MISURA. La soggettività femminile, fluidificando i limiti e i confini tra i lavori, comporta l’introduzione di nuove misure e categorie interpretative: qualità del prodotto/servizio piuttosto che quantità temporali da erogare (orari, ritmi, pause, ecc..), efficacia relazionale piuttosto che contabilità numerica delle prestazioni, evidenza dei risultati piuttosto che astratta valutazione del merito. Non si tratta di criteri di valutazione che vogliamo solo per noi, riservando ai maschi quelli tradizionali; pensiamo anzi che essi siano alla base di una civiltà del lavoro nella quale possano esprimersi al meglio le aspirazioni di entrambi i sessi. Infatti un conseguente protagonismo contrattuale delle donne oggi può seminare nel corpo sociale gli anticorpi necessari ad evitare che la precarietà degeneri in disperazione, che il venir meno di sicurezze e reddito garantito determini la paralisi di una intera generazione e produca oltre che povertà miseria simbolica e morale. 5