PDF - Spaghetti Writers

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Gian Luca A. Lamborizio
Schegge negli occhi, #1
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Un ragazzo stava seduto in fondo alla rampa di scale che conduceva al pianerottolo di casa sua.
Teneva il busto curvo in avanti, la testa appoggiata al palmo delle mani, con le dita che affondavano tra
i folti capelli corvini.
Il suo corpo era scosso da singhiozzi irrefrenabili ma stranamente silenziosi. Grosse lacrime scendevano
a rigargli il volto per poi cadere a formare irregolari macchie scure sulle sue sneakers di tela grigio
chiaro.
Aveva appena ucciso suo padre.
Un uomo, con gli occhi sbarrati a fissare con terrore il soffitto della stanza, stava disteso in modo
scomposto sui frammenti del tavolino di cristallo del salotto, che aveva rotto cadendo.
Densi rigagnoli di sangue scuro sgorgavano dagli squarci di tre violente coltellate che gli
erano state inferte al ventre, con un lungo coltello con il manico nero che ancora
emergeva dalla quarta coltellata.
Era appena stato ucciso.
Il ragazzo aspettava gli agenti che aveva chiamato subito dopo il fatto, proprio come aveva sempre
programmato. Intanto pensava a quello che aveva fatto, a perché l'aveva fatto e a cosa avrebbe dovuto
fare ora.
L'uomo non aspettava e non pensava più nulla.
*
«Oddio!» L'urlo di Matteo risuonò forte tra le quattro pareti.
Teneva la testa stretta tra le mani. Si ostinava a tenere gli occhi chiusi, serrati. Come in una morsa. Non
voleva aprirli, non poteva aprirli – continuava a ripetersi nella mente – per non essere costretto a vedere
quell’orrore.
Ora che lo stordimento iniziava a dileguarsi, si rese conto di essere seduto nel letto, con
una gamba distesa e l'altra ripiegata. Le coperte dovevano essergli scivolate durante la
notte, ma era lo stesso completamente madido di sudore.
I capelli e i vestiti bagnati iniziavano a diventare freddi e così fu percorso da un brivido.
Nel silenzio, sentiva il suo respiro forte e accelerato. In lontananza, attutiti, si sentivano dei rumori,
sembravano dei lamenti, dei gemiti... ma si sa che la notte fa degli strani effetti: fa vedere mostri che
non esistono, emergere paure che di giorno nessuno penserebbe neppure di avere.
Matteo aveva capito, era stato un incubo. Ci era abituato. Ormai aveva imparato a convivere con quegli
incubi che, sempre più spesso ormai, lo perseguitavano. Molte volte, al mattino, ci pensava per ore.
Erano cose vere, erano successe realmente, le aveva vissute o se le era sognate? Erano così reali, quegli
incubi!
Decise, si sarebbe dato una rinfrescata e poi sarebbe stato bene. Con gli occhi chiusi, come faceva a volte
da bambino, quando fingeva di stare ancora dormendo, al caldo nel suo letto.
Si voltò sul fianco e cercò l'interruttore della lampada gialla e rossa da sempre tenuta sul comodino.
Gliela aveva regalata sua madre quando lui aveva iniziato a portarsi i primi libretti a letto, in modo che
potesse sfogliarli e addormentarsi ogni sera in compagnia di amici diversi.
Stranamente non riusciva a trovare l'interruttore... e neanche il comodino...
L'ansia iniziò nuovamente a crescere e anche un senso di angoscia.
Si decise finalmente ad aprire gli occhi e quello che vide lo fece cadere in preda al panico.
Si buttò giù dal letto, a piedi nudi iniziò a girare per la stanza; era una stanza molto piccola e continuava
a sbattere contro le pareti.
A contatto col pavimento, i piedi gli si gelarono come e fu colto da una senso di smarrimento.
Quella luce azzurra, debole ma che penetrava fino in fondo al suo cervello, lo faceva impazzire. Così
come tutto il resto, il poco che c'era attorno a lui. Così come quella porta spessa e pesante di ferro, con
una finestrella al centro contro cui si lanciò e su cui iniziò ad accanirsi con pugni e calci.
Sempre più debolmente, però... fino a quando non si ritrovò accasciato a terra, con la schiena contro la
porta, e le ginocchia strette al petto, raggomitolato su se stesso.
«Nooo», fu l'unico suono che gli uscì dalla bocca, un lamento.
Finalmente aveva realizzato. Tutto gli era tornato in mente.
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*
«Mariscotti, Verri, Caputo, subito nell'ufficio del commissario». Gli ordini dell'ispettore
Sassi erano sempre perentori ma quando, come in questo caso, c'era qualcosa che non
tornava nelle indagini che stavano svolgendo, il tono diventava ancora più dispotico.
I tre agenti si scambiarono un'occhiata veloce, facendo ben attenzione a non farsi notare dal superiore.
Si intesero alla perfezione e tutti e tre conoscevano già il motivo della convocazione.
Il commissario Alberto Molteni voleva sicuramente discutere, per l'ennesima volta, i fatti riguardanti
l'omicidio del dottor Pella.
Molteni era arrivato da poco meno di un anno, dopo aver lavorato a Roma, ma la sua squadra aveva già
avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo. Non da subito, a dir la verità. Il primo impatto, anzi, non era
stato dei migliori: l'abbigliamento estremamente ricercato e i modi raffinati, su un corpo da ragazzo,
alto, magro e biondo, avevano immediatamente suscitato la diffidenza dei suoi uomini. Per non parlare
poi della pipa dalla quale Molteni non si separava mai, anche se in ufficio evitava di accenderla.
Ma dopo le indagini per il sequestro del piccolo Pagani e poi sul killer dei viados, avevano imparato ad
apprezzarne l'intelligenza, la tenacia e la correttezza. Tutti tranne Sassi, che odiava farsi comandare da
un damerino che avrebbe benissimo potuto essere suo figlio.
Questa volta, però, gli scrupoli di Molteni apparivano a tutti esagerati. Era chiaro ciò che era successo.
Era un caso che si era praticamente risolto da solo. Ce ne fossero stati di più di casi così, pensavano
tutti, casi in cui il colpevole confessa appena vede arrivare gli agenti. Agenti addirittura chiamati da lui
stesso.
L'unico che condivideva le perplessità del capo era Mariscotti.
Anche in lui quel ragazzo aveva suscitato sentimenti contrastanti. Appariva tanto sicuro e deciso in ciò
che dichiarava in merito al delitto quanto debole e insicuro nel modo di porsi; tutto in lui, veramente,
esprimeva una grande insicurezza. E anche un grande dolore. Ma non un dolore rabbioso, violento.
L'agente Mariscotti avvertiva che qualcosa non tornava. A discapito di tutte le prove e della stessa
confessione già depositata agli atti.
Entrarono e si sedettero sulle varie sedie che Molteni aveva fatto cercare in giro per il
commissariato e aggiungere nel proprio ufficio. Non gli piaceva che gli altri rimanessero
in piedi sull'attenti mentre lui se ne stava comodamente seduto, rigirandosi tra le mani
la sua caratteristica Dunhill.
«Novità?», chiese guardandoli uno a uno.
Silenzio.
«Bene, allora analizziamo nuovamente gli elementi principali del caso, sono sicuro che
qualcosa ci è sfuggito. Mariscotti, per quanto...», ma l'ispettore Sassi lo interruppe,
cercando questa volta di moderare l'asprezza del tono della voce: «Commissario, mi
scusi, ma ci sembra che la dinamica dei fatti sia evidente, chiara... Il ragazzo ha
confessato, non è inutile rubare tempo prezioso agli altri casi?».
«Sassi, lei ha ragione, però ho l'impressione che ci sia dell'altro. Non voglio avere un
ragazzo di diciannove anni chiuso in carcere sulla coscienza per non aver analizzato a
fondo tutti gli elementi come avrei invece potuto e dovuto fare. Quindi, se permette...»,
replicò Molteni con tono estremamente garbato, fingendo di ignorare il serrarsi
improvviso della mascella dell'ispettore.
«Allora, riassumo io i fatti. Matteo Pella dichiara di essere rientrato a casa e di aver
ucciso il padre. Però non è in grado di raccontare certi dettagli. Per esempio da dove
arriva l'arma del delitto. La scientifica evidenzia delle perplessità sul fatto che sugli abiti
del ragazzo non siano presenti rilevanti tracce ematiche. Certo, lui sostiene di essersi
imbrattato la mano e l'avambraccio ma di essersi lavato prima del nostro arrivo, però...».
Fece una breve pausa, come a voler meditare su quanto finora detto e poi riprese:
«Quanto al movente, poi, sostiene di aver voluto uccidere il padre per vendicare
l'omicidio della madre. Ma la madre risulta essersi suicidata anni fa, lanciandosi dal
terrazzo di casa».
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Mariscotti approfittò di una pausa per intervenire: «Se mi permette commissario...», e al gesto di assenso
del superiore, proseguì: «A me sembra strano che, se è vero che ha voluto vendicare la madre, abbia
aspettato tutti questi anni...».
«Tredici anni sono un periodo parecchio lungo, effettivamente», ammise Caputo.
«Sarà successo qualcosa che ha fatto scattare la scintilla, una lite e il ragazzo è esploso.
Quanti ne ho visti in tutti questi anni».
«Però questo contrasta con le dichiarazioni dei vicini... ehm, Verri, sei tu vero che hai
raccolto le loro testimonianze?», fece il commissario indirizzando lo sguardo al terzo
agente, un uomo massiccio e scuro di pelle, che finora era rimasto in silenzio,
continuando ad accarezzarsi i baffi neri.
«Veramente, commissario... l'unica vicina. Tutti gli altri erano fuori al lavoro o a piani
troppo distanti per poter sentire qualcosa.»
«Va bene, e la signora cosa ha riferito?» chiese Molteni, impaziente.
«Ha detto che la cosa che si ricorda meglio è stato il rumore dei vetri rotti, pensava fosse
una finestra andata in frantumi. Prima, di litigate nulla, delle voci... ma lei pare
convinta che la seconda non fosse neppure del figlio. Femminile, ha detto...
probabilmente la tv o magari niente, visto che a me è sembrata sorda come una
campana.»
Al commissario non piacevano queste espressioni colorite, ma non voleva essere troppo severo con i suoi
uomini. «Va bene, però magari questa volta ci ha sentito giusto. Bisognerebbe approfondire il discorso
su queste voci femminili. Verri, per favore, occupatene ancora tu.»
«Caputo, tu che coi computer non sei niente male, cerca di scoprire tutto, tutto e di più
quello che riguarda il ragazzo e suo padre sul web.»
«Mariscotti, tu invece verrai con me, dobbiamo fare un salto nel passato.» E a quelle
parole, e all'idea di operare direttamente col commissario, l'agente Mariscotti si sentì
come un bambino il giorno di Natale.
«Quanto a lei, Sassi, oggi c'è una riunione in procura. Vista la sua anzianità, e quindi le
sue conoscenze, lei è sicuramente la persona più indicata.» I tre agenti provarono un
moto di soddisfazione e rivincita. Tutti sapevano quanto l'ispettore e il procuratore si
odiassero.
*
Da più di un'ora i suoi occhi immobili fissavano lo stesso pezzo di muro grigio, sporco e scrostato. Un
accavallarsi e sovrapporsi di disegni, parole e scritte, a volte osceni, altre disperati.
Ormai quelle parole avrebbero dovuto essere impresse nella memoria di Matteo.
Ma i suoi occhi, in realtà, non le vedevano. Non vedevano quel muro. Si fermavano ben prima e allo
stesso tempo lo penetravano andando molto lontano.
Gli occhi di Matteo continuavano a vedere suo padre, morto, col ventre squarciato. Il sangue che,
velocemente, usciva dal suo corpo andando a inzuppare la camicia, la maglia e il tappeto sotto di lui.
Il tavolino di cristallo si era letteralmente sbriciolato sotto al peso dell'uomo, che giaceva ora in una posa
scomposta. E i suoi occhi erano sbarrati, pieni di terrore. Gli occhi di chi si è accorto troppo tardi di
cosa sta per succedergli. Che in un istante, dopo un dolore improvviso e lancinante, tutto sarà finito,
non ci sarà più nulla. Nemmeno quel dolore mortale.
Lui, Matteo, era contento di quell'immagine, se la gustava, gli dava soddisfazione. Soddisfazione per
quello che aveva fatto.
Aveva vendicato sua madre. Ecco, sua madre. Anche lei era negli occhi di Matteo. Occhi che a volte
correvano indietro negli anni e la vedevano allegra e spensierata, mentre giocava e rideva insieme a lui.
La sua bocca, il suo sorriso, aperto, allegro e contagioso. Quello era il particolare di sua madre che
Matteo ricordava meglio.
Poi, però, quel sorriso era andato spegnendosi. Poco alla volta. Quando alla fine, un brutto giorno,
erano arrivati gli sguardi tristi, e le lacrime.
Matteo sapeva il perché di tutto ciò: suo padre. Era stato lui a scacciare la felicità e a far arrivare il
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dolore. Facendo soffrire sua madre.
Ma non gli era bastato farla soffrire, maltrattarla, umiliarla. L'aveva anche uccisa. E, per di più, facendo
credere che si fosse suicidata, che fosse preda di un terribile esaurimento che l'aveva distrutta a tal punto
da indurla a gettarsi dal terrazzo di casa. «Io ho fatto di tutto per salvarla! È stato tremendo, orribile...
l'ho vista lì sul balcone. Sapevo in che stato era e allora ho capito subito. Ho cercato di tirarla di nuovo
dentro ma lei è stata più veloce di me e si è gettata!» andava sempre in giro a raccontare suo padre, a
tutti i loro amici e conoscenti. Con le lacrime agli occhi e la voce che tremava.
Ma lui, Matteo, la verità la sapeva. Aveva visto il cambiamento in sua madre e ne conosceva la vera
causa. Ed era stato anche presente nel momento in cui il padre l'aveva uccisa. Suo padre non lo sapeva,
pensava che fosse a scuola. E invece sua madre gli aveva concesso di restarel'aveva lasciato a letto perché
si era accorta che gli era salita la febbre.
Suo padre doveva essere tornato a casa dallo studio. In qualche modo doveva averla attirata fuori, in
terrazza. Matteo aveva sentito la sua voce. Era strano perché di solito al mattino era sempre via. Così si
era alzato ed era andato a vedere. Ma proprio mentre arrivava in soggiorno, aveva visto la vetrata aperta
e, in fondo alla terrazza, il delitto.
Quindi era normale, anzi giusto, secondo Matteo, che adesso suo padre fosse morto. Era lui che aveva
dato il via a tutto questo. Quindi, in definitiva, il colpevole dell'omicidio di suo padre era suo padre
stesso.
*
«Le spiace se la accendo?» chiese il commissario Molteni, riferendosi alla pipa che finora
aveva tenuto in mano, spenta. Un portafortuna e un antistress allo stesso tempo. Tenere
qualcosa in mano lo rilassava e lo aiutava a pensare.
La risposta era scontata. L'anziano signore che aveva di fronte, con lunghi baffi bianchi e profonde
rughe sulle guance, si accendeva una sigaretta dopo l'altra. Non aspettava neppure di finire di fumare la
precedente. La spegneva per poi accenderne subito una nuova. I mobili e i divani di velluto giallo,
ormai parecchio consumati, del salotto in cui erano stati fatti accomodare dovevano essere totalmente
intrisi di fumo.
«Me lo ricordo molto bene quel caso, è stato l'ultimo prima della pensione», affermò l'ex
commissario Spandonaro, ormai in congedo da tredici anni.
«Mi auguravo che fosse così, commissario. Immagino che avrà sentito parlare del delitto
del dottor Pella...» iniziò Molteni e, a un lieve cenno del capo dell'interlocutore,
proseguì: «Immagino anche che avrà sentito che è stato arrestato il figlio, reo confesso.»
«Lei non mi conosce», iniziò Spandonaro, stringendo gli occhi a formare due fessure,
«sono della vecchia scuola, mi piace dire ciò che penso senza troppi giri di parole.
Quindi sarò diretto: non mi stupisco più di tanto della fine del dottor Pella e, a essere
sinceri, non me ne dispiaccio neppure troppo».
Mariscotti, che se ne stava seduto in disparte, ascoltando e annotando mentalmente ogni singola parola,
alzò un sopracciglio.
«Non si preoccupi, anzi, sono venuto qui proprio per un suo parere. A sentire le parole
di Matteo le due morti sarebbero collegate. Ma mi può spiegare il motivo delle sue
affermazioni?».
«Pella mi è subito sembrato un uomo estremamente ambiguo. Nulla di certo,
ovviamente, però mi ha dato la sensazione di essere decisamente falso. Mi spiego meglio,
alternava in modo impressionante stati d'animo totalmente diversi: un attimo prima era
sconvolto, piangeva, aveva la voce rotta dal pianto e subito dopo riacquistava
un'impressionante padronanza di sé...»
«Magari era solo dovuto al trauma, allo choc, no?» azzardò Molteni.
«Certo, ma non credo. La mia impressione era che fingesse, che fosse tutta una recita
studiata fin nei minimi dettagli che lui metteva in scena per noi. Era molto bravo, per
carità... però qualcosa non mi convinceva!» e sottolineò le ultime parole con una leggera
smorfia della bocca.
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«Ma quindi sospettavate di lui?»
«Certo, una donna che si lancia nel vuoto, praticamente tra le braccia del marito... E poi
c'era Matteo.»
«Perché? Non ho letto niente su di lui negli atti». L'interesse di Molteni iniziava ad
aumentare.
«Era troppo piccolo e per di più non stava bene. Nessuno pensò che potesse essere
veramente un testimone attendibile, però Matteo disse di aver sentito delle voci, di sua
madre e suo padre. Gli sembrava che litigassero e, quando poi si è alzato dal letto ed è
andato a vedere cosa succedeva, perché era strano che il padre, di mattina, fosse a casa,
disse di averlo visto stringere le braccia della madre. La madre che piangeva, urlava, si
dibatteva...»
«Beh però se c'era stata davvero una lite, se stavano lottando...»
«Sì, ma avevamo le mani legate per la testimonianza del vicino!»
«Ah sì» intervenne Molteni, «quel Rolandi che stava sistemando un armadio sul balcone,
proprio di fronte all'appartamento del dottor Pella. Secondo lui, il povero dottore fece
di tutto per salvare la moglie, rischiando di cadere lui stesso dal quinto piano.»
«Esattamente!», concluse Spandonaro, allargando le braccia e soffiando un po' di fumo
verso il soffitto, ma lasciando chiaramente intendere che neppure quella testimonianza
l'aveva mai convinto del tutto.
«Io la ringrazio, mi ha fornito dei dettagli molto utili.»
«Molteni, senta, io non so se sia stato quel ragazzo, ma ho, come dire, delle forti riserve.
Mi ricordo un bambino triste, molto triste, quasi rassegnato. Mi avevano colpito i suoi
occhi, erano spenti, ma non solo per la perdita della madre, mi sembrava che fossero così
già da molto prima. E poi, alcuni anni fa, l'ho rivisto. Lui ovviamente non mi ha
riconosciuto... Mi era sembrato un bravo ragazzo, faccia tutto ciò che può.»
Non appena furono usciti dalla villetta anni Sessanta del commissario Spandonaro, Molteni si rivolse a
Mariscotti: «Scopri tutto quello che puoi su quel Rolandi, intesi?».
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