energia in prospettiva

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energia in prospettiva
inedita energia
energia in prospettiva
immagini e racconti d’autore dall’archivio Eni
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5 Introduzione
di Mario Calabresi
7 L’uomo, la macchina, il paesaggio
a cura di CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia
13 Un’acropoli d’acciaio nella pianura
di Giovanni Comisso
37 Giorni di Abu Rudeis
di Ubaldo Bertoli
61 Il Pozzo n. 14
di Carlo Emilio Gadda
85 Gela, realtà e condizione umana
di Leonardo Sciascia
103 Uomini dal multiforme ingegno
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di Primo Levi
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⎡ Introduzione
di Mario Calabresi ⎦
Il ruolo della fotografia oggi è cruciale per ricordare al giornalismo
come dovrebbe essere per rimanere credibile e agli esseri umani come dovrebbero vivere
per non tradire la loro natura di animali sociali, in un tempo, in cui i rapporti sono sempre
più mediati dalla tecnologia.
“Le belle foto sono nell’acqua sporca”, mi disse una volta Steve McCurry, indicandomi
un mare di fango, figlio delle piogge monsoniche, in cui si era infilato per scattare foto
straordinarie in India. Perché solo chi è disposto a mettersi in gioco fino in fondo, a essere
presente, a condividere gioie e sofferenze, a immergersi nella realtà fino al collo può
essere davvero testimone credibile ed entrare in contatto con gli altri.
Ho sempre riflettuto sulla frase di McCurry, perché in fondo è una grande lezione su cosa
dovrebbe essere anche il mestiere di giornalista: esserci, guardare, testimoniare e non
raccontare da lontano. I reporter ma anche gli uomini che vogliono vivere fino in fondo
non possono essere come gli entomologi che osservano la vita delle formiche dall’alto
con una lente. Bisogna assumere il punto di vista delle formiche, il punto di vista di chi
ci sta intorno. Ecco perché i fotografi, ancora oggi, sono i migliori giornalisti di frontiera
che abbiamo. Lo stesso Domenico Quirico, di ritorno dalla Siria dopo essere stato rapito
per oltre cinque mesi, mi ha confessato che “se ancora siamo sollecitati a capire cosa sta
accadendo laggiù è grazie ai fotografi e a chi ha il coraggio di immergersi nella sofferenza”.
In questo la fotografia non conosce eguali. Mi riferisco alla sua capacità di fermare nel
tempo non solo un preciso istante ma anche tutti gli attimi precedenti. Il fascino di alcune
immagini entrate nell’immaginario collettivo è di aver colto in uno scatto un’intera
successione temporale – il climax come lo chiamavano i greci – imprimendolo nella
mente dell’osservatore quasi come un’incisione nella coscienza. Intendo dire che c’è tutto
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un “prima” e un “durante” in alcune fotografie che a volte è quasi più importante del
soggetto finale. Nelle migliaia di immagini scattate da Paul Fusco sul treno che da New
York portava a Washington il feretro di Bob Kennedy ci sono tanti di quei “prima”: un
caldissimo pomeriggio di giugno, un vagone preso all’ultimo momento e un po’ per caso,
una macchina fotografica senza motore che non lascia il tempo di pensare all’inquadratura.
E un’America che scorre fuori dal finestrino. Un’America in ginocchio e in lacrime proprio
lì davanti. Con il fotografo pronto a fermare il passaggio della Storia nella sua prima stesura.
“Vedere” quella Storia con gli occhi ancora prima che con l’obiettivo, saperla riconoscere
e raccontare, è un’altra importante lezione per chi fa il nostro mestiere.
C’è poi un altro aspetto da non trascurare e che riguarda la dimensione artistica della
fotografia. La capacità di camminare in bilico tra estetica e documento. È forse l’aspetto
più affascinante. Trovare la giusta chiave interpretativa per mantenere questo tipo di
equilibrio richiede onestà intellettuale, responsabilità, concentrazione. È quella capacità
che ha permesso a Gabriele Basilico di fotografare le rovine di Beirut alla fine della guerra
civile senza compiacimenti per gli aspetti della distruzione, cercando di far emergere
negli scatti solo il dramma e l’assurdità della guerra, recuperando un filo di umanità e
di speranza. O a Sebastião Salgado di testimoniare migrazioni, carestie e guerre senza
indugiare nel pietismo ma rispettando dignità e resistenza.
Lascio per ultimo l’aspetto della fotografia che ho imparato a conoscere fin da bambino,
complice una robusta macchina russa che mi regalò un giovane zio a Natale quando avevo
quattrodici anni. Mi riferisco alla sua apparente semplicità. Sfido chiunque abbia provato
ad andare un po’ più in là del livello amatoriale a definire “semplici” concetti come
diaframma, esposizione, sensibilità del sensore. Oggi, con un miliardo di smartphone
ad alimentare il numero degli aspiranti fotografi, il rischio è quello di pensare che, in
fondo, chiunque possa esserlo. Ma proprio qui sta il mistero e la bellezza della fotografia:
complessità allo stato puro espressa con semplicità. E i grandi fotografi lo diventano non
solo per merito del talento o dell’ispirazione, ma grazie ad anni di osservazione, di studio,
all’esercizio e alla conquista di un metodo. Ecco perché Cartier-Bresson diceva ai suoi:
“Non preoccupatevi: le prime diecimila fotografie sono le peggiori”.
Ed è per questo che Elliot Erwitt non si spaventa nel vedersi circondato da centinaia di
schermi illuminati di telefoni che scattano contemporaneamente: “Perché tutti possono
avere una matita e un foglio di carta, ma pochi sono i poeti”.
⎡ L’uomo, la macchina, il paesaggio
a cura di CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia ⎦
Il potenziale narrativo della fotografia trova terreno particolarmente
fertile all’interno degli archivi che abitano da lungo tempo gli edifici delle nostre
città. Nascosti tra cassetti e scaffali, personaggi, luoghi e istanti lontani possono essere
combinati tra loro in un numero infinito di possibilità, percorrendo in un attimo il tempo
che li separa dal presente per tracciare nuove storie e percorsi inediti.
Per la realizzazione di questo libro, fotografie provenienti dall’archivio storico di Eni
– realizzate tra l’immediato Dopoguerra e gli anni Settanta – costituiscono il nucleo
centrale di un racconto che, accompagnato dai testi di alcuni grandi scrittori del
Novecento italiano (il rapporto fotografia-letteratura si ribalta), descrive le avvincenti
conquiste dell’azienda italiana, da sempre tesa verso la ricerca e l’innovazione in campo
energetico.
La prima fotografia di questo volume racchiude in sé tre elementi fondamentali, attorno ai
quali si sviluppa l’intera sequenza di immagini. In primo piano un tecnico incappucciato
da un elmetto volge lo sguardo verso l’osservatore: indifferenti allo scorrere del tempo,
innumerevoli uomini, così, si guardano negli occhi. Dietro di lui una torre di ferro eretta
su un impianto di perforazione fa da contraltare allo strumento nelle mani del fotografo:
la macchina come misura del mondo. Più oltre, sullo sfondo, si intravvede il paesaggio,
lunare, immancabile scenario di questa vicenda.
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L’uomo.
Lo sconosciuto con l’elmetto all’inizio del libro si ripresenta nelle pagine successive.
È lui il suo principale protagonista: trasformandosi da individuo a immagine, incarna
l’identità di un’intera generazione di tecnici, operai, ingegneri, avventurosi esploratori
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delle viscere della terra. Intenti a districarsi tra macchinari, ingranaggi, tubature
e altre diavolerie frutto delle più aggiornate ricerche ingegneristiche, questi uomini
costituiscono il cuore pulsante dell’azienda. Al punto che negli anni del boom economico
la struttura aziendale tende ad assimilarsi, duplicandolo, al tessuto sociale, formando
una sorta di organismo autosufficiente entro cui agiscono non soltanto i lavoratori, ma
anche le loro famiglie, come testimoniano le fotografie del quartiere residenziale dei
dipendenti Anic di Gela (1964).
Al di là delle modalità relazionali e organizzative, le fotografie del celebre Federico
Patellani restituiscono la vitalità dell’uomo. Per farlo sfruttano la via dell’istantanea, che
cristallizza l’azione e ne trattiene lo slancio oltre ogni confine temporale. È una questione
di rapidità: dello sguardo e del gesto che lo rinchiude nella pellicola. Il risultato, come
scrive lo stesso Patellani in un fondamentale articolo in cui nel 1943 esprime i principi alla
base della professione del fotogiornalista, sono immagini “che appaiono viventi, attuali,
palpitanti, come lo sono di solito i fotogrammi di un film”.
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La macchina.
Nelle fotografie di questa selezione non soltanto le presenze umane, ma anche quelle
delle macchine assumono un’importanza cruciale. Molte immagini si fondano sulla
compresenza di uomini e oggetti, evidenziando una dicotomia che si risolve subito
nello spazio bidimensionale della fotografia, dove ogni cosa si trova sullo stesso piano.
La fotografia è il luogo della condivisione: appiattisce le differenze secondo un criterio
autenticamente democratico.
Poi ci sono le immagini in cui la tecnologia trionfa e diventa il solo elemento visibile
nello spazio dell’inquadratura, ma anche qui l’uomo non è del tutto assente, se è vero
che le macchine costituiscono il frutto dell’ingegno di chi le ha costruite, spesso nutriti
gruppi di esperti al servizio del progresso e della modernità. Ciò accade per esempio
nelle fotografie di Aldo Ballo e dello Studio Pratelli – professionisti di lunga esperienza
nell’ambito del design e dell’architettura, forti di un retaggio costruttivista non lontano
dalle reminiscenze del Bauhaus – che tra gli anni Sessanta e Settanta rivolgono la propria
attenzione a stabilimenti, magazzini e siti industriali, fino alle navi-cisterna sparpagliate
nei mari attorno allo stivale. Su ogni soggetto calano una composizione rigorosa e
geometrica, tuttavia senza mai rinunciare a prospettive a perdita d’occhio, punti di vista
inusuali e inquadrature oblique che rivelano lo sguardo di un uomo colmo di stupore di
fronte al proprio operato.
Il paesaggio.
I diversi scenari sullo sfondo delle immagini – siano essi paesini rurali, distese pianeggianti,
le onde del mare o le sconfinate dune del deserto – non prendono mai il sopravvento sugli
altri elementi che le compongono. Accompagnano l’azione dell’uomo e ne attendono,
silenziosi, le mosse successive.
Particolarmente affascinanti in questo senso sono le testimonianze del territorio di
Egitto e Tunisia riprese negli anni Sessanta. Pionieristica promotrice di grandi campagne
esplorative, Eni ha infatti sempre teso verso l’estensione dei propri orizzonti in terre
lontane, lavorando fianco a fianco con le comunità locali, il cui contributo ha avuto un
ruolo essenziale nella crescita dell’azienda. In queste immagini, operai africani e italiani
faticano insieme per la costruzione di monumentali impianti di perforazione nel deserto.
I segni dell’insediamento in questi luoghi sono simboli inequivocabili della conquista
del paesaggio da parte dell’uomo, rimandando a numerosi esempi dello stesso processo
disseminati nella storia della fotografia, dalle missioni in Oriente in epoca coloniale fino
alla conquista dell’Ovest americano.
Un punto di vista rialzato, talvolta in maniera molto evidente come nel caso del sito
geologico Sitep in Tunisia e delle piattaforme petrolifere al largo di Gela, caratterizza
queste fotografie. Si tratta di un elemento chiave per la loro lettura: dietro la lente
dell’obiettivo, l’uomo domina il paesaggio da una posizione di privilegio garantendosi,
grazie alla fotografia, il ricordo eterno della propria conquista.
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⎡ Un’acropoli d’acciaio nella pianura
di Giovanni Comisso ⎦
Ogni volta si debba passare il Po, influiti dalla monotonia della
pianura, sebbene accesa dal verde intenso, avviene che, al valico, si rimane sorpresi fino
a gridare per la meraviglia dello scenario fatto di anse con isole interposte, tutte dense di
alti alberi. Ora che si va verso i giacimenti di gas naturale si pensa a quella vegetazione
preistorica che qui esisteva, folta, irruente, impaludata, dove animali giganteschi aprivano
strade tra le alte liane e altri minuti e serpeggianti fermentavano in tumulto; poi l’ultima
glaciazione tutto travolse, soffocò, sommerse, nel profondo di altra terra portata dai monti
e da tanta strage interrata germogliò questo gas prezioso di recente scoperta.
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Avvicinandosi a Cortemaggiore la campagna tenue di un verde più lavorato sembra quasi
ingenua, eppure sotto la sua crosta trattiene imprigionato il gas antico pronto a tramutarsi
in fiamma potente. Non come un incubo, ma come un lieto orgasmo ci accompagna
questo pensiero per la forza caotica racchiusa. Ogni tanto, lungo la strada, si vede da un
lato un recinto di rete metallica nel mezzo del quale sta una gabbia di ferro dipinto di
bianco che illude sia un pollaio, mentre invece preserva uno dei tanti pozzi che da mille
e più metri di profondità porta alla superficie il gas naturale. Chi ci accompagna ferma la
macchina e ci fa entrare nella gabbia, vuole che si posi l’orecchio al tubo per ascoltare il
gorgoglio incessante, poi apre una valvola e con un sibilo acuto il gas si sprigiona nell’aria.
Il cielo del pomeriggio è mite, venato appena di qualche strato sottile di nubi, un cielo
da pittura lombarda, ampio sopra la pianura ampia e che risente del verde sottomesso.
Al di là del recinto, su quella stessa terra, i contadini caricano il fieno su un carro, i buoi
biancheggianti al sole abboccano il fieno a ogni sosta, nella cascina, accanto, uomini e
donne vociano avviando un branco di maialini rosa verso lo stabbio.
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Ci si china verso la terra chiusa dal recinto e si vuole toccarla, discernerla per convincersi
sia uguale a quella che a poca distanza genera biade, mentre questa attraverso il tubo
profondo genera quel gorgoglio e quel sibilo acuto attratti dalle sue interiora. Una volta
nel trivellare questa terra il fuoco si sprigionò altissimo verso la mitezza del cielo e la lotta
per spegnerlo durò giorni affannosi e lunghissimi. Ogni passo su questa terra viene posato
con sospetto. Virgilio che con tanta dolcezza cantò la vita di questi contadini tra le ombre
dei faggi non pensava che anche attraverso a essa si poteva giungere qui sotto agli inferiori
dove riposavano gli eroi.
Qualcosa di misterioso
Cortemaggiore è un paese lombardo che fino a qualche anno addietro dormiva nel
giro lento dei suoi traffici agricoli, è tagliato da stradine diritte come fosse stato
costruito sulla traccia di un accampamento romano, ma forse era solo un agglomerato
di cascine attorno a una ampia corte dove si batteva il grano. Appena fuori dal
caseggiato appaiono scintillanti nel sole, che declina, gli impianti degli idrocarburi.
All’ingresso ci si sente costretti a sostare, non per le guardie che ci richiedono la
consegna cautelare delle nostre scatole di fiammiferi, ma per ammirare l’incanto
delle torri, delle enormi bombole, delle altissime tubature, tutte dipinte di un
bianco alluminio che si inazzurra nell’ombra. Qualcosa di misterioso sta alla radice
dell’incanto. Da prima sembra sia dovuto all’inquadratura data dal grande ingresso,
poi si pensa dipenda dal cielo fatto ancora più dolce, elevato sopra le costruzioni
metalliche splendenti nel loro bianco. Si rimane in un dubbio curioso, nell’entrare e
nell’avanzare sempre con un’attenzione incantata.
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Sebbene un rumore continuo, ritmico di acqua che cade e insieme di un motore, venga
da un edificio che sembra una baita montana, si ha l’impressione di un alto silenzio
dominante tutta la zona chiusa dal perimetro quadrato di un muro. Il silenzio dei
cimiteri se si guarda quel muro che gira attorno. Ma come si cammina tra le torri, tra i
grandi depositi che comprimono il gas, tra i pinnacoli, i minareti argentati e scintillanti
quel silenzio ricorda altri silenzi: quello che si respira tra le alte cime dei monti o nelle
sublimi acropoli. Un silenzio di isola, di riposo e di armonia insieme. Ogni costruzione
abituale è esclusa, ci si trova tra una architettura inusitata, tra un accostamento di
masse sferiche, cilindriche, tra tubature innumerevoli, una fila di comignoli alti una
quarantina di metri, una torre elevata di trama metallica, tutto biancheggiante nella
colorazione di alluminio, segnato solo in punti precisi e ritornanti di rosso, di verde, di
giallo, nelle parti di manovra o che possono essere toccate o percorse. Un’architettura
precisa, razionale per eccellenza, voluta da leggi scientifiche, con economia e ristrettezza
assolute, senza margini di retorica, di fantasie false e transitorie. Tutte le linee, tutti i
volumi hanno la loro ragione tecnica, essenziale, nuova e che genera uno stupore felice.
A un certo momento camminando rasente alla fila degli alti comignoli indorati dal sole
prossimo al tramonto, in quel silenzio e con quel cielo che li accoglieva verso la cima, non
si mente se sembra ritrovarsi sull’acropoli di Atene accanto alle colonne del Partenone
quando nella loro pietra giallina assorbono la stessa luce. Infine la ragione geometrica
di quelle colonne, richiesta per reggere col minore dispendio le architravi possenti, è la
stessa di questi comignoli, che sono cilindri di quaranta metri d’altezza racchiudenti il
gas naturale, che proviene dai vari pozzi e che dentro si purifica e si perfeziona. Tutta
la stanchezza per la giornata calda, per il viaggio lungo dispare come se il corpo si sia
disintegrato, lasciando libera la mente nel sollievo della contemplazione. Infine ci si
accorge che quelle strutture architetturali nella loro ragione di una tecnica scientifica
non hanno nulla di diverso dalle cristallizzazioni che si compongono simmetriche
in dimensioni armoniose volute da una composizione molecolare e chimica che non
soffre disgressioni. Sicché ci si trova davanti a un prodigio convalidato da un’estetica
che ricorre tanto nelle opere d’arte divenute classiche, quanto negli aspetti della natura
tra i più eccelsi e ineguagliabili.
Anche la mancanza di alberi, richiesta da necessità tutelari, lasciando scoperta a nudo
ogni zona, sia quella delle torri che quella delle tubature allineate e dei depositi cilindrici,
favorisce la rivelazione di questa cristallizzazione metallica che il bianco alluminio
lucente e variante col calare del sole rende sempre più incantevole. I brevi spazi interposti
di un’erbetta timida, quasi avvilita, servono a dare sempre più importanza al cielo vasto
che si posa sopra, facendo risaltare da ogni lato le masse semplici e nette. E il solo rumore
d’acqua cadente e di un motore insieme risulta infine come quello di un accordo musicale
suscitato da un organo idraulico.
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Ricordo del Partenone
Così camminando e pensando ci si accorse che più non ci si ricordava che quegli impianti
servivano come raccolta dei vari metanodotti, e il gas proveniente dalla profondità terrena
si liberava dei suoi complessi elementi per diventare metano e benzina. Entrando in una
capanna metallica la realtà riapparve nel vedere alla grande tavola di distribuzione, a ogni
volante corrispondere una dicitura di città lontane, e di fuori i tubi argentei inalberati,
come colonnine di bianchissimo marmo, si dipartivano da quella capanna, per curvarsi
nella terra e andare verso quei centri industriali a dare energia e calore a innumerevoli
macchine. Tutto era ancora silente e perfetto. E le brevi colorazioni di certe parti, in
rosso, in giallo e in verde, risultavano fioriture violente e integrali, come tra il chiostro
di un convento.
Ma col pensiero si andava ad altri momenti di altre stagioni e di altre ore del giorno.
Si sarebbe voluto, come appunto si fece per il Partenone, avere l’occasione di vedere il
variare della luce su questo accampamento, così architettato di masse nuove e misurate,
quando l’alba avanza nel cielo o in una notte di luna o in una giornata autunnale di
nebbia lombarda, o al cadere della neve o quando, biancheggiante il terreno e ritornato il
sole, tutto questo Partenone metallico emerge rilucente. Ma più formidabile, secondo il
racconto di chi ci accompagnava, deve essere quando il mite cielo lombardo nella calura
estiva si inferocisce improvviso di fulmini col pericolo imminente che uno colpisca
qualcuno di questi serbatoi di gas, incendiandolo spaventosamente. Accadde che fulmini
irati si scatenassero all’intorno, ma come guidati da mani generose, tutti gli impianti
rimasero immuni. Mentre veniva revocata l’ansia di tutto il personale pronto in tenuta
di combattimento con gli estintori alla mano, pure rivivendo la loro ansia per il pericolo
sovrastante, non si poteva non raffigurarci quelle che dovevano essere le luci di questi
elementi metallici, elevati e distesi, nell’accogliere i riverberi di quei fulmini mentre si
scatenavano dal cielo. E quali sarebbero stati se il temporale fosse avvenuto di notte.
Cortemaggiore. La grande torre corrispondeva all’altra, le serie ricorrenti delle colonnine
sulle logge e alla base corrispondevano alle tubature allineate e persino i due minareti
posti ai lati della facciata verso lo stesso cielo, presero la forma di quelli che dentro alla
loro massa cilindrica purificavano il gas sprigionato dalla terra.
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Più tardi giunsi a Cremona dove pernottai. Al mattino percorsi la città e andai a sedermi a
un caffè davanti al Duomo. Vivevo nel ricordo di Cortemaggiore e di quelle architetture
che mi avevano così profondamente incantato. Il Duomo con la sua facciata lentamente
sembrava richiamarmi. Ogni tanto vi posavo lo sguardo, infine come per un magico
giuoco, tutti i suoi elementi architetturali si sostituirono con quelli che avevo visto a
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⎡ Giorni di Abu Rudeis
di Ubaldo Bertoli ⎦
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Sulle carte geograf iche che riguardano la penisola del Sinai il
nome di Abu Rudeis non è segnato. Lo si trova sulle mappe che riguardano il petrolio,
fogli bianchi dall’aspetto un po’ burocratico e tuttavia con una certa grafia insinuante,
misteriosa. Il cerchietto che indica la posizione di Abu Rudeis è tagliato dal filo del
29° parallelo e più a nord, una quarantina di chilometri, c’è Abu Zenima, un villaggio
di trecento anime o forse di tremila, perché da queste parti spazio, leggenda, silenzio
traggono la mente dal calcolo e dalle supposizioni per distenderla ben ripulita nel grande
grafico dell’astrazione.
Ma il nome di Abu Rudeis è destinato a una particolare notorietà nella prossima stampa
delle carte geografiche e allora sarà tutta una cosa diversa da quanto è ora, una parte di
silenzio che la ricopre verrà tolta, dal varco passeranno le voci e i frastuoni del mondo che
sta al di là del canale, sulle dritte strade scure transiteranno i turisti occhialuti e immobili
sui torpedoni, e Abu Rudeis, campo-base per le ricerche petrolifere, si presenterà come
ormai è certo che sarà fra pochi anni: una cittadina con orti, fiori, chiesa, scuole, cinema
e molti ragazzi che mostreranno la loro indifferenza all’incauto viaggiatore in cerca di
emozioni esotiche.
Questi sono i risultati che precedono le intenzioni nella vita fulminea del nostro secolo
ove il petrolio è il sangue che la ravviva e ad Abu Rudeis di petrolio se ne cava settemila
tonnellate al giorno.
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Passato e sonde
Non siamo dei passatisti, la storia ci affascina per la cristallizzazione dei suoi problemi
e delle sue equivoche promesse, e il Sinai, con la sua leggenda biblica, il suo silenzio,
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l’immobilità del tempo, ci ha spinti per un momento a una scelta che non è possibile: Abu
Rudeis avverte chiaramente che sul passato l’uomo ha eretto le sonde e queste forano il
sottosuolo per scovare il petrolio.
Intanto, per arrivare al campo-base di Abu Rudeis occorre attraversare assai lentamente
il canale su cui assai lentamente passano le navi. Noi siamo partiti da Suez, a bordo di una
Ford robusta come un grattacielo e agile come un antilope. L’autista saltellava leggero sul
sedile ad ogni scossa, le mani ossute sul volante, l’occhio attento che pareva vedesse un
moscerino a un chilometro di distanza. Pilotò la macchina tra lo sciamare tumultuoso
di ragazzi e donne vocianti oltre la periferia, s’arrestò a due controlli militari, riprese
a correre sotto gli eucalipti per la strada a svolte che dondolava fra doline di sabbia e
cavalli di frisia e arrivammo al canale con le orecchie piene di suoni lontani e sulla riva
del canale la Ford si fermò all’ombra di una casa, mentre si faceva avanti dinoccolato, la
divisa nera e pelosa, un soldato nero e glabro. Ci chiese il lasciapassare, aveva le dita sottili,
umide. Sorrise come soffrisse di nostalgia, poi ci restituì il documento facendo segno
impersonalmente che tutto andava bene.
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La località ove si attraversa il canale si chiama El Kobrut e c’è ancora, con le persiane
chiuse, la villetta del comando inglese e sugli alberi la polvere. Nell’aria domina un
sentore di dolciumi fritti e l’aria è lucida e bianca come una evaporazione chimica. La
Ford si adagia sullo zatterone, dalla riva opposta ci aspetta un altro soldato che a sua volta
darà un’occhiata al lasciapassare, poi la strada s’infila nella piana sassosa e l’autista assume
l’aspetto di uno che abbia finalmente terminato una fatica non adatta al suo temperamento.
È una vera volata, la Ford sfiora l’asfalto, le ruote sembrano correre su un velo di borotalco
e le colline nude e bianche che parevano pochi minuti prima una linea irraggiungibile
sono ora, di colpo, davanti al pare-brise come proiettate dal miraggio. L’autista tace, forse è
intento a mostrarmi soltanto la sua abilità, la strada prende a salire, sinuosa, smangiata qua
e là, con grosse crepe, e nel fondo dove si annunciano catene di monti balugina il riflesso
del sole, e ogni tanto, a strappi, fresco e salino c’investe il vento del mare.
La strada che da Suez porta ad Abu Rudeis ricorda quella di “Vite vendute”, la stessa
solitaria impassibile crudezza. E a renderla uguale c’era il rombo piatto del motore,
la pietraia, le fenditure verticali nei precipizi su cui il cielo pareva un’eterna insidiosa
promessa, e il silenzio sopra ogni sasso con la sua strisciante potenza.
Occorrono in media tre ore da El Kobrut per arrivare in vista della fiamma che sventola
sulla piazza di Abu Rudeis e quando inizia la piana l’occhio si posa assetato sul mare
che appare di colpo dietro l’ultimo sussulto di rocce; una ditata di blu scuro, laminato,
convesso, sotto la campana abbagliante del sole. L’autista saltella sul sedile, punta un dito
contro la luce, scorgo una striscia bluetta interrotta da spazi geometrici. La Ford spande
la sua potenza, la strada si è rifatta dritta, l’asfalto pare una pelle insecchita di biscia.
Entriamo per una grande curva nel campo base di Abu Rudeis.
Uomini su cui contare
Gli uomini che vivono e lavorano in questo campo sono oltre 1200, di cui 44 italiani.
Di questi il più anziano è Francesco Mazza, direttore della perforazione, un uomo che
porta sulle spalle oltre quarant’anni di avventure minerarie. Fu con le prime compagnie
americane che vennero in Italia per trivellare l’Appennino, da ragazzo gli piacque
subito l’odore del petrolio ed ora, come accade ai navigatori col mare, non potrebbe
viverci lontano una sola settimana. Dicono che sia un po’ pignolo ma con lui una sonda
arriva dritta nel fondo e quando le capita qualcosa Mazza vi corre sopra e al mondo
altro non esiste che quella sonda da rimettere in movimento. Quando l’onorevole
Mattei ottenne dal Governo egiziano la concessione di sondare e sfruttare, insieme
alla Compagnie Orientale des Pétroles d’Egypte, la costa da Abu Rudeis a El Tor, vi
mandò degli uomini su cui sapeva di poter contare come essi avevano sempre contato
su di lui: uomini che subito gli diedero una precisa conferma della loro tenacia e della
loro capacità.
Tre anni fa il campo, su cui avevano operato inglesi e americani, era costituito da quattro
o cinque baracche e tutto denunciava un’aria di provvisorietà. Italiani e egiziani si
rimboccarono le maniche e diedero sotto senza un’ora di sosta, alternandosi con simpatia
e disciplina, non pensando che a fare di Abu Rudeis qualcosa di esemplare. Il mare
rallegrava un poco quella fatica, nelle soste di riposo c’era il pensiero per la famiglia lontana
e c’era l’aeroplanino che veniva dal Cairo con la posta. Tecnici e operai scovarono nella
sabbia, sulla riva, resti d’impianti, lamiere arrugginite, utensili gettati via con eccessiva
signorilità dagli americani, e tutta quella roba fu rimessa a nuovo, tornò utile, efficiente
intanto che le Ford cominciarono a trasportare gli attrezzi nuovi, le sonde costruite dal
Nuovo Pignone.
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“Lei può osservare quanto è stato fatto” mi dice l’ingegnere Giuseppe Toniolatti, il field
superintendent di Abu Rudeis. È un uomo alto, asciutto, dai gesti tranquilli e precisi. Mi
prega di essere obiettivo e si scusa nel caso io abbia interpretato male la sua richiesta: “Ai
giornalisti noi chiediamo di scrivere quello che realmente esiste qui, senza sconfinare
negli elogi o nella superficialità. Cose a cui non siamo abituati”. Lo dice con signorile
fermezza e la sua voce da l’avvio alla cordialità, alla confidenza. Vicino a lui, sottile, l’aria
un po’ timida, sorride il suo assistente, mister Ahmed el Adly. Prendiamo un caffè, il boy
entra come un’ombra bianca, fuori il silenzio è rotto ora da una Ford che parte e dalla
finestra vedo contro la striscia scura del mare le altre macchine allineate azzurre e bianche.
Il mattino seguente cominciai a visitare i campi petroliferi che si stendono sino a El
Tor. Da una sonda all’altra, per strade dritte fiancheggiate dalle pipeline, le grandi tanks
di Feisan dove al largo ormeggiano le petroliere per caricare il greggio, con la sponda
opposta del golfo che si avvicinava nella verticalità del riflesso, gli spalti d’ocra con le
fenditure che salgono all’interno nella grande terra silenziosa di Mosè, e il cielo sopra,
tanto da lasciare nell’animo un senso eccitante di smarrimento. E tutto quello che mi
aveva i contorni di una precisa efficenza, un impianto possente e solitario, gli uomini
curvi sulla piattaforma, la testa di una pompa da pozzo, silenziosa e vorace come quella di
un dinosauro, le Ford che passavano lontane cariche di operai, le barche a motore sotto la
riva, e tutto riluceva nel silenzio, nel ritmo dolce del tempo, come se ogni cosa fosse lì da
secoli, sorta per magia dalla solitudine.
Ma se si può parlare di magia essa è arrivata nei campi di Abu Rudeis due anni fa nella
veste che l’Agip Mineraria ha saputo darle col solo intento di scovare il petrolio. I
quarantaquattro tecnici italiani si sono uniti a quelli della Cope, insieme hanno creato
quello che a tutti è possibile osservare e non occorrono altre parole, appunto per non
sconfinare, nel terreno molle degli elogi. D’altra parte sono le settemila tonnellate di
greggio giornaliere che contano nei confronti di una realtà che a buona ragione rifugge
dalle compiacenze letterarie.
Ora Abu Rudeis è un esempio di organizzazione e ci vorrebbero dieci pagine per dire
sommariamente come è organizzato, per descrivere la razionale comodità delle baracche,
la varietà confortevole della mensa, la sincronia che cementa i turni di lavoro, la perfetta
attrezzatura dell’officina, dei magazzini, del laboratorio chimico. Un complesso che a
girarvi dentro si prova il fresco piacere della pulizia, dell’ordine e dell’educazione.
Organizzazione produttiva
Gli uomini di qui non indulgono al riconoscimento di se stessi, di quanto è stato fatto
sinora, e pensano a quello che resta da fare, perché i geologi hanno delineato il giacimento
per una vastità che ha oltrepassato le prime supposizioni ed ora presenta i suoi confini
sotto il mare.
Il bimotore che ogni mattina plana sulla pista del campo porta gli operai che sono andati
al Cairo a passare le vacanze (tre giorni su dodici lavorativi) e carica quelli che debbono
andarci. Porta anche la posta, i giornali, una volta al mese il “Gatto selvatico”. Appare
nel cielo pochi minuti prima delle dieci, puntuale, tanto da segnare per quelli che stanno
sull’ultima sonda, cinquanta chilometri a sud di Abu Rudeis, un punto preciso nel passare
del tempo. Riparte frullando leggero e quando arriva all’aeroporto del Cairo è l’ora della
colazione per quelli che l’hanno seguito sparire nel cielo.
Gli italiani di Abu Rudeis pensano all’Italia, alla pianura padana di dove quasi tutti
provengono, e certo che la nostalgia non è inferiore a quella che accompagna quelli che
lavorano in Persia e anche a Gela. La nostalgia è un dolce male latino che non ha trovato
ancora un antibiotico efficente e speriamo non lo trovi mai.
Con questo appartato pensiero, con tutto ciò che hanno imparato all’Agip Mineraria,
e diciamo anche con quel loro carattere che subito li ha resi simpatici agli egiziani, i
quarantaquattro tecnici mandati qui dal Presidente dell’Eni per vedere cosa si poteva
fare di buono, hanno fatto semplicemente tutto quello che a tutti è concesso ora di
vedere: qualcosa che può ritenersi, senza ricorrere agli elogi, un esempio di perfetta
organizzazione produttiva.
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⎡ Il Pozzo n. 14
di Carlo Emilio Gadda ⎦
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Erano circa le dieci nello scialbo grigiore dell’inverno, dopo una
seconda notte di treno, dopo fuggenti abetaie. Salii i pochi gradini del ballatoio che
prendeva il viandante addirittura di strada. Sospinsi, vincendo quel disagio che m’aveva
trattenuto per un attimo, il battente a vetri: entrai nel Restaurant de la Mine. Non c’era
altro da fare.
Nessuno! Al venire dalla stazione percorrendo quella medesima strada, più ampia d’un
viale. Davanti alle case ermetiche le concimaie quadrate, ricolme di uno strabocchevole
e dovizioso letame cavallino: quasi per mostra di un’agreste opulenza, per testimonio di
legittimati possessi. Caldi fumi ne vaporavano dentro il gennaio, esalando un vaticinio di
primavera. Fugavano gli spettri delle ipoteche con il loro silente incantesimo.
Adesso ero lì, fra i tavolini e le seggiole. Un odore di birra irrancidita e qualche moribonda
mosca mi accolsero. Di là si sentiva giocare a carte in tedesco con irosi commenti, un po’
come i nostri briscoloni da noi. Certi ach! E certe manate sulla tavola...
Apparve una discreta ragazza che venne chiamata Marguerite da un’altra subito dopo ed
ella chiamò questa col nome di Marie: poi una Johana in ciabatte, polacca, scarmigliata
e discinta, con una scopa tedesca e un secchio d’acqua lurida, e tutto uno strascico di
strofinacci marci che uscivan dal secchio, imbibiti di quella broda.
Spiegai in poche parole che ero il tal dei tali e desideravo un caffelatte: poi, di salire nella
mia camera.
Allora disparvero tutte, come anche il secchio e la scopa, e chiamarono la padrona. Questa
arrivò dopo circa mezz’ora, contemporaneamente al caffelatte di Marguerite.
Era enorme: si moveva con difficoltà sopra due gambe arcuate, dimenando delle anche
spettacolose da donna-fenomeno. Mi porse molto gentilmente la mano, il suo tratto
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era fine, la parola elegante, provenutale dalla sicurezza espressiva di tutto un popolo:
“Bonjour, m’sieur Gadà, puisque c’est vous m’sieur Gadà je suppose... Votre chambre est
presque terminée... Si nous aurions su d’avance”.
Il mio cognome francesizzato svolazzò per tutta la locanda, ridiscese con la preghiera di
voler pazientare altri cinque minuti. “C’est la polonnaise... qui aura presque terminé...
Elle a un très-mauvais caractère... Mais comme elle travaille... vous savez...”.
Poi finalmente mi accompagnarono di sopra. Nel corridoio semibuio c’era un lunghissimo
attaccapanni con appesi dei pantaloni, dei berretti da ciclista, alcune vestaglie. L’odore
di un ragù settentrionale combatteva a stento contro quello vittorioso della latrina.
Affianco l’uscio della mia camera, la scopa ed il secchio della Johana con la dotazione
degli strofinacci al completo. Delle lenzuola in mucchio, al suolo, evidentemente quelle
del mio predecessore. E poi due calzette di lana grigia, da uomo, accoccolate contro
la parete una dietro l’altra(1). Sembravano due animalucci domestici, intimiditi davanti
l’ospite di qualità: per fargli luogo s’eran tirati al muro, l’uno dietro l’altro.
Il Restaurant de la Mine(2) fu la mia abitazione durante alcuni mesi. La radio vinceva
ogni sera il baccano alemanno dei giocatori: qualche volta, tra il greve fumo delle pipe,
riceveva Milano.
Qualche figuro sinistro entrava di tanto in tanto, come un generato dalla Notte, per
pagarsi un boccale di birra: riusciva a capo basso senza salutare gli avventori, tergendosi
i baffi stillanti con la grossa mano, che aveva saputo ritrovare una moneta in fondo
all’ultima tasca. Uscendo magari a mia volta, scorgevo la sua ombra allontanarsi nella
solitudine, svoltava nel chiaro del fanale, prendeva poi lungo i sentieri senza luce, oltre i
campicelli di cavoli.
I figli della proprietaria, quando rincasavano a notte, un po’ brilli, mezz’ora dopo la tarda
passeggiatina della Marguerite, si picchiavano di santa ragione.
Il maggiore, un energumeno, sentivo svegliatomi di soprassalto che dopo ogni nuova
scarica di botte diceva al fratello: “Nicht genug?...” (Non ne hai abbastanza?...). Il minore,
che più teneva della gentilezza materna, gli rispondeva con le labbra peste e la lingua
impastata: “Tais-toi, sâle bête! Ne reveille pas m’sieur Gadà!”. L’idea dell’ospite li faceva
rientrare concordi in punta di piedi.
Mio compito era quello di dirigere il montaggio e la messa in marcia di un impianto per
la fabbricazione dell’ammoniaca, costruito secondo i brevetti di un chimico italiano(3).
L’ammoniaca viene ottenuta dal gas dei forni a coke previamente depurato e dall’azoto
atmosferico.
La sintesi azoto più idrogeno si determina ad una pressione altissima, dieci volte maggiore
di quella che si verifica nelle più alte cadute idroelettriche(4).
Questa esigenza delle alte pressioni, molto facile da enunciarsi, comportò lo studio
di ardui problemi tecnici di costruzione e di montaggio: e l’averli così limpidamente
risolti fu il merito precipuo dell’inventore. Richiedeva inoltre, per un buon esercizio,
avvertenze e cautele speciali: cure, diligenze infinite.
L’aspetto stesso degli apparecchi, dei tubi, delle valvole, degli strumenti, riceve da questa
motivazione funzionale una particolare caratteristica di potente robustezza: così certe
volte, nel primo delirio d’una gran febbre, vediamo e pensiamo gli oggetti ispessiti oltre
le consuete parvenze.
Nel mio caso, le difficoltà della nuova audacia tecnologica andavano moltiplicate dal fatto
che la depurazione preventiva del gas, voluta inderogabilmente dalle ulteriori fasi del
processo, non era ottenuta col rigore che avevamo domandato al cliente: e che solo poteva
consentire un funzionamento perfetto del nostro macchinario. Ciò complicava le cose,
dei residui solidi venivano formandosi nelle tubazioni a pressione altissima, attaccavano
l’acciaio, impedivano il circolo del gas, costringendomi talora a fermare l’impianto, a
farlo ripulire faticosamente pezzo per pezzo. Ma certi pezzi pesavano dieci tonnellate e
bisognava sollevarli col carro-ponte, dopo lunghe manovre di svitamento. Occorrevano
giorni e notti di duro lavoro nel salone altissimo della sintesi, o nelle cave delle macchine:
al quale lavoro si prestava la infaticabile energia fisica e morale dei montatori.
“Eh bè, m’sieur Gadà, est-ce que vous faites de l’ammoniaque ce matin?”, mi chiese una
mattina il direttore. Gli additai la calotta del gasometro, sublimatasi durante la notte; “on
ne sait pas pourquoi, on ne sait pas pourquoi... ”. Il perché era semplicemente questo: che
certe malnate pompe di lavaggio, per un difetto nella sistemazione delle tuberie, avevan
lavorato tutta notte ad insufflare aria nel gas: il gasometro, prelevati dei campioni di gas
per l’analisi, si rivelò pieno di miscela esplosiva.
Un pronto vuotamento mi sollevò da indesiderate responsabilità, nel mentre l’ingegnere
fu molto elegante e prese la cosa con amabile “nonchalance”. In dieci minuti quel cànchero
d’un gasometro lo riducemmo a soffiar fuori tutta la sua puzza malvagia.
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E il gennaio si induriva sulle tubazioni esterne con groppi e croste di ghiaccio, con
fantasmagoriche stalattiti: sobillava l’acqua a gelare nel bacile dei gasometri, le grosse
valvole bloccate dal sotto-zero ci voleva ogniduna un secchio d’acqua bollente o una
manichetta di vapore per disincagliarne e manovrarne il volante; il gelido vento della
notte mi portava, per il giorno, sinistri presagi.
Le torri di lavaggio del gas richiedevano faticose ascensioni ai vecchi bons-hommes della
fabbrica: con una lanterna da minatore, su, su, nel buio e nel gelo, lungo le scale verticali
in ferro, fino ai fastigi dei serbatoi della soda.
Le tubazioni d’acqua si ostruivano al gelo, il motore della pompa n. 5, sovraffaticato
dall’ostruzione, “scaldava”, poi bruciava: un tragico odore d’arrosto si sprigionava a
mezzanotte dai suoi avvolgimenti, che poche ore prima sentivano ancora di vecchio
politecnico.
Andavo da un padiglione all’altro, affrontato ogni volta, ferocemente, dal vento: badando
a non scivolare su certe passerelle, gibbute di ghiaccio. Di mezz’ora in mezz’ora, la batteria
dei forni a coke apriva taluna delle sue bocche per scaricare le Schlacken, le incandescenti
scorie. O meglio ancora il coke: vampe rosse ne irrompevano a un tratto come lingue del
cane infernale e palesavano, illividendoli di una luce improvvisa, gli aspetti faustiani delle
officine, i gasometri, i tubi, le torri. Apparivano nella notte quelle insospettate presenze,
come pensieri materiati.
Rara la stella del settentrione sopra la nera cimasa delle abetaie(5).
Talvolta, dopo le dieci, al cambio del turno, incontravo degli uomini rapidi, a frotte,
uscir dal cancello: venivano dal pozzo n. 14, buttati dal profondo. Procedevano senza
discorrere; alcuni avevano stivali da campagna, raggiungevano a piedi la piccola casa tra i
cavoli e qualche susino solitario. Il porcello, dallo stabbio, avrebbe grugnito nel sonno, il
cane avrebbe riconosciuto il passo, scodinzolando nel buio senza latrare per tutto il breve
sentiero fra il cancelletto in legno e i gradini di casa.
I figli erano al loro turno, nel pozzo medesimo n. 14, o in un altro prossimo. Si sentiva
qualche saluto tedesco, o franco(6).
Altri minatori si dirigevano alla piccola stazione dopo le siepi ed i viottoli, dove e donde
il treno delle undici sarebbe puntualmente arrivato e ripartito(7), rotolando preciso sulle
sue rotaie; due grossi fanali ad olio si dilatavano avvicinandosi dentro la notte, rotondi e
buoni come una vecchia consuetudine.
Rotolava fra lente colline, rigirate come disegno sinuoso di bastioni: dopo gli abeti il
pozzo, dopo il pozzo le case. E poi di nuovo in direzione opposta, fino a che nel gelo
deserto dell’alba sarebbero sbiaditi tutti i fanali.
Alcuni operai con incredibili sacrifici avevano messo su tra le verze delle baracche come
le nostre di guerra od anche più povere, rappezzate di rugginose lamiere di bidoni, con
tende, all’entrata, di tela di sacco. Altri vivevano nelle piccole case disperse, o nei villaggi:
avevano una bicicletta, una donna. Venivano raramente al Restaurant de la Mine, ch’era
un bistrot di troppe pretese: abili e sobrii, risparmiavano sulla paga con la mente sempre
al loro Friuli o al Polesine, sospirando il granoturco lontano, il campo che avrebbero
comperato al paese. Ricordo un muratore friulano che certi organizzatori locali volevano
indurre a non so quali sottoscrizioni poco convincenti: “Mi no so qua per firmar carte!”,
diceva, prudente e stizzito.
Nel piccolo capoluogo sorto fra i pozzi, dove mi recavo talora a provvedermi di qualche
indumento o qualche tubetto dì dentifricio, a concedermi un bagno o una toilette
dal parrucchiere “di lusso”, (rasieren, frisieren), lo scoramento dell’internazionale mi
prendeva ogni qualvolta, nel sole freddoloso della domenica. Non era Francia, non era
Germania: c’era una prevalenza di polacchi, di croati, di cechi. C’erano anche, forse, degli
italiani. Dei caffè chiusi, da Fratelli Karamazoff, dove si entrava come in una chiesa, per
trovarci molti giornali col manico e certi ceffi! Una ragazza non tedesca mi recava il boc
con un “bitte schön” pappagallesco, fra le occhiate sospettose degli altri avventori.
Delle scritte cubitali, sui muri bianchi o giallini, terminavano in cêk e in owski, con
accenti circonflessi, acca e cappa nelle sedi meno prevedute. Dovevano essere, credo,
dei salumieri e dei salumi balcanici; si trattava probabilmente di cooperative operaie: di
sapone, candele, aringhe, sego, spago, zolfanelli.
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Un clima senza passato e senza intimità, dove lo straniero incontra e non saluta lo
straniero, mi conduceva a percepire “sperimentalmente” il profondo valore e peso che
ha l’ambiente e la patria, quando crea e determina l’anima nostra, liberandola verso
un’armoniosa gratitudine, arricchendola di figurazioni che i secoli hanno disegnato. Qui
la necessità del mangiare convoca uomini strani in un raduno straordinario di popoli, con
passaporti penosi.
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Il carbone profondo vuol braccia ed altri umani motivi fanno mescolanze d’ogni
qualità, generando stupefatte nature, che nulla ricordano. Gli archivi segnaletici della
Gendarmeria si arricchiscono di fotografie slave e tartariche, basche, latine, illiriche,
convalidate da timbri rotondi.
Oh! Non europeo né europeista io mi sentivo in quelle povere ore da dentifricio, ma
sognavo di Spoleto e di Fiesole: quelle abetaie s’erano frapposte fra le legioni e le “catervae”.
“ ... Pro magnitudine silvarum quae intercederent inter ipsos atque Ariovistum...”.
Avrei desiderato la Francia: e la mia mente, ritornato fanciullo, ricreava un attimo la
stupita limpidità della favola. Ecco, ai piedi del vecchio faggio perorava la volpe, fuori del
dolore e del tempo. Ma poi, dodici a dodici, terribilmente allineate, le tragiche nuvolette
dei fucili ad ago, in volata di canna, e gli elmetti aculeati dell’invasore, come in una
calcografia che m’aveva accorato fanciullo. Uno scontro del ’70, dopo Saarbrücken.
Sullo sfondo l’immagine di quelle medesime selve che ora, tra la foschia de’ fumi, vedevo
annerarsi di là dalle ciminiere e dalle torri, nel cieco orizzonte.
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(1) Le due calze di lana grigia “sembravano due animalucci domestici”: avevano cioè persistito nella forma, come se tuttavia
contenessero i piedi relativi.
(2) Nel villaggio lorenese di Carlingen. La popolazione era in prevalenza tedesca.
(3) Il dottor Luigi Casale, da Vigevano, (1883-1927), uomo di alto animo e di altissimo intelletto! L’estrema sobrietà dell’accenno
è dovuta a castità giornalistica, (contratti di esclusiva delle aziende pubblicitarie), poiché i processi Casale tengono tuttora il campo
nell’industria dell’azoto sintetico, in concorrenza con altri processi.
(4) Ordine di grandezza: 700÷800 atmosfere. “Le più alte cadute” raggiungono tuttavia le 150 atmosfere. Trattasi di una
indicazione di valori medi.
(5) Rara, perché il cielo era pressoché sempre velato.
(6) Il territorio di Carlingen, nella attuale Lorena francese, è al limes etnografico franco-germanico. Saint-Avold (1930) era
francese.
(7) Lo scartamento delle rotaie di Lorena, Alsazia e Germania era più esatto che altrove; e conferiva al treno una marcia più dura,
eliminando gli sbandamenti, le onde laterali (minor tolleranza dell’errore di scartamento: armamento più solido).
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⎡ Gela: realtà e condizione umana
di Leonardo Sciascia ⎦
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Gela (Terranova fino al 1927) è uno dei pochi paesi siciliani in cui
l’aumento della popolazione è stato nei secoli costante: tranne una lieve flessione, registrata
nel 1653, e dovuta a cause d’ordine generale (carestia, rivoluzione, peste), dal 1570 ad
oggi la popolazione di Gela è stata sempre in aumento. Fatto non comune per una terra
baronale, dico di una signoria relativamente buona, o almeno non eccessivamente esosa:
ed era quella dei Pignatelli di Monteleone, ai quali la gran parte del territorio, “immensa
proprietà”, apparteneva ancora quando nel 1876 Franchetti e Sonnino vennero in Sicilia
a svolgere la loro ormai classica inchiesta.
E che i Pignatelli curassero questo loro latifondo più avvedutamente che altri nobili
siciliani, prova la diga che uno di loro fece costruire, a proprie spese, alla fine del Settecento:
rendendo irrigua tutta la vasta pianura. Questa opera di bonifica permise l’introduzione
di una nuova coltura: quella del cotone, che per il paese segnò un momento di insolita
prosperità negli anni della guerra civile americana e poi, fatalmente, una depressione; per
cui si tornò all’antica rotazione di coltura, grano e fave, grano ed erba, grano e pomodoro.
Ma restarono alcune piccole aziende rurali, giardini d’agrumi e alberi fruttiferi con
intorno poca terra arativa che, annotava Sonnino, destano “un’impressione di piacere in
chi provenendo dall’interno dell’Isola ha l’animo rattristato dalla vista di quelle immense
estensioni di campagna, priva affatto di ogni abitazione”.
Paese di mare, affacciato su quel mar d’Africa che per paesi dello stesso litorale - Licata,
Porto Empedocle, Sciacca, Mazara - è stato ed è fonte di vita, Gela ha guardato soltanto
alla terra: alla rossa pianura, all’altipiano degli zolfi. Fino a pochi anni addietro, un paese
con molti contadini e pochi zolfatari: e quel mare vuoto, che quasi batte alle sue case,
aggiungeva riflessi di allucinazione, note di fonda desolazione.
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Si viveva a Gela come in qualsiasi altro paese della Sicilia interna (e forse peggio per
quanto riguarda le condizioni igienico-sanitarie, suscitando il clima indici piuttosto
alti di tubercolotici e tracomatosi). Nel censimento del 1951 la maggior parte della
popolazione attiva del paese risultava impiegata, per 7458 unità, nell’agricoltura e, per
1272, nelle industrie estrattive e manifatturiere. Ma si sa come vanno presi i risultati
dei censimenti, le statistiche, le medie, specialmente se sorgono da una realtà amorfa
e sfuggente come quella siciliana. Un uomo occupato in agricoltura voleva in effetti
dire: non più di cento giornate lavorative in un anno, e con un salario di fame. E nella
industria estrattiva, cioè nelle zolfare: lunghi periodi di sospensione e di scioperi, le
paghe rimaste in arretrato nell’attesa che la Regione o lo Stato venissero a rinsanguare
finanziariamente gli esercenti.
Personalmente, credo di non aver avuto mai, come allora a Gela, una più cruda rivelazione
della povertà siciliana, della miseria. Non un fatto oggettivo - la casa terragna umida
e oscura, il pavese dei cenci sciorinati al sole, le mosche, i vestiti, la denutrizione, il
grondare del tracoma - ma l’aria che vi batteva in faccia, che vi si attaccava alla pelle.
La miseria scendeva dentro di voi, si faceva peccato d’origine e specchio del destino:
inalienabile e irredimibile in voi come in quell’umanità dolente ed attonita. “Quel che
ci resta è uno sguardo - stupito di galeotti - per tanti anni vissuti vanamente - in questa
intensità fissa di cielo”, scriveva Emanuele Gagliano, un giovane poeta di Gela. E come
dalla terra cominciavano ad affiorare le rovine degli antichi splendori, i frammenti di
una civiltà luminosamente consapevole della dignità e bellezza dell’uomo, il paese vivo
sembrava invece scivolare verso un’oscura condizione archeologica.
Ma qualche anno dopo:
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L’alba striscia sui fiori del cotone
con sentori di notte e di silenzio:
uomini taciturni sulle strade
(immobili i carretti
come per lunga attesa)
guardano gli autotreni
che impassibili arrotano
la dolente speranza.
By City:
dentro gli occhi dei muli spaventati
la luce trema.
Sono versi di un altro giovane Alfonso Campanile che, a Gela, la Gela nuova ed antica,
ha dedicato un gruppo di poesie nel libro “Amore contro amore” che con quello di
Gagliano, che s’intitola “Pianura rossa”, è la più viva e vera voce che sia sorta sulla realtà
e condizione umana di questa parte della Sicilia.
Gela diventava la terra del petrolio. E non che subito, appena dalla Piana del Signore
venne fuori il primo getto, la gente ne avesse beneficio, sicurezza e speranza.
Il paese sembrò anzi farsi di colpo più povero, i poveri si sentirono più poveri: saliva il
commercio ma le cose di cui i negozi si infittivano sembravano respingere la vita della
popolazione in una zona ancora più oscura e lontana. E c’era diffidenza: stranieri e uomini
del nord ritenevano, forse, che la miseria fosse una vocazione più che una condizione; e
dalla povertà i gelesi guardavano quegli uomini ben vestiti e ben rasati, le loro famiglie, i
loro bambini ben nutriti, come i cursori di una nuova e diversa depredazione lanciata su
una terra che già tante ne aveva subite nei secoli. E di questa diffidenza, di questo rancore,
è testimonianza nei due posti citati.
Oggi si può dire non ne sopravviva traccia: anche se a svicolare dalle strade principali
ancora si scoprono nei catoi forme di vita primitiva. Ma molta gente ha già lasciato i catoi,
l’aumento dei redditi è continuo e sicuro, più vasto l’accesso ai beni di consumo e d’uso.
Nel paese è sempre un’aria di festa: ch’era in certi paesi zolfatari, nei tempi d’oro delle
zolfare, il sabato sera; ma senza quella componente di disperazione e d’angoscia che si
intravedeva nel riposo dell’uomo della zolfara, senza quel baluginare di morte che era
nell’ebbrezza del vino.
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⎡ Uomini dal multiforme ingegno
di Primo Levi ⎦
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Trenta ore trascorse sul Castoro Sei sono state un dono raro per un
uomo di terra quale sono, un uomo per cui il mare è quello delle ferie in Liguria, e quello
trasfigurato che emerge dalle pagine di Coleridge, di Conrad, di Verne e di Melville.
Proprio a questi ultimi due riandavo continuamente con la memoria durante quel mio
troppo breve soggiorno: più precisamente, a “Ventimila leghe sotto i mari”, ed in specie
alla “visita guidata” che il Capitano Nemo offre a Monsieur Aronnax attraverso i visceri
meccanici del Nautilus, e ad una frase (che da più di trent’anni mi era rimasta impressa)
di Cesare Pavese, traduttore, nella prefazione di “Moby Dick”: “...Melville...conosce ben
altro nella vita oltre le (librerie) Vaticane e i bancherottoli, e sa che i migliori poemi sono
quelli raccontati da marinai illetterati sul castello di prora”.
Le due citazioni, o voglio dire i due agganci letterari, valgono quanto valgono tutte le
citazioni. I marinai del Castoro sono tutt’altro che illetterati: sono anzi dei marinaiingegneri, una specie umana che ai tempi di Melville non esisteva, e che invece Verne
aveva previsto ed anticipato con quel suo misterioso fiuto di veggente tecnologico che
gli aveva consentito di antivedere, cinquanta o cento anni prima, l’uso bellico degli
elicotteri, la televisione, il missile scaraventato sulla Luna (proprio da Cape Canaveral!)
col suo equipaggio umano, ed un sottomarino tutto sommato abbastanza plausibile.
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Il Capitano Pietro Costanzo mi vorrà perdonare se l’ho avvicinato qui al Capitano
Nemo, misantropo, vendicativo e luciferino; né d’altronde il Castoro è un sommergibile:
ma, come il “Nautilus”, il suo ventre è gremito di meraviglie. Come i sommergibili (e
d’altra parte viene appunto tecnicamente definito un “semisommergibile”), e come le
baleniere di un tempo e di oggi, è una nave-non nave, una nave per cui il navigare è un
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compito sottinteso e laterale, ma che in sostanza è destinata ad altri scopi più definiti. I
congegni che contiene destano meraviglia appunto per l’estrema raffinatezza con cui essi
tendono ad uno scopo preciso ed insolito: deporre in fondo al mare, a profondità finora
mai raggiunte, un tubo rigido d’acciaio rivestito di cemento, manipolandolo come se
fosse leggero e flessibile al pari di un tubo di gomma.
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La storia della tecnologia dimostra come, davanti ai problemi nuovi, la cultura scientifica e
la precisione siano necessarie ma insufficienti. Occorrono ancora due altre virtù, che sono
l’esperienza e la fantasia inventiva, ma nel mestiere dello sfruttamento del gas naturale,
che è molto recente, l’esperienza non si dilata attraverso i secoli o i millenni: è compressa
nei decenni, o anche in periodi più brevi. È assai più corta di una vita umana, ed i padri
non hanno nulla da insegnare ai figli; non può far conto su quella lenta evoluzione quasi
darwiniana che ha modellato le armi da fuoco nel corso di cinque secoli, e l’automobile
nel corso di uno. All’esperienza sono necessarie le prove e gli errori, ma qui non c’è
tempo di sbagliare e correggersi, e deve prevalere la fantasia, che opera per salti, nei tempi
brevi, attraverso mutazioni radicali e rapide. Ma nulla va perduto delle esperienze valide,
anche delle più remote; come il nostro corpo ha ereditato il meccanismo genetico e le
architetture proteiche degli organismi monocellulari, e come l’automobile incorpora
il disegno del carro a cavalli, così nel Castoro Sei si ravvisano curiose ed illustri idee
innovative che risalgono agli albori della nostra civiltà: la casa pensile sulle palafitte, la
doppia carena del catamarano. Anche questo è da meditare: come le grandi idee ed i grandi
problemi della filosofia (se la materia sia infinitamente divisibile; se l’universo sia finito
od infinito, eterno e perituro; se la nostra volontà sia libera o serva), così anche le grandi
invenzioni della tecnica si trasformano ma non muoiono. Sopravvivono ai millenni la
leva, la ruota, il tetto; nessun metallo è caduto in disuso, ed anzi, innumerevoli nuovi usi
sono stati trovati per i metalli più antichi. Sarebbe difficile nominare una materia plastica
obsoleta, mentre le più antiche fra queste, le resine fenoliche ed il polistirolo, non hanno
perduto nulla della loro importanza.
Un discorso analogo si può fare per quanto riguarda gli uomini a bordo del Castoro.
Come è singolare, unico al mondo, il mezzo, così è di suo genere l’equipaggio; o meglio
gli equipaggi, poiché si tratta di tre squadre di 150 uomini ciascuna, che si avvicendano
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a rotazione, due a bordo (per ventotto giorni, domeniche e feste comprese, con dodici
ore giornaliere di lavoro e dodici di riposo) ed una a terra in vacanza per 14 giorni. È
un equipaggio composito: comprende saldatori, meccanici, elettricisti, elettronici, gruisti,
macchinisti, aggiustatori, manovali, oltre agli addetti ai servizi ed alla navigazione. Tuttavia,
la separazione (l’“interfaccia”) fra i marinai e gli operai, ed a più alto livello fra ufficiali e
ingegneri, non è netta, perché la navigazione del Castoro è una strana navigazione.
Da una nave propriamente detta si richiede che navighi rapidamente, in direzione
longitudinale, e solo per eccezione a macchina indietro. Il Castoro, invece, naviga
in avanti solo quando è in trasferta; ma per la verità parlare di avanti e indietro, per
il Castoro, non ha molto senso: non ha una prua vera e propria, si chiama prua, per
convenzione, l’estremità da cui scende il tubo in acqua, e che quindi arretra durante
il lavoro di deposizione. Può spostarsi in tutte le direzioni, perché ha quattro eliche
orientabili sistemate ai quattro angoli degli scafi inferiori. Non supera di norma la velocità
di 6-7 nodi; per questa nave, che di fatto è una sofisticatissima officina galleggiante,
assai più che la velocità è importante la stabilità ed il posizionamento. In altre parole:
deve poter rimanere ferma rispetto al fondo marino, cioè al tubo, entro limiti di pochi
decimetri, non deve oscillare col moto ondoso, non deve risentire del vento e delle
correnti, e quando si sposta per deporre il tubo, deve farlo con velocità esattamente
controllata. Per ottenere che tutto questo avvenga con la dovuta affidabilità, si è fatto
ricorso ad un raffinato sistema di automazione che, ad ogni “varo” del tubo, prescrive
ai dodici argani delle dodici ancore (formidabili ancore, da 20 a 25 tonnellate ciascuna),
ed ai quattro gruppi motori, i movimenti richiesti affinché il tubo scenda in acqua senza
ricevere sollecitazioni superiori a quelle consentite dalle specifiche e dalla resistenza dei
materiali. Il momento del “varo”, cioè dell’avanzamento del tubo, che si ripete (se tutto
marcia regolarmente) ogni dieci minuti circa, è uno spettacolo che non si dimentica: al
comando del cervello elettronico che sovraintende all’operazione, i colossali argani si
mettono simultaneamente in movimento, ritirando il cavo quelli di poppa, rilasciandolo
quelli di prua, e le quarantamila tonnellate del Castoro Sei si spostano ponderosamente
verso la costa siciliana di dodici metri esatti, cioè della lunghezza di uno spezzone di tubo:
ma il movimento è così dolce e privo di strappi che chi sta a bordo non lo percepisce. Vede
soltanto scorrere in avanti il tubo, e gli pare che si muova quello e che la nave sia ferma.
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È un’illustrazione concreta della relatività galileiana, e ritorna a mente la Garisenda
di Dante, che sembra chinarsi verso terra quando sul suo sfondo si spostano le nuvole
trascinate dal vento.
L’automazione è un’arte giovane, ed è naturale che vi siano addetti uomini giovani; ma
anche i più anziani si sono spesso rivelati preziosi. Non soltanto per i mestieri tradizionali,
per la navigazione e per i servizi: la loro esperienza, accumulata nel corso degli anni in
lavori anche molto diversi, si è dimostrata di grande valore nel far fronte agli imprevisti;
infatti, sarebbe ingenuo pensare che in un sistema cosi complesso, e destinato ad operare in
condizioni così inusitate, tutto possa essere previsto e non si verifichino mai incidenti. Mi
sono stati raccontati due episodi, due imprevisti, appunto, che dimostrano quanto ancora
valgano l’esperienza e la fantasia inventiva quando si tratti di risolvere rapidamente, e “coi
mezzi di bordo”, un problema nuovo.
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Come è noto, il fondamento del lavoro del Castoro è la saldatura. Esso è, in sostanza,
un’officina di saldatura lunga quasi 150 metri; lungo il tubo, che avanza via via, si
succedono otto stazioni di saldatura, e la giunzione degli spezzoni del tubo viene eseguita,
in parte automaticamente, in parte a mano, secondo tecniche di saldatura altamente
sofisticate. Prima del varo, ed in coda alle operazioni di saldatura, deve essere eseguito un
controllo radiografico: se la saldatura è perfetta il tubo continua ad avanzare; se presenta
difetti, questi vengono rapidamente eliminati. Il generatore di raggi X è contenuto in
un’apparecchiatura carrellata che scorre entro il tubo, o meglio, che è in posizione fissa
rispetto alla nave, ed attorno a cui scorre il tubo; quest’apparecchiatura è trattenuta da un
cavo, e per la sua forma allungata è stata denominata “il porcellino”. Nel corso del lavoro,
per qualche causa che è rimasta misteriosa, il porcellino è improvvisamente sparito: il
cavo si era strappato, il carrello aveva seguito la pendenza del tubo, e la costosissima
apparecchiatura era discesa per una lunghezza di trecento metri. Il danno era grave:
a parte l’interruzione forzata delle operazioni di varo (mi è stato precisato che un
minuto di lavoro del Castoro Sei costa 280 mila lire!), il porcellino ostruiva il tubo quasi
completamente, e doveva a tutti i costi essere rapidamente rimosso.
Si è riunito un vertice di tecnici, e sono state fatte varie proposte, fra le quali la più
pittoresca era la seguente: telefonare in Tunisia, fare introdurre nel tubo una palla di
gomma o di qualche altro materiale cedevole, e pomparvi dietro aria compressa, come
si fa nella posta pneumatica. La palla avrebbe dovuto raggiungere il porcellino sul fondo
del Mediterraneo e spararlo fuori. Si stava ancora discutendo quando si è fatto avanti uno
dell’equipaggio; era un ex-pescatore, e gli sembrava evidente che il porcellino doveva
essere pescato. La sua proposta non pareva così facile da mettere in atto, ma era semplice,
rapida e non costava che qualche migliaio di lire; l’uomo è stato condotto in officina, dove
si è fatto preparare un grosso amo e lo ha zavorrato con un peso. Ha introdotto amo e peso
nella bocca del tubo, e dopo qualche minuto di tentativi pazienti ed esperti ha agganciato
il porcellino e lo ha tirato fuori.
Il secondo episodio è in scala ciclopica. Come accennato, il posizionamento e l’avanzamento
del Castoro riposano su un complesso sistema di ancoraggio. Le dodici ancore gigantesche
sono disposte a raggera intorno alla nave, e di norma la nave “cammina” sulle dodici
ancore: quando, spostandosi trascinata dai cavi, essa si trova troppo vicina alle ancore dalla
parte siciliana, queste vengono ritirate e affondate più oltre, e quelle dalla parte tunisina
vengono avvicinate alla nave. Tempi, angoli e distanze del riposizionamento delle ancore
vengono dettati dal computer di bordo, e l’operazione viene eseguita da rimorchiatori
che seguono e circondano il Castoro come servitori solerti. I cavi di ormeggio (d’acciaio,
con diametro di 3 pollici) sono lunghi 2700 metri: in definitiva, il Castoro, le sue ancore
segnalate dalle relative boe, i rimorchiatori e i “supply boats” che fanno la spola con
la terraferma e riforniscono il Castoro di tubi, carburante, ecc., interessano parecchi
chilometri quadrati di mare.
In una notte di fiero maltempo, una delle boe ora accennate è scomparsa: diventava
impossibile localizzare con precisione l’ancora che le stava sotto, e quindi spostarla quando
fosse venuto il suo turno. A quanto pare, la boa era stata in qualche modo lesionata: era
del tipo inaffondabile, ma la sua spinta di galleggiamento si era ridotta, e il peso del
cavo che la legava all’ancora la tratteneva a mezz’acqua, in un punto imprecisato sia
come collocazione, sia come quota. Era anche questo un problema di pesca, ma di pesca
alla cieca; e l’ancora giacente sul fondo pesava 25 tonnellate, più altre dieci almeno di
catena. È stato risolto come appunto l’avrebbe risolto un cieco, cioè a tentoni. Da uno
dei rimorchiatori è stato impegnato un grosso gancio sotto il cavo, visibile per pochi
metri, che dal Castoro andava all’ancora; poi il rimorchiatore si è messo in movimento,
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in un mare pauroso, lasciando scorrere il gancio lungo il cavo, ma mantenendo sempre in
tensione la fune a cui il gancio era assicurato. Il gancio è calato obliquamente, seguendo
la catenaria del cavo per quasi due chilometri, fino alle enormi maglie della catena
che collega il cavo all’ancora: si è impegnato nella prima maglia, e la gru poderosa del
rimorchiatore ha sollevato ancora e catena di quanto bastava perché la boa danneggiata
riaffiorasse.
Ecco, sono questi i “poemi” a cui alludeva Pavese parlando di Melville. Non mi sono
stati raccontati sul castello di prora (che sul Castoro Sei non credo esista), bensì al tavolo
della mensa, davanti a bicchieri di vino buono; e non da marinai illetterati, bensì dal
Capitano Costanzo e dagli altri uomini dell’equipaggio, giovani e meno giovani,
ingegneri cibernetici al loro primo incontro col mondo del lavoro, macchinisti orgogliosi
di ogni singolo bullone delle loro macchine, marinai-operai che in quest’opera insolita e
colossale hanno ritrovato le antiche virtù della competenza messa alla prova e del lavoro
ben fatto. Spero che non si stupiranno né scandalizzeranno se i loro racconti mi sono
sembrati poetici. Infatti, nelle loro parole, frenate, educate, precise e prive di enfasi,
ho riconosciuto la eco della voce di un altro navigatore e raccontatore le cui avventure
remote sono oggi poesia eterna: quello che aveva navigato per dieci anni per mari strani,
e le cui virtù prime, più assai del coraggio che pure non gli mancava, furono la pazienza
e l’ingegno molteplice.
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1955
Un’acropoli d’acciaio nella
pianura
Giovanni Comisso
pag. 32-33
Uomini al lavoro nel campo di
Caviaga. 1949.
Crediti/Copyright: Archivio storico eni, Roma
pag. 34.
Tratto a ponte del metanodotto
Snam sul Naviglio Pavese. 1954.
pag. 19
Attività di ricerca Agip Mineraria
in Sicilia. Primo piano di un
tecnico.
Sciacca, 1955.
pagg. 20-21
Sonda di perforazione Agip
Mineraria.
Sant’Arcangelo di Romagna, 1955.
pag. 22
Torre di perforazione Agip
Mineraria.
Cortemaggiore, 1950.
pag. 23
Eruzione sonda 18, uomini al
lavoro.
Cortemaggiore, 1950.
pag. 24
Attività di ricerca e produzione
Agip Mineraria.
Sant’Arcangelo di Romagna, 1954.
pag. 25
Attività sismica ed agricola nei
campi della Pianura Padana. 1952.
pag. 26
Torre di perforazione Agip
Mineraria. Cortemaggiore, 1950.
pag. 27
Uomini al lavoro nel campo di
Caviaga. 1949.
1959
Giorni di Abu Rudeis
Ubaldo Bertoli
Crediti/Copyright: Archivio storico eni, Roma
pag. 43.
Attività dell’Agip Mineraria. Fungo
di erosione eolica presso Gara
Dalma Kebir a Nord dell’Oasi di
Cufra. Libia, 1961.
pag. 44.
Maestranze egiziane nella
concessione petrolifera della
COPE, Compagnie Orientale
des Pétroles d’Egypte.
Sinai, Egitto, 1959.
pag. 45.
Un impianto di perforazione Ideco
Pignone dell’Agip Mineraria in fase
di montaggio sulla vetta del Monte
Sequtah. Monti Zagros, 1959.
Foto Federico Patellani
Foto Aldo Ballo
pag. 50.
Visione area concessione El Borma
e sonda di perforazione. Tunisia,
1964.
pagg. 74-75.
Area di imbustamento fertilizzanti
azotati. Stabilimento Anic.
Ravenna, 1960 circa.
pag. 51.
Sito geologico SITEP, società mista
Eni e Stato tunisino, nel sud
della Tunisia. 1961.
pagg. 76-77.
Magazzino di stoccaggio
fertilizzanti. Stabilimento Anic.
Ravenna, 1965 circa.
pagg. 52-53.
Perforazione e produzione ad Abu
Rudeis. Uomini al lavoro.
Egitto, 1966.
pag. 78.
Impianto cloruro di vinile.
Stabilimento SCR, Società
Chimica Ravenna. 1970 circa.
Foto AGI
Foto studio Pratelli
pagg. 54-55.
Maestranze egiziane nella
concessione petrolifera della
COPE, Compagnie Orientale des
Pétroles d’Egypte.
Sinai, Egitto, 1959.
pag. 79.
Veduta notturna dell’impianto
di isoprene. Stabilimento Anic.
Ravenna,1972.
Foto Federico Patellani
pag. 56.
Ricerca geologica a GabèsMedenine. Tunisia, 1961.
pag. 48a.
Concessione petrolifera Agip
Mineraria. Monti Zagros, 1959.
Foto Federico Patellani
Foto Aldo Ballo
pag. 48b.
Perforazione e produzione ad
Abu Rudeis. Egitto, 1966.
Foto AGI
pag. 49a.
Uomo al lavoro. Concessione
petrolifera offshore nel Golfo
Persico. 1959.
Foto Federico Patellani
pagg. 80-81.
Impianto cloruro di vinile.
Stabilimento SCR, Società
Chimica Ravenna.
1970 circa.
Foto studio Pratelli
pag. 57.
Un geometra Agip con la sua guida
presso i resti del trigonometrico
quota 53. Tunisia, 1965.
1964
Gela:
realtà e condizione umana.
Leonardo Sciascia
Foto Federico Patellani
pag. 30a.
Impianto di Cracking Catalitico.
La torre di frazionamento.
Cortemaggiore. 1957.
pag. 31.
Gli impianti di lavorazione visti
dai serbatoi di GPL.
Cortemaggiore. 1957.
Foto Roberto Andrei
pag. 46.
Aspetti della vita al campo
dell’Agip Mineraria.
Monti Zagros, 1959.
pag. 47.
Beduina con bambino. Tunisia,
1961.
Foto Aldo Ballo
pagg. 71-72-73.
Magazzini e produzione di
fertilizzanti destinati ai paesi arabi.
Stabilimento Anic. Ravenna, 1960
circa.
Foto Federico Patellani
pagg. 28-29
Perforazione nel campo di Caviaga.
1950 circa.
pag. 30b.
Impianto di Cracking Catalitico.
Scambiatori di calore.
Cortemaggiore. 1957.
pag. 49b.
Veduta panoramica della Tank
Battery 1. Uomini egiziani al
lavoro. Sullo sfondo i monti del
Sinai. Egitto, 1960 circa.
Crediti/Copyright: Archivio storico eni, Roma
1960
Il Pozzo n. 14
C. E. Gadda
Crediti/Copyright: Archivio storico eni, Roma
pag. 89.
Ricerca di gas naturale in
Basilicata. 1961.
pag. 67.
Area di imbustamento e scarico
fertilizzanti azotati. Stabilimento
Anic. Ravenna, 1960 circa.
pag. 90.
Piattaforma di perforazione
Scarabeo in fase di costruzione.
Sicilia, anni Sessanta.
pagg. 68-69.
Magazzini di imbustamento
fertilizzanti azotati. Stabilimento
Anic. Ravenna, 1960 circa.
pag. 91.
Piattaforma Agip Mineraria in
prossimità dello stabilimento Anic.
Gela, anni Sessanta.
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pag. 70.
Magazzino di stoccaggio gomma.
Stabilimento Anic. Ravenna, 1965
circa.
pag. 92.
Bambini a scuola nel quartiere
residenziale dei dipendenti Anic.
Gela, 1964.
Foto Renato Ottria
Foto Aldo Ballo
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pag. 93.
Veduta aerea del quartiere
residenziale Anic. Gela, 1964.
pag. 116.
Ormeggio della nave Agip Ancona.
Anni Sessanta.
pag. 94.
Attività di perforazione Agip
Mineraria in Basilicata.
Anni Sessanta.
pag. 117.
Operaio al lavoro sulla nave
cisterna Zanibon in partenza dal
porto di Genova. 1954.
pag. 95.
Attività di perforazione
SOMICEM in Sicilia.
Fine anni Cinquanta.
pag. 118.
Panoramica dall’alto della nave
piattaforma Saipem Due. 1975.
pagg. 96-97.
Stazione di servizio Agip a Catania.
1959.
Foto Federico Patellani
pag. 98.
Stazione di servizio Agip a
Palermo. 1959.
Foto Federico Patellani
pag. 99.
Stazione di servizio Agip a Catania.
1960 circa.
Foto Federico Patellani
1980
Uomini dal multiforme ingegno
Primo Levi
Crediti/Copyright: Archivio storico eni, Roma
pag. 111.
Cabina di comando della nave
cisterna Agip Andromeda.
Anni Sessanta.
Foto Aldo Ballo
pag. 119.
Nave posatubi Castoro Sei in
costruzione. Trieste, giugno 1978.
pag. 120.
Lato sinistro nave Agip Flavia B.
Anni Sessanta.
Foto Aldo Ballo
pag. 121.
Lato destro nave Agip Flavia B.
Anni Sessanta.
Foto Aldo Ballo
pag. 122.
Piattaforma offshore Gatto
Selvatico. Anni Sessanta.
pag. 123.
Piattaforma fissa Agip Mineraria
a largo di Gela. 1963.
pag. 124-125.
Nave cisterna Snam
Cortemaggiore. Particolare del
ponte di coperta sommerso dal
mare in tempesta. 1959.
pag. 126-127.
Particolari di vita in piattaforma.
Golfo Persico, Iran, 1959.
Foto Federico Patellani
pag. 112a.
Nave cisterna Andromeda, viaggio
da Sidone a Livorno. Equipaggio a
tavola. 1956.
pag. 112b.
Equipaggio nave cisterna Snam
Alderamine. 1959.
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pag. 113.
Ormeggio della nave cisterna Agip
Flavia B. Anni Sessanta.
Foto Aldo Ballo
pag. 114-115.
Il ponte di coperta della nave
cisterna Agip Flavia B.
Anni Sessanta.
Foto Aldo Ballo
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eni.com
Stampa: Tipografia Facciotti
settembre 2015
edizione fuori commercio
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