Mammini_STAVOLTA GIURO_1_16

Transcript

Mammini_STAVOLTA GIURO_1_16
Paola Mammini
Stavolta giuro
è diverso
Romanzo per chi ha preso
l’ennesima fregatura in amore
e cerca nuove soluzioni
dino audino editore
© 2007 Dino Audino
srl unipersonale
via di Monte Brianzo, 91
00186 Roma
www.audinoeditore.it
Coordinamento redazionale
Daniele Aluigi
Stampa: Pomel sas – Via Casilina Vecchia 147 – Roma
Copertina: Duccio Boscoli
Finito di stampare settembre 2007
È vietata la riproduzione, anche parziale, di questo libro,
effettuata con qualsiasi mezzo compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico, non autorizzata dall’editore.
Una premessa necessaria
Questo libro non esisterebbe se nel 2001 la mia amica Dodi
Conti, desiderosa di tornare in scena dopo tanti successi, non mi
avesse proposto di scrivere insieme un testo per il teatro partendo
da un’idea che aveva in testa. Dalla nostra collaborazione è nata
una stand up comedy con lei protagonista che dal luglio di quello stesso anno ha debuttato con successo nei giardini della
Filarmonica di Roma. Da allora Bevabbè, lo spettacolo da cui
questo romanzo è tratto, è stato rappresentato in molte parti
d’Italia – e persino in Brasile – sempre con Dodi protagonista.
Ed è perciò a lei e alle sue numerose e splendide interpretazioni
sul palco che dedico questo libro.
Ringraziamenti
Innanzitutto voglio dire grazie a Keito, mio marito, la cui
pazienza nel sopportare una moglie spesso solo fisicamente presente in casa ma con la testa altrove – ovvero negli ultimi mesi
sulle sorti della mia povera Sara – oltre che degna di lode, mi è
stata e mi è fondamentale ogni giorno della mia vita. Poi devo e
voglio dire grazie a chi mi incoraggia da sempre a credere in me
e quindi la mia amica Nicoletta, la mia famiglia, e Francesco
Scardamaglia che da quando scrivo per la tv considero il mio
maestro. Un sincero grazie è poi per Dino Audino che ha avuto la
bella idea di creare questa collana di romanzi, che è al tempo
stesso una sfida intelligente e un’ottima opportunità per gli autori che come me hanno avuto la fortuna di esserne coinvolti. E infine grazie a Sara che con le sue strampalate vicissitudini mi ha
fatto vivere mesi di curiosità, emozioni e tensione continua.
Ringrazio lei per dire grazie a tutti i personaggi irreali che ognuno di noi lascia vivere dentro di sé in modo così reale da arrivare a sentirsi spaesati quando viene il momento di separarsene. È
il bello di questo mestiere e quindi non posso che ringraziare la
sorte per avermelo fatto incontrare sul cammino.
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Preludio
‘Ho capito, arrivo subito!’
Lo sapevo. Mi stanno chiamando per andare a tavola e come al
solito sono in ritardo. Sono qui ormai da una settimana e non
sono ancora riuscita ad abituarmi all’idea che la cena sia servita
alle sei e mezzo di pomeriggio. Nella mia vita precedente (non
ho ancora trovato un modo migliore per definire quanto mi sia
successo) a quest’ora ero abituata al primo di molti aperitivi con
tanto di stuzzichini. Ma intendiamoci, non è che mi stia lamentando, l’ho scelto io di venire qui, ci mancherebbe. È solo che le
abitudini sono talmente dure a morire! Ma ora vado. Non ho alcuna intenzione di irritare i miei ‘superiori’. Sono tutti così gentili
con me, non potrei mai. Certo se ci penso è pazzesco. Meno di
un anno fa ero una donna felice e realizzata. E ora… Ora non so
nemmeno bene ‘cosa’ sono. E tutto per colpa di quel bastardo
mercoledì mattina. Ma andiamo per ordine. ‘Ordine’, che strano
detto da qui.
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Capitolo primo
Innanzitutto sarà il caso che vi dica chi sono. Beh, in effetti
sarebbe più giusto dire chi ero, ma suonerebbe un po’ mortifero
e dato che non vi sto parlando dall’aldilà ma da un inconsueto
aldiqua, rischierei di depistarvi. La formula più corretta sarebbe
dirvi chi sono stata. Ma è matematico che mi confonderei con le
declinazioni dei verbi. Opto dunque per il presente, chiedendovi
di considerare il Bignami della mia biografia alla stregua di un
flashback. Se credete, potete anche virare simbolicamente di seppia ciò che segue, tanto per andare sul sicuro. Mi chiamo Sara,
ho trentasette anni da circa tre anni – non sono pronta per il traguardo dei quaranta, c’è gente che a quarant’anni ha raggiunto
obiettivi importanti, io non ho raggiunto nemmeno l’obiettivo di
averlo, un obiettivo. Ho una piccola libreria per bambini – sì,
esatto, proprio come Meg Ryan – che ho chiamato ‘Bevabbè’. Ma
io, giuro, l’ho aperta prima di lei. Vi dirò, a me la Ryan sta anche
molto simpatica, ma non per questo avrei desiderato condividere
lo stesso destino. Tre anni fa infatti, proprio come in C’è posta per
te, dall’altro lato della strada del mio piccolo negozietto, ha aperto una libreria di quelle enormi, con tanto di tessere sconto, tre
per due, bar e spazio lettura. Ma a differenza di Meg, il proprietario, Arturo Coltelletti, non somiglia neanche un po’ a Tom
Hanks, e anche se così fosse, a parte che il mio rapporto con
internet è sempre stato piuttosto controverso, non avrei mai potuto imbastire con lui una relazione, anche solo virtuale. Coltelletti
semplicemente mi ignora, anzi, fa di più, mi compatisce. Io semplicemente lo odio e mi auguro sempre che un incendio o qualcosa come l’invasione delle cavallette di landisiana memoria
distrugga il suo orribile megastore. Ma l’immaginazione, anche
quella più violenta, non ha mai fatto danni. Nemmeno quando va
al potere. L’immaginazione è fatta così, predica bene, ma poi al
dunque… Da quando quell’orrido megastore ha aperto, le entrate del mio piccolo negozio sono direttamente proporzionali alle
entrate dei clienti. Più o meno pari allo zero. Il mio conto è
costantemente colorato di un bel rosso vermiglio, ma non ne faccio una tragedia. Sono abituata a vivere di stenti, son cresciuta in
una famiglia con cinque sorelle, un padre amante del gioco e una
madre talmente innamorata di lui da credere – lei sola, mio padre
stesso non l’ha mai nemmeno sperato – che è solo questione di
tempo, la fortuna sta per girare. Ma volete mettere? Eravamo una
famiglia unita – come potevamo non esserlo, vivendo in otto in
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Stavolta, giuro, è diverso
quaranta metri quadri? – e i soldi, si sa, non fanno la felicità (si
sa davvero? bah…). E poi c’è da dire che la banca con me chiude un occhio: nonostante potrebbe non mi ha né sfrattato né
chiesto indietro decine di piccoli fidi di cui ho perso il conto.
Grazziaddio il direttore, oltre ad avere per anni spolpato mio
padre ogni giovedì nel consueto pokerino fra amici, è stato generoso in tema di prole. I suoi quattro pargoli sono clienti fissi del
mio negozietto. Certo, non hanno mai pagato un solo centesimo
per l’acquisto di un libro, ma vogliamo star lì a sottilizzare? Vivo
in un monolocale di ventisette metri quadri con angolo cucina
delizioso e confortevole (l’avete mai notato? I monolocali sono
sempre deliziosi e confortevoli. Maledetto Fedro, la volpe che
non arriva all’uva fa da sempre più vittime dell’alcolismo). Ho
una gatta, Michelle Pfeiffer, una splendida siamese dagli occhi
bicolore come David Bowie. Sappiate che divento matta se qualcuno la chiama solamente Michelle, lei è Michelle Pfeiffer, non
sono consentiti equivoci. L’identità è una faccenda seria. E detto
da me… Posso tollerare un unico diminutivo, Emmepi, ma solo
se si è entrati abbastanza in confidenza. Della Pfeiffer, quella in
carne e ossa umane, ho tutto quello che è umanamente possibile collezionare. L’intera filmografia, interviste, foto, e anche un
autografo regalatomi da mio padre che l’ha incredibilmente vinto
a un giro di poker. Ho degli amici: tre. Pochi ma buoni, capaci,
va loro riconosciuto, di compensare la mancanza della mia famiglia. Le mie cinque sorelle sono infatti sparse per il mondo e non
ci vediamo da più di un lustro, mentre i nostri genitori hanno
pensato bene di lasciare questa terra qualcosa come dieci anni fa
a distanza di pochi giorni l’uno dall’altra. Lasciandoci in eredità,
oltre a un vuoto affettivo incolmabile, una marea di debiti perfettamente distribuiti per sei. Equi fino alla fine. Che classe, non
ne fanno più di genitori così. Se dovessi rivedere la mia vita fino
a poco meno di un anno fa e identificarla in un film, sarei indecisa se scegliere Helzapoppin o Cenerentola. Ma siccome non ho
mai saputo camminare sui tacchi, mi vedo costretta a optare per
la prima scelta: quelli di vetro poi, sarebbero davvero troppo.
Tutto questo, fino a quel dannato mercoledì. Da allora il film
della mia vita che ritengo più identificativo per come mi sono
sentita è senz’altro Il settimo sigillo: ‘La mia vita è stata vuota, l’ho
passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare a vanvera di
cose insignificanti’. Un tantinello pomposo, avete ragione, ma a
me piace fare le cose in grande. E devo dire, senza falsa modestia, che compiangermi è una delle poche attività in cui mi riconosco una discreta abilità. Del resto, c’è qualcosa di più affascinante che ritenersi i candidati prescelti del destino avverso? Di
quel delizioso senso di onnipotenza nel ritenere che la sfiga
abbia scelto te, proprio te, per accanirsi senza pudore? La sfiga
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rende protagonisti, e io adoro essere protagonista. Pensateci un
momento, con chi viene naturale schierarsi? Con Topolino, quel
presuntuosetto a cui va sempre tutto bene o con Paperino, al
quale nonostante la buona volontà ogni più piccola azione gli si
ritorce contro così da ritrovarsi costantemente nel posto sbagliato al momento sbagliato? Chi è il vero protagonista fra i due?
Senza dubbio Paperino, perché speri sempre che la prossima
volta sia quella giusta, quella in cui potrà riscattarsi e dimostrare
al mondo le sue qualità. Per lui ci sarà sempre un altro giorno,
per Topolino no. Una noia! Non voglio mettere le mani avanti,
tuttavia è necessario che sappiate una cosa: per quanto mi senta
Paperino trecentosessantacinque giorni l’anno, quella mattina me
n’ero dimenticata. In effetti me n’ero dimenticata già da un po’. Il
fatto è che ero felice, scriteriatamente felice. Ho aggiunto scriteriatamente non a caso. Infatti, quando si è semplicemente felici,
la mazzata fra capo e collo non solo te l’aspetti ma la dai quasi
per scontata. La felicità ti mette sempre un po’ in soggezione, no?
Sei portato a pensare cose del tipo ‘Oddio, ma questa felicità è
davvero tutta per me? Impossibile’. Non puoi non pensare che da
un momento all’altro finirà, giusto? Ma se invece ti senti ‘scriteriatamente’ felice come ho fatto io, commetti l’errore più audace
del mondo, perché quella felicità pensi addirittura di meritartela!
Meritartela, capite? E chi sono io? Topolino? Ma andiamo,
Paperino si nasce, e io, modestamente, lo nacqui… Ma torniamo
a quel mercoledì mattina. Non so se l’avete notato, ma sto facendo di tutto per rimandare, per non tornare al momento che ha
cambiato per sempre la mia esistenza. Il fatto è che da quando
ho visto Se mi lasci ti cancello, spero sempre di svegliarmi nei
panni di Kate Winslet e di farmi rimuovere la memoria di ciò che
è successo. A differenza di lei, non me ne pentirei nemmeno un
po’. Non è possibile, eh? E va bene, diamo inizio alle danze.
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Capitolo secondo
Quella mattina, come faccio ogni mercoledì da ormai quasi
dieci anni, avevo puntato la sveglia, abbassata al minimo, prima
del solito. Mi ero alzata dal letto piano piano per evitare qualsiasi rumore che potesse disturbare o peggio svegliare il suo sonno.
Anche perché non stiamo parlando di un sonno qualunque, ma
del sonno dell’amore della mia vita, non so se mi spiego. Dopo
pochi minuti ero già in motorino che sfrecciavo per la città. C’era
un sole limpidissimo. Come ogni mercoledì, una volta arrivata a
destinazione non avevo potuto evitare di rimanere colpita dalla
curiosa bellezza di quel posto. L’erba del prato, sempre ben curato, era ancora umida di rugiada e tutto intorno c’era quella consueta arietta frizzantina che mi ha sempre messo, strano a dirsi, di
buonumore. Dev’essere un effetto che fa solo a me perché in tanti
anni di frequentazione, lì a quell’ora non ho mai incontrato nessuno. Mai nessuno che si regali mezz’ora di corsetta o porti a
spasso il cane prima di andare al lavoro approfittando di un luogo
che perfino nelle ore di punta sprigiona una quiete e un silenzio,
manco a dirlo, di tomba. Del resto un cimitero è pur sempre un
cimitero. E se i miei genitori, come vi ho già detto, hanno scelto
di venire a stare lì, non è che possa più di tanto insistere per scegliere di incontrarci da qualche altra parte. E poi mi piace venirci, oltre a conversare amabilmente con loro riesco pure a mettere ordine tra i miei pensieri. O almeno a non disordinarli ulteriormente. Chiariamoci: so benissimo che non ‘parlo’ veramente
con i miei, perché se succedesse, se davvero entrassi in comunicazione con loro, me la farei sotto dalla paura. Per dirla tutta, al
posto di Demi Moore, quando Whoopi Goldberg si contorce
come una pazza e comincia a parlare con la voce del povero
Patrick Swayze deceduto già da un po’, sarei scappata a gambe
levate. La mia idea in proposito è che è meglio che ognuno stia
al suo posto, i vivi di qua, loro di là. Detto questo, la verità è che
quei due mi mancano da impazzire, e se l’unico modo per non
disciogliermi in lacrime una volta a settimana sopraffatta dal dolore del loro inevitabile silenzio è parlare per ore senza soluzione
di continuità, ben venga. Dunque, quel maledetto mercoledì,
avevo deciso fosse giunto il momento di parlar loro della mia fantastica storia d’amore. Durava ormai da qualche anno e non ne
sapevano ancora nulla: non poteva continuare così. Se non l’avevo fatto prima è perché non ne avevo avuto il coraggio. Una cosa
mio malgrado l’ho imparata dalla vita: se ogni volta che inizi qual-
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cosa che somiglia a malapena a un progetto di relazione sbandieri
ai quattro venti che ‘hai trovato l’amore della tua vita’ perdi di credibilità, specie se questo accade con una ripetitività che sfiora la
cronicità da quando hai quindici anni. Se quando entravo in casa
come una specie di furia asserendo con profonda convinzione:
‘Mamma, papà, mi è successa una cosa meravigliosa, mi sono
innamorata!’, i miei genitori si limitavano a uno sguardo di muta
rassegnazione non me la sento di biasimarli. Quando poi aggiungevo incauta la postilla: ‘Ma stavolta, giuro, è diverso’, lì mi
autoinfliggevo, come dire, l’estrema unzione della mia già scarsa
attendibilità ai loro occhi. Come poteva essere diverso se a riprova di tanta convinzione i miei argomenti si limitavano a cose
come ‘beh, certe cose si sentono subito, no?’ o ‘piange ogni volta
che vede E.T. proprio come me, non può essere che amore’
oppure, quando ero ormai all’angolo, ‘lo so e basta, voi non potete capire’? Ma dopo più di cinque anni, di riprove ‘stavolta’ ne
avevo da vendere. E quindi eccomi lì a crogiolarmi del suono
delle mie stesse parole: ‘So che non ci crederete, ma questa è la
persona giusta. Perché stavolta, cari papà e mamma, stavolta è
veramente diverso’. Non potrei giurarci, ma non appena proferita
questa frase e a dispetto del mio scetticismo, mi è sembrato veramente di sentire uno sbuffo provenire dalla tomba matrimoniale
dei miei. E la suggestione è stata così forte che un attimo dopo
mi è parso di vederli lì in carne e ossa davanti a me, ripetermi per
l’ennesima volta: ‘Sei troppo esigente Sara, è chiaro che le tue storie prima o poi finiscono, non puoi pretendere che l’amore sia
ogni giorno una festa’. Sì, invece, io l’ho sempre preteso e lo continuo a pretendere. Altrimenti che gusto c’è ad amare? Per la
stima, il dialogo, il rispetto? Cose così noiose, pesanti? No, l’amore è passione, esaltazione, mal di pancia, digiuno, estasi e allegria.
Insomma io credo che alla fine di una giornata, chiunque tu sia e
qualunque sia la tua vita, quello che desideri non è fare un bilancio delle tue azioni, è qualcuno da tenere stretto sotto le coperte
e amare sperando che duri il più a lungo possibile. Ed è questo
che vivevo da qualche anno, e volevo che quella mattina mio
padre e mia madre lo sapessero, sapessero che dopo tante sonore batoste, avevo trovato una persona disposta a mettersi completamente in gioco proprio come me. Cari papà e mamma, vi
sbagliavate voi, non ero sbagliata io: non pretendevo troppo,
dovevo solo incontrare la persona. La mia testardaggine nel non
gettare la spugna, come potevano constatare dalle mie parole, era
stata finalmente ripagata. Potevo con orgoglio mettere alle spalle
e perfino ridere dei miei record da guinness leggendari in famiglia; come quella volta, avevo ventitré anni, in cui sono riuscita a
stare per due anni con una persona per cui ho cambiato tre città,
ho minacciato dodici volte il suicidio – solo nel primo anno – e
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ho raggiunto il record di attesa di una telefonata (all’epoca non
c’erano i cellulari, si stava a casa quando si amava, non si andava in giro a distrarsi. Che bei tempi, si soffriva meglio senza telefonini!), rimanendo ferma a fissare il vecchio simpatico telefono,
modello Grillo, per ben sedici ore e quarantacinque minuti. Certo,
erano altri tempi, a vent’anni si è un po’ esagerati. Oggi non
minaccerei dodici volte il suicidio in un anno. Mi ucciderei e
basta. Senza tante storie. È colpa mia se sono fatta così? Ecco, lo
sapevo, mi sono lasciata prendere dall’entusiasmo e ho trasformato la mia breve visitina in un lungo interminabile monologo.
Era tardissimo. Il dovere mi chiamava (che poi, mi son sempre
chiesta, con tante persone che il dovere potrebbe chiamare, perché incaponirsi con me, dato che non gli ho mai dato alcuna soddisfazione?). Anche lanciando al massimo il motorino, ho un cinquantino che si regge per scommessa, non sarei mai arrivata in
tempo per l’apertura del negozio. A quel punto avevo due possibilità. Mollare il motorino e chiamare un taxi per cercare di arrivare puntuale o prenderla con filosofia, la mia personale filosofia,
e, visto che ormai era andata così, fare definitivamente tardi e passare da casa per sorprendere il mio amore e regalarci una colazione a letto condita di cornetti appena sfornati del bar sotto casa.
Secondo voi per cosa ho optato? I cornetti erano finiti, ma non il
ciambellone, fatto dalla proprietaria proprio come le torte della
nonna di una volta, come mi assicura la nuova barista facendomi
l’occhiolino. Non me ne sarei pentita. Compro mezzo ciambellone rallegrandomi che al bar sia arrivata una ragazza tanto giovane e carina e per poco non mi fratturo qualche arto a caso salendo le scale impaziente di trovare la mia metà ancora addormentata. A piedi nudi per evitare anche il minimo impercettibile
rumore, preparo il caffè, taglio il ciambellone, sistemo tutto ad
arte su un vassoio, scosto leggermente la tenda della finestra e mi
avvicino al letto. Con mia grande sorpresa però, il letto è vuoto.
Sul cuscino, al posto del ciuffo ribelle per cui vado pazza, c’è un
biglietto. Un biglietto! Che cosa carina. Avrà avuto un impegno
urgente ma invece di avvertirmi al cellulare ha preferito scrivermi
due righe. Molto romantico, vero? Mi distendo e poggio la testa
sul cuscino preparandomi a vivere un momento che avrei ricordato per tutta la giornata.
‘Amore mio’
Comincia bene. Sospiro già persa.
Amore mio perdonami. C’ho pensato tanto, e non sai quanto sto
male. Così alla fine ho scelto di scriverti un biglietto. Questo
biglietto. Per dirti che non ti amo più. E che ti lascio. Ti lascio per
sempre. Tu non c’entri niente, la colpa è solo mia, tu sei una persona meravigliosa, troppo meravigliosa forse, e io non ti merito.
Giu.
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Paola Mammini
Ah, ah, ah, che tipo che è, ha sempre voglia di scherzare. Ora
chiamo e ci facciamo due risate.
ATTENZIONE, IL NUMERO DA LEI SELEZIONATO È INESISTENTE.
Ci dev’essere un errore. Devo aver digitato male. Riprovo.
ATTENZIONE, IL NUMERO DA LEI SELEZIONATO È INESISTENTE.
Meglio leggere oltre. Ci sarà una spiegazione.
Hai già provato a chiamarmi, vero? Come ti conosco, Sara. Mi
spiace, ho già cambiato scheda. E non ti fare venire strane idee,
ho allertato amici e parenti: non mi cercare e non chiedere di me,
nessuno ti darà informazioni in merito. Per sicurezza ho cambiato anche macchina e per un po’ andrò a stare fuori città. Se
poi guardi nell’armadio e nei cassetti, noterai che ho già portato
via tutte le mie cose. Sarebbe stato penoso farlo un po’ per volta,
no? Cerca di capire. È già troppo dura così, non ce la farei a sentire la tua voce o a vederti. Almeno per qualche tempo. Qualche
tanto tempo.
Ah, una cortesia: dovrebbe arrivare un pacco per me nei prossimi giorni. È un po’ ingombrante, sono degli sci. Ho prenotato
una settimana bianca a Cortina. Se non mi prendo qualche giorno di stacco da tutto impazzisco. E sai che a differenza di te a me
è sempre piaciuta la neve. Puoi tenermeli da parte? Manderò
qualcuno a prenderli. Grazie sei un tesoro. La gatta ha già mangiato, non ti fare intenerire.’
Tut/ tut/ tut/ tuttut/ tuttuttuttuttut…
‘Non c’è più battito cardiaco! La stiamo perdendo! Sara, Sara
svegliati! Sara, per carità, resta con noi. Sara, Sara non ci lasciare!’
No… n pos… so… no… n ce la fac… cio… ad… dio…
Buio. Silenzio. Ora del decesso: 9,25.
Avrò pure visto troppe puntate di E.R., ma se non fosse stato
per Michelle Pfeiffer che approfittando della situazione, ovvero
me più di là che di qua, si è impadronita del ciambellone e nel
farlo mi ha rovesciato addosso la SUA tazza, quella con la G, l’iniziale del suo nome, da me dipinta con tanto amore, credo che
sarei potuta rimanere lì distesa inerme per sempre. Tanto che
senso avrebbe avuto continuare a vivere dopo aver appreso attraverso uno stupido biglietto che la persona che ami e che credevi ti amasse, non solo ti ha lasciato ma ha prenotato una settimana bianca a Cortina perché se no impazzisce? Con chi sono
stata per tutti questi anni? Non è una persona normale, è un
mostro! E tu Emmepi, come hai potuto permetterlo? Come hai
potuto lasciare che ci abbandonasse così, uscendo dalla nostra
vita e dal nostro monolocale con poche righe buttate giù su tre
post it incollati fra loro? E mentre i miei cinquantacinque chili di
carne e ossa per un metro e settanta di altezza si trasformavano
in un concentrato di inconsolabile disperazione, ho pensato a
quanto fosse ingiusta la mia vita. Perché, mi chiedevo, non pos-
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Stavolta, giuro, è diverso
siedo un bel camino spazioso e funzionante? Sai che fine avrei
fatto fare ai tuoi dannatissimi sci? Li avrei sacrificati in un bel falò
e ti avrei spedito in un’urna le loro ceneri a Cortina. A Cortina,
ma come si può!?! Come hai potuto? Però su una cosa hai ragione: io ho sempre odiato la neve. Adesso so perché. Bando alle
ciance: a quel punto c’era una cosa sola da fare, e la dovevo fare
subito. Solo che il suicidio non era affatto previsto quel mercoledì mattina. Dovevo rivedere tutti i miei programmi. Non che avessi un’agenda straripante di impegni, ne ho talmente pochi che
non ce l’ho neanche un’agenda. Ma qualcosina andava organizzata prima di passare a miglior vita e raggiungere i miei per riposare in pace con loro per sempre. Prima di tutto, dovevo fare
colazione. Pianificare un suicidio a stomaco vuoto non è sano. E
così, armata di una lucidità che stupiva me per prima, ho assaporato il ciambellone e la mia fine con uguale soddisfazione e
per un po’ sono riuscita anche a scorgere il lato positivo della
cosa. Avrei smesso per sempre di fumare. Sono anni che ci provo,
ma non c’è mai stato niente da fare. Decido perciò di concedermi un’ultima sigaretta. Ma dove le avevo messe? Le avevo lasciate sul comodin… Oh no! Ha portato via anche quelle! La stronza!
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Capitolo terzo
Va bene va bene, forse avrei dovuto dirvelo subito, la mia ex
dolce metà è una donna. Proprio come lo sono io. Ma ditemi la
verità, ha importanza se a fracassarti il cuore è un uomo o una
donna? E poi ammettetelo, se presentandomi vi avessi detto ‘mi
chiamo Sara, ho trentasette anni per finta, mando avanti a fatica
Bevabbè, una libreria per bambini, abito in un monolocale di
ventisette metri quadri (delizioso e confortevole…) e sono omosessuale, vi sareste predisposti in modo diverso ad ascoltarmi. Ah,
ecco, dunque è la storia di una specie di Meg Ryan dei poveri,
solo che questa è gay. E questo dato vi avrebbe condizionato: ok,
un’altra storia sui gay, tanto ormai stanno dappertutto. E invece
no, perché la mia non è una storia gay, la mia è una tragedia
mostruosa ma del tutto unisex. E se pensate che passerò il resto
del tempo a confessarvi le ragioni che mi hanno portato a provare attrazione per lo stesso sesso rimarrete assai delusi. Sì perché io non ho idea del perché sono omosessuale. Probabilmente
vivere in quaranta metri quadri con cinque sorelle, una madre e
un padre sempre assente, qualcosa avrà pur significato. Non è
che non mi piacesse l’universo maschile, è che proprio non lo
conoscevo. Né posso dire che fin da piccola mi piaceva vestirmi
da maschio o preferivo le pistole alle bambole. Preferivo quello
che passava il convento, ovvero i vestiti che transumavano da
sorella a sorella e i giocattoli che erano gli scarti dei vicini: se poi
erano Barbie o soldatini, non è che c’era tanto da scegliere. No,
credetemi, la mia omosessualità ha a che fare piuttosto con la
pigrizia. Nel senso che la prima volta che ho fatto l’amore è stato
con una donna, mi son trovata bene e son rimasta lì. Delusi?
Eppure è così che è andata. Ricordo come fosse ora. Era un’estate di tantissimi anni fa. All’epoca la Grecia andava molto in quella stagione. Costava poco ed era bellissima. La notte, per quel
poco che si dormiva, bastava stendere il sacco a pelo in qualunque parte di una qualunque spiaggia ed era fatta. Di giorno si
bivaccava in riva al mare cercando di darsi un contegno quanto
meno dignitoso e la sera ci si innamorava grazie al reggae di Bob
Marley, tonnellate di birra e sigarette non proprio conformi alle
direttive dei Monopoli di Stato. Che una notte, alla flebile luce
della luna mi sia ritrovata abbracciata a Denise, una biondina
francese che continuava a cantare ‘No woman no cry’ nonostante la cassetta fosse finita già da un pezzo è stato talmente naturale che nemmeno per un istante ho pensato: ‘Toh, sto facendo
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l’amore con una donna’. Tutto quello che ho pensato è stato:
‘Cazzo, sto facendo l’amore per la prima volta nella mia vita, in
Grecia, sotto le stelle, che culo!’. Avrei dovuto soffermarmi a pensare se c’era qualcosa di strano in me? Se il fatto di preferire le
donne agli uomini avrebbe potuto farmi soffrire? Ma se io adoro
soffrire! Ricordo quando ho fatto outing in famiglia. Le mie sorelle mi hanno abbracciato riconoscenti: dato che uscivamo sempre
insieme, una rivale in meno faceva loro molto comodo. Mia
madre l’ha presa come un segno del destino: ‘Quando aspettavo
te, visto che avevo avuto già cinque femmine, speravo tanto
nascessi maschio’, aggiungendo con la massima disinvoltura che
in effetti appena nata, dato che ero piuttosto bruttina, solo un’approfondita verifica anatomica la convinse che quella che aveva
appena partorito fosse un’esemplare di sesso femminile. Mio
padre invece, dopo essere rimasto qualche secondo in silenzio,
mi ha guardato negli occhi, ha sospirato e ha detto ‘Se è il volere di Dio, per me non c’è problema’. Dubito che a Dio gliene sia
mai fregato qualcosa delle mie inclinazioni sessuali, ma se questo bastava a far contento papà, per me andava più che bene. Mi
rendo conto che rispetto ad altre e ad altri per cui il problema
dell’identità sessuale non è stato un fardello facile da gestire,
sono stata parecchio fortunata. Ma non ho fatto niente per meritarmi questa fortuna, è semplicemente andata così. E vi dirò di
più, essere un’adolescente omosessuale negli anni in cui lo sono
stata io, mi ha dato anche non poche soddisfazioni a livello personale. Parlo di un’epoca in cui la scelta omosessuale era letta
come una scelta coraggiosa. Coraggiosa io, capite? Non avrei
goduto di tanta autorevolezza per nessun altra ragione al mondo.
Per una buona parte della società ero mio malgrado una scheggia impazzita, un cattivo esempio, la chiesa mi additava come
peccatrice. E questo in alcuni ambienti mi regalava una certa
popolarità. Credetemi, la mia identità sessuale, anche se del tutto
casuale, è stata la mia fortuna. E per assurdo lo è stata anche con
Giulia. Sì, perché a differenza della sottoscritta, prima di me lei
non aveva mai avuto una storia con una persona del suo stesso
sesso. Ed è con me che ha scoperto, parole sue, quanto fosse
meraviglioso stare con una donna. Altro che eterosessualità! Ne
era talmente esaltata che spesso mi è toccato intervenire per frenare il suo entusiasmo. Io, che di entusiasmo ci campo, figuratevi un po’! Non so più quante volte tornando a casa la sorprendevo al telefono con qualche amica mentre la scongiurava di
lasciare il fidanzato o il marito per passare alla scelta saffica. ‘Ti
giuro, è fantastico, una volta provato non torni più indietro!’
Sembrava una testimone di Geova della gaytudine.
L’omosessualità le aveva cambiato la vita, si giustificava, perciò,
per il bene dell’umanità, tutti avrebbero dovuto provarla. E allo-
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ra perché è finita, eh? Cos’è, forse dopo tanti anni il fatto di stare
con una donna ti è sembrato troppo normale? Ho smesso di
colpo di rappresentare una piacevole nonché elettrizzante novità? È stato questo, eh? Ma certo! Ho sottovalutato il fattore Nutella!
Come avevo fatto a non capirlo prima! Una delle prime cose che
Giulia mi ha raccontato quando ci siamo conosciute è stata la
sfrenata passione per la Nutella (ed è stata anche una delle prime
cose che mi hanno fatto innamorare di lei: non avevo mai visto
nessuno parlare di una cosa così frivola con tanta serietà). Per lei
era una specie di ossessione, la sognava la notte, le sembrava di
vederla ovunque. I suoi genitori, da bravi pedagoghi, le concedevano una fetta di pane e Nutella una sola volta al giorno e solo
se era andata bene a scuola. Non esagero dicendo che se Giulia
ha sempre avuto un ottimo rendimento scolastico lo deve proprio
alla Nutella. Beh, la seconda volta che siamo uscite insieme, le ho
fatto trovare sotto la sedia del ristorante, incartato di tutto punto,
il barattolone gigante da tre chili. Sapete cosa ha fatto? Mi ha
guardato, si è scusata, e piuttosto imbarazzata mi ha spiegato che
da quando la Nutella può ‘rimediarla’ senza problemi – ha usato
proprio questo termine, come parlasse di una droga, adorabile
Giulia! – non le piaceva più, non aveva più lo stesso sapore. Ecco
dunque cos’è successo: io sono stata la sua Nutella. Fidanzarsi
con una donna, con tutto quello che aveva comportato nei primi
tempi – nasconderlo in famiglia, adottare sotterfugi ed espedienti di ogni tipo per camuffarsi, sul lavoro, con gli amici meno intimi – l’aveva esaltata. Ma dopo un po’ di anni, quando ormai
anche il parroco della chiesa del quartiere in cui era cresciuta ci
salutava senza imbarazzo, deve averle fatto perdere il sapore
proibito della nostra relazione. Tale e quale la Nutella. Beh, non
ci crederete, ma è stata questa semplice constatazione ad avermi
fatto recedere dalle migliori intenzioni suicide. Improvvisamente
mi è stato tutto chiaro. Non avrebbe avuto alcun senso uccidermi. Anche perché, se c’era una minima possibilità di riconquistare Giulia – o almeno di farle venire dei sensi di colpa pesanti
quanto una tonnellata di Nutella – morire non sarebbe stato un
granché come escamotage. Al contrario, il mio suicidio sarebbe
stato il suo viatico per trasformarsi lei, in vittima. ‘Vedete? Non è
colpa mia, come si fa a stare con una persona emotivamente disturbata? C’ho provato, e come se c’ho provato. È stato tutto inutile, la sua fine era già scritta molto prima che ci incontrassimo,
come possono confermare tutte le persone che la conoscevano.
Pensate che quando aveva solo ventitré anni ha minacciato dodici volte il suicido in un anno per una ragazza con cui aveva una
semplice storiella…’ No, non le avrei dato questa soddisfazione.
Potevo fare di meglio, potevo osare di più. In una parola, dovevo riappropriarmi del fattore Nutella. E prima ancora di riflettere
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