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BIMESTRALE LAICO ILLUMINISTA • Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 € 3,50 NO N C R E D O - LA CULTURA DELLA RAGIONE - “Siamo una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù e anche di Non Credenti” B. Obama ARTICOLI 133 135 140 142 143 145 146 147 149 150 151 153 154 155 157 158 159 161 162 163 164 165 167 168 169 171 172 174 175 • Il simbolo delle radici italiane • Una società senza religioni • Statistiche sul calo di vocazioni • Come vedo una società a-religiosa • La spiritualità dell’ateo • Miracoli e scienza • Il “separatismo” di Cavour • La morte e il vissuto esistenziale • Ich bin ein Berliner e Ratzinger • La logica e dio • Cosa prega chi prega? • Il matrimonio è ancora attuale? • Credenza e credulità • Il sacro nell’arte: l’animismo • Marx e la religione • Fondamentalismo e laicità • Figli e coppie omosessuali • Dalla fisica alla supermetafisica • L’uomo è predisposto a credere? • La bestemmia è reato? • Che cosa è il destino? • L’aldilà dei monoteismi • Legge e sentimento religioso • Teologia della liberazione in lutto • La mente nel fine vita Quale simbolo per l’identità italiana? Quello rappresentato dallo sfortunato ebreo palestinese effigiato nei crocifissi appesi in tutto il mondo (e sempre presenti nei roghi cattolici) o quello di ciascuno dei seguenti simboli che raffigurano, nell’ordine: Territorio, Storia, Cultura/Lingua o Identità esclusivamente italiane ed in cui qualsiasi cittadino si può identificare senza odiose divisioni religiose? Insomma: l’Italia o il Medio Oriente debbono apparire sui muri dei tribunali, scuole e uffici pubblici d’Italia? • Filologia delle scritture religiose • Intervista al capo dei Valdesi • Felicità interna lorda e Bhutan • Lusso e imitatio Christi RUBRICHE 134 134 134 136 137 139 139 156 173 176 • Indice dei nomi citati • Nel prossimo fascicolo • Colophon • Lettere dei lettori • Come abbonarsi • Domande/risposte dal Blog • Offerta speciale • Fondazione ReligionsFree • Libri consigliati • Il monumento al NonCredente W W W. R E L I G I O N S F R E E . O R G LIBERTÀ CULTURALE E DI PENSIERO • POLITICA E ACONFESSIONALITÀ • NATURA UMANA E PROGRESSO SCIENTIFICO IL PRIMATO DELL’ETICA LAICA • RELATIVISMO DELLE RELIGIONI • RESPONSABILE AUTONOMIA DI COSCIENZA Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1, DCB Roma ISSN: 2037-1268 ANNO III - N. 12 LUGLIO / AGOSTO 2011 » INDICE DEI NOMI CITATI NEL FASCICOLO NONCREDO I numeri rimandano alla prima pagina dell’articolo interessato. bimestrale laico illuminista I nomi evidenziati in giallo si riferiscono agli Autori di articoli e rubriche del fascicolo. direttore responsabile Paolo Bancale Abramo 135 – Adams, D. 145 – al-Ash’ari 136 – Allah 154 – Anselmo d’Aosta 150 – Aristotele 161 – Armani, G. 176 – Arrigoni, V. 158 – Augias, C. 143 – Bagnasco, A. Card. 167 – BANCALE, P. 133 135 149 174 176 – Beethoven, L. Von 147 – Benedetto XVI, papa 167 – Bentham, J. 174 – Bonafede, M. 158 172 – Borgia, A. Papa 174 – Brenno 149 – Buddha 135 155 – Câmara, H. 164 – CARCANO, R. 167 – Careco, G. 164 – Carlo Magno, Imp. 136 – Cartesio, R. 150 157 – Castelo Branco, H. 164 – CATTANIA, A. 143 – Cavour, C. B. Di 146 – Comblin, J. 164 – Confucio 135 155 – Comte-Sponville, A. 143 – Copleston, F. C. P. 143 – Coscioni, L. 169 – Cristo 140 155 – Dalai Lama 176 – Darwin, C. 145 – Di Noto, F. d. 167 – Dio 135 136 143 147 150 151 154 157 158 161 165 172 174 – Edelman, G. 147 – Einstein, A. 145 – Englaro, E. 169 – Enrico VIII, re 174 – Ermete Trismegisto 155 – FANCELLO, M. 162 – Fanzaga, L. p. 167 – Feuerbach, L. 136 – Filippo II, re 174 – Francesco d’Assisi, s. 176 – Fragoso, A. B. Dom 164 – Freud, S. 136 – Galilei, G. 145 – Gandhi 176 – Gasking, D. 150 – Gaunilone 150 – Gennaro, s. 136 – Gesù 135 165 176 – GIANNANDREA, A. 145 – Giorello, G. 143 – Gödel, K. 145 150 – Goulart, J. 164 – Guitton, J. 143 – Heidegger, M. 147 – Heisenberg, W. K. 145 – Hitler, A. 167 – Hood, B. 162 – Ivan IV, zar 174 – Jankélévitch, V. 147 – Kant, I. 135 136 150 – Lain, D. 164 – Leibniz, W. G. 143 150 161 – Leopardi, G. 147 – Liberace, W. V. 176 – Locke, J. 135 – LODI, D. 155 – LONGO, A. R. 140 171 – Luigi XIV, re 174 – Mancuso, V. 143 – Martini, C. M. 149 – MARTINOLI, G. 161 – MARULLO, S. 164 – Marx, K. 157 – MAZZA, L. 165 – Montaigne, M. De 135 – MORELLI, R. 146 – Muhammad 165 – Murphy-O’Connor, C. Card. 167 – Narciso 151 – Newton, I. 161 – Origene 167 – Orwell, G. 135 – Paz, N. 164 – PEGNA, V. 158 – Pensa, C. 136 – Pio XII, papa 164 – POCAR, V. 153 – POTENZA, R. 142 – PRIMICERI, F. 150 – PRISCO, C. 163 – Ratzinger, J. 149 164 176 – Russell, B. 142 143 – RUSTICI, F. 169 – SIMONATI, G. 151 – Socrate 135 – SOLANO, C. 157 – Spinoza, B. 136 150 – STOFELLA, S. 159 – Strindberg, A. 167 – Tae Hye Sunim 136 – TAMAGNONE, C. 147 164 – Teodosio, imp. 174 – Teresa di Calcutta, b. 176 – TONON, N. 154 – Torres, C. 164 – Thanavaro Bikku 136 – VIVIANI, V. 172 – Weber, M. 135 – Welby, P. 169 – Wojtyla, K. 164 – Zanotelli, A. P. 143 editore Fondazione Religions-Free Bancale ONLUS Borgo Odescalchi, 15/B 00053 Civitavecchia (Roma) ITALY tel. 366.5018912 / fax 0766.030470 sito: www.religionsfree.org e.mail: [email protected] fondatore e presidente Paolo Bancale • [email protected] segreteria generale e abbonamenti Alessia Villotti • [email protected] portavoce e ufficio stampa Anna Rita Longo • [email protected] promozione informatica Roberto Maggiori • [email protected] relazioni esterne Vera Pegna • [email protected] sistemi informatici e sito “noncredo” Roberto Mammoli • [email protected] sito “religionsfree” Antonio Arena • [email protected] blog Enrico Galavotti • [email protected] social networks Luigi Mazza • [email protected] redazione Max Giuliani • [email protected] e.mail: [email protected] testata, progetto editoriale e grafico Paolo Bancale grafica Angela Donetti revisione bozze Elena Gallina stampa Etruria Arti Grafiche Viale della Vittoria, 14 - Civitavecchia (Roma) tel. e fax: 0766.23070 / 33712 Conto Corrente Postale: 97497390 IBAN: IT34M0832739040000000007000 Codice fiscale: 91055300585 Autorizzazione del Tribunale di Civitavecchia n. 6/9 del 24 marzo 2009 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1 comma 1, DCB Roma Diffusione C.D.M. S.r.l Roma - www.cdmitalia.it gestione rete di vendita e logistica PRESS-DI (MI) » ARGOMENTI DEL PROSSIMO FASCICOLO ARTICOLI: L’occasione persa nei tribunali • Religione mondiale a-gerarchica: Tagore e Baba • Visione di una società senza religioni • Il condizionamento dovuto alle religioni • Uno sguardo profondo al problema della morte • Le credenze alternative alle religioni • Un esame delle varie sacre scritture • L’ateismo dell’infinito-dio matematico • La religione naturale dello scettico Hume • Toponomastica storico-nazionale o cattolica? • Che cos’è la “Verità”? • Roghi di libri per distruggere le idee • La felicità legata alle cellule staminali • Nascituri: il destino di chi nasce è morire • La legislazione internazionale sull’ateismo • Intervista al segretario nazionale dell’UAAR • Il monumento al NonCredente è una realtà • Lusso e vanità dei paramenti ecclesiastici • Offerta della collezione 2009/10 di NonCredo ...Ed altri in arrivo! 11 RUBRICHE FISSE: L’intervista • Statistiche ragionate • Bioetica e diritti • Il crepuscolo degli dèi • Il primato dell’etica • Lo Stato di diritto • Mente pensiero spirito • Noncredenti e società • Obbiettivo laicità • Scienza e religioni • Lettere • Recensioni • I convegni di NonCredo NONCREDO RELIGIONI? 135 Immaginiamo una Società senza religioni IL NONCREDENTE Qual è il modello di società che ci risulta essere per esperienza storica, per intuizione o per sensibilità interiore quello più propizio ad assicurarci quei beni e valori fondamentali per la vita collettiva quali pace, libertà, serenità, solidarietà, rispetto reciproco e possibile minimizzazione delle disuguaglianze e della sofferenza? La storia umana è ricca di tentativi molto diversi: l’ideale anarchico, l’utopia comunista, la democrazia elettiva, il principe illuminato che ama il suo popolo, il despota onniregolatore di Orwell, il patriarcato superallargato e tanti altri. E tutti hanno dovuto fare i conti con le esigenze imposte dall’Io della specie umana. Proprio sull’onnipresente fronte dell’Io hanno fatto breccia, in tempi lontani e società arcaiche, le istanze morali, le visioni sapienziali, la saggezza, la scoperta dell’interiorità associate alle varie e più dissimili religioni, nate tutte in epoche premoderne, e fatalmente operanti sulla base di un infantile o funzionale-strumentale timor dei o deorum. Il comportamento veniva richiesto o imposto con il mercimonio di premio e castigo: ciò che avrebbe dovuto essere il portato della “coscienza” che educa ad un’autonomia etica divenne invece una scelta utilitaristica, oportet cioè mi conviene, così non avrò punizioni dagli dèi ma solo premi. Erano religioni che non educavano, ma almeno si tolleravano: il mondo antico infatti non conosce, dalla Cina all’Europa, né guerre di religione né persecuzioni verso altre fedi. Poi vennero, ahimè, i monoteismi con i loro assolutismi totalizzanti, proselitismi, guerre, persecuzioni. E ce lo dicono sia la Storia sia la cronaca: guerra totale, sia tra le diverse religioni sia al loro stesso interno, come nell’Europa della Riforma ma anche in Irlanda (cattolici contro protestanti) o Iraq (sunniti contro sciiti). NonCredo sostiene, con la ragione e con il sentimento, il primato e l’autonomia dell’Etica, della Coscienza, della Libertà al posto della diffusa soggezione a dèi, scritture e cleri, come dire che ad un Abramo disposto a sgozzare il figlio perché ciò piace al suo dio, preferiamo di gran lunga un Socrate che potrebbe uscire dalla prigione e invece beve la cicuta per rispettare la legge. In questa chiave abbiamo finora interpretato la pars destruens, ovvero critica nei confronti delle religioni, ma da questo fascicolo vogliamo aggiungere anche quella construens e quindi propositiva, esponendo modelli di società immuni dalle influenze, interferenze, indottrinamenti e condizionamenti delle varie religioni, avendo in mente una società a fortissima autonomia morale e laica capace di formare cittadini responsabili e non fedeli acritici, ispirandoci ai messaggi di grandi illuminati quali Confucio e il Buddha, Gesù e Socrate, Locke e Montaigne, Kant e Weber. E cominciamo a farlo da pagina 142. » Scriveteci a: [email protected] 136 DIALOGO CON IL DIRETTORE WhyNot?forum » Realtà e speranza nelle religioni Sono un abbonato a NonCredo e quindi vi leggo con continuità e condivisione, mi proclamo un “noncredente”, così come lo scrivete voi, senza altri attributi o metafisiche, ma desidero porre un quesito. Anche leggendo le lettere di molti altri vostri lettori mi sono rinforzato nell’opinione che se è vero che non credere ci lascia più autonomi e responsabili, è anche vero che ci toglie quella via di fuga che hanno i credenti e che si chiama “speranza”. Quale delle due strade conti di più per me, ovviamente è la prima, però non soltanto non sottovaluto la seconda ma anzi la considero la vera piattaforma su cui poggiano e si reggono tutte le religioni. Caro direttore, lei avrà certamente una sua risposta al mio quesito e, se non chiedo troppo, vorrei conoscerla e misurarmici. Fabio Righini Grazie per la sua lettera e per il garbo che la impronta. Sulla speranza lei ha ovviamente ragione proprio come “via di fuga”, come lei la chiama, ma purtroppo si tratta di una fuga da se stessi e dalla realtà, come un placebo, una droga, uno psicofarmaco. La speranza, al di là del valore psicologico che le si attribuisce nella stocastica e nel calcolo delle probabilità, è soltanto un mero pensiero visionario, una personalissima costruzione velleitaria senza alcun fondamento, lapalissiana quanto ovvia come dire che sarà sempre meglio vincere una lotteria che avere il cancro. Il suo sottofondo umano lo espresse già Spinoza dicendo «Non c’è speranza senza timore, né timore senza speranza», ove il timore riguarda una mera, soggettiva propensione affinché un dato evento avvenga oppure non avvenga, ma come i sogni, le sbornie o i deliri è totalmente fuori da qualsiasi realtà, quella cioè che fa capo al “qui e ora”. Ha un senso affidarcisi come avviene nelle religioni? E a quanto di reale si rinuncia in cambio di questo quid surreale? Se poi psicologicamente aiuta, per carità, si faccia pure ciò che si pensa che possa giovare, basta però non ignorare di che pasta è fatto. Questo è il compito del razionalismo, cioè riportare le cose e i concetti al livello normale. Ciò mi fa ricordare una famosa frase di Freud quando disse che la psicoanalisi serve per curare il disagio umano trasformando la sofferenza nevrotica in sofferenza normale. Dove “normale”, in entrambi i casi, vuol dire realtà. » Cultura e non “fede” Nel vostro sito voi chiedete quale sia il rapporto del lettore con la fede (non credente, ateo, agnostico, devoto, altro): libero, mi vien da dire, non coinvolto. Non detengo sentimenti religiosi e soffro della inevitabile “ragnatela” (anche interiore) in cui mio malgrado sono inevitabilmente invischiato per il semplice fatto di essere nato e cresciuto in una cultura impregnata – come tutte le culture, penso – di religione; nel mio caso: cattolica. Ho frequentato ambiti Buddhisti in anni passati (Thanavaro Bikku, Corrado Pensa e Tae Hye Sunim, a cui mi sento sempre vicino). Sento il Buddhismo come una Cultura piuttosto che una “fede”. Ho trovato nel Teatro, da pochi anni, la forma di pensiero che più mi è consona, anche dal punto di vista spirituale (dove per me “spirituale” è termine che sintetizza: accettazione, umanità attiva, tolleranza, disincanto, impegno, presenza mentale; inoltre: gioia, semplicità, rispetto e tanta autoironia). Buddhismo – le tracce di questo depositate in me – Teatro e Psicologia Cognitiva sono punti cardinali interiori per me di riferimento. Fondamentalmente rimango un frequente peccatore, a volte inconsapevole e, per la ragnatela di cui sopra, impantanato in qualche senso di colpa. Angelo Caivano Vede che sforzi immani è necessario mettere in atto (e pochi ne sono capaci) per cercare di superare il condizionamento (familiare, scolastico, sociale, culturale) che con violenza subliminale ma ininterrotta ci viene iniettato nella psiche dalle religioni e dai loro riti fin dalla nascita (battesimo, circoncisione ecc.)? Lei ha avuto la forza e la determinazione per cercare di liberarsi dall’“imprinting” cattolico, di ricorrere a tre stupende terapie di consapevolezza e • Leggere NONCREDO può essere un momento arricchente di argomenti nuovi, di cultura e di autostima. Fateci caso dopo averlo letto. • Sostenere NONCREDO significa potenziarlo, consentirgli di affrontare i notevoli oneri connessi con l’aumento della sua diffusione sul territorio nazionale e dell’aumento di pagine. Per chi condivide e crede negli ideali di NonCredo, l’abbonamento sostenitore, con importo assolutamente libero, è un mezzo per esserci più vicini. NONCREDO 137 Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 indagine interiore quali il Buddhismo, il teatro e la psicologia cognitiva, eppure questi antidoti non riescono a liberarla del tutto dall’intossicamento religioso, come dimostrano i sensi di colpa che lei ammette, connessi ai concetti catechistici di “peccati” introiettati attraverso il suo non completamente rimosso cattolicesimo. Comunque auguri e complimenti: è su un’ottima strada. » Dio vuol dire “essere” Il grande teologo dell’Islam al-Ash’ari (873 – 935), come si legge a pag. 47 di NONCREDO, ha compilato un minuzioso elenco di tutto ciò che dio non è. Esso non trova corrispondenza in nessuno degli infiniti concetti o delle infinite immagini che gli uomini si son fatti di dio nel corso dei millenni. Condivido appieno. Ha però omesso di precisarci cos’è dio. Glielo dico io: dio è l’impossibilità di non essere; è un imperativo: essere. L’essere è regolato da una legge suprema e inviolabile: evolvere. L’essere prescinde da un creatore perché, come ebbe a dire Feuerbach, senza essere sarebbe il nulla che, invece, è assurdo e repellente a sé stesso. Guido Giglio Ci può stare, amico lettore, ci può stare. » Non c’è posto per l’astio Temo che il carattere di NonCredo sia spesso astioso nei confronti della chiesa, negando i molti meriti anche sociali che la chiesa stessa ha fornito nel corso del tempo. Ad esempio, salvò i testi della cultura pagana e assicurò la sopravvivenza alla povera gente del medioevo, in un periodo, cioè, nel quale mancava un potere centrale. Persino Carlo Magno non fu in grado di provvedere, se non in minima parte. Insomma, la chiesa fece molto di più, attraverso i monasteri. Ora, demonizzarla completamente, mi sembra un esercizio un po’ gratuito, dotato di non poca presunzione: che ha fatto e che fa il mondo laico da un punto di vista morale? Letizia Domiziani Se lei ha percepito “astio” nelle parole mie o di NonCredo me ne scuso: non conosco e non coltivo questo sentimento, il leggere NON CREDO arricchisce autostima, consapevolezza, motivazioni e cultura e rappresenta un progetto culturale incentrato su: L’approfondimento di tutti i temi scientifici ed umanistici della fenomenologia delle religioni ed il loro necessario superamento; La cultura illuministrica del dubbio quale fonte della creatività, dell’intuizione e del progresso umani; Un’etica basata sull’empatia dell’altrui sofferenza e sulla conseguente solidarietà; L’autonomia della coscienza e la libertà di ricerca e di pensiero. Totale separazione fra Stato e sfere pubbliche rispetto a qualsiasi credenza religiosa. • COME ABBONARSI • • ABBONAMENTO ANNUO POSTALE • ABBONAMENTO ANNUO INFORMATICO PDF € 22,50 € 14,90 • ABBONAMENTO SOSTENITORE per potenziare e diffondere NONCREDO IMPORTO LIBERO grazie da inviare all’Editore: FONDAZIONE RELIGIONS-FREE BANCALE Borgo Odescalchi 15/B - Civitavecchia 00053 (RM) ITALY per mezzo di: • Conto corrente postale n. 97497390 • IBAN: IT34M0832739040000000007000 • Assegno Non Trasferibile inviato per posta • Tutte le Carte di Credito • PayPal I versamenti vanno intestati alla Fondazione Religions-Free indicando: nominativo, indirizzo postale, indirizzo e-mail dell’abbonato e la causale del versamento. Specificare se trattasi di rinnovo. Per le modalità dell’abbonamento PDF o con Carta di Credito o PayPal consultare il sito: www.religionsfree.org/comeabbonarsi.html Tel. (+39).366.5018912 - Fax (+39).0766.030470 E.mail Ufficio abbonamenti: [email protected] 1 COPIA € 3,50 - ARRETRATO IL DOPPIO € 2,50 - ARRETRATO PDF 138 Segue... WhyNot?forum buddhismo fortunatamente mi ha introiettato il senso del distacco senza concessioni surrettizie all’Ego, però questo non ha nulla a che vedere con il vivere e perseguire degli Ideali. E questo vale sia per me che per NonCredo. » Nascere o non nascere? Nascere o non nascere? Io credo che se la coscienza precedesse la nascita e le fosse data la possibilità di scelta, opterebbe per la non nascita. Tanto nella morte, salvo la brevissima parentesi di vita, abbiamo “vissuto” e continueremo a “vivere” per tutta l’eternità. Perché raccattare un misero penny onusto di dolori e patimenti più che gioia e serenità? Guido Giglio Concetto intrigante: non ci avevo mai pensato, ma per ora ci tocca vivere. » I noncredenti sono soli? Sotto il profilo antropologico credere a un principio-origine-causa “comune a tutti” i componenti di un gruppo sociale ha determinato le prime aggregazioni umane creando la socializzazione attraverso la comune appartenenza a una “identità di gruppo”. Per altro verso tutte le guerre più sanguinose e i genocidi della storia antica sono nati da tale identità, la si chiami tribù, etnia o patria. Constatato storicamente che non sono mai esistite società arcaiche atee (era un favola messa in giro dai marxisti dell’800 e del primo ‘900) la domanda resta: perché è stato storicamente possibile aggregare gli uomini sotto una “credenza” e mai sotto una “noncredenza”? Una risposta immediata è che è accertato che una credenza comune “lega” gli uomini tra loro e la noncredenza no. Io penso che ci sia però anche una ragione evolutiva: la credenza fa sperare ed unisce in un “noi” l’individuo isolato di fronte a un mondo ostile, la noncredenza ti lascia solo. Forse noi siamo un insieme di persone su base che potremmo chiamare “spirituale”, legato dalla stima e dall’affetto personale, ma di fronte alla maggioranza e al mondo siamo dei “soli”. Siamo difficili da aggregare su una base intellettuale comune poiché ognuno di noi ha una sua Weltanschauung (visione-concezione del mondo). Ci vuole pazienza, costanza e determinazione, lavorando intellettualmente, ma sapendo anche aspettare che maturi una società diversa (gli scandinavi ne sono l’avanguardia). Solo ad un certo livello intellettuale la noncredenza può assumere una forma filosofica capace di “aggregare”, ma secondo me questa nuova visione filosofica è ancora troppo incerta (o è vissuta nell’incertezza), oppure è prematura (almeno in Italia), oppure è semplicemente ignorata. Ciò però deve esserci di stimolo per creare un futuro di legittimazione della noncredenza per i nostri discendenti. Eugenio del Buono Contrariamente a ciò che ritengono i credenti, essere noncredente è una posizione culturalmente elitaria, informata, colta e ricca di ricerca, dubbi e indagine, insomma apicale nella piramide socio-culturale di qualsiasi società. Allo stato attuale non possono fare massa, non hanno un collante identitario poiché le motivazioni alla noncredenza sono individuali, non emotive, non reattive e non autoconsolatorie. Il noncrdente a mio avviso non è un “solo”, ma certamente è un “singolo”. Conforta però riscontrare che la percentuale di noncredenti è funzione almeno lineare dell’indice di acculturamento di una società. » Le “Invenzioni” di Gesù secondo certo clero penso che converrà che il linguaggio è determinante per la rappresentazione agli altri del nostro pensiero. Sono rimasto molto sconcertato sotto Pasqua quando ho ricevuto una mail circolare da parte di un prete cattolico che dice testualmente: “E’ Giovedì Santo, Giorno di Gesù che inventa l’Eucaristia e i sacerdoti”. Il concilio Vaticano II ci ha abituato a tante revisioni teologiche, liturgiche, catechistiche, ma non avrei mai pensato, e sono cattolico, che si sarebbe parlato di Gesù come si parla di grandi “inventori” come Meucci, Franklin, Edison o Marconi. Il suo parere? Renato Bonavita Guardi, per me Gesù di Nazareth è stato un personaggio molto grande nella Storia dell’umanità. Poi, però, se ha fatto anche delle “invenzioni”, e se gli competono le relative royalties, potremo sempre andare ad accertarlo agli Uffici Brevetti di Gerusalemme, Nazareth e Bethlemme, dove forse è già passato l’informato prete che le ha scritto. NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 139 NonCredo RISPONDE dal BLOG “scrivi a NonCredo” [email protected] Esistono esseri limitati. L’esistenza attuale di ogni essere limitato è causata necessaria mente da un altra causa, come un figlio ha origine necessariamente dai genitori. Ma non ci può essere un regresso infinito di cause limitate e mutevoli, perché un infinito regresso di esseri finiti non causerebbe l’esistenza di niente, così come un esercito di ciechi non vede più di solo cieco ovvero accumulando zeri non avremo mai un “uno”. Dunque deve esserci necessariamente una causa prima, infinita ed eterna dell’esistenza attuale degli esseri limitati. Vi domando: è possibile secondo la Vostra conoscenza controbattere questa proposizione? Maurizio Crespo L’argomento del “regressus ad infinitum” ha come secondo termine un’ipostasi meramente metafisica. E’ il tipo di ragionamento per cui se un certo oggetto od effetto non trova fondamento esaustivo in una causa diretta che lo provochi, si suppone che a monte ci sia un’ altra causa e così via, sino ad arrivare alla Causa Prima, che è sempre o un Dio-Volontà o un Dio-Necessità. Oltre alla motivazione logica (esso non dimostra nulla) abbiamo la possibilità di considerarlo inconsistente anche sotto il profilo: a) ontologico, b) epistemico e c) gnoseologico. a) L’universo ha avuto un inizio 13,7 miliardi di anni fa non per qualche causa, ma per un insieme di co-fattori tra quali spicca (secondo i fisici teorici) una perturbazione quantistica casuale. Ma questa sarebbe solo il fattore scatenante che ha fatto partire un processo di autocreazione delle particelle elementari dentro un brodo di pre-materia quantistica “in quiete”. Le particelle (fermioni e bosoni) attraverso i loro successivi assemblaggi hanno poi formato qualcosa che noi oggi chiamiamo universo, un insieme di assembramenti di corpi, gli ammassi di galassie, che fluttuano nel vuoto. b) Epistemicamente non è significativo parlare di cause e di effetti ma di sistemi, i quali, o sono “in equilibrio” o “non-in-equilibrio” in quanto perturbati o in auto-evoluzione. Un sistema non in equilibrio evolverà sino a raggiungere una situazione di nuovo equilibrio e questo durerà sino alla prossima rottura. c) Nella realtà, fisica o biologica, non ci si trova quasi mai di fronte a “cause” ma a “serie causali”, cioè a “variabili attive” come con-cause degli accadimenti. Esse interagiscono l’una con l’altra per produrre effetti evolutivi che mutano lo stato del sistema. Come esempio pratico si può pensare alla fissione nucleare usata per produrre energia. Né le barre di uranio sono causa e né lo sono i mezzi energetici scatenanti per portarle a produrla, semplicemente si fa in modo di far partire la fissione (scissione) del nucleo di uranio e la reazione a catena con la quale il sistema rilascia fotoni che riscaldano l’acqua e ne fanno vapore, il quale fa girare le turbine che producono energia elettrica. Carlo Tamagnone filosofo altre risposte sul nostro sito: WWW.RELIGIONSFREE.ORG OFFERTA SPECIALE FINO A ESAURIMENTO Tutti i fascicoli di NONCREDO usciti nel 2009 e 2010 a partire dall’introvabile n.1 A SOLI Per le modalità di pagamento vedere alla pagina precedente € 24.90 spese di spedizione comprese 140 » ANNA RITA LONGO filologa e docente statistiche ragionate Un’Europa sempre meno “Vocata” «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe», invocava già il vangelo di Luca. La cosiddetta crisi delle vocazioni sacerdotali appare come un problema – dal punto di vista della chiesa – dalle radici molto antiche. Ma cosa ci dicono le statistiche attuali? Che variazioni ha subito il numero degli “operai” nella messe evangelica? Uno studio commissionato dalla CEI alla fondazione “Giovanni Agnelli” pubblicato alla fine del 2005 mette in luce come il clero italiano sia sempre più anziano, come i sacerdoti giungano a “prendere messa” in età sempre più avanzata e come si assista a un generale calo delle vocazioni italiane, che si traduce nell’accorpamento di più parrocchie e nella sempre più massiccia presenza di sacerdoti stranieri nelle chiese del territorio nazionale. Portando il discorso su un piano internazionale ed esaminando i dati dell’Annuarium Statisticum Ecclesiae (organo ufficiale delle rilevazioni statistiche della Santa Sede) riassunti a lato, abbiamo modo di vedere come la situazione dei paesi europei mostri una decisa flessione nel numero dei seminari e dei candidati al sacerdozio. Compariamo ora questi ultimi dati con quelli che provengono dalle rilevazioni relative al territorio africano: qui si registra, al contrario, un sensibile aumento delle cosiddette vocazioni sacerdotali, che va di pari passo con quello del numero dei seminari. Dal punto di vista della chiesa cattolica l’emorragia vocazionale che si registra nel mondo occidentale è percepita come uno tra i fenomeni più preoccupanti che caratterizzano la contemporaneità e da più parti si sottolineano i presunti danni del materialismo e della secolarizzazione della civiltà postindustriale. L’esempio dell’Africa “ardente di fede” viene proposto come prova della corruzione morale dell’occidente, che non tocca quei paesi che, più vicini all’ideale di povertà cristiano – che li porta a coltivare una spiritualità semplice e autentica – sono tuttora pronti ad accogliere il messaggio salvifico di Cristo. Ma siamo certi che questa sia l’unica lettura possibile? Lo svincolarsi dell’Europa dall’egemonia papale affonda davvero le proprie radici in un materialismo che esclude dalla vita dell’uomo ogni valore? O non è forse l’esito del progresso scientifico e culturale, che va affrancando l’uomo dall’asservimento a una serie di ideali che avverte oramai come distanti e a un’istituzione la cui corruzione gli è oramai nota al di fuori di ogni ragionevole dubbio? E quanto del presunto ardore religioso attribuito all’Africa non è piuttosto l’esito del colonialismo culturale che da secoli è attuato nei suoi territori? L’Africa è tra i continenti più toccati dall’attività dei missionari cattolici. Quando si parla di “missione” l’immagine che viene spontanea alla mente è quella della solidarietà, dell’abnegazione, della messa in gioco della propria vita per il bene altrui. Raramente si ricorda che la definizione di “missione” implica in primo luogo l’annuncio evangelico e, di conseguenza, il proselitismo. Si tratta anche di carità, ovviamente, di un’attività per certi versi meritoria, questo è innegabile, ma di una solidarietà viziata, vincolata all’interesse della diffusione del dominio ecclesiastico. Da questo punto di vista il tributo reso dall’Africa alla chiesa appare sotto una luce un po’ diversa ed è duro negare che si stia assistendo a un’espansione cultuale che sfrutta biecamente un popolo in difficoltà. Per fortuna accanto alle missioni religiose si stanno espandendo anche forme di solidarietà umana e neutrale, che non mirano a colonizzare, ma a sostenere con la forza dei valori universali. NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 NUMERO DI CANDIDATI AL SACERDOZIO NEI CENTRI DIOCESANI IN EUROPA (dall’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008) NUMERO DI CANDIDATI AL SACERDOZIO NEI CENTRI DIOCESANI IN AFRICA (dall’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008) NUMERO DI CANDIDATI AL SACERDOZIO NEI CENTRI RELIGIOSI IN EUROPA (fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008) NUMERO DI CANDIDATI AL SACERDOZIO NEI CENTRI RELIGIOSI IN AFRICA (fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008) NUMERO DI SEMINARI IN EUROPA (fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008) NUMERO DI SEMINARI IN AFRICA (fonte: Annuarium Statisticum Ecclesiae 2008) LA POPOLAZIONE SACERDOTALE IN ITALIA (dati Fondazione “Giovanni Agnelli” relativi al 2005) Età media dei sacerdoti in Italia Età media dei sacerdoti stranieri in Italia Età media dell’ordinazione sacerdotale Numero di sacerdoti in rapporto alla popolazione 60 anni 44,1 anni 26-27 anni 0,58 per mille abitanti » ETICA Valerio Pocar 142 NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 PROF. BIOETICA E SOCIOLOGIA DEL DIRITTO - UNIVERSITÀ MILANO Fondazione Religion sFree Come io vedo una società senza religioni T utte le religioni, in nome della o delle loro particolari divinità, si piccano di indicare la retta via morale (ciascuna la sua). Abbiamo dovuto aspettare il 1625 (Grozio, De jure belli ac pacis) per essere autorizzati a pensare a un’etica senza dei e senza religioni e acquistare la libertà di dire che l’etica può magari avere a che fare con la religione e l’idea di dio, ma può benissimo farne a meno. Cosa, a lume di buon senso, del tutto ragionevole e anzi ovvia: infatti, gli dei non possono cambiare sé stessi e il loro messaggio e le dottrine religiose non potrebbero/dovrebbero mutare il loro insegnamento morale, ma le opinioni etiche, comprese quelle d’ispirazione religiosa, sono cambiate e cambiano, come tutti vedono e sanno. I princìpi etici, infatti, sono frutto delle culture umane e con queste medesime si evolvono. L’idea di un dio viene tirata in ballo solamente per rafforzare, con l’offerta di ricompense e la minaccia di punizioni anche ultraterrene, l’osservanza di certi princìpi (talvolta, perché no?, magari condivisibili), cari a poteri spirituali o temporali che a una certa religione o a un certo dio pretendevano e pretendono di richiamarsi. Immaginiamo che alle religioni non creda più nessuno. Che succederebbe dell’etica?Il mio semplice buon senso, cui piace dire le cose per come gli pare che stiano, si rallegrerebbe. Anzitutto, perché trova ripugnante l’idea che esista un’unica “retta” morale, quella dettata da questa o quella religione (quante le religioni tante le etiche), ripugnante perché un’idea siffatta contraddice il fondamento stesso dell’etica, che consiste nella libertà di scegliere e magari di sbagliare. L’etica è cosa preziosa che mi è cara tengo al suo onore. Non solo. Un’etica libera dalla sudditanza alla religione non soltanto appare conforme a ciò che il buon senso suggerisce, ma rappresenta un importante mònito pedagogico. L’etica, lo sappiamo, è il discorso sul bene e sul male dell’agire, un discorso che ci coinvolge tutti e tutti, nessuno eccettuato, sono da ritenersi capaci di un’opinione morale, quale che essa sia. La religione, però, suggerisce di rifuggire dall’autonomo ragionamento etico, a non farsi carico di ponderare il significato buono o cattivo delle cose. Un’etica che si presenti, come quelle religiose pretenderebbero, come l’unica vera suggerisce di adagiarsi sulle altrui indicazioni e, indulgendo alla pigrizia, di evitare la fatica della riflessione morale. Senza il riferimento, spesso minaccioso, a verità etiche rivelate che si pretendono vere, ciascuno sarebbe costretto (dico, costretto nella libertà e non è un ossimoro) a determinarsi autonomamente anche nel proprio giudizio morale. Una fatica, certo, rispetto all’adesione supina a dottrine preconfezionate. Una fatica, però, che consente di riappropriarsi della libertà della coscienza e, ad un tempo, della stessa dignità, che consiste anzitutto nella possibilità di assumersi le responsabilità che le libere scelte comportano. Chi si riappropria della libertà di scegliere e interpretare i princìpi etici che intende condividere, affidandosi all’onestà del proprio pensiero, senza suggerimenti o imposizioni da parte di sedicenti autorità morali e poteri esterni, riacquista il diritto alla coerenza e torna a godere del dovere (non solo dei diritti, anche dei doveri si può godere!) di assumersene la responsabilità. Nelle proprie opinioni, anche in quelle morali, torna ad essere sovrano di sé stesso e non suddito di altrui. Può, in una parola, essere autenticamente morale. Verrà il momento in cui gli esseri umani, con le parole di Lessing, compiranno “il bene perché è bene e non per ricompense arbitrarie”? » SPIRITUALITÀ Andrea Cattania 143 INGEGNERE E EPISTEMOLOGO Interiorità dell’uomo La Spiritualità dell’Ateo È convincimento diffuso che la spiritualità debba essere necessariamente connessa a una concezione religiosa del mondo. Per molti credenti la componente spirituale dell’essere umano si identifica con quella che essi definiscono “anima”. Di conseguenza, chi nega l’esistenza di dio e dell’anima sarebbe privo di vita spirituale, o almeno dovrebbe credersi tale. Il fraintendimento linguistico genera una confusione concettuale, o forse ne è il risultato. Io sono fermamente convinto che le religioni, come sono dannose, così sono false. - Bertrand Russell - » A chi fa paura la spiritualità? Ognuno che si dichiari ateo sa che per avere una vita spirituale non occorre credere nell’esistenza di dio. Il fatto che i non credenti ricorrano raramente a parole come “spirito” o “spiritualità” deriva forse dal timore di essere fraintesi, a causa di una lunga tradizione di predominio di un’impostazione religiosa, soprattutto nei Paesi a maggioranza cattolica. Sono però convinto che gli atei dovrebbero uscire dal riserbo e utilizzare senza timore queste espressioni. Di che cosa abbiamo paura? La dimensione spirituale dell’esistenza dovrebbe essere riconosciuta da ogni ateo non dogmatico, se con questa espressione si indica non chi pretende di sapere che dio non esiste, ma chi crede che non esista. Se definiamo tale “dimensione spirituale” come la tendenza a confrontarsi con l’infinito, l’assoluto, l’eterno, non si vede come si possa negarla né per quale motivo sia necessario affermare l’esistenza del divino. Non dobbiamo lasciare l’esclusiva dello spirito a preti e vescovi. Quante volte abbiamo trovato una forte componente spirituale nelle opere o nelle frasi di non credenti? Quanto spesso sentiamo odio, chiusura mentale, mancanza di rispetto degli altri e della natura nelle posizioni e negli atteggiamenti di persone che si dichiarano credenti, anche se ricoprono alti incarichi nelle strutture di qualche chiesa? Dice padre Alex Zanotelli: «Spiritualità è sentirsi spinti da qualcosa di più grande di noi. Conosco degli atei che hanno più fede di me». Sorvolando sull’uso improprio della parola “fede”, chi non sottoscriverebbe questa affermazione? » Fede, religione, chiesa Non distingueremo mai abbastanza tra fede, religione e chiesa. Non si potrà mai impedire ad altri di credere in dio o di seguire i riti di una determinata religione. Ma al diritto di credere deve corrispondere quello di non credere. Nessuno può sentirsi in diritto di tentare di imporre ad altri la propria visione del mondo, anche se a ciascuno deve essere riconosciuta la possibilità di sottoporla alle verifiche di un confronto aperto. Quando però su una religione viene fondata una chiesa, come dimostra la storia, si apre la strada al dogmatismo, all’integralismo, all’oscurantismo, al fanatismo. Non è necessario credere in dio per capire che l’amore è preferibile all’odio, il rispetto degli altri al disprezzo, la dolcezza alla violenza e la giustizia all’ingiustizia. E che cosa dovremmo pensare di coloro che intendono imporre il loro credo religioso con la forza e l’arroganza? Qui veramente sentiamo l’esigenza che la ragione trionfi sull’integralismo, la tolleranza sulla sopraffazione, una visiona laica su una confessionale. Quando credenti e non credenti si confrontano su questi temi, se sono animati da una ragionevole dose di onestà intellettuale, devono ammettere che quello che li divide è ciò che non cono- NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 144 » SPIRITUALITÀ scono. Questa è una particolare versione di quello che chiamo “principio di irrilevanza”: a un certo livello di coscienza, il fatto di credere o non credere in dio diventa del tutto secondario (e quindi irrilevante). » Un confronto fra due confronti Ma torniamo a parlare della dimensione spirituale dell’esistenza. Una prima evidenza immediata nasce da semplici considerazioni sulle varie forme di arte, in cui non solo pittori e poeti, musicisti e scrittori atei hanno raggiunto risultati elevatissimi, non certo inferiori a quelli dei credenti. Quando guardiamo un bel quadro o ascoltiamo una musica piacevole, l’ultima delle nostre preoccupazioni è conoscere le opinioni dell’autore in materia di religione. A sostegno del principio di irrilevanza gioca anche il confronto fra due dialoghi tra un credente e un non credente, che si sono svolti a più di sessant’anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo è quello fra Bertrand Russell e padre F. C. Copleston S. J., trasmesso dal Terzo Programma della BBC nel 1948. In molti passaggi si ha l’impressione di assistere a un dialogo tra sordi. Dopo una lunga serie di schermaglie sulla causa del mondo, il filosofo afferma che gli scienziati non presumono di sapere sempre trovare una causa per ogni cosa. Copleston contesta questa affermazione e, dopo un breve scambio di battute, i due convengono che su questo punto non sia il caso di continuare a discutere. Nel 2009 credenti e non credenti possono dialogare in modo ben più proficuo, come dimostra la Disputa su dio e dintorni di Corrado Augias e Vito Mancuso. Qui c’è da entrambe le parti il massimo rispetto dell’interlocutore. Sia Augias sia Mancuso concludono affermando che il loro scambio di opinioni è stato produttivo e che continuerà ad esserlo anche in futuro. Nel difendere il principio di irrilevanza vorrei comunque richiamare tutti al massimo rigore sul piano teorico, in quanto non è concesso a nessuno di confondere i due livelli: fisico e metafisico, filosofico e scientifico. Naturalmente, vorrei ribadire che oggi la possibi- lità di un confronto sereno sembra limitato a soggetti che hanno raggiunto un alto livello di consapevolezza. Non parlo qui di onestà intellettuale, perché chi non ne dispone è del tutto estraneo alle considerazioni sviluppate in queste note. Ma per lo sviluppo della società civile sarebbe auspicabile che questo principio si propagasse rapidamente a tutti i livelli, favorendo l’avvento della tolleranza contro ogni tentazione neointegralista. » Perché c’è qualcosa invece che niente? Infine vorrei stabilire un confronto indiretto tra un credente e un ateo accostando le differenti risposte alla “grande domanda” di Leibniz, quelle del filosofo cristiano Jean Guitton e dell’“ateo fedele” André Comte-Sponville. Il primo afferma che nessuna legge fisica di carattere osservativo ci permette di rispondere, per poi dichiarare che il viaggio ai confini della fisica gli dà «l’indefinibile certezza di avere sfiorato la frontiera metafisica del reale». Da buon cristiano, egli non sa resistere alla tentazione di derivare una prova dell’esistenza di dio dalle ultime conquiste della fisica quantistica: «l’oceano di energia illimitata è il creatore». Ciononostante, viene voglia di perdonarlo: sia perché sa usare altissimi accenti lirici («ciò che i fisici designano con il nome di simmetria perfetta ha per me un altro nome (…) non ho nemmeno il coraggio di nominarlo»); sia perché, come afferma Giulio Giorello nella prefazione all’edizione italiana di Dio e la scienza, da cui sono tratte le precedenti citazioni, «Guitton non vuole costringerci a credere, piuttosto offre un esempio di come la sua fede personale può crescere e ravvivarsi nel confronto con la scienza senza rassegnarsi all’insignificanza del mondo e degli uomini». In ogni caso, ritengo più convincente l’argomentazione di Sponville: che ci sia qualche cosa nessuno lo mette in dubbio, ma il punto è sapere perché. La domanda va al di là di dio, perché ve lo comprende. Perché dio invece di niente? «Affermare che l’essere è eterno non equivale a spiegarlo: che dell’essere ci sia sempre stato, ci dispensa dal cercarne l’inizio o l’origine, non di cercarne la ragione». » alessandro giannandrea mente, pensiero, spirito PSICOLOGO Miraculum: cosa meravigliosa riplice Miracolo! Davanti agli occhi increduli di una folla di scienziati, una statua della Madonna prorompe in una fragorosa risata. Nello stesso giorno, in un ospedale da campo, medici e giornalisti con telecamere, assistono alla ricrescita della gamba di un bimbo, mutilato dall’esplosione di una mina. Come se non bastasse, un’anziana suora con una (quasi certa) diagnosi clinica di morbo di Parkinson improvvisamente si scopre (quasi certamente, quasi completamente) guarita! Sia lode all’Altissimo, o a chi per Lui! Lasciamo immaginare al lettore quali di questi meravigliosi accadimenti (forse) non leggerà mai sulle pagine dei giornali, e quale invece (con pochi “forse”) è ritenuto dimostrazione dell’intervento divino, per intercessione di un defunto membro del suo clero. Ma se per amor di sapienza (filo-sofia, appunto) volessimo immaginare cosa risponderebbe la scienza al mutare dei marmorei lineamenti di una statua, o al rigenerarsi di intere membra, non potremmo aspettarci altro che frasi ipotetiche, qualche condizionale, al massimo un “X sembra dimostrare Y”. Religioni e scienza partono infatti da diverse posizioni epistemologiche. Da una parte, con una forma mentis simile a quella delle culture prescientifiche (o a quella dei bambini nelle prime fasi dello sviluppo cognitivo), la successione temporale è ragione sufficiente a postulare causalità, ad esempio: “sogno X, alcuni giorni dopo guarisco da Y, quindi deduco l’intervento di Z, per mano di X”. Dall’altra parte, in compagnia di Galilei e progenie, si procede per ipotesi, prove e osservazioni. Si formulano modelli e si valuta quanto questi possano descrivere accuratamente i dati osservati. Il metodo scientifico, abbandonata la ricerca di certezze assolute e indubitabili, procede “in negativo” prendendo in considerazione solo teorie che, in linea di principio, siano falsificabili. Lo scienziato onesto si alimenta di verità provvisorie, di approssimazioni successive e di incertezza, pronto ad abbandonare completamente le sue teorie di fronte ad altre in grado di descrivere in maniera più efficace i fatti osservati. Consideriamo inoltre che le fondamenta del nostro edificio scientifico sono state energicamente scosse dai loro stessi architetti e muratori: sappiamo grazie a Heisenberg che non potremo mai fare una foto perfettamente nitida della materia, dobbiamo a Gödel il grosso buco scavato nel cuore della matematica e, da Einstein in poi, anche lo spazio che abitiamo e il tempo che viviamo sono considerati concetti fluidi, colorati e distorti dalle lenti di chi li osserva. Dal 1859, per geniale (e genetica) intuizione di Darwin, scopriamo che non siamo altro che l’eredità di mutazioni casuali avvenute nei nostri antenati, non andiamo da nessuna parte, l’universo non ha un progetto, né uno scopo. Se c’è un motore dietro tutto questo è il caso o, se proprio abbiamo bisogno di una trinità, ringraziamo anche l’ereditarietà dei nostri geni e la selezione naturale del più adatto per la fortuna di essere al mondo. Perché indugiare in un panorama così incerto? Il metodo scientifico è carente, incompleto e fallibile, ma rimane il migliore strumento che abbiamo per cercare una verità (o verosimiglianza) che sia ragionevolmente coerente, condivisibile, e non asservita ad altro potere che non sia la forza delle sue stesse argomentazioni. Accettiamo il suo dono: la consapevolezza di quanto sia preziosa, improbabile e irripetibile questa occasione che ci è data di contemplare l’universo, fuori e dentro di noi. Un sorridente Douglas Adams ci chiede: «Non basta godersi la bellezza di un giardino senza dover credere che ci siano le fate in un angolo?». T Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 145 NONCREDO » LAICITÀ 146 Raffaello Morelli NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 STORICO LIBERALE Nei 150 anni dal Risorgimento ad oggi Il “Separatismo” di Cavour Con Lo Sguardo Lungo invito a guarire una piaga italiana: l’ipocrisia sui rapporti tra istituzioni e religioni. Fingere che tutto vada bene costringe ad una condizione meno libera. Il 150° della cavouriana separazione Stato-religioni ricorda che il problema era stato centrato già allora e che il ritorno indietro con la politica concordataria, ribadita tre volte, è figlio di miopi tatticismi nell’illusione di strumentalizzare il Vaticano al prezzo (supposto irrisorio) di arretrare sui princìpi civili di libertà. Su questa rivista è superfluo soffermarsi sul perché il Concordato limiti le libertà. Piuttosto va detto che guarire l’ipocrisia corrisponde a rendere migliori le condizioni di convivenza e non va confuso con l’imporre convinzioni religiose personali. Oggi, per i non credenti non importa tanto l’orgoglio delle convinzioni, quanto impegnarsi ad irrobustire la laicità istituzionale. È il contributo civile più rilevante perché, adottando il criterio della ragione sperimentale, migliora la convivenza di tutti, credenti e non credenti. Il modo di affrontare il rapporto tra vita terrena e vita spirituale di ciascuno, esprime la battaglia tra libertà del cittadino ed autorità sul cittadino. Una battaglia connaturata alla convivenza umana, ancor più oggi, quando i principali temi civili quotidiani (nascita, morte, ricerca, etnie plurime, credi religiosi) richiedono l’ottica della separazione. » La laicità delle istituzioni I tradizionalisti, fermi alle utopie di modelli fuori del tempo, non accettano il senso critico dei diversi cittadini per convivere immersi nella realtà. Nonostante l’esperienza mostri che la diversità fa funzionare meglio la convivenza e produce più libertà e benessere materiale. I tradizionalisti confutano la laicità delle istituzioni proprio sulla caratteristica di fondo. Non proporre una identità unica e non voler far prevalere una convinzione specifica, quella comunitaria. Invece le persone laiche coltivano il senso critico personale ma restano sempre consapevo- li di quanto sia indispensabile la tolleranza verso gli altri. La separazione Stato-religioni risulta decisiva per usufruire dello spirito critico di ognuno, delle sue relazioni innovative e per consentire di poter evolvere nel tempo della vita, esaminando i fatti sperimentali, valutandoli e poi adeguando le decisioni. La laicità delle istituzioni ha due capisaldi. Il primo è garantire la piena libertà di religione del cittadino, di non averla, di essere agnostico. Convivere non vuol dire essere identici per forza o appartenere alla medesima comunità religiosa. Stare insieme tra diversi significa accettare la comune prova dei fatti e tessere le rispettive relazioni condividendo le regole pubbliche. Il secondo caposaldo è la neutralità istituzionale in materia religiosa. È un aspetto essenziale per amalgamare da un lato la laicità del sistema che garantisce la libertà di religione e dall’altro le differenti convinzioni religiose, personali e manifestate in pubblico, che hanno tutte uguale dignità ed uguali diritti. » I cattolici chiusi I veri avversari della laicità delle istituzioni sono quelli che chiamo i cattolici chiusi, cioè coloro che riducono il mondo ad una dimensione religiosa assorbente cui vorrebbero obbligare gli altri. Respingono il principio di separazione per conservare gli inevitabili privilegi concordatari. Vogliono salvaguardare la loro funzione di intermediari, più che la Chiesa. La cultura laica deve con urgenza prendere l’iniziativa sul piano civile per evitare che la fede divenga la fonte legislativa. La politica è rappresentanza e la religione è testimonianza. La libertà di religione non va quindi confusa con i criteri democratici di convivenza civile. È pertanto necessario abbandonare l’abituale schema clericali/anticlericali e riprendere lo spirito profondo della continua lotta civile tra libertà del cittadino e autorità sul cittadino. Riorganizzare le istituzioni secondo il principio separatista è il contributo non contingente della nostra generazione. » ESISTENZA Carlo Tamagnone 147 FILOSOFO Le fasi della vita La morte e il vissuto esistenziale Ogni nascita implica una morte che è parte essenziale di quel tragitto temporale che chiamiamo vita. La morte è stata sempre accettata come fatto naturale e ineluttabile ma ha anche sempre stupito gli esseri umani, che temendola e volendola esorcizzare e magari superare hanno rinviato il problema ad una finzione scenica chiamata “dio”. » Il pensare e il sentire La conclusione della vita che chiamiamo morte ha nella storia dell’uomo numerosi significati a seconda dei punti di vista assunti. Non intendo qui trattare di quelli metafisici e religiosi, mistificanti sia per ciò che la morte biologicamente è sia per quella relazione biologico-esistenziale che è l’esperienza del vissuto interiore. Ci ricorda Gerald Edelman: «Il cervello parla a se stesso» (Seconda natura, Raffaello Cortina 2006, p. 28): la mente, dopo aver introiettato la realtà del mondo con la realtà dell’“io nel mondo”, ne elabora un senso interno che è esistenzialità, ovvero vissuto esistenziale. Riprendendo Heidegger (di cui peraltro condivido assai poco, specialmente dopo la svolta spiritualista del 1936) mi piace la distinzione nel nostro vivere tra l’esistentivo e l’esistenziale. Io uso il primo aggettivo per indicare ciò che concerne la corporeità, la gestione dei ruoli e della socialità dei rapporti in genere, il secondo per indicare l’esperienza intima, il vissuto emozionale e affettivo che esula dal pragmatico: ciò che è biologicamente “inutile”, ciò che non ci aiuta a vivere e nemmeno a pensare, ma a “sentire”. » L’esistenzialità come possibilità L’esistenzialità è una realtà del mentale in cui cessano anche di essere attivi i modelli di esistenza che il mondo ci propone, tradizionali o alla moda, ma esula anche da un materialismo monistico-deterministico che caratterizza un certo pensiero ateo che “chiude” l’esperienzialità al corpo e ai suoi epifenomeni. Alla “chiusura” del materialismo tradizionale io oppongo l’“apertura” dell’esistenzialismo ateo postmaterialista, basato su un pluralismo ontologico che non può essere che post-materialistico. Però noi siamo anzitutto corpo. Che cosa ci caratterizza come corpo e come psiche reattiva-istintuale? La ricerca del piacere. E non solo per edonismo, ma perché il dolore è il segnale che “qualcosa non va”. Il benessere corporeo non solo è la condizione prima dell’esistere ma anche del pensare e del sentire, il malessere è la sofferenza di cui ci dobbiamo liberare. Quale rapporto c’è tra soffrire e morire? Dal punto di vista esistenziale nessuno: la sofferenza vuol dire vita, senza vita non c’è sofferenza e la morte è la fine di ogni sofferenza. Ma nessuno aspira alla morte, poiché essa è impossibilità e la vita, per quanto terribile o angosciante, è possibilità. » La morte per la vita Che cosa sono le possibilità vitali? Le opportunità di agire e progettare, che però si riducono giorno per giorno poiché noi, vivendo, “rilasciamo vita” avvicinandoci alla morte. La perdita di vitalità, il rilascio, indica come la vita contemporaneamente produca morte. Un meccanismo che inizia già allo stato fetale con l’apoptosi (il suicidio delle cellule diventate inutili o atrofiche) e che prosegue fino alla morte. C’è vita se qualcosa in noi muore per proseguire l’avventura del vivere: vivendo “rilasciamo” vita e contemporaneamente la manteniamo. Si vive perché si muore e si muore perché si vive. Senza morte nessuna vita è possibile. Perché una cellula diventa cancerosa? Perché non fa più apoptosi e aspira all’immortalità: rifiuta la morte e per questo diventa seminatrice di morte. In un famoso NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 148 » ESISTENZA saggio del 1977 Jankélévitch dava della morte un quadro affascinante ma falso: per lui la morte è una “tragedia metaempirica”, un “mistero”, che deve spingerci ad andare “oltre la morte”. Annichilazione che si fa progetto? La morte non è metaempirica né misteriosa, semplicemente è “biologica” e i meccanismi della vita implicano che per continuare ad essere si deve morire. » Il caso e la creazione dell’individualità Ognuno di noi “è-stato-per-poter-diventare” e rilasciamo parte di noi per continuare a sussistere. Il degrado mentale però non è coerente col degrado fisico, si rilascia funzionalità ma si può acquistare sensibilità e profondità. Il cervello invecchiando si fa più rarefatto e debole, l’indebolimento della memoria tarpa le nostre possibilità di integrare il passato col presente e il futuro. Ma anche se il fondale resta un trionfo della morte cellulare, sulla scena della vita, per quanto sgangherata, la capacità di sentire il bello, la grazia, la bontà, l’amore, restano vivi grazie all’esistenzialità che avremo coltivato. Non è detto che il vissuto esistenziale peggiori, il cervello non è una macchina deterministica ma creativa e in quanto tale stocastica, cioè soggetta al caso ed è il caso che crea le occasioni di esistenzialità. Il cervello è una struttura evolutiva e soprattutto plastica, quindi precaria; ma oltre che funzionalità motorie, omeostatiche, sensoriali, crea vissuto esistenziale, esperienze, sentimenti che viaggiano solo in parte sul treno della vita che finisce nella stazione della morte. » Esistenzialità come qualità Un animale che oltre che pensare “sente”, non fa solo ragionamenti ma ha anche sentimenti, e ognuno di noi ha un “suo” modo di gioire e soffrire. Il piacere fisico reiterato può rendere stupidi e involuti, mentre la sofferenza può far evolvere, acuire la nostra sensibilità esistenziale. La sofferenza accelera il rilascio e ci avvicina alla morte, ma l’esistenzialità spesso “si riqualifica”. Chi non soffre molto spesso vive meglio e di più in “quantità”, ma chi ha sofferto acquisisce “qualità”: non è una questione di intelligenza ma di sensibilità. È la sensibilità individuale che ci scolpisce esistenzialmente e che forma l’essere un “io” e un “tu” e non solo un “noi”. Tutti siamo dei rilascianti morituri ma le nostre menti sono qualitativamente diverse, non tanto per l’intelligenza quanto per la sensibilità esistenziale, per i modi di esperire la bellezza, la bontà, la scoperta, la conoscenza, l’amore. È in base a tale unicità esistenziale che una mente specifica, mia e tua, giudica ciò che “vale la pena” e ciò che “non vale la pena”. L’importante non è solo il vivere, ma il “come” si vive ed anche, talvolta, lo scegliere di morire in nome della nostra dignità esistenziale essendo diventato impossibile gustare la letteratura, la musica e l’arte, condividere l’amicizia e la solidarietà, ma soprattutto ricevere e dare amore. » Liberarsi dalla morte Il problema non è il morire ma il soffrire oltre la soglia di controllo mentale della sofferenza. Sia la sofferenza fisica sia quella psichica possono raggiungere livelli di atrocità non solo da renderci invalidi, ma da renderci insensibili: da non essere più noi stessi. La sofferenza estrema ci rende dei generici “sofferenti all’estremo” e ci annulla come individui. Questo è ciò che dobbiamo temere, non la morte. Non dobbiamo temere l’annichilazione del nostro corpo ma l’annichilazione della nostra sensibilità intuitiva, di ciò che esula il vivere meccanico, la posizione sociale, il successo, il potere, il conto in banca e tutto ciò che ci valorizza sul piano sociale. Tutto ciò si squaglierà con la morte, ma se avremo dato e ricevuto amore, se ci saremo stupiti di fronte a un passero che saltella o una nuvola che passa, se avremo pianto nel leggere una poesia di Leopardi o sentendo una sonata di Beethoven, allora saremo già andati oltre il nostro imminente cadavere. A questo punto la morte sarà solo la calata del sipario su un’esistenzialità che per il solo fatto di essersi data a noi come esperienza di una “qualità” dell’esistere che eccede il meccanicismo corporeo si è fatta libera. L’esistenzialità è già di per sé sempre liberata dalla morte. noncredo ergo sum di Paolo Bancale “Ich bin ein Berliner” 149 - John F. Kennedy - ovvero mi associo alle parole di Ratzinger (ma con una aspettativa) E ssere per libera scelta noncredenti, cioè non aderire a nessuna particolare religione, e contemporaneamente tendere ai grandi Valori etico-morali, culturali e spirituali che l’Uomo ha saputo individuare, è sempre stato l’Ideale professato e auspicato da questa rivista. Già nel primo fascicolo di NonCredo del settembre 2009, commentando le seguenti parole dell’arcivescovo Martini: «Il non credente non sente i valori trascendenti, ma desidera avere qualcosa cui appoggiarsi, ed è perciò possibile stabilire un dialogo nella ricerca di punti di riferimento per un’azione morale, per impegnarsi a realizzare un vero bene umano condiviso da tutti» noi esclamavamo (pag. 34) «Ma questo è il programma di NonCredo!». Oggi c’è di più nelle parole del discorso pronunciato da Ratzinger per il Cortile dei Gentili di Parigi: «Se si tratta di costruire un mondo di libertà, di uguaglianza e di fraternità (i tre credo della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo, n.d.r.) credenti e non credenti devono sentirsi liberi di essere tali, eguali nei loro diritti a vivere la propria vita personale e comunitaria restando fedeli alle proprie convinzioni». Anche di fronte a queste parole nobili, giuste e che si fanno notare per oggettiva neutralità, ci associamo ed esclamiamo con la stessa condivisionel«Ma questo è il messaggio di NonCredo!». Se tutto questo deve rappresentare, come riteniamo, una ratio e un codice etico di comportamento mi chiedo quale coerenza vi sia tra la Gaudium et Spes concilia- re quando recita «La Chiesa deplora la discriminazione tra credenti e non credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono», nonché lo stesso Ratzinger quando asserisce nel discorso citato «Le religioni non possono aver paura di una laicità giusta, di una laicità aperta che permette a ciascuno di vivere ciò che crede secondo la propria coscienza», e poi il contrapposto e non coerente giubilo di tanti notabili della gerarchia vaticana per la seconda sentenza europea sulla presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche (nonché nei tribunali, caserme e in tutti i pubblici uffici) della Repubblica italiana in forza di una legge totalitaria emanata dalla dittatura fascista nel 1926. Ritengo che dovrebbe essere proprio la Chiesa cattolica, per coerenza con le forti asserzioni pontificie che abbiamo riportato testualmente, a chiedere con equità, magnanimità, lungimiranza, sicurezza e coerenza, l’abrogazione di quella norma che forse rispecchiava lo zeitgeist, il contesto politico dell’Italia regio-fascista di allora, norma che oggi, però, mi sembra che svilisca quella Chiesa, egemone e potente in questo Paese, ma anche capace di enunciare e proporre le giuste e neutrali visioni contenute nelle espressioni citate. E la svilisce così come agli occhi della Storia il Vae victis col getto del gladio sulla bilancia svilì il gallo Brenno e le Forche Caudine svilirono i Sanniti vincitori sui Romani. Anche loro non ne avevano bisogno ed anche per loro furono controproducenti. scienza e religioni » francesco primiceri ASTROFISICO Quando la logica vuole occuparsi di dio e prove sull’esistenza di dio si basano principalmente su due categorie: a posteriori e a priori. La prima è di dominio della teologia naturale e fa riferimento, per trarre le sue conclusioni, a fatti empirici. Gli argomenti si fondano tutti su un unico principio: rifiuto dell’infinito, e più precisamente del regresso infinito per cui, partendo dal contingente, si arriva a stabilire la necessità di una causa prima o di un primo motore. Questi argomenti sono stati di fatto superati nella teoria e nella pratica ed oggi non hanno più alcun fondamento. La seconda categoria, quella a priori, è invece di pertinenza della teologia trascendentale, la quale fonda gli argomenti dell’esistenza di dio principalmente sulla prova ontologica di Anselmo d’Aosta, successivamente ripresa per essere perfezionata da Cartesio, Spinoza, Leibniz ed infine dal matematico Gödel. Si può concepire, sosteneva Anselmo, un essere così grande che niente di più grande possa essere concepito? Persino un ateo può figurarsi un tale essere, sosteneva il teologo, anche se ne negherebbe l’esistenza nel mondo reale; ma un essere che non esiste nella realtà è per ciò stesso meno perfetto di uno che esiste. Dunque dio esiste e gli atei sono stolti. La prova ontologica, nonostante l’apparente coerenza, per l’uso della logica in teologia, in realtà è ingannevole perché maschera una serie di ipotesi nascoste. La prima di queste venne evidenziata dal monaco Gaunilone, il quale sottopone a critica corrosiva l’ipotesi che dio sia una realtà che può essere conosciuta dall’uomo. Per il monaco dio non solo è un essere del quale non si può pensare niente di più grande, ma è più grande di quanto possa essere pensato. Il colpo definitivo alla prova ontologica venne assestato da Kant, il quale notò che l’esistenza non è una proprietà, bensì la copula di un giudizio e non può far parte dell’essenza di un oggetto. Infatti, non ha senso dire che un oggetto con una certa essenza esiste, perché l’esistenza altererebbe la sua essenza e non sarebbe più quello di cui si parlava. La prova ontologica, ovviamente, non dimostra affatto l’esistenza di dio, rivela piuttosto un raffinato “prestigio dialettico”. A ragione di ciò, noi ora faremo uso dello stesso prestigio e della stessa prova di Anselmo per dimostrare proprio l’opposto di quanto voleva affermare il teologo: l’essere superlativo è proprio quello che non esiste. È una versione satirica e divertente della prova di Anselmo presentata per la prima volta dal filosofo australiano Douglas Gasking. La creazione del mondo è il più straordinario successo che si possa immaginare, il merito del successo deriva dall’abilità del suo creatore. Più grande è la sua disabilità (handicap), più impressionante è il successo; l’handicap più grave per un creatore sarebbe la non esistenza. Se supponiamo che l’universo sia il prodotto di un creatore esistente, noi possiamo concepire un essere più grande, ovvero un essere con l’handicap della non esistenza che ha creato ogni cosa. Un dio esistente non sarebbe un essere più grande, perché un creatore ancora più formidabile sarebbe un dio con l’handicap della non esistenza. Ergo: dio non esiste. È superfluo dire che Gasking non ha affatto dimostrato la non esistenza di dio, per la stessa ragione per cui neanche Anselmo ne ha dimostrato l’esistenza. È stato solo un gioco di prestigio che si è rivelato pericoloso nei confronti della fede per gli effetti ottenuti: opposti a quelli sperati. L’introduzione della logica in teologia si è rivelata, perciò, un cavallo di Troia per i teologi: invece di rendere un servizio alla fede lo ha reso all’agnosticismo e all’ateismo. Potenza della logica! L 150 NOTA: Essere: sostanza che non ha bisogno per essere di essere in un’altra cosa; esistenza: appartenenza al mondo delle cose; essenza: insieme delle proprietà caratteristiche di un oggetto. NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 » INTERIORITÀ Gianni Simonati PROFONDA MEDICO PSICHIATRA E PSICOTERAPEUTA, LAUREA IN FILOSOFIA 151 Preghiera e psicoanalisi Cosa prega chi prega? È strano il modo in cui gli uomini pregano. Nella preghiera vengono ripetute delle formule sempre uguali, come se colui al quale ci rivolgiamo fosse sordo e indifferente invece che onnisciente e infinitamente buono. Perché si chiede continuamente il perdono nella preghiera? Perché si esalta e si rendono incessantemente lodi al “Signore”? Il più narcisista dei sovrani terreni si stancherebbe di tanta adulazione, perché il fedele non pensa se ne stanchi il suo sovrano celeste? Perché il fedele sente sempre che le sue lodi non bastano ad appagare e soddisfare il suo dio. Insomma: cosa prega chi prega? Chi crediamo di pregare e chi in realtà preghiamo? » I molteplici volti della preghiera La preghiera vuole rivolgersi ad una divinità. Il fedele crede di parlare con dio e invece sta instaurando un dialogo con se stesso, o meglio con i suoi oggetti interiori inconsci, buoni e cattivi, con le vestigia del padre, della madre e con il suo io primitivo narcisista e onnipotente. Il fedele non sa che il suo profondo è abitato da figure antiche, primitive, presenti nell’evoluzione psicologica di ogni essere umano. Queste figure interiori inconsce si formano nei primi anni di vita e sono l’immagine riflessa delle figure genitoriali e dell’io primitivo infantile. Questi oggetti interiori rimossi dalla coscienza continuano a permanere attivi nell’inconscio. La figura genitoriale paterna è portatrice della normatività e della legge (dio è normatività e legge). È la voce che ti dice cosa è buono e cattivo, che ti critica o ti approva. In una società maschilista ed autoritaria i padri hanno un atteggiamento autoritario e violento, e quindi la figura genitoriale introiettata è critica e distruttiva. Il fedele pensa di pregare dio e invece prega il suo padre interiore, cioè le vestigia inconsce del genitore reale sepolte nel suo inconscio; se il genitore era severo, punitivo, violento, allora il fedele chiede incessantemente perdono (abbi pietà di me). Ma per che cosa chiede perdono? Non lo sa, perché la violenza paterna era immotivata. Quindi la richiesta di perdono è generica, è una supplica perché cessi una violenza di cui non conosce ragione. È una richiesta di pietà rivolta a un genitore introiettato crudele ed è il retaggio di una religione nata oltre due millenni fa nel mondo mediorientale, dove il potere maschile era incontrollato ed assoluto. Questo modello di padre è quello del dio della religione dell’Antico Testamento, che non è mai soddisfatto, che tutto pretende: l’obbedienza assoluta irrazionale, il digiuno, il sacrificio del proprio corpo, il sacrificio della vita – sacrifici umani e animali, sacrificio del figlio stesso. Se il genitore manifesta disprezzo, indifferenza, violenza, il bambino si forma una immagine di se stesso come indegno di amore, e sente questa indegnità come dovuta ad una colpa per qualcosa che ha commesso, anche se non lo ricorda. Se gli sembra di non commettere nulla di cattivo e viene punito ugualmente, si forma il sentimento di avere una sorta di colpa primitiva inemendabile, un “peccato originale”. Il peccato originale biblico nasce dal senso di colpa del bambino di fronte alla violenza paterna immotivata; la trasposizione di questo vissuto individuale a livello collettivo diventa un’implorazione di pietà come in questo canto gregoriano: «Parce domine, parce populo tuo: ne in aeternum irascaris nobis». Perdona o signore… » Figura materna L’altra figura genitoriale è quella materna, portatrice della sollecitudine e soccorrevolezza. Essa è debole, come lo è la donna nell’universo maschile. Rimane nel nostro inconscio come oggetto buono ma impotente, che non può NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 152 » INTERIORITÀ PROFONDA decidere in prima persona ma deve intercedere presso il portatore del potere, cioè l’uomo. Si prega la Madonna perché interceda presso dio padre come nella realtà della famiglia maschilista autoritaria si dice alla mamma di convincere il padre severo affinché ci conceda qualcosa. » L’odio contro la donna A livello profondo l’immagine che il figlio ha di sé è l’immagine che il genitore ha di lui. Il figlio si conosce nell’immagine che il genitore gli rimanda. L’immagine di se stesso indegno rimane come un nucleo distruttivo che distrugge il soggetto; questi, per liberarsene, lo proietta, lo mette fuori di sé: il sentimento di indegnità viene più facilmente proiettato sulle figure deboli e disprezzate socialmente; il sentimento di indegnità diventa così l’indegnità della donna che sta accanto. Anche l’odio verso il padre violento viene proiettato sul mondo circostante, che appare ostile e persecutorio. A livello individuale questo comporta lo sviluppo di elementi paranoidi, a livello collettivo comporta identificazioni di capri espiatori collettivi (minoranze, diversi, popolazioni di altre religioni e costumi). » Nuovo Testamento Il cambiamento dei rapporti sociali e un rapporto meno violento all’interno della famiglia si riflettono nel Nuovo Testamento; la figura paterna sepolta nell’inconscio individuale e collettivo attenua i caratteri aggressivi, e la preghiera comincia ad esaltare i lati buoni e protettivi della divinità. Anche la presenza della Madonna nella preghiera si intensifica man mano che la donna acquista ruolo ed importanza nella famiglia. Se la figura paterna e materna interiorizzate nei primi anni di vita sono molto positive, la preghiera diventa una lode ininterrotta, perché la psiche primitiva opera attraverso un processo di idealizzazione dell’oggetto buono; la preghiera non si rivolge al genitore reale, ma al genitore introiettato e idealizzato, infinitamente potente e onniscien- te; nessuna lode sarà mai sufficiente ad esprimere l’ammirazione infantile primitiva per la bellezza della mamma e la potenza del padre. » Preghiera come amore narcisista La preghiera a volte è una meditazione interiore. Il fedele si concentra nel proprio intimo e prova sentimenti di profondo amore per il dio che adora. In questo circuito tutto interiore il fedele non sa di stare adorando il suo “Ideale dell’io”, che deriva dal narcisismo primitivo infantile e dall’identificazione con il genitore idealizzato. Il fedele non sa che il suo sviluppo psicologico primitivo ha attraversato una fase narcisista e onnipotente. Nella meditazione interiore il fedele non sa che pregando il dio che sente nel suo cuore in realtà adora e ama se stesso, cioè il proprio io ideale infantile primitivo; nella preghiera il credente, senza rendersene conto, è Narciso che ama la propria immagine non sapendo che è la propria. Il credente pensa di fare un atto d’amore verso dio che sente in sé e non sa di stare amando se stesso. Non “dio, quanto ti amo”, ma “dio, quanto mi amo”; io mi amo, amo il mio io ideale primitivo rimosso. Il fedele crede di adorare un essere infinitamente buono e potente e ama inconsapevolmente quel bimbo narciso onnipotente che era tra i due e i quattro anni e che ha dimenticato di aver mai abitato. La preghiera è un’emozione regressiva perché si rivolge a strutture psicologiche primitive. Nella preghiera il soggetto esce dallo stato adulto e si pone nello stato dell’io bambino che si rivolge al genitore o che ama se stesso. Lo stato regressivo lascia uscire dalla realtà attuale, permette il ristoro dalle fatiche della vita. Pregando, il fedele torna bambino alla casa del padre, si allontana per un momento da compiti e responsabilità adulte, cerca aiuto verso le difficoltà e i dolori della vita parlando con il genitore rimosso onnipotente. Pregando ottiene serenità e sollievo: ha infatti soddisfatto il bisogno inconscio di adorare la figura paterna rimossa, verso la quale sente un debito incolmabile. » valerio pocar bioetica e diritti PROFESSORE DI BIOETICA PRESSO L’UNIVERSITÀ DI MILANO Il matrimonio è ancora adeguato ai tempi? l processo verso il riconoscimento dell’individualità, che va accompagnando l’evoluzione della civiltà occidentale, per cui ciascun soggetto instaura, negoziando, rapporti tra liberi ed eguali, impronta le relazioni pubbliche e tocca finalmente anche la sfera delle relazioni private, zoccolo duro delle sudditanze e delle gerarchie legate a discriminazioni di genere e di età. La riforma del diritto della famiglia del 1975, frutto di movimenti d’emancipazione che in questa fase di restaurazione possiamo solo rimpiangere, ha rappresentato un passo significativo di questo processo nel campo delle relazioni familiari, stabilendo la parità dei diritti e dei doveri dei coniugi, riconoscendo loro – novità rivoluzionaria che passò quasi inosservata – la facoltà di concordare l’indirizzo della loro vita familiare, dando spazio alla loro capacità di autodeterminazione (accordo e scelte autonome garantite dalla libertà di divorzio) e riconoscendo ai figli, nati dal e fuori del matrimonio, una posizione di soggetti e non di oggetti, per cui la potestà dei genitori venne a rappresentare un’assunzione di responsabilità. La famiglia istituzionale, fondata sulla gerarchia degli status familiari in accordo a un modello pubblicistico di stampo autoritario, divenne una famiglia democratica, fondata su relazioni affettive e un progetto condiviso di vita comune, e le relazioni familiari si resero private, l’intervento della sfera pubblica restando riservato alla tutela dell’interesse e dei diritti dei minori. Il matrimonio stesso, in capo a un lungo processo di trasformazione, non venne più inteso dalla collettività come un’istituzione deputata a svolgere certe funzioni sociali e a garantire l’ordine sociale stesso, ma assunse il significato di uno spazio ove costruire una privata felicità e realizzare un progetto condiviso da liberi ed eguali. Oggi ciò è ovvio. Se la relazione di coppia si fonda sulla negozialità e sulla condivisione di un progetto, ogni coppia e anzi ogni individuo deve poter ricercare i suoi modi specifici per realizzarlo, non necessariamente nelle forme stabilite dal matrimonio. Non per caso, anche se la coppia matrimoniale rappresenta tutt’ora l’opzione più frequente, una parte assai considerevole della popolazione italiana, seguendo tendenze riscontrabili in tutti i paesi occidentali, adotta altri modelli di convivenza. A chi e a che cosa, dunque, serve ormai il matrimonio, al di là del valore sacramentale, per chi ci crede, e del valore simbolico, per chi glielo vuole riconoscere? Se non, dal punto di vista pratico, a garantire, per via del vincolo di solidarietà giuridica che instaura, il coniuge più debole nella rottura dell’unione, scopo che peraltro potrebbe conseguirsi, magari anche più efficacemente, in tanti altri modi. L’accordo tra due individui, del medesimo o di diverso sesso, accordo privato ma opponibile alle parti stesse e ai terzi, dovrebbe consentire le garanzie che il matrimonio offre, senza però imporre ai partner un modello unico che si sovrapponga alle loro libere scelte. Non si tratterebbe di un ripiego per coloro che al matrimonio non vogliono o non possono accedere (ma tutti/e, volendolo, dovrebbero potere, indipendentemente dalle loro inclinazioni o scelte sessuali) ma, al contrario, di un modello di regolazione più elastico e più conforme alle aspirazioni di due individui che intendono realizzare il loro specifico progetto di vita, di uno strumento giuridico evolutivo e adeguato, più che non ormai il matrimonio, alla mutata realtà delle relazioni familiari. I Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 153 NONCREDO il crepuscolo degli dèi » nando tonon SAGGISTA Credenza religiosa e credulità popolare enché sia corretto separare nettamente le motivazioni che inducono l’uomo ad abbracciare una fede piuttosto che a riporre le sue speranze sulle sabbie mobili di una qualche forma di esoterismo o superstizione, tuttavia non si può negare che affiorino qua e là anche atteggiamenti esteriori che accomunano i due approcci – diciamo così – al “metafisico”, all’extraumano. Se prendiamo in considerazione solo l’aspetto delle istanze spirituali, il confronto non si pone, troppa apparendo la distanza tra bisogno di risposte ad argomenti “alti” (su tutti il significato della nostra esistenza) e ricerca di modeste soluzioni contingenti con la frequentazione di veggenti, astrologi e altri professionisti dell’inganno. O, ancora peggio, con l’adesione a una spiritualità perversa, che esorcizza il male divinizzandolo. Ma se scendiamo sul terreno delle manifestazioni palesi della fede religiosa, di certe ritualità legate al proprio credo, esse non si discostano di molto da forme esibite di altri modi di sentire il soprannaturale, l’extrasensoriale. Si pensi, ad esempio, alla “devozione” nei confronti di certi simulacri “protettivi” (effigi di santi o madonnine paesane), per lo più latitanti recidivi nel momento delle necessità di chi vi si affida. Mi colpì, anni fa, l’intervista a una pia donna di un paese siciliano sconvolto da valanghe di fango e gravi distruzioni. Ella gioiva del disseppellimento di una venerata statua della Vergine, sommersa da metri cubi di terra, perché così essa avrebbe potuto subito tornare sul basamento a svolgere la sua opera di “protezione del paese”. Quanto ciò strida con il più elementare senso della realtà appare immediato. In cosa differisce tale ingenua forma di fiducia religiosa dall’aspettativa miracolistica dell’angosciata madre che si reca dalla chiromante per ottenere soluzione ai suoi problemi familiari? Cosa distingue il flagellante che si fustiga per mostrare pubblico pentimento, o il peccatore ebreo che dondola il capo poggiando le mani al muro del pianto, dall’aborigeno che danza ebbro attorno al totem “salvifico”? Perché mai il “grande” Allah dovrebbe bearsi, come un qualunque satrapo, di vedere il popolo dei fedeli prosternarsi cinque volte al giorno in un gesto di sottomissione? Forme molteplici di una malintesa religiosità, che non dovrebbe essere sinonimo di ottuso bigottismo o discutibili, anacronistiche gestualità, bensì meditazione profonda e condotta coerente con i fondamenti spirituali del proprio credo. In altri termini, non è saggio pensare a un’entità divina come a qualcosa che bisogna temere o blandire usando forme di umiltà a volte francamente senza senso. Credere a dio come si crede a una pietra “miracolosa”, ai “poteri” di un sedicente santone o “guaritore”, alle doti scacciaguai di un “portafortuna” è avvilente e dolorosamente riduttivo. Il bello è – anzi, il brutto è – che, ovunque nel mondo e in alta percentuale, convivono senza alcun apparente disagio la religiosità e la superstizione, il bisogno di trascendenza e mortificanti forme di credulità popolare. I fedeli dovrebbero sapere che le due pratiche sono fra loro incompatibili, vuoi per gli stessi dettami della confessione, vuoi, di conseguenza, per un principio di coerenza logica. Ciò dimostra che nell’animo dell’uomo non esiste chiarezza ma, in genere, solo una disordinata pulsione verso la ricerca di risposte ai bisogni. Così, quando qualcuno o qualcosa promette di offrirti tali risposte, non si guarda più tanto per il sottile e si accetta senza turbamenti di scendere a compromessi. Anche con la propria religione. B 154 NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 » ESTETICA Dario Lodi 155 SAGGISTA Il sacro nell’arte e nel tempo L’animismo e le sue trasformazioni L’ animismo, vale a dire il misterioso soffio creativo che è in tutte le cose e specialmente in alcune (soffio genericamente e brutalmente laicizzato nel ‘700 con il temine di flogisto), è il sacro che ha informato per millenni l’immaginazione umana. È una credenza alla quale l’uomo si è aggrappato tenacemente, sviluppandola nel tempo e rappresentandola visivamente attraverso opere artistiche: all’inizio quelle architettoniche soprattutto, in maniera via via sempre più sofisticata. Gli antichi Egizi fecero erigere costruzioni arditissime (le piramidi) e raffinate (gli obelischi, le sfingi) con scopi diversi, ma con un intento finale unico e preciso: meritare la sacralità del mondo, nel senso di meritare di vivere in un ambiente prodigo di possibilità di sopravvivenza. Gli Egizi, attraverso le costruzioni, volevano dimostrare che erano degni della bontà divina, che meritavano la sopravvivenza. L’arte ha qui una funzione soprattutto esoterica in quanto occorre un particolare linguaggio per comunicare con un particolare alfabeto, quello che determina l’andamento delle cose. È tutto nella mente e nell’animo dell’uomo. Sapere, forse sentire, che esiste una forza regolatrice e amica è una consolazione che va celebrata degnamente. Sotto questo influsso sfuma la realtà vile che si è costretti a vivere. Siamo a una profondità di pensiero che non è razionale, bensì è sentimentale. Avendo a che fare con questo sentimento irrappresentabile, si ricorre a formule alle quali si appiccicano speranze, e pretese gnostiche, rendendo magiche, complesse e confuse espressioni verbali dentro le quali c’è la certezza, affidata come ad un vento benevolo, di ottenere la conoscenza assoluta della realtà, di avere la chiave per diventarne complice. E pazienza se non ci si riesce, l’importante è credere di riuscirci (è questo, grosso modo, l’ermetismo di Ermete Trismegisto, padre dell’esoterismo). La civiltà egizia è una civiltà compiuta, consolidata. Ha risolto le questioni animiste inventando deità per ogni occasione e immortalandole attraverso sculture statiche, fisse su una sorta di compiacimento per lo sforzo concettuale, semplice quanto in sé incisivo, con cui sono state realizzate. L’arte egizia, molto in generale, è ammirevole per una certa acquiescenza assai ben rappresentata e poco servile nei confronti del riferimento divino. L’idolatria è, insomma, contenuta. Non c’è neppure il rapimento estatico. C’è una compostezza esemplare, seppur per qualcosa di accettato a priori, che si fa apprezzare. Non fa pensare un’arte del genere. Per quanto relativamente avanzata, l’arte egizia è ancora legata al concetto di offerta alla divinità. Tutto questo lo vediamo, con minor raffinatezza, nell’arte mediorientale (sumera, assira, babilonese, ebrea): anche qui costruzioni elevate (ziggurat), e statue senza vita, emblemi. L’anima, in questi mondi, cerca conferme materialistiche, oggettive. I risultati artistici sono notevoli nella loro inerzia. Arriverà il fulmine greco a muovere l’arte, tutta quanta. Già la si avverte con le costruzioni micenee, al tempo presunto delle guerre contro Troia (circa 1200 anni prima di Cristo). Altro discorso è l’arte orientale. Il vecchio animismo, in un’India civilizzata, si è trasformato in qualcosa di estremamente intimo, si è concretizzato in una voce interiore che cerca di comunicare con la voce del mondo ed è sicura di riuscirci dopo un difficile quanto necessario percorso esistenziale. Già lo percepiamo osservando i dipinti nelle grotte di Ajanta, che sono una sinfonia vitale, felicemente persa in una ricerca di piacere superiore, di piacere spirituale. Lo possiamo apprezzare nelle sculture Gandhara, e siamo NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 156 » ESTETICA all’Ellenismo, che sono una sintesi mirabile fra sensibilità greca e spiritualità indiana, quella spiritualità, caratterizzata dalle lucide estasi induiste, soavemente concentrate sulla grandezza divina e su quella umana che l’apprende, che molto più tardi porterà alla costruzione di una meraviglia unica qual è il Taj Mahal (dedicato ad una donna che era dea nel cuore del marito). Lo intuiamo nella sontuosità composta delle sculture del Buddha, talune di misura enorme. Gli artisti indiani non intesero affatto materializzare il sentimento, bensì fecero il contrario, spiritualizzarono la materia nel nome di Buddha, che fu l’ispiratore per eccellenza di questa spiritualizzazione, di questa sensibilità particolare. Buddha indica il modo per comunicare con la voce del mondo e fa capire quanto sia giusto affidarsi ad essa, tuttavia non in modo passivo. Venendo a conoscenza della bontà di questa voce, della sua armonia, è un onore per l’uomo potersi accordare: egli entra a far parte di questa armonia, ne diviene esso stesso creatore (ecco la sua partecipazione non passiva al tutto). La sacralità qui è nella considerazione (mai razionale, ma qualcosa di più) del mondo e sacra diviene la propria appartenenza ad esso: una parte importante di un tutto importante, ineffabile, ma non spiritualmente. Un unisono sentimentale acuto, nel quale tutto è nel tutto e lì deve stare per il suo bene. Le statue del Buddha sono lì a testimoniare con solenne discrezione questo risultato straordinario (molto solenni ed insieme aggraziate, nonché circondate da un rispetto reverenziale che non è mai stucchevole, quelle nel Tibet). Tutto l’Oriente verrà condizionato da questo personaggio, fra i massimi della storia umana, Cina e Giappone compresi. Ma nessuna civiltà riuscirà a raggiungere l’intensità originale del Buddhismo né a raggiungere quel legame spirituale con le cose. Cina e Giappone svilupperanno una spiritualità più controllata, più voluta (benché non verranno certo a mancare prove più significative), lasciandosi anche condizionare dai fenomeni naturali, ritenuti incontrollabili (ai quali, quindi, soggiacere), dunque da esorcizzare. Templi e pagode costellano il territorio cinese e giapponese: non pochi vantano un’eleganza eccezionale (nella foto, la Pagoda di Nara, la più antica e forse più bella del Giappone, VIII sec. d.C.). Parecchi quelli dedicati a Buddha, a Confucio (in Cina ovviamente) e in Giappone alla religione scintoista (caratterizzata dalla credenza di presenze spirituali). Si spiegano con la necessità di proteggere debitamente reliquie sacre. Un dovere protettivo verso il sacro che si rivela anche nelle pitture cinesi e giapponesi: sono pitture caratterizzate da una spiritualità apparentemente sommessa, in realtà profonda e meditata, quanto concepita come offerta della propria consapevolezza ad un ordine spirituale superiore verso il quale l’uomo è appassionato osservatore e talvolta partecipe, per quanto parzialmente, della consistenza delle immagini. È una spiritualità che ha sempre qualcosa di prezioso, di sacro, senza che vi sia volontà diretta, impositiva, di manifestarlo. La grandiosità della pittura orientale, specie di quella cinese, è in questa specie di riservatezza, da cui si diparte, tuttavia, una meravigliosa sensibilità, una sensibilità che va nell’infinito: un infinito che non è mai materiale. Una donazione, anche piccola, alla Fondazione senza fini di lucro ReligionsFree Onlus, editrice e ispiratrice della rivista NonCredo, è un modo per contribuire alla realizzazione di quei fini di volontariato e di assistenza (legale, medica, morale ed economica), prevista dall’art. 2 del nostro Statuto, a favore delle vittime bisognose della discriminazione religiosa in Italia. » FILOSOFIA Concetto Solano 157 DOCENTE DI FILOSOFIA Fede e ragione critica Marx e la religione I nnanzitutto un chiarimento preliminare. L’opposizione dialettica è l’opposizione tra due polarità di una stessa unità; ad esempio il giusnaturalismo rappresenta l’unità di due polarità: il giusnaturalismo religioso (innatismo dei valori della persona garantiti ab aeterno da dio) e il giusnaturalismo laico (dove l’innatismo c’è ma non è giustificato teologicamente, come nel caso di Cartesio che lo giustificava tramite l’uomo stesso – cogito – e non tramite dio). Opposizione contraddittoria è invece un’opposizione radicale tra due realtà eterogenee e investe tutte le questioni filosofiche. Il pensiero di Marx è in opposizione contraddittoria rispetto alla religione poiché quest’ultima è definita da Marx come «la teoria generale di questo mondo (…) la sua logica in forma popolare (…) il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione» ed è una teoria che ha un valore mitologico e una funzione sociale. Scrive Marx: «I popoli antichi vivevano la loro preistoria nell’immaginazione, nella mitologia», e ancora: «La critica della religione disinganna l’uomo affinché egli pensi, operi, dia forma alla realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e, perciò, intorno al suo sole reale». L’emancipazione dalla religione è la condizione indispensabile perché la ragione conquisti la sua libertà teoretica (da non confondere con la libertà di pensiero), cioè la capacità di organizzare l’esperienza in un sistema concettuale e quindi di teoreticizzare, universalizzare l’esperienza non in senso dogmatico, risolutivo, ma in senso critico, problematico, in modo da impedirne l’irrigidimento dogmatico. La religione, ci spiega Marx, ha un valore diseducativo perché educa l’uomo all’autoalienazione, è «la figura sacra dell’autoestra- niazione umana». Ciò ha una duplice conseguenza. Sul piano morale l’uomo religioso, invece di porre la sua radice in se stesso, la ripone nell’altro da sé (dio), per cui l’uomo crea dio che, secondo il mito, crea l’uomo e lo trasforma, conseguentemente, in una creatura divina (scambio soggetto-predicato). Sul piano teoretico abbiamo che la ragione viene irrimediabilmente subordinata alla teologia, diventando il fondamento di una concezione visionaria dell’uomo e della vita. Per Marx l’emancipazione dalla religione non deve chiudersi in se stessa (ateismo borghese) ma deve essere trasformata nell’inizio di un processo di emancipazione politica (la democrazia liberal-borghese), che a sua volta sarà superata dall’emancipazione piena dell’uomo, il comunismo. È qui che l’uomo, dopo essersi liberato dalle catene ideali, si libera dalle catene “reali” trasformando la critica del cielo «nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica». Marx sottolinea che il comunismo costituisce una situazione storica che non esaurisce tutta la spinta propulsiva dell’attività etica dell’uomo per cui essa è trascendibile, cioè non è una situazione non situazione; insomma l’elaborazione di Marx non si configura come la chiusura della storia, ma della preistoria dell’umanità. Come un ateo deve porsi di fronte alla religione? Non proponendosi di garantirne l’esistenza mediante il pluralismo religioso o la libertà religiosa (democrazia liberal-democratica borghese), bensì di «eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo»; per fare ciò occorre dissolvere criticamente le categorie religiose, dimostrando che esse non hanno alcun valore euristico nei confronti dell’esperienza, e sostituirle con nuove categorie critiche. obbiettivo laicità » vera pegna HUMANIST FONDAMENTALISMO E LAICITÀ: Qualche esempio ittorio Arrigoni, giornalista italiano di 35 anni, viveva a Gaza e come corrispondente di Peace Reporters documentava la vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione israeliana, la loro vita di stenti, le loro sofferenze, le azioni di guerra come quella del 2008, nota come “Piombo Fuso”. È stato rapito e ucciso da quattro giovani islamici appartenenti a uno dei gruppi della galassia salafita*, noti per essere più attivi contro le altre correnti islamiche e i regimi arabi accusati di apostasia che non contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. I rapitori spiegano la ragione del loro gesto con il fatto che Arrigoni introduceva a Gaza i “vizi dell’occidente”. Se la ragione della loro criminale impresa sia stata veramente quella dichiarata non ci è dato sapere. Certo è che il linguaggio da essi usato è quello solito degli estremisti islamici, il cui scopo – se non addirittura la ragion d’essere – consiste nell’applicare alla lettera i dettami dei loro libri sacri o, per essere precisi, la loro interpretazione di tali dettami. Per non peccare di eurocentrismo, però, va ricordato che il fondamentalismo non è una caratteristica propria dei fanatici musulmani, ma appartiene ai fanatici di tutte le religioni. Per rimanere nel contesto mediorientale, l’esempio più recente è la richiesta fatta dal governo israeliano ai dirigenti palestinesi di riconoscere Israele come “stato ebraico”, ovvero come la biblica “terra promessa” dal loro dio al suo “popolo eletto”. Se tale richiesta sia riconducibile unicamente a motivi religiosi o piuttosto a fini strumentalmente politici – o forse a entrambi – di nuovo non ci è dato sapere. Di sicuro c’è pero che ci vogliono tragedie come questa per farci capire quanto il seme del fondamentalismo è insito nelle religioni e quanto è labile la linea di demarcazione fra il fanatismo di taluni gruppi islamici che vorrebbero una società governata dalla sharia e altre forme di fondamentalismo, certo non cruente ma prevaricatrici, quali l’imposizione per legge di una morale dettata dall’aldilà. Dal fondamentalismo, nelle sue diverse forme, ci salva la laicità perché non riguarda unicamente le istituzioni dello stato della cui imparzialità rispetto alle scelte religiose dei cittadini dev’essere garante. Riguarda altresì la nostra percezione e il nostro comportamento verso gli altri, come ci spiega Maria Bonafede, già moderatrice della Tavola valdese: «È una palestra continua, quella della laicità, e se smetti di esercitarti, se allenti la vigilanza interiore, quel confine delicato e sottile si lacera, e allora ti viene da pensare che quello che tu credi giusto e vero debba diventare anche il modo di vivere e di pensare di tutti gli altri, e diventi integralista, arrogante, impositivo in nome della verità (la tua)». Il senso di questo messaggio e l’abisso che lo separa da ogni tipo di fondamentalismo religioso lo ritrovo nelle parole con cui Vittorio Arrigoni concludeva i suoi articoli di denuncia su Il Manifesto. Scriveva: “Restiamo umani”. Una visione dell’umanità, la sua, che unisce chi non ha nulla da guadagnare dalle disuguaglianze e dalle ingiustizie, dalla violenza, dai soprusi, dalle guerre. Le persone comuni dell’intero pianeta. V 158 *da Salafiyya, il ritorno alla purezza delle origini dell’Islam. Il salafismo si è trasformato da corrente riformista in programma politico di gruppi estremisti, talvolta dediti anche al terrorismo. NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 » SOCIETÀ Stefano Stofella 159 PSICOLOGO Tabù religiosi e sociali Crescere figli in una coppia omosessuale L’ultimo tabù, curiosamente presente anche in chi dichiara di accettare l’omosessualità dei singoli individui. Mentre l’accettazione dell’omosessualità del singolo individuo da parte della società sta diventando sempre maggiore, l’affermazione di diritti quali il riconoscimento giuridico delle coppie e l’adozione e l’allevamento di figli hanno ancora moltissimi oppositori. Questi ultimi sono presenti in maggior numero fra le persone religiose e tradizionaliste, ma spesso anche fra chi non è religioso e ritiene che gli omosessuali abbiano gli stessi diritti, cioè che possano “fare le stesse cose” degli eterosessuali. » Razionalizzazioni «Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro» (Levitico 20, 13). Fortunatamente, solo un ridottissimo numero di estremisti fanatici riterrebbero ancora giusto un simile suggerimento biblico. Tuttavia, l’idea che un rapporto omosessuale sia peccaminoso, quindi da evitare, permane. Dato il continuo e costante avanzare della ragione, a discapito delle superstizioni religiose, spesso l’idea che l’omosessualità sia “male” viene mascherata da razionalizzazioni. Due di queste, che vengono spesso usate anche da persone che non si ritengono particolarmente religiose, sono l’idea che il comportamento omosessuale ed il crescere dei bambini in una coppia di genitori dello stesso sesso sia contro natura, e che i bambini allevati da coppie dello stesso sesso non possano formarsi e crescere come quelli allevati da coppie di sesso opposto. Spesso, chi si oppone a questa possibilità nasconde un timore latente che il bambino possa sviluppare anch’esso una tendenza omosessuale. Quest’idea, oltre ad essere stata dimostrata falsa dagli studi che in seguito citerò, rappresenta una contraddizione: se non si è ostili all’esistenza di individui omosessuali, allo stesso modo non si dovrebbe essere ostili alla possibilità che nuovi individui possano sviluppare comportamenti omosessuali. Il caso contrario potrebbe celare una volontà di sopportazione anziché di accettazione dell’omosessualità, ed un desiderio che essa si estingua col passare delle generazioni. » Naturalità «Alle sue leggi si ubbidisce anche quando ci si oppone; si collabora con lei anche quando si pre- tende di lavorarle contro» (Johann Wolfgang von Goethe). Quelle che chiamiamo “leggi della natura” sono descrizioni che noi abbiamo dedotto dall’osservazione della natura stessa. Sono un frutto dell’intelletto umano. Di per sé, non è possibile in alcun modo agire contro natura. Nel momento stesso in cui lo facessimo, opereremmo secondo le “leggi” della natura. Tutto ciò che esiste, ed ogni azione, è “natura”. La cattiva comprensione di questo è causata dal frequente confondere e mescolare ciò che la scienza ha osservato riguardo al fenomeno della selezione naturale, a ciò che la tradizione religiosa ha insegnato riguardo alla creazione. L’errore più frequente di questa ibridazione è il pensare che ciò che esiste in natura sia stato “creato” con uno scopo preciso (parte dell’ipotesi creazionista) e che sia arrivato a quel punto tramite evoluzione naturale (parte dell’ipotesi evoluzionista), seguendo una sorta di obiettivo a priori. La realtà è che in natura nulla ha uno scopo a priori. Se qualcosa ha delle precise caratteristiche, in un preciso periodo, è perché sono state ereditate da altri individui, i quali, grazie a quelle caratteristiche, hanno avuto possibilità maggiori di vivere e quindi tramandarle riproducendosi. Tirare in ballo la natura, in discorsi del tipo: “la natura ci ha dato queste caratteristiche, perché ne facessimo quest’uso” è solo controproducente, oltre che sbagliato. La natura non dà nulla. Se un organismo ha determinate caratteristiche è perché, nel processo di selezione naturale, una serie di incroci di individui con alcune determinate caratteristiche ha avuto probabilità maggiori di riprodursi. Non esiste nessuna legge naturale che dia delle specifiche direttive. Ad un animale non vengono “date” determinate caratteristiche perché ne faccia un NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 160 » SOCIETÀ determinato uso. Le caratteristiche sono frutto di passate concatenazioni di eventi. » Procreazione e tradizioni Poter generare figli è la caratteristica biologica che ha una coppia eterosessuale, ma che manca ad una coppia omosessuale. Attualmente, grazie alla medicina, sarebbe possibile sopperire anche a questo limite, e sarebbe anch’essa una possibilità naturale derivata dal naturale intelletto umano unito alla sua capacità di costruire strumenti. Cadrebbe tutto il discorso sull’obbligo naturale dei ruoli maschili e femminili. Gli animali sessuati che avevano questa distinzione biologica hanno avuto più diffusione, ma in natura esiste una vastissima varietà di caratteristiche e comportamenti sessuali. L’uomo, come specie, è stato in grado di sviluppare delle società complesse e stratificate. La società è un insieme di regole condivise che permettono maggiori probabilità di sopravvivenza. Buona parte di queste regole non scritte sono eredità di periodi in cui la sopravvivenza della “tribù”, come identità espansa della “famiglia”, dipendeva strettamente dalla procreazione e dall’allargamento della tribù stessa (mediante figli o annessioni di altre tribù tramite accoppiamenti “politici”). Da qui, in alcune società, nacquero molte regole e tabù, come appunto quello dell’omosessualità, ma anche quello dell’incesto, ad esempio. Queste regole vengono attualmente portate avanti dalle persone con ideali più tradizionalisti e conservatori, secondo la logica che dice: “se hanno funzionato fino ad ora, non vanno cambiate”. Tuttavia, le condizioni ambientali cambiano in continuazione, anche grazie all’intervento dell’uomo, e la tradizione spesso fatica a reggere il passo. I principali problemi che minano la sopravvivenza non sono più risolvibili come in passato, tramite il metodo della procreazione. Abbiamo avuto una rivoluzione industriale che ha portato benessere ma anche molti svantaggi, fra cui il problema della sovrappopolazione, che causa un grande consumo di risorse ed il degrado delle condizioni ambientali. In tutto questo, le precedenti regole nate per scoraggiare comportamenti che impedissero il processo di procreazione massiccia iniziano a cadere, perché diventerebbero peggiorative. » Sviluppo Il secondo argomento è molto più forte e spesso dettato da una genuina preoccupazione riguardo alla sorte del bambino. Ci si domanda se un bambino allevato da una coppia omosessuale possa avere lo stesso sviluppo psicologico e la stessa qualità di vita di un bambino allevato da una coppia i cui genitori hanno sessi opposti. Fino a poco tempo fa, non erano ancora stati fatti degli studi che potessero confrontare la qualità dello sviluppo di bambini cresciuti in coppie omosessuali, ma poco alla volta stanno emergendo risultati molto interessanti. «I bambini cresciuti da genitori omosessuali non differiscono dagli altri bambini nell’orientamento e nello sviluppo psicosessuale. (…) Inoltre, la qualità della vita familiare, confrontando genitori omosessuali ed eterosessuali, non aveva differenze significative. Le ricerche suggeriscono che i genitori omosessuali tendono ad avere migliori qualità genitoriali. L’orientamento sessuale dei genitori, almeno per quanto riguarda le madri lesbiche, non sembra ostacolare lo sviluppo di quello dei figli. D’altro canto, l’emarginazione e la mancanza di riconoscimento sociale e legale hanno un effetto negativo sulle famiglie omosessuali» (Rivista sperimentale di Freniatria, anno 2008 fascicolo 2). Le stesse conclusioni sono state raggiunte da un identico studio effettuato dall’Istituto sulla famiglia dell’università di Bamberg e da quello di Pedagogia infantile di Monaco. Entrambi gli studi stabiliscono che non vi sia alcuna differenza nello sviluppo dei bambini cresciuti in coppie tradizionali o in coppie omosessuali e che ad essere fondamentale non sia l’orientamento sessuale dei genitori, ma le attenzioni ricevute. Gli incoraggianti risultati di questi studi hanno aperto la strada, in Germania, alla proposta di permettere alle coppie omosessuali di allevare i figli avuti in precedenti relazioni. L’unico problema che potrebbe avere un figlio cresciuto in una coppia omosessuale è che la società non lo accetti, considerandolo un deviante e causandogli infelicità. Ma l’origine di questa infelicità non va cercata nella coppia omosessuale, che l’ha cresciuto con lo stesso affetto e la stessa capacità di una coppia tradizionale, ma nelle persone che, rimanendo ancorate ad idee del passato ormai obsolete, agiscono, consapevolmente o meno, in modo crudele pensando di essere nel “giusto”. » IPOTESI Guido Martinoli 161 INGEGNERE Abissi tra Fisica, Metafisica e Supermetafisica D a alcuni millenni, con la ragione, la scienza e un po’ di fantasia, abbiamo sufficientemente (non completamente) definito i concetti elementari di spazio e di tempo e li abbiamo posti a fondamento dell’unica tangibile dimensione che conosciamo e manipoliamo e che chiamiamo Fisica. Ma così facendo, e forse senza volerlo, abbiamo dovuto ipotizzare anche un’altra possibilità, quella “oltre” il tempo e lo spazio, cioè oltre la fisica, che da Aristotele chiamiamo Metafisica. Qui però ci tocca puntualizzare. Chiediamoci: che senso ha questo “oltre”? Stiamo parlando di un opposto, di un successivo o di un incommensurabile? La Metafisica è alternativa e distinta, sostiene e supera o è del tutto estranea (ab-soluta, cioè totalmente slegata) rispetto alla fisica, che diamo come nota? Un po’ di luce si può fare se ci concentriamo inizialmente su un dilemma annoso e ancora aperto: l’eterno e l’infinito appartengono alla fisica o alla metafisica” O altrimenti: l’eterno è ancora tempo e l’infinito ancora spazio o sono entrambi già oltre? Per queste questioni, una possibile risposta viene dalla matematica, che da secoli studia il concetto d’infinito e d’infinitesimo numerico. Sulle orme di Leibniz e Newton concluderemmo che sia l’uno (eterno) che l’altro (infinito), come pure l’istante e l’infinitesimo (gli opposti dei precedenti), sono i confini estremi delle due grandezze fondamentali e sono ancora, seppure al limite, appartenenti ad esse e dunque alla fisica. La Metafisica si pone perciò come dimensione indipendente, non tanto quantitativamente (matematica), bensì qualitativamente (essenza) dalla fisica. Sarebbe una condizione del tutto alternativa, non successiva né inglobante la fisica e ad essa solo legata dialetticamente dal concetto di altro o di opposto. Sarebbe la “non fisica”. Ma se già è arduo pensare l’infinito e l’eterno, quasi impossibile è solo immaginare qualcosa nel “non tempo” e “non spazio”. Qualche speranza ce la offrono il sogno o l’estasi, ma per la maggioranza dei mortali è difficile dare semplicemente un nome a tale “non mondo”. Continuando su questo principio, che definisce negando (metodo apofatico), potremmo focalizzare un’ulteriore dimensione, quella insieme della non-Fisica (non tempo e non spazio) e della non-Metafisica, che potremmo chiamare Supermetafisica e così continuare per ampliamenti apofatici, discreti e successivi. Negando una dimensione appena definita, ne definiamo indirettamente un’altra. Negando ulteriormente queste due dimensioni ne definiamo una terza; negando queste tre ecco la quarta e così via. Così facendo arriveremmo a una sorta di catena meta-ontologica, che qualcuno ha chiamato “Multiversi”, in alternativa all’universo che conosciamo, dominato dal tempo, la dimensione che ha appunto un “unico verso”, quello crescente. Infatti, il tempo aumenta sempre e non conosciamo (ancora) il tempo negativo. Ma come e dove collocheremo questi “enne” multiversi, giacché per noi e per adesso la metafora dello spazio è inevitabile? E se infine negassimo gli stessi multiversi, dove arriveremmo? Ma soprattutto, questa strana spirale divergente e un po’ angosciante a che ci serve? Ci fa salire forse dall’infimo al sommo? Dall’illusione alla verità? Certamente no, almeno in questo stato mortale ed effimero. Eppure qualcosa potrebbe chiarircela. Per esempio ci renderebbe coscienti, seppure fumosamente, dei rapporti che legano tali enne dimensioni. Se ancora avessimo dei dubbi, ci confermerebbe il nostro smisurato grado d’ignoranza e d’impotenza. Ci mostrerebbe quanto sia velleitario e forse trascurabile discutere di essere e nulla, di evoluzione e creazione, di guerra e pace o perfino di bene e male, istanze fondamentali nel nostro “micro” sistema, ma abissalmente lontane e irrilevanti per “quella” verità che, se c’è, darebbe senso a “quel” tutto. Ci ridurrebbe lo stesso nostro dio, creatore, onnipotente, onnisciente, infinito, eterno ecc., a una specie di superuomo da terza o quarta dimensione, che non andrebbe oltre uno stadio fatalmente intermedio, rispetto agli altri multiversi contigui, estranei o peggio superiori. » PENSIERO 162 Marilena Fancello MAGICO NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 PSICOLOGA Psicologia e genetica L’uomo è predisposto a credere? U n “santino” messo strategicamente tra le pagine di un libro prima di un esame; un oggetto portafortuna tenuto in tasca durante un colloquio di lavoro; un cero acceso in chiesa per propiziare la guarigione di una persona cara. Il comune denominatore di questi comportamenti è l’uso di una condotta di tipo magico. Ben lungi dall’essere un argomento ormai obsoleto, il soprannaturale ancora oggi suscita un notevole interesse: per rendercene conto basta andare in una qualsiasi libreria, e vedremo interi scaffali dedicati a magia, esoterismo, occultismo, parapsicologia; anche la vita quotidiana non è immune a questa “fascinazione”. Di solito le persone sono ben consapevoli dell’irrazionalità di una condotta magica, ma questo non impedisce loro di ricorrervi, soprattutto in situazioni problematiche in cui la realtà nota deve poter essere modificata; una condotta può essere considerata di tipo magico quando con essa si intende risolvere un problema semplicemente desiderandone la soluzione o tramite una manipolazione molto semplificata (un esempio classico sono i feticci) rispetto alle soluzioni che si adopererebbero normalmente. La questione si complica se pensiamo alle credenze comuni a molte persone circa l’esistenza di qualcosa “in più” rispetto a ciò che è possibile vedere e toccare con mano; che la realtà, cioè, possa avere una dimensione nascosta, che esistano forze invisibili ma in qualche modo capaci di influenzare in maniera positiva o negativa le nostre vite. Non si tratta solo di un discorso di tipo religioso, perché anche persone atee a volte manifestano credenze di tipo soprannaturale. Sembra quasi che la maggior parte degli esseri umani coltivi una predisposizione a capire il mondo in funzione di regolarità, scopi e rapporti di causa-effetto: rispetto a questo sistema di credenze, il pensiero scientifico risulta contro-intuitivo, quindi più difficile da assimilare. È possibile dare una spiegazione a tutto ciò? Recentemente uno psicologo cognitivista, Bruce Hood, ha affrontato quest’argomento ipotizzando l’esistenza di ciò che lui ha chiamato supersenso; il supersenso non è altro che la naturale propensione umana ad interpretare la realtà secondo schemi fissi e regolari e a credere in dimensioni nascoste e misteriose. Secondo Hood le credenze di tipo soprannaturale funzionano poiché vengono considerate plausibili, in accordo cioè con ciò che viene ritenuto possibile; ad esempio, la teoria dell’evoluzione ha faticato ad essere accettata proprio perché la nostra mente sembrerebbe predisposta a vedere il mondo con una struttura e un ordine ben precisi, ma soprattutto esistente per via di uno scopo, un progetto. Anche le religioni si sarebbero originate proprio a causa di quest’inclinazione innata della natura umana; inclinazione che, sebbene innata, varia comunque da persona a persona e, per fortuna, lo studio e la cultura possono contribuire a relegarla sullo sfondo. Ma a volte, quando il tradizionale approccio alla realtà basato sul raziocinio non viene ritenuto sufficiente per dare una spiegazione ad alcuni avvenimenti, la capacità di autocontrollo e critica può vacillare; in questi casi può accadere che si privilegi l’ambito del soprannaturale. Ecco quindi che una spiegazione a malattie, insuccessi, disagi, basata su quanto ci comunica il nostro supersenso, improvvisamente non solo ci pare perfettamente calzante, ma contribuisce a tranquillizzarci, perché ci libera dalle responsabilità personali. » carlo prisco lo stato di diritto AVVOCATO La bestemmia è reato? art. 724 c.p. ravvisava il reato di bestemmia nell’uso di «invettive o parole oltraggiose, contro la divinità o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato», ma la sentenza n. 440/95 della Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del periodo «o i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato». Il rilievo della Corte ha tenuto ovviamente in considerazione il principio di uguaglianza dinanzi alla legge, concludendo che la norma in questione avrebbe determinato una disparità, ormai ingiustificata, tra i seguaci di fedi differenti e osservando che: «La scelta attuale del legislatore di punire la bestemmia, una volta depurata del suo riferimento ad una sola fede religiosa, non è dunque di per sé in contrasto con i princìpi costituzionali, tutelando in modo non discriminatorio un bene che è comune a tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse». Naturalmente il principio enucleato è tutt’altro che privo di senso: anche in queste pagine abbiamo più volte rammentato che l’ordinamento vigente garantisce una serie di benefici e agevolazioni alla sola fede religiosa cattolica, così determinando un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a tutte le altre confessioni. Tuttavia si potrebbe eccepire che la Costituzione non impone soltanto la tutela del sentimento religioso, ma anche della personalità umana nelle sue varie manifestazioni, di cui la religione è soltanto una fra le molte possibili. Le opinioni politiche, per esempio, sono per definizione una delle più importanti esternazioni della personalità umana e come tali sono tutelate attraverso il riconoscimento della libertà, del principio di non discriminazione e, ovviamente, della libera espressione: eppure nessuna norma vigente sanziona il vilipendio di una “fede” politica. Gli esempi di forme di pensiero e di sentire del singolo o di collettività sarebbero innumerevoli e non occorre certamente esaminarli tutti per concludere che la tutela legislativa del solo credo religioso rappresenti una duplice anomalia: da un lato vi è infatti una disparità rispetto ad altre espressioni della personalità e, dall’altro lato, soltanto i “credenti” possono essere tutelati da un simile istituto giuridico. Insomma, per quale motivo è illecito usare parole oltraggiose verso una divinità, mentre non è illecito oltraggiare l’idea e le opinioni di atei o agnostici? Forse che il sentire e l’opinione che non sono ammantati e riparati sotto al mantello della definizione “religione” sono indegni di rispetto? E cosa dire della discriminazione tra scuole di pensiero spirituali non religiose? Un buddhista non potrebbe dunque trovare alcuna tutela? Inoltre le motivazioni della Consulta vertono interamente sul riguardo nei confronti del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità di tutelare i fedeli da lesioni di sorta: eppure è un dato di fatto che – normalmente – ciò che viene definito “bestemmia” non è altro se non una frase fatta, una mera ripetizione di termini poco meno che casuali, atta a ledere chi la ascolta tanto quanto tutte le altre imprecazioni del parlare comune e che tuttora potrebbero scandalizzare alcuni (ad esempio i più anziani) e lasciare indifferenti altri (ad esempio i più giovani). Ma anche in questo caso non si comprende per quale motivo soltanto i gruppi di credenti dovrebbero trovare tutela da simili – in vero effimere e sterili – esternazioni, mentre tutti gli altri sarebbero rimessi alla mercé degli offensori di turno. Occorre porsi un altro quesito: se il bene tutelato, quello di cui parla la Corte, è il sentimento religioso, allora affinché questo possa essere leso è necessario che ne siano presenti diversi portatori (non già uno solo, poiché la norma prevede che l’evento sia pubblico); ma come si può condannare qualcuno per la lesione di un sentimento religioso non condiviso da alcuno dei presenti al fatto? Quale offesa recherebbe un musulmano italiano che, in presenza di altri dieci musulmani, imprecasse contro una divinità induista? Insomma, a ben vedere lo strumento per garantire la reale tutela del sentire di ciascun individuo è già presente nell’ordinamento: il reato di ingiuria e quello di diffamazione consentirebbero infatti di prevenire e comunque sanzionare qualsiasi condotta lesiva della personalità, sia in base a criteri generali, sia – soprattutto – mediante l’adozione di criteri specifici che tengano conto delle idee della persona offesa. Benché magramente, sarà forse consolatorio per il lettore apprendere a questo punto che il Legislatore, con il D. Lgs. 507/99, ha depenalizzato il reato di bestemmia rendendolo un “semplice” illecito amministrativo per il quale è comminata una multa. L’ Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 163 NONCREDO il primato dell’etica » carlo tamagnone FILOSOFO Ma che cos’è questo destino? li uomini da sempre evocano il fantasma del destino per scaricagli la responsabilità di quel che avviene. Essendo di origine extraumana, esso è ineluttabile e inoltre “sta scritto” da qualche parte ma “non in noi”. Il destino è anche “determinato in anticipo” e in quanto tale “necessario”; sia la greca ananke e sia il latino fatum sono caratterizzati dalla necessità. Questo sciagurato concetto ha percorso i millenni e continua a imperversare nelle più varie forme, religiose, astrologiche, paranormali, chiromantiche, spiritistiche e così via. Infatti, se esso sta scritto da qualche parte, ci deve essere il modo di riuscire a leggerlo, e da ciò sibille, oracoli, vati, profeti, indovini, ecc. C’entra qualcosa con l’etica? C’entra moltissimo: perché nel momento in cui c’è un destino che predetermina il mio futuro, siccome ciò che deve capitare comunque capita, io sono deresponsabilizzato delle mie azioni. Possiamo sbarazzarci del destino? Non è necessario, basta ridefinirlo e riqualificarlo quale nostro progetto destinale, individuando quali sono le componenti “subìte” (genetiche, famigliari, sociali, culturali) e quali quelle “agibili” o “riorientabili”. Essere consapevoli di ciò che ci portiamo dietro permette di modulare il come e la direzione del nostro procedere; solo a questo punto possiamo tentare, senza farci illusioni ma con cognizione di causa, di pilotare la nostra esistenza. A fine anni ’90 avevo proposto un’interpretazione del destino che mi pare ancora valida, con sette fattori dinamici: 1) l’eredità genetica, 2) gli imprinting infantili, 3) la condizione, 4) la situazione, 5) il ruolo, 6) la classe sociale, 7) il censo. La risultante funzionale di questi fattori è una corrente che ci spinge a tergo. Sull’eredità genetica non è il caso di soffermarsi. Con imprinting infantili intendo i condizionamenti fissati nelle primissime fasi della vita. La condizione è lo stato in cui ci troviamo, l’insieme dei fattori di salute, umore, relazioni umane, miseria o agiatezza, disperazione o speranza che esperiamo. La situazione è il “medium” in cui siamo inseriti, cioè il contesto geograficotemporale-sociale nel quale stiamo. Il ruolo: tutti noi ne abbiamo uno o più d’uno in famiglia, nella professione o nello svago. La classe sociale oggi è meno importante che in passato, tuttavia la provenienza condiziona la nostra forma mentis e la nostra personalità, relativamente all’eloquio e al modo di porsi. Infine il censo: fattore più o meno dinamico a seconda della mobilità sociale, costituito e dal patrimonio e dalle fonti di reddito in atto.Il destino può dunque diventare un utile strumento di autoanalisi delle proprie vicende per leggere il presente alla luce del passato e per capire un po’ meglio perché le cose vanno così o cosà. Ciò detto, occorre tenere presente che se il destino agisce come una spinta direzionale, esso è sempre soggetto al caso, che può scompigliarlo in direzioni impreviste. Accadimenti casuali possono “ridisegnare” il progetto destinale in modo anche profondo e dirimente. Quindi, il destino ci condiziona, ma il condizionamento può sempre ridursi in ogni momento a causa di accadimenti casuali impattanti. Nello stesso tempo con la forza di volontà e l’iniziativa noi possiamo, sia sfruttando gli eventi e sia riducendone gli effetti, andare in direzioni differenti da quella a cui parremmo destinati. G 164 NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 » ESCATOLOGIA Luigi Mazza 165 FILOSOFO DELLE RELIGIONI Ingenuità, fantasia e morbosità delle religioni Le forme dell’aldilà: viaggio nel paradiso monoteistico » La tradizione giudaica Nella tradizione ebraica il paradiso viene indicato come Gan Eden, letteralmente giardino delle delizie. Esso è un luogo non-luogo, uno spazio non fisico nel quale ci sono dei limiti e dei confini che non possono essere superati. Il Gan Eden è una dimensione spirituale sovrasensibile a cui giungono le anime dei giusti dopo la morte fisica per godere eternamente della visione di dio. Nell’escatologia ebraica il raggiungimento del Gan Eden presuppone due princìpi di fede fondamentali: l’immortalità dell’anima e il giudizio di dio che elargirà premi o castighi. Per l’ebraismo il raggiungimento del paradiso è la tappa finale di una vita proba e virtuosa, una vita in cui si sono rispettate le 613 mitzvòt (precetti). Per l’ebraismo dopo la morte fisica l’anima dell’uomo si presenta al giudizio di dio. La tradizione religiosa ebraica parla di premi o castighi, ma non dice nulla su quali essi saranno: «Nessun occhio ha contemplato ciò che Dio, e nessun altro all’infuori di Lui, riserberà a colui che Lo ha atteso» (Isaia 64, 4). L’unica certezza è che nel Gan Eden vi sarà la separazione totale dal mondo fisico e sensoriale e che ogni beatitudine sarà esclusivamente spirituale e contemplativa. Il paradiso avrà come caratteristica principale quella di ricompensare l’anima pia, che nella vita terrena ha subìto privazioni ed ingiustizie, con pace, gioia e serenità. » La tradizione cristiana Questa caratteristica accomuna la visione ebraica a quella cristiana dell’aldilà. Anche il cristianesimo, infatti, contempla una vita ultra- terrena che sia riparatrice dell’ingiustizia del mondo sensibile, una vita priva di dolore, dove il giusto sarà ricompensato con amore, pace e serenità, una vita in cui poter contemplare eternamente il volto di dio. Questa ricompensa ultraterrena, d’altronde, è già insita nelle parole di Gesù, che nel Discorso della montagna enuncia le famose Beatitudini: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (...). Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Per i cristiani, l’obiettivo finale è il ritorno alla visione divina, e questo ritorno avviene attraverso due vie: un comportamento pio in vita e la grazia di Gesù Cristo. Quelli che scelgono, invece, di non seguire il verbo di Gesù riceveranno una ricompensa in base a ciò che hanno fatto nella vita terrena, ma non assaporeranno la gloria di vivere alla presenza di dio. » La tradizione islamica Molto diverso è, invece, il concetto di paradiso (al-janna) per la tradizione islamica. Innanzitutto esso è prerogativa esclusiva dei musulmani in quanto seguaci di Muhammad e dell’unica religione autentica. Poi, a differenza degli altri monoteismi, che pongono l’accento sul significato spirituale della vita ultraterrena, esso ha una valenza spiccatamente materialista. Il paradiso islamico è descritto, infatti, come un luogo di estrema felicità, ricco di giardini dove crescono rigogliosi alberi, piante e fiori. Questi giardini sono attraversati da immensi fiumi di latte, vino, miele ed acqua purissima. Ogni tipo di cibo vi si trova in abbondanza e viene servito su piatti d’oro da fanciulli vestiti di seta. Per rimarcare la visione marcatamente maschili- NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 166 » ESCATOLOGIA stica dell’Islam, anche in paradiso gli uomini possono godere dei piaceri sensuali, sia eterosessuali sia omosessuali; essi hanno a disposizione mogli e vergini dai bellissimi occhi simili a perle: «E invece ai Pii toccherà luogo agognato, giardini e vigneti, fanciulle dal seno ricolmo coetanee e coppe traboccanti», Corano Sura LXXVIII, An-Naba’ (dell’annuncio), vers. 31-34; «E fanciulle buone e belle (…) dagli occhi grandi e neri, nelle loro tende racchiuse (…) mai prima toccate da jinn né da uomini», Corano Sura LV, Ar-Rahman (del clemente), vers. 70-74; e moltissimi fanciulli: «E quelli che avran creduto, e li avrà seguiti la loro progenie nella fede, li riuniremo colà alla loro progenie e non li defrauderemo di alcuna delle loro azioni: e ogni uomo sarà pegno di quel che s’è guadagnato. E forniremo loro frutta e carne, quella che desiderano. E si passeranno a vicenda dei calici d’un vino che non farà nascere discorsi sciocchi, o eccitazioni di peccato. E s’aggireranno fra loro giovani a servirli, giovani come perle nascoste nel guscio», Sura LII, At-Tur (del monte), vers. 21-24. Al pio musulmano viene promesso, quindi, tutto quello che in questa terra gli viene negato e proibito. Da sottolineare che per le donne, invece, non è previsto nessun piacere o godimento nell’aldilà. Anche in paradiso, così come in terra, ci sono però delle differenze. Al-janna, infatti, è composto da gironi. Il più basso tocca ai musulmani che dopo aver espiato i propri peccati escono dall’inferno ed entrano in paradiso a carponi; gli infedeli, invece, cioè coloro che non hanno abbracciato l’Islam, subiscono ogni sorta di tortura per l’eternità. Il girone più alto è riservato ai martiri, uomini morti per la causa di dio. L’escatologia islamica prevede, infatti, che un posto in paradiso sia assicurato a colui che muore come parte in lotta contro l’oppressione, in qualità di shahid (martire, cioè testimone). Il Corano dice che il jihâd fa accedere alla più grande ricompensa ed è la strada più sicura per il paradiso se il guerriero muore: «E non chiamare morti coloro che son stati uccisi sulla via di Dio, anzi, vivi sono, nutriti di grazia presso il Signore!» Corano, Sura III, Al-‘Imrân (La famiglia di Imran), vers. 169; ed ancora «Combattano dunque sulla via di Dio coloro che volentieri cambiano la vita terrena con l’Altra, ché a colui che combatte sulla via di Dio, ucciso o vincitore, daremo mercede immensa» Corano Sura IV, An-Nisâ‘ (delle donne), vers. 11. » Riflessioni A differenza dell’aldilà giudaico-cristiano, che pur prevedendo un paradiso ed un inferno mette in primo piano il perdono di dio e la possibilità di redenzione, l’aldilà islamico è sicuramente molto più traumatico, sia nella visione paradisiaca sia nella visione infernale. Sicuramente il paradiso islamico porta con sé un fascino immenso agli occhi di un uomo che vive nelle difficoltà, nell’ignoranza, nel dolore, nell’oppressione. Non è difficile immaginare quanto sia facile, con tali argomenti, plasmare le menti fragili di giovani musulmani a cui la vita ha dato solo drammi, paura e fame. Gli attentatori suicidi, infatti, si immolano in nome di Allâh sperando in una vita ultraterrena felice, una vita diversa che li ripaghi da tutta la sofferenza che questo mondo ha donato loro. Ma il musulmano è “costretto” ad una vita proba non solo da queste promesse di gioia eterna, ma anche dalla paura per un inferno terribile. Nessun uomo in piena libertà potrebbe credere ad un dio vendicatore qual è il dio islamico, un dio che prevede per gli uomini pene eterne, un dio feroce, quasi sadico, un dio che disseta i peccatori con pus o sangue bollente affinché gli intestini si sciolgano, un dio che versa sulle loro teste acqua bollente o frusta gli infedeli col ferro. La verità è che il fanatismo di pochi danneggia la vita di milioni di persone, uomini e donne che vorrebbero vivere sereni ma che vengono continuamente torturati psicologicamente con obblighi assurdi, minacce terribili o promesse vaneggianti. » raffaele carcano noncredenti e società SEGRETARIO UAAR Senza offesa olti non ne sono al corrente, ma la legge italiana continua tuttora a punire bestemmia e vilipendio: la prima con sanzioni amministrative, il secondo anche con alcuni mesi di reclusione. E bisogna considerarsi fortunati: in alcuni paesi a maggioranza musulmana si rischia addirittura la morte. Al Consiglio dei diritti umani dell’ONU l’Organizzazione della Conferenza Islamica ha proposto per anni una risoluzione di condanna della “diffamazione” della religione, riuscendo fino allo scorso marzo a farla approvare, grazie anche al sostegno di stati quali Cina, Russia e Cuba. Per le comunità di fede, la tutela penale del “sentimento religioso” costituisce un mezzo per arginare preventivamente il dissenso. Poiché, di norma, le religioni non sono solite sfruculiare sulle dottrine concorrenti, a differenza di atei e agnostici, sono questi ultimi, che non hanno nemmeno testi di cui rivendicare la sacralità, ad andarci quasi sempre di mezzo. Se fino a un secolo fa finivano sotto processo anche personaggi illustri, come August Strindberg, oggi la “giustizia” sembra prendersela con i pesci piccoli. Ad innescarla sono quasi sempre cattolici. È stato uno zelante fedele a denunciare lo studente che aveva realizzato e pubblicato su YouTube un video con il papa vestito come Hitler. È stato don Fortunato Di Noto a chiedere il sequestro di due forum online dell’ADUC, sui quali i navigatori avevano criticato l’atteggiamento tenuto dalla Chiesa nei confronti degli abusi sessuali commessi da suoi ministri di culto. Ed è stato l’Osservatore Romano, nel 2002, a reclamare il sequestro di cinque siti ritenuti blasfemi, ottenendo l’immediato intervento delle forze dell’ordine, anche con risvolti buffi (si stupivano del fatto che, nonostante avessero sequestrato il personal computer del creatore dello spazio web, lo stesso continuasse tranquillamente a funzionare). Ma pure l’UAAR ha avuto le sue belle grane. Un manifesto con la scritta «Crocifissi a scuola? No grazie» è stato ritenuto ingiurioso dal sindaco di Pescara. In provincia di Rovigo un magistrato, di fronte a poster con la frase «La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona, è che non ne hai bisogno», ne ha disposto il ritiro, procedendo legalmente contro il referente locale dell’associazione. Quello stesso slogan era del resto stato già bocciato a Genova, perché l’amministratore delegato della concessionaria della pubblicità sugli autobus sostenne che poteva risultare «offensivo per gli appartenenti alle grandi religioni monoteiste». Il cardinale Bagnasco ne aveva chiesto la censura, il cardinale Bagnasco la ebbe nel giro di tre giorni. E dire che i cattolici, con gli atei, ci vanno giù in modo molto più pesante. Padre Fanzaga augura loro il cancro e la morte e li vorrebbe personalmente tagliare a fette. Il cardinale Cormac Murphy-O’Connor non li ritiene totalmente umani, e della stessa opinione sembra essere Benedetto XVI: il quale, attraverso il solito malvezzo di far dire ai morti quello che non ha il coraggio di sostenere in prima persona, ha ricordato che secondo il padre della Chiesa Origene «ci differenziamo dalle fiere e dagli altri animali perché sappiamo di avere il nostro Creatore, mentre essi non lo sanno». Eppure i non credenti non chiedono una protezione giuridica analoga a quella di cui godono le comunità di fede. Chiedono che la libertà di espressione prevalga sulla sensazione di essere stati offesi. Il problema è in fondo tutto qui: i credenti sono molto più permalosi dei non credenti. Incapaci di rispondere argomentando, chiedono e ottengono che siano introdotte leggi a loro tutela. Poi chiedono che siano applicate. Il loro DNA totalitario fatica proprio a evolversi. Sia detto senza offesa. M Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 167 NONCREDO » LIBERAZIONE 168 Stefano Marullo NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 OPINIONISTA SITO UAAR La ribellione del clero cattolico in America latina Scompare José Comblin, il prete combattuto da Wojtyla e Ratzinger Lutto in Brasile: il Sudamerica, ove il Vaticano purtroppo ha sempre sostenuto le dittature militari di destra e i governi dei latifondisti, perde l’apostolo dei poveri che scrisse Chiesa e potere. L a recente scomparsa di Joseph “José” Comblin, avvenuta in Brasile, patria d’adozione del prete e teologo belga, priva il Sudamerica di una delle sue menti critiche più insigni e la chiesa liberazionista di uno dei suoi ultimi testimoni. Voce dissonante, ha rappresentato un crocevia tra indirizzi della teologia politica post-conciliare. Fu inviato da Pio XII, nel 1958, in Sudamerica per arginare, secondo le intenzioni di Pacelli, il pericolo ateo che, in nome delle rivoluzioni comuniste, minacciava il continente, ma qualche anno più tardi Comblin verrà bollato dalla stampa conservatrice addirittura come “teologo leninista”. Un incontro determinante fu quello con il vescovo brasiliano dom Hélder Câmara. Il Brasile allora viveva una stagione felice con il governo di João Goulart, che tra i suoi programmi aveva la nazionalizzazione delle raffinerie di petrolio, la concessione del voto agli analfabeti, la confisca delle terre rivierasche. Ma il sogno fu breve, interrotto dal golpe del 1964 del maresciallo Castelo Branco. La repressione fu durissima e tra le file della gerarchia cattolica due vescovi, uscendo dal coro filovaticano, vi si opposero frontalmente: uno si chiamava dom Fragoso, che cedeva i beni della diocesi ai contadini ed era promotore di battaglie sindacali, l’altro era proprio dom Héldem Câmara, che in patria e all’estero non cessava di denunciare i crimini del regime. Altrove, nel continente latinoamericano, intellettuali cattolici come il boliviano Nestor Paz, o preti colombiani come Camilo Torres e Domingo Lain non esiteranno a prendere le armi ed entrare nella guerriglia. Comblin fa tesoro di queste esperienze e in questo periodo scrive molto sul significato della partecipazione politica dei cristiani alla rivoluzione in America Latina. Finirà per collaborare con dom Héldem, che aveva scelto la via della nonviolenza ma non rinunciava a dare il suo contributo all’elaborazione di quella che verrà definita Teologia della violenza o altrimenti della Rivoluzione. Il dibattito scuote anche le chiese protestanti, ma a darvi voce sarà proprio José Comblin, con il documento dal titolo fortemente evocativo Chiesa e Rivoluzione in America Latina, con un approccio storico-politico molto più acuto; non più, non solo, teologia della rivoluzione ma, in nuce, ci sono tutti i germi di una vera e propria teologia della liberazione. Naturalmente il documento fu giudicato troppo radicale anche per la Conferenza di Medellin del 1968 – dove muoveva i primi passi la nascente teologia della liberazione. Lo scrittore cattolico Gustavo Careco ne chiederà addirittura l’espulsione, poi avvenuta, dal Brasile ove Comblin fu eccellente educatore e animatore, oltre che teorico, delle comunità ecclesiali di base – CEB – ovvero un nuovo modello di chiesa “dal basso” che instaura nuove forme di partecipazione dei laici alla vita della comunità rompendo il monopolio clericale del potere. Sotto questo aspetto le CEB divengono espressione più tipica della teologia della liberazione e di quella Iglesia Popular, tanto invisa al Vaticano, a cui Comblin dedicherà un celebre saggio. Negli ultimi anni costante sarà in José Comblin questa riflessione sul ruolo e il significato dell’essere Chiesa, scrivendo delle violazioni dei diritti umani dentro l’istituzione ecclesiastica e proponendo una critica radicale al modello dell’extra ecclesiam nulla salus, in favore di extra pauperes nulla salus, cioé fuori – dall’impegno a favore – dei poveri, non c’è salvezza. Critiche, ostracismi ed infamie non lo lasceranno più, ma Comblin è ormai divenuto un’icona ed è di casa nelle trasmissioni televisive e nei forum. Il suo testamento spirituale è legato a quanto scrive a proposito della questione del “potere” nella Chiesa: «L’attuale relazione del potere è ancora la relazione definita nella cristianità medievale. Le forme sono cambiate, ma la sostanza è rimasta la stessa». Parole caustiche, irricevibili nella Chiesa neotridentina di Joseph Ratzinger. » FINE Fiorella Rustici VITA 169 RICERCATRICE E SCRITTRICE Un problema ignorato I meccanismi mentali del fine vita e le conversioni (anche estorte?) in punto di morte » L’Occidente e la morte Per noi occidentali la morte non è solitamente oggetto di riflessione approfondita. Chi è religioso la circoscrive alla visione che ne propone la propria fede, mentre i non credenti tendono a esorcizzarla ignorandola. Quasi tutti la vediamo con disagio. Il tema del fine vita è poi diventato di recente terreno di confronto e polemica tra aree culturali differenti (religiose, laiche, agnostiche, gnostico-razionalistiche, atee ecc.) in seguito ai noti e tristi fatti di cronaca (Welby, Coscioni, Englaro). Che la morte dignitosa sia obiettivo importante è reso evidente dalle condizioni dei malati terminali: possiamo alleviare medicalmente le loro sofferenze fisiche, assisterli affettivamente e nella quotidianità, ma di fronte ad alcune manifestazioni del fine vita stiamo male o accettiamo gli eventi con rassegnazione camuffata da serenità. In altri casi, poi, accade anche che gli agnostici e gli atei abbraccino prima di morire un credo religioso, lasciando coloro che li conoscono a chiedersi come ciò sia stato possibile. » I meccanismi mentali che si attivano all’approssimarsi della morte Ho operato come tecnico di radiologia negli ospedali e ho ascoltato spesso i malati di cancro: guardando in faccia la fine capitava loro di osservare i propri ricordi in maniera più cosciente e di essere disposti a riconoscere i propri errori, provando però un senso di colpa quando si rendevano conto di non potervi più porre rimedio. Da allora (era il 1978) ho lavorato molto sui meccanismi di funzionamento della mente e ho avuto modo di rilevare con centinaia di persone la dinamica per la quale, man mano che il corpo si avvicina alla morte, osserviamo come spettatori le nostre azioni giudicandole secondo la scala di valori della nostra coscienza e perdendo progressivamente il velo di giustificazioni e illusioni con il quale le abbiamo coperte per non essere costretti a vedere dove abbiamo sbagliato. Quando il morente si rende conto delle proprie azioni cattive o invidiose o delle volte in cui la rabbia l’ha portato ad essere meschino o insensibile può provare depressione, senso di colpa, nuova rabbia o impotenza, oppure un senso di speranza se ritiene di avere ancora la possibilità di intervenire chiedendo scusa e rimediando concretamente ai propri errori. Uno stato emozionale ricorrente è infatti il desiderio di agire, nel qual caso a volte domanda aiuto a chi gli sta vicino. Altre volte invece è confuso e sopraffatto dalla paura, sentendosi circondato da energie negative e dalle brutte immagini dei ricordi dei suoi sbagli e delle conseguenze dagli stessi prodotte: immagini che possono anche terrorizzarlo e portarlo alla paralisi emotiva, specie se molto pesanti o numerose. » Chi approfitta dello stato emotivo del morente, e cosa si può fare invece per aiutarlo In questi frangenti, il ruolo di chi sta accanto al malato può fare la differenza tra una morte serena e una piena di angoscia. È infatti possibile e corretto aiutare un individuo, che sa di dover morire a breve, a sistemare le cose che ha sbagliato, senza approfittare del suo stato di debolezza e, se non ha mai professato alcun credo, senza indurlo a rinnegare se stes- NONCREDO Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 170 » FINE VITA so a causa della depressione o della paura: la religione non deve essere strumento di pressione nei momenti difficili. La necessità di ricevere conforto non può giustificare chi, come alcuni rappresentanti del clero cattolico o cristiano, approfitta dello stato di debolezza psicologica del moribondo e lo induce a cambiare idea, agendo sulla similitudine tra le brutte immagini che vede, accompagnate da emozioni negative, e l’inferno descritto dalla tradizione; tra il desiderio di rimediare agli errori e il senso di colpa che può spingere alla conversione religiosa per “lavarsi la coscienza”; tra le immagini di amici e parenti magari già defunti e la descrizione iconografica tradizionale del paradiso. Non è corretto far leva sulla debolezza del moribondo che comincia a entrare in crisi, per portarlo dalla propria parte. È invece possibile evocare la forza della sua coscienza per aiutarlo, senza ricorrere al trascendente, a sistemare per quanto può gli errori che sente di aver commesso in modo da andarsene sereno, lasciando a chi resta una situazione di maggiore positività e un clima di consapevolezza, buoni ricordi e riconoscenza per le cose sistemate. » Scala dei valori della coscienza e perdono Se ci accade di avere attimi di consapevolezza e valutare come ci comportiamo, sia durante la vita sia quando ci avviciniamo alla morte (come testimoniano molti malati), vuol dire che possediamo una scala di valori, più o meno sviluppata a seconda dei princìpi mediante i quali facciamo le nostre scelte e della responsabilità con cui affrontiamo l’esistenza. Ogni individuo ordina le cose a cui attribuisce importanza in una scala, con al vertice ciò a cui tiene di più. La nostra coscienza possiede come caratteristica innata una scala di valori in cima alla quale si trovano l’amore, l’etica e la responsabilità nell’agire: questa è una scala di valori alta, tipica di persone che attribuiscono alla giustizia e all’agire corretto, in vita e in punto di morte, una grande importanza, disposte a fronteggiare i propri sensi di colpa, a perdonarsi gli sbagli commessi e ove possibile a porvi rimedio. Se invece una persona ha dato valore ad aspetti dell’esistenza diversi da amor proprio, autostima e responsabilità, possiede un livello di coscienza minore e una scala di valori bassa, e già in vita farà fatica ad accettare i propri errori. In una scala di valori poco evoluta si tende ad attribuire ad altri l’origine dei propri sbagli, privilegiando i concetti di colpa e punizione su quelli di riscatto e responsabilità che infatti viene delegata a terzi: in questo caso alla morte si fa fatica a perdonarsi o non ci si riesce, e delegare a un’autorità esterna (per esempio religiosa) la capacità di “rimettere i nostri peccati” può diventare l’unica soluzione per risolvere le nostre debolezze, sensi di colpa, angosce e desideri incompiuti. Ma questa pace raggiunta è solo apparente: se qualcun altro ci perdona al posto nostro, infatti, la pena non risolta per una vita incompiuta o insoddisfacente rimane dentro la nostra coscienza come un neo, circondata dall’amarezza di sentirci incapaci di volerci bene a sufficienza. Ogni individuo ha invece la possibilità e il dovere di liberarsi dalla “necessità” di ricorrere ad interventi esterni, tutelandosi da chi potrebbe approfittare delle sue paure in punto di morte: e può farlo sviluppando la propria coscienza in vita, sistemando autonomamente, quando sta bene, quello che di volta in volta sbaglia, e diventando capace di accettare serenamente, in procinto di andarsene, ciò che umanamente non sarà riuscito a fare, eventualmente con l’aiuto disinteressato e generoso di chi abbia compreso, come lui, le dinamiche che ho descritto. (Per approfondimenti: Fiorella Rustici, Morire senza paura, Hermes Edizioni, Roma). Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 Anna Rita Longo NONCREDO » FILOLOGIA DOTTORESSA DI RICERCA IN FILOLOGIA PATRISTICA, MEDIOEVALE E UMANISTICA 171 TESTI SACRI: “Umano, troppo umano” Viaggio nei testi delle religioni Comincia con questo numero un viaggio - avventuroso quanto affascinante - nella dimensione filologica e letteraria dei testi sacri riconducibili a diverse tradizioni religiose. È stereotipo diffuso quanto erroneo il fatto che di testi religiosi si possa parlare soltanto dal punto di vista teologico e che questi possano rivelare aspetti interessanti solo per chi appartiene al culto dei quali essi sono il prodotto. Quando si pensa a uno studioso dei testi cristiani è quasi automatico immaginarlo vestito dell’abito talare (o del più moderno clergyman) o assegnare idealmente kippah e tefillin a chi afferma di dedicarsi alla ricerca sulla Torah. Il pensiero che si possa avere un approccio laico o, con un termine a più ampio respiro, umanistico allo studio dei testi religiosi lascia i più perplessi, se non proprio interdetti. Eppure quanto erronea sia questa prospettiva ce lo dimostra una lunga e ininterrotta tradizione culturale che, procedendo in linea diretta dall’umanesimo quattrocentesco, è oggi rappresentata dai tanti studiosi che hanno deciso di non sottrarre alla conoscenza comune una parte importante del patrimonio culturale dell’umanità, che non è scientificamente accettabile lasciare alla sola analisi teologica. «Philosophia ancilla theologiae»: con questa formula, nel medioevo, si sottolineava la sottomissione scolastica della cultura alle ragioni della fede, dal cui punto di vista era lecito esaminare e valutare ogni apporto culturale e letterario. È anche allo scopo di superare questa barriera che invitiamo i lettori di NonCredo a non aver timore di avventurarsi in un terreno per alcuni di loro forse ancora impraticato, ma di certo non privo di interessanti sorprese. Sarà un viaggio alla scoperta del logos – la parola – e della sua concretizzazione nel testo, che fissa in una forma ben definita ciò che spesso nei secoli precedenti era stato molto più fluido e soggetto a variazioni e interpretazioni. Ma sarà anche un itinerario di incontro con una disciplina, la filologia, dalla grande valenza formativa, perché insegna a rapportarsi in modo scientificamente rigoroso con il testo, procedendo alla sua ricostruzione con l’aiuto della critica testuale e giungendo a una più piena e fondata comprensione. Avremo, quindi, modo di notare come ciò che ci appare, a prima vista, come compatto e monolitico risulti, in realtà, più spesso il prodotto di stratificazioni successive, di rimaneggiamenti, di interpolazioni, la cui esistenza non è possibile ignorare se si desidera capire. Vedremo come non sempre sia opportuno accogliere acriticamente luoghi comuni consolidati e come non tutte le teorie più “vulgate” resistano a un’analisi accurata. Ma avremo soprattutto modo di osservare come l’approccio scientifico al testo religioso non sia meno interessante di quello confessionale, nella speranza che sempre più ricercatori laici si accostino a questo gratificante settore di studi. L’obiettivo che ci proponiamo è di percorrere, a volo d’uccello, le più importanti tradizioni culturali e religiose dell’umanità, procedendo dal mondo classico a quello giudaico-cristiano, dalla letteratura semitica a quella indiana, dall’Estremo Oriente all’America latina. Di fronte a tanto vasta e interessante materia il solo sperare di avvicinarsi all’esaustività è follia pura. Ci basterà, socraticamente, aver lanciato una scintilla, nella speranza che sia il preludio a un vivace fuoco della conoscenza. l’intervista 172 a cura di Viviana Viviani - INGEGNERE GESTIONALE Nata a Milano nel 1954, Maria Bonafede ha due lauree (in Filosofia, conseguita presso l’Università Statale di Milano e in Teologia, presso la Facoltà Valdese di Roma), è sposata con un pastore e ha un figlio di 17 anni. Ha svolto il proprio ministero pastorale a Milano, Novara, Brescia e Roma ed è la prima donna eletta a capo della Tavola Valdese. Portavoce delle Chiese valdesi e metodiste, coordina il corpo direttivo dei protestanti italiani. Recentemente ha pubblicato il volume Una porta nel cielo (edizioni CNT), che raccoglie una serie di sue predicazioni e riflessioni biblico-teologiche. Pastora Bonafede, lei è la moderatrice della Tavola Valdese, cosa significa questo titolo? E quali sono le principali differenze dal punto di vista dell’organizzazione, anche gerarchica, tra chiesa valdese e chiesa cattolica? E soprattutto, come ben sappiamo, una donna non potrà mai essere a capo della chiesa cattolica, a loro dire per motivi teologici. In che cosa voi la pensate diversamente al riguardo? La chiesa Valdese è una chiesa cristiana protestante e quindi è organizzata in modo molto diverso dalla chiesa cattolica romana. È una chiesa sinodale, che vuol dire che ogni anno i/le pastori/e e i deputati delle chiese si trovano per cinque giorni nell’assemblea sinodale, che è la massima autorità umana riconosciuta dalla chiesa. Il Sinodo discute i diversi temi sia di ordine teologico ed ecclesiologico, sia di ordine sociale e politico, vota delle delibere che si impegna a rispettare o ad attuare durante l’anno. Il Sinodo vota il suo esecutivo (che è chiamato Tavola Valdese) composto dal Moderatore, Vicemoderatore, che vengono eletti ciascuno con una votazione apposita, più cinque altri votati tutti insieme: di questi almeno tre debbono essere pastori e almeno tre non pastori. La Tavola è riconfermata ogni anno per un massimo di sette, e ogni anno deve fare una relazione che presenta al Sinodo. Quindi il Sinodo è una sorta di parlamento che prende ogni decisione, dalle più alte alle più concrete, con elezioni. La “gerarchia”, se vogliamo usare questo termine, è una gerarchia di assemblee di cui quella sinodale è la più importante. Nella chiesa Valdese le donne possono diventare pastore dal 1962 e possono accedere a qualunque responsabilità nella chiesa, anche se io sono la prima donna ad essere stata eletta moderatrice. Noi crediamo che la chiesa sia fatta di donne e di uomini e non c’è nessuna ragione teologica per escludere le donne. Il ritardo storico è dovuto a motivi di costume e di ordine sociologico, mai dogmatico. Ci farebbe piacere conoscere il suo parere in merito all’esposizione dei crocifissi in Italia negli uffici pubblici, come tribunali, caserme e scuole (vedi sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Lautsi v. Italia). E, più in generale, lei ritiene che le Chiese in quanto tali abbiano un ruolo da svolgere sulla scena politica o, addirittura, a livello istituzionale? Penso, insieme alla mia chiesa, che sarebbe meglio non esporre i crocifissi nei luoghi pubblici, anche perché l’Italia è un paese pluralista nel quale convivono molte fedi e molti pensieri. In più la religione cattolica almeno dal 1984 non è più religione di Stato. Quindi delle pareti spoglie di simboli religiosi sono davvero inclusive, molto di più che pareti che, in teoria, si riempissero di simboli diversi che fatalmente ne escluderebbero sempre qualcuno. Noi pensiamo che sia fondamentale la laicità dello Stato in questo senso: credo che lo Stato abbia il compito di ascoltare e prendere estremamente sul serio la società civile di cui fanno parte anche le fedi e le chiese, ma poi dovrebbe esercitare i propri compiti in piena autonomia. In Italia siamo molto lontani da questo modello e le pressioni esercitate dalle gerarchie cattoliche trovano nella politica di destra e di sinistra (se hanno ancora senso queste definizioni) un ascolto e una deferenza veramente prone: questo mi pare essere un grave problema italiano. La chiesa valdese mostra un atteggiamento aperto anche nei confronti delle coppie omosessuali, infatti il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi ha approvato nel 2010 la benedizione di coppie dello stesso sesso, e che differenza fate tra tale unione e il matrimonio? Il matrimonio è un antico istituto giuridico, oltre che un fatto riconosciuto biblicamente come funzionale alla procreazione e ad un certo ordine sociale. Le persone omosessuali credenti devono poter trovare nella comunità cristiana la propria casa spirituale esattamente come le persone eterosessuali e per riconoscerle davvero è necessario riconoscere anche i loro sentimenti e le loro scelte di vita: per questo abbiamo ammesso la benedizione di coppie dello stesso sesso e crediamo che lo Stato dovrebbe votare una legge (come molti paesi europei hanno già fatto) che consenta di riconoscere tali unioni. Dal vostro sito si nota una grande attenzione all’informazione e alla documentazione scientifica nei confronti dei principali dilemmi etici del nostro tempo, quali aborto, eutanasia, procreazione assisti- NONCREDO ta. Può esporci la posizione della chiesa valdese riguardo a tali temi? Vorrei dire due cose a premessa di ogni presa di posizione in materia etica. Ritorniamo alla laicità dello Stato: io credo che in tutte queste materie lo Stato debba deliberare in piena autonomia. Quando si trattò del referendum sul divorzio o di decidere per avere una legge sull’interruzione volontaria della gravidanza i Valdesi discussero molto nelle loro chiese e tutte le chiese dettero questa indicazione: ognuno rimane assolutamente libero, e in particolare le donne sulla gravidanza, di pensare ed agire secondo la sua coscienza e ascoltando anche le ragioni di fede che possono portare a conclusioni molto diverse, ma tutti pensavano che fosse necessaria una legge che rendesse più civile il paese, una legge che sancisse la conclusione di un matrimonio in modo civile, definendo diritti e doveri dei coniugi separati nei confronti dei figli, piuttosto che matrimoni pieni di risentimento e di odio, certamente non più cristiani di una separazione dignitosa e poi del divorzio. E che ci fosse una legge che consentisse l’interruzione della gravidanza assistita e gratuita piuttosto del proliferare delle mammane e della scelta di classe che consentiva a chi aveva i mezzi di andare all’estero. Gli aborti sono più che dimezzati e l’aborto Anno III - n.12 • luglio / agosto 2011 173 clandestino è quasi scomparso. Per il nostro modo di intendere la fede ognuno e ognuna di noi ragiona secondo il principio della massima libertà e della massima responsabilità. È l’individuo che decide di sé e delle proprie scelte. Per dei credenti queste scelte sono compiute davanti a Dio in piena responsabilità e senza tutori che pensano al posto tuo: sotto questo principio stanno anche la procreazione medicalmente assistita e le volontà espresse di fine vita che andrebbero rispettate. Sempre più persone decidono di donare a voi l’8 per mille, fra cui atei, agnostici e buddhisti. A cosa ritiene sia dovuto? Molti di quelli che firmano per la chiesa Valdese ci scrivono e ci attestano le loro motivazioni che sono sostanzialmente tre e che ordino per importanza: a) Perché noi rendicontiamo al centesimo l’utilizzo del denaro che ci viene attribuito e a me questo sembra doveroso trattandosi di denaro pubblico. b) Perché i valdesi non utilizzano i proventi dell’8 permille per il culto, per gli stipendi dei pastori, per la chiesa. c) Perché molti condividono le posizioni assunte dalla chiesa Valdese in campo etico, ma anche perché è una chiesa diversa da quella che conoscono meglio. Libri consigliati CONTAMINAZIONI LO SPIRITO DELL’ATEISMO di Marcello Vigli, Edizioni Dedalo, p. 300 prefazione di Sergio Lariccia di André Comte-Sponville, Ponte alle Grazie, p. 176 Nel sottotitolo Un percorso di laicità fuori dai templi delle ideologie e delle religioni offre la chiave di lettura del libro che propone un approccio insolito al tema della laicità a partire dall’analisi del processo storico, che ha visto nascere, svilupparsi ed entrare in crisi la laicità, per analizzare il cosiddetto “ritorno del religioso” e gli interrogativi che pone ai cristiani sul senso della loro fede. Un filosofo ateo di formazione cattolica, accademico francese, tratta questo tema in un libro che combina profondità di pensiero e facilità di lettura. Il tema centrale (dio esiste?) è preceduto da quello su: “Possiamo fare a meno della religione?”. Ma l’argomento più caro all’Autore è quello dell’ultimo capitolo, dal titolo Quale spiritualità per gli atei?. CARA CHIESA LA CHIESA CHE TORTURA di Sergio Giorni, l’altrapagina, p. 300 di Pierino Marazzani, La Fiaccola editore, p. 200 Il libro offre notizie, documenti, dati statistici, valutazioni e giudizi autorevoli sul regime concordatario vigente in Italia per evidenziare i costi finanziari e politici che ne derivano, e per denunciare le responsabilità delle forze politiche, nel processo di confessionalizzazione della società, e delle gerarchie ecclesiastiche, nella sconfessione del Concilio Vaticano II. È un saggio storico con ben 500 riferimenti bibliografici che tratta di sevizie corporali perpetrate in nome della fede religiosa o in ambienti religiosi dal Medioevo fino ai nostri giorni. Sono state documentate ben 90 metodiche di tortura applicate soprattutto contro streghe, ebrei, eretici, non credenti, nemici politici del papato ecc. 174 Minima Moralia di Paolo Bancale Dalle radici cristiane alla “felicità interna lorda” del Bhutan Le religioni, queste diffuse credenze in miti etnici o cosmologici, hanno in genere anche imposto regole di vita derivate da precetti e massime contenuti nelle loro scritture canoniche ovvero “sacre”. Questo aspetto comportamentale o morale nel tempo è poi divenuto prassi, tradizione e forma mentis delle popolazioni interessate, giustificandone le rispettive differenti “storie”. Per esempio, l’Estremo Oriente ha fortemente assorbito il messaggio buddhista del “non attaccamento”, del superamento dell’Io, del riconoscersi negli altri che ha modellato quei popoli. Quel narcisistico senso di gratificazione che noi occidentali troviamo nella fama, in privilegi, ricchezza e potenza personali, lì sono sentiti come disvalori che portano prima o poi a sofferenze o disagi interiori. Un caso emblematico è quanto avvenuto in Bhutan, un piccolo antico regno di cultura buddhista, che per esperienza personale consiglio di visitare, appollaiato tra le cime dell’Himalaya ove il re, già monarca assoluto, si è spontaneamente autodeposto, dando al suo popolo una costituzione liberale ed un assetto di piena democrazia, lì finora ignoti. Egli, senza alcuna influenza dei filosofi utilitaristi inglesi, né degli illuministi francesi e tedeschi, né delle istanze marxiane ma all’unisono, senza conoscerlo, col pensiero di Jeremy Bentham, ha ritenuto che la sua felicità dovesse corrispondere a quella dei suoi concittadini. Intervistato da un inviato del Financial Times egli ha detto: «La felicità interna lorda è molto più importante del prodotto interno lordo», spiegandogli che il potere buddhista ricorda di continuo a se stesso il carattere transitorio di ogni cosa nel cosmo, incluso quello proprio, ed investe nel perseguimento empatico della “non sofferenza” altrui. Il Bhutan è il paese con il tasso di suicidi e di AIDS più basso al mondo. E l’Europa? L’antica Atene “inventò” la democrazia, ma dopo l’avvento del cristianesimo, con le sue origini giudaiche, la credenza religiosa cristiana che tipo di imprinting dette ai popoli europei? Le loro scritture esibivano messaggi molto problematici: un dio giudaico che ordinava di ammazzare tutti gli abitanti di Gerico peggio di Marzabotto o Katin, ovvero di sgozzare un figlio, un semidio cristiano che divide e settarizza enunciando che chi non è con lui è contro di lui, e che lui è venuto non per portare la pace ma il fuoco e la spada. Questi ed altri precetti, anche molto crudeli, nei secoli hanno fatalmente costruito la macchina psicologica del potere assoluto. Inizialmente Teodosio creò le premesse politico-confessionali per le tante crociate, massacri e feroci tribunali ecclesiastici, mentre in seguito l’Europa, la nostra civiltà, metabolizzerà il piacere della fama, dei privilegi, della ricchezza e del potere, producendo i tanti Filippo II, Enrico VIII, Luigi XIV, lo zar Ivan, il papa Borgia con i loro sfarzi, dispotismi, repressioni, disuguaglianze, ricchezze, guerre di conquista, colonialismo e tratta degli schiavi. Anche tutto ciò fa ovviamente parte delle radici giudaico-cristiane dell’Europa. E il tutto sarebbe ancora in auge se quei philosophes del XVIII secolo non avessero costituito il turning point della storia culturale, etica, politica e giuridica dell’Europa con la riappropriazione da parte dell’Uomo, dell’uomo qualunque moderno, del suo destino. Se le radici furono prima, ahimè, giudaico-cristiane, il riscatto, il salto di qualità liberale, democratico, umanistico si chiama Illuminismo, la vera “radice” di tutto il mondo occidentale moderno. Sia detto grazie a chi cantò Liberté, Egalité, Fraternité. Imitatio Christi ? MITRIA € 30.000 = £ 60 milioni = 2 anni e mezzo di stipendi PIANETA € 18.000 = £ 36 milioni = 1 anno e mezzo di stipendi CASULA € 10.900 = £ 22 milioni = 1 anno di stipendi PAIO DI SCARPE € 1.500 = £ 3 milioni = 1 stipendio e mezzo PAIO DI GUANTI € 1.200 = £ 2,5 milioni = 1,2 stipendi In questa pagina non sono in questione le religioni, e tanto meno il cattolicesimo, ma soltanto i limiti e le carenze di uomini che predicano la “povertà come virtù” e poi indulgono a lussi, vanità e privilegi, mai abbandonati dai tempi dei sibaritici papi e cardinali del Rinascimento. Qualsiasi cattolico non può non chiedersi, specie in un periodo di sacrifici e ristrettezze economiche come l’attuale, quale sia il fondamento etico, religioso e spirituale di tanta sfarzosa e costosissima esibizione, come questa pagina dimostra. Non è contraddittorio per il mondo ecclesiastico usare pezzi di abbigliamento più costosi delle giacche in puro oro filato che usava il pianista americano Liberace? Non è offensiva la richiesta alla Regione Veneto di 290.000 Euro pari a 580 milioni di Lire, oltre mezzo miliardo!, per i paramenti che Ratzinger (che chi sa quanti ne ha in Vaticano!) vuole usare per la sua visita di qualche giorno in Veneto? Non è un tradire grandi messaggi spirituali e pauperistici come quelli di Gesù di Nazareth, Francesco d’Assisi, Teresa di Calcutta? Anche se non siamo cattolici questi personaggi ci piacciono a differenza degli “azzimatissimi vertici d’Oltretevere”. I tesori che portano addosso, e con cui tronfiamente si esibiscono, non riescono a dare a loro il prestigio o la spiritualtà di un Gandhi o di un Dalai Lama vestiti quasi di stracci. Dialogo tra credenti e noncredenti? Sì, certo, ma quanto voremmo poter dialogare con la Chiesa delle origini! Prezzi, articoli e foto qui riportati sono ripresi da cataloghi ufficiali (www.tridentinum.com) dei fornitori del Vaticano e delle gerarchie cattoliche, cataloghi con tante varietà di modelli e prezzi da fare invidia a un défilé di Armani (ma serve tanta costosa vanità, e magari anche rivalità di abbigliamento, tra gente che si dice votata, anzi “chiamata” a missioni spirituali?). Inoltre i cataloghi ( recenti: sono del novembre 2010) riportano in evidenza la scritta “riservati ai rivenditori” per cui il prezzo finale pagato dovrà considerarsi aumentato dal 30% al 50% . I prezzi in euro sono quelli esposti nei cataloghi, noi poi li abbiamo per comodità convertiti nelle vecchie lire, e in più li abbiamo espressi anche in mensilità di operai standard (1.000 euro pari a due milioni di lire), valore certamente non alto ma, nonostante ciò, invidiato da milioni di capifamiglia pensionati, precari e cassaintegrati: troviamo giusto che essi sappiano che un cardinale, papa, vescovo ecc a volte può portarsi addosso, per sua scelta e per suo ornamento, oltre tre (3) anni di stipendi di una famiglia operaia italiana che, come si sente dire in TV, non riesce ad arrivare a fine mese. Questa è la statua del NonCredente, proprietà della Fondazione ReligionsFree Bancale commissionata allo scultore Nicolò Galesi e esposta nella propria Biblioteca. NonCredere non è affatto una scorciatoia: forse lo potrà errroneamente sembrare a menti pigre, superficiali o condizionate; NonCredere è un percorso dell’intelletto, della coscienza e del cuore che dura tutta un’esistenza, è una ricerca continua, è l’apoteosi del dubbio costruttivo e dell’a-fideismo; NonCredere significa non delegare nessuno, persona o organizzazione o religione che sia, a pensare e decidere per noi, ma, invece, porsi le domande più trasgressive senza accettare stereotipi altrui; NonCredere è consapevole presa di responsabilità esistenziale, fiducia nell’Uomo, sofferenza studio ricerca sfida confronto nella solitudine dell’essere che è dentro di noi per non arrenderci all’umiliazione del mito e del rito, è una vittoria sulla droga manipolatoria dei conformismi culturali; NonCredere si nutre del Sapere aude! e di continue verifiche cognitive, sapendosi mettere in discussione, non pensando mai di aver raggiunto il traguardo poichè c’è sempre un oltre; NonCredere è trionfo dell’etica, dell’autonomia di coscienza, della libertà di pensiero e di ricerca, della spiritualità ed anche dell’intelligenza, della cultura e dell’impegno per i propri ideali. Questo è quanto questa statua intende simboleggiare, questo è il suo messaggio, questo è ReligionsFree, questo è NonCredo.