Belluno Ieri e Oggi, Cronache del passato

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Belluno Ieri e Oggi, Cronache del passato
Belluno ieri e oggi, cronache del passato
"Belluno Ieri e Oggi, Cronache del passato" raccoglie una serie di
storie legate alla Provincia di Belluno.
Una trentina di articoli e racconti brevi, che inizia con un episodio
del 1400 riguardante i "Longobardi di Cirvoi", e termina nel 2007,
con le testimonianze e le riflessioni dei politici bellunesi Tullio
Bettiol, consigliere regionale, e dei parlamentari Gianfranco Orsini,
Emilio Neri e Paolo De Paoli sulla politica di ieri e oggi.
Al centro vi sono le cronache del passato, in particolare del
Ventennio fascista, con le visite a Belluno di Starace, il famoso
discorso "Burro o cannoni" di Mussolini. E altre storie meno note
come quella di Dino Gusatti Bonsembiante, l'ex Federale di Belluno
il che si fece frate francescano. Aneddoti dimenticati, come quello
dello "Schioppo a vento" di Girardoni e il suo silenzioso proiettile
che, si narra, colpì al piede Napoleone a Ratisbona nel 1809,
durante la II ^ Campagna contro l'Austria. O la spoletta di scoppio
differito, nata all'Ospedaletto da Campo n.42 ai piedi delle Tre Cime
di Lavaredo Nel 1916, dove prestava servizio il tenente medico Ugo
Cerletti.
Ma anche fatti che avrebbero anche potuto cambiare il corso della
grande storia.
Come il cosiddetto incontro di Feltre tra i due dittatori Hitler e
Mussolini, avvenuto nel 1943 a Villa Gaggia, con il retroscena del
progetto dell'attentato il che non ci fu, raccontato da Armando
Bettiol, uno dei protagonisti della vicenda.
Un centinaio di pagine con immagini, in stile prettamente
giornalistico, per una lettura rapida, che si rivolge ad ogni genere di
lettore.
Roberto De Nart
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Quella volta che “I Longobardi di Cirvoi” si rivolsero al
Vescovo-conte per essere liberati dalla schiavitù
Le donne non riuscivano a
trovare
uomini
disposti
a
sposarle e gli uomini non
trovavano più moglie a causa di
quell’antico contratto. Accadeva
nel
Quattrocento
a
Cirvoi
(Belluno), la piccola frazione
sulla Sinistra Piave alle pendici
del Nevegal, dove gli abitanti
erano condannati da un’antica
servitù
che
li
legava
indissolubilmente alla terra. Nel
1414 la questione sociale sfocia
in una petizione indirizzata al
vescovo di Belluno e Feltre
Enrico de’ Scarampi, affinché si
adoperasse per liberare la
popolazione dalla servitù della
gleba.
“Comparsero quest’anno davanti
Enrico Episcopo Bellunese - scrive Giorgio Piloni nella sua Historia
della Città di Belluno del 1607 - li uomini del villaggio de Cirvoio
territorio di Belluno, dolendosi, che le sue donne non potevano
ritrovar in chi maritarse, né li uomini ritrovavano mogliere: poi che
soli tra tutti quelli del Belluno ritenevano ancora l’antica servitute:
supplicando l’Episcopo ad operare, che li fosse da li suoi patroni
data libertade co l’manumeterli, si come era stà dato alli altri
contadini del territorio: non mancò il Vescovo di adoperarsi sin che
ottenne ciò che questi infelici ricercavano”.
La curiosa vicenda è ritornata alla luce qualche anno fa, in
occasione del centenario della costituzione della Cooperativa di
Cirvoi, festeggiato con la pubblicazione di un libro curato dagli
storici bellunesi Giovanni Larese, Marco Perale e Ferruccio
Vendramini, che contiene le vicissitudini della piccola comunità di
Cirvoi attraverso i secoli. Lo studio condotto da Perale riesce a dare
una spiegazione verosimile dei fatti, per quanto, come lo stesso
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autore abbia prudenzialmente osservato, la microstoria sia sempre
“un banco di prova estremamente arduo, in ragione della
progressiva esiguità dei documenti a mano a mano che si restringe
nel tempo il campo dell’osservazione”.
Ebbene, per ricostruire quanto avvenne 600 anni fa, occorre partire
dalla ricerca onomastica dal registro di battesimo della “Pieve
castionese”, ossia dell’attuale frazione di Castion. Che fino al 1818
era stata un Comune con 16 frazioni tra cui quella di Cirvoi.
Esaminando le carte del 1544 dell’umanista Piero Valeriano, risulta
che il cognome “Dal Farra” era localizzato specificatamente a
Cirvoi. Già alla fine dell’800, del resto - secondo gli studi di Perale era stata avanzata l’idea che il cognome “Dal Farra”, molto diffuso
nel castionese, fosse il probabile indizio dell’esistenza di un’antica
Farra longobarda in quella zona. Una tesi contenuta anche nelle
“Memorie longobardiche bellunesi” del 1899 di Gian Luigi Andrich,
dove si afferma che il nome della frazione Faverga deriverebbe
appunto da “Fara”, vocabolo che indica l’unione delle famiglie
longobardiche stabilitesi in una località per trattare gli affari della
comunità e provvedere alla sua difesa. Tutte le fonti disponibili,
insomma, convergono nel localizzare a Cirvoi il nucleo originario di
tutti i “Dal Farra” presenti ancor oggi nel castionese. E allora è
fondato ritenere che la “Fara” longobarda dell’altipiano, legata al
“castrum”, ovvero l’opera di difesa militare, fosse situata proprio a
Cirvoi. Tale ipotesi, infatti, spiegherebbe quella richiesta di aiuto per
essere liberati dalla schiavitù fatta al vescovo dagli abitanti di Cirvoi,
quali discendenti di un gruppo di arimanni, i liberi guerrieri di
un’antica comunità longobarda stabilitisi a Cirvoi.
Qui, infatti, si sarebbero consolidati i diritti e i doveri derivati
dall’antico istituto giuridico dell’arimannia. Ossia quell’opzione
concessa ai liberi guerrieri longobardi che, stabilitisi definitivamente,
cessavano di esercitare il mestiere delle armi, vincolandosi però a
provvedere al mantenimento dei guerrieri con il loro lavoro agricolo.
Come contropartita, i soldati garantivano la difesa del territorio e
dell’intera comunità. Un vero e proprio contratto a prestazioni
corrispettive, o di reciprocità che, col passare del tempo, degenerò
in una condizione di schiavitù che i signori imposero ai loro rurali e
che a Cirvoi si trascinò fino alle soglie dell’età moderna. Un peso
divenuto insostenibile, dunque, che gravava su tutta la popolazione,
che all’epoca possiamo stimare in un centinaio di abitanti.
Considerato che l’unico dato certo al riguardo, risale al 1637, e
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rivela a Cirvoi una consistenza di 137 abitanti di cui 49 uomini, 43
donne, 24 fanciulli e 21 fanciulle. Un’ulteriore conferma che si
trattasse di una deformazione dell’antica arimannia longobarda, non
già di una semplice schiavitù – secondo Perale – scaturisce dalla
procedura seguita dalla popolazione di Cirvoi per riconquistare la
libertà. La petizione, infatti, dal momento che riguardava l’intera
popolazione, venne indirizzata al vescovo, in quanto conte e quindi
autorità politico-amministrativa-militare gerarchicamente più elevata
(va detto che nel 1185 papa Lucio III conferma con bolla al vescovo
di Belluno Gerardo de Taccoli tutti i suoi possedimenti, “cum villis et
arimaniis”).
I nobili possidenti bellunesi, infatti, avrebbero potuto decidere
soltanto in ordine a casi particolari di diritto privato e quindi
concedere la libertà limitatamente a taluni dei loro servi personali. Il
caso di Cirvoi riguardava l’intera comunità residente e dunque era
di tutt’altra portata e poteva essere risolto solo dalla massima
autorità presente nel territorio, ossia il vescovo-conte.
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Federigo Cavessago, quel patriota bellunese che combatté con
Garibaldi
Quella di Federigo Cavessago, è la storia poco nota di un patriota
bellunese che spese i suoi anni migliori per un ideale di patria e
libertà. Nato a Belluno nel 1838 da una famiglia modesta, inizia a
lavorare come apprendista nella tipografia di uno zio. Nel 1859 si
arruola
nel
21mo
Reggimento “Brigata Vittorio
Emanuele” per combattere
l’Austria nella II Guerra
d’Indipendenza.
Poi
è
inquadrato
nel
39mo
Reggimento fanteria, con il
quale
partecipa
alle
Campagne del 1859-60-61.
Nel 1861 è nell’Ascolano,
con i reparti inviati a
reprimere il brigantaggio.
Nel corso della battaglia di
Mozzano, dove la Sesta
compagnia
viene
quasi
accerchiata e cade il
capitano Zanettelli, Cavessago viene ferito e fatto prigioniero dai
briganti. Insieme a lui vengono catturati anche i suoi amici bellunesi
Gaetano Ferigo e Ferdinando Massenz. Riescono tutti a sfuggire
alla fucilazione, perché dopo 20 giorni di prigionia vengono liberati
dall’intervento delle truppe regolari dell’Esercito a San Martino degli
Abruzzi. Cavessago rientra nelle fila del suo reggimento e riprende
a combattere il brigantaggio nelle zone di Civitella del Tronto e nella
Valle Castellana. Verso la fine del 1861 si congeda e riprende la
professione di tipografo a Bologna, quindi a Torino nella tipografia
“Augusta” e poi a Firenze. Nel 1866, quando l’Italia riprende le armi
per la liberazione del Veneto, si arruola nuovamente con il grado di
sergente nel Sesto reggimento garibaldini e partecipa alla
Campagna del Trentino, nei combattimenti di Condino, Cimego e
Bezzecca, rimanendo ferito nel passaggio del Chiese. Dopodiché,
con la Pace di Vienna ed il plebiscito con cui Napoleone III
consegna il Veneto all’Italia, Federigo Cavessago ritorna a Belluno,
sposa Rachele Massenz dalla quale avrà il figlio Luigi, ed apre la
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prima edicola per la vendita di giornali. Subito dopo avvia anche
una piccola tipografia artigianale, che negli anni cresce e si
trasforma in uno degli stabilimenti principali del settore, grazie al
suo spirito imprenditoriale e all’acquisizione di sempre nuove
macchine. Il tipografo Cavessago ottiene vari riconoscimenti e
premi alle esposizioni dove partecipa. Egli si distingue anche nella
vita politica e sociale, diventando consigliere, assessore comunale,
presidente della Camera di Commercio e delle Arti, consigliere della
Banca mutua di Belluno e sindaco di Limana. Il 15 agosto del 1914
in occasione della cerimonia funebre, il cavalier Ferdinando
Massenz pronuncerà le seguenti parole in memoria dell’amico e
compagno d’arme scomparso: ”Nel 1859, in quattro amici,
lasciammo le case paterne, per correre là, dove la Patria chiamava
e nel non breve tragitto fummo raggiunti da altri bellunesi, così da
formare un drappello, e giubilanti raggiungemmo la meta”. Le
cronache dell’epoca ricordano che “la salma del compianto
Federigo Cavessago, cavaliere al merito del lavoro morto dopo
lunga e penosa malattia all’età di 76 anni, venne posta sul carro di
secondo ordine. Sopra alla bara c’era la camicia rossa e le
decorazioni. Ed il corteo seguì il percorso di via Carrera, piazza
Campitello, piazza Santo Stefano nella quale chiesa ebbero luogo
gli uffici funebri”.
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Gaetano Ferigo, industriale bellunese che nell'800 combatté
per l'Italia
Vissuti a cavallo tra l’800 ed il ‘900, Gaetano Ferigo, Federigo
Cavessago e Ferdinando
Massenz sono tre patrioti
bellunesi che insieme
riuscirono ad evadere
dalle carceri di Belluno,
quando la città era sotto il
dominio austriaco. Un
episodio
che
i
tre
festeggiarono ogni anno
con una cena insieme in
una locanda del centro.
Iniziamo con la storia di
Gaetano Ferigo. Nato a
Belluno
nel
1837,
trascorre
la
sua
giovinezza nel rumore
delle rivoluzioni e delle
battaglie, assimilando gli
ideali di Patria e Libertà.
E’ tra i primi che nel 1859
corrono a cacciare gli
austriaci dalla Lombardia
e dal Veneto nella II
Guerra d’indipendenza. Arrestato è tradotto di carcere in carcere
fino a quello di Belluno, da dove riesce ad evadere con i due amici.
Raggiunge quindi Bologna, pronto nuovamente a combattere per la
Patria. Ma l’11 luglio del 1859 sopraggiunge l’armistizio di
Villafranca tra i due imperatori Napoleone III e Francesco Giuseppe,
che lascia delusi i patrioti. Ferigo nel frattempo si arruola
nell’Esercito italiano e prende parte nel 1859 agli avamposti contro i
papalini e sul Po fronteggia il ritorno delle truppe del Duca di
Modena. Inquadrato nel 39mo Reggimento, partecipa alla
Campagna delle Marche e dell’Umbria del 1860-61, dando prova di
coraggio e guadagnandosi una medaglia nella presa di Ancona. Nel
gennaio del 1861 è impegnato nell’azione di repressione del
brigantaggio ad Ascoli e nel combattimento di Mozzano è fatto
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prigioniero insieme a Federico Cavessago e Ferdinando Massenz.
Dopo 20 giorni di prigionia sfuggono alla fucilazione grazie
all’intervento delle truppe regolari dell’Esercito a San Martino degli
Abruzzi. Compiuta la ferma militare, però, Gaetano Ferigo non può
far ritorno a Belluno perché la città è ancora dominata dagli Asburgo
ed egli è ancora ricercato come evaso. Rimane dunque a Piacenza,
guadagnandosi da vivere come falegname. Qui conosce e sposa
Ersilia Vandelli. E dopo il 1866, con la Pace di Vienna ed il
plebiscito con cui Napoleone III consegna il Veneto
all’Italia, Ferigo può finalmente ritornare a Belluno con la famiglia,
proseguendo nella sua attività di falegname.
Nel 1873 apre a San Francesco un laboratorio per la lavorazione
meccanica del legname
ottenendo
i
primi
riconoscimenti dalla Camera
di Commercio di Belluno,
poi dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti che
gli assegna il III premio in
una gara fra industrie del
Veneto. Nel 1884 trasferisce
l’opificio in locali più ampi
presso il Ponte nuovo
sull’Ardo, dove realizza su
suo progetto un motore
idraulico per la lavorazione
del legno. Riesce ad
abbinare
la
tecnologia
moderna delle macchine
all’arte. I suoi parchetti di
legno
sono
apprezzati
ovunque per l’originalità dei
disegni,
l’armonica
disposizione dei colori e la
buona
solidità
di
costruzione. All’Esposizione di Belluno del 1895 gli viene assegnata
la medaglia di bronzo. Premio che il Ferigo rifiuta, ritenendolo
insufficiente alle sue aspettative. Non aveva torto.
Infatti, all’esposizione di Torino del 1898, il suo grande armadio da
sala è giudicato un capolavoro. Nel 1904, all’Esposizione di
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Perugia, vince il Gran premio e la medaglia d’oro.
E l’anno seguente, all’Esposizione regionale delle Marche, tenutasi
a Macerata, i suoi parchetti ottengono la medaglia d’argento del
Ministero dell’Agricoltura industriale e del Commercio, ossia la più
alta onorificenza nel settore dell’epoca. Suo il portone in legno di
Palazzo Rosso.
Alla sua morte, avvenuta all’età di 72 anni, 300 famiglie bellunesi
gli dedicarono il seguente epitaffio: “Cuore di patriota fervente,
giovanetto ancora, varcò il Po quando era delitto varcarlo, combatté
da prode fra i volontari nel 1859, nella Milizia regolare nel 1860-61,
contro i nemici esterni ed interni d’Italia, soffrendo privazioni e
carcere per la Patria diletta”.
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Pier Fortunato Calvi, eroe del Cadore, tradito da una donna
affascinante
Nella storia recente dello spionaggio e nella filmografia, la donna
che carpisce i segreti all’uomo
nell’alcova,
è
un
ingrediente
collaudato. Qualcosa del genere è
davvero
successo
durante
il
Risorgimento, nella vicenda di Pier
Fortunato Calvi, patriota caduto nelle
mani degli austriaci, di cui ricorrono i
150 anni dalla morte.
Nell’arresto di Calvi, infatti, c’è di
mezzo una donna affascinante e
determinata. Si chiama Felicita
Bonvecchiato, ama la bella vita e il
lusso, non ha molti scrupoli e pare sia
dotata di quelle qualità formidabili che
fanno impazzire gli uomini sotto le
lenzuola. Almeno questo si capisce
leggendo la descrizione che di lei fa
un certo Celestino Bianchi, che così la ritrae in un libro del 1863: “E’
di portamento distinto, alta di persona, bella di una bellezza
regolare, maestosa, affascinante, una voluttuosa, mobile, perversa
di una perversità, di una nequizia che non hanno nome, ambiziosa
all’ultimo grado, sitibonda d’ogni sorta di piacere, anche i più
inverecondi, vana all’estremo, orgogliosa, superba, amante del
fasto e della pompa”.
La Bonvecchiato è moglie dell’avvocato Breda di Burano, che lascia
per seguire Demetrio Mircovich, un ricco medico dalmata
naturalizzato veneziano, ardente patriota distintosi nell’assedio di
Venezia e presidente del Comitato distrettuale di Mirano. A seguito
della sua attività patriottica, egli finisce nella lista di proscrizione
austriaca e vede sfumare sensibilmente le sue ricchezze per il
conseguente sequestro dei beni che possiede nel Veneto. Fugge
quindi a Torino insieme alla bellissima Felicita, sua amante e
convivente, e la sua casa diventa il luogo di ritrovo degli esuli
veneti, tra i quali c’è anche il prete bellunese don Sebastiano
Barozzi.
Qui, Felicita gode della totale fiducia dei patrioti per i quali diventa
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un efficiente corriere di collegamento che porta comunicati e
proclami tra i cospiratori piemontesi e veneti. Conosce così i disegni
dell’insurrezione nelle vallate alpine che Mazzini ha preparato dalla
Svizzera nel luglio del 1853 ed arrivati al Calvi tramite il conte
bellunese Carlo Rudio (quello che partecipa all’attentato del 14
gennaio 1858 contro Napoleone III con Felice Orsini e poi
sopravvive alla battaglia di Little Bighorn del 25 luglio 1876 dove gli
indiani Sioux e Cheyenne sconfiggono il 7mo Reggimento
cavalleggeri ed uccidono il suo comandante, il generale Custer).
E non è difficile intuire che, sfumate le ricchezze del suo amato
Demetrio, la bellissima Felicita Bonvecchiato decida di fare il doppio
gioco a favore degli austriaci, per intascare la taglia di diecimila
fiorini che pende sulla testa di Pier Fortunato Calvi a seguito della
resistenza organizzata contro l’Austria in
Cadore. Del resto, è lo stesso Calvi che ai primi di aprile del 1855,
in occasione dell’ultimo incontro con la madre e la sorella riesce a
passare a quest’ultima tre fogli di memorie difensive dove indica “la
Mircovich” - così chiama Felicita Bonvecchiato che egli conosce fin
da ragazzo - come traditrice, responsabile del suo arresto e di
quello degli altri patrioti.
Tutte circostanze confermate anche da Ulisse Salis che nelle sue
“Memorie” racconta il ruolo avuto dalla Bonvecchiato, quale
suggeritrice della polizia valtellinese. L’arresto di Pier Fortunato
Calvi, insomma, in un’osteria di Cogolo a Val di Sole nel settembre
del 1853, diventa un gioco da ragazzi per i gendarmi, che
conoscono gli spostamenti nei minimi particolari, oltre ai nomi scritti
nei passaporti falsi dietro ai quali si nascondono gli insorti. La
Bonvecchiato firmerà addirittura una deposizione e sosterrà un
confronto nel castello di Mantova con i compagni di Calvi: Morati,
Chinelli, Marin, Fontana e don Barozzi. Ma inspiegabilmente non
venne posta a confronto con lo stesso Calvi, per motivi definiti
“innominabili” dal Marin.
La storia si conclude con la morte in circostanze misteriose di
Felicita Bonvecchiato, avvenuta il 14 febbraio 1854 a Venezia,
stroncata da un morbo misterioso. O più semplicemente avvelenata
dai mazziniani, oppure dagli stessi austriaci, per i quali oramai era
diventata una spia inutile, troppo appariscente ed ingombrante.
L’anno dopo tocca a Pier Fortunato Calvi, che dopo esser stato
rinchiuso nel Castello di San Giorgio a Mantova per un paio d’anni,
finisce i suoi giorni il 4 luglio 1855 sul patibolo, dopo che il Tribunale
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Marziale conferma la sua condanna a morte.
Pier Fortunato Calvi
Nato a Briana di Noale, il 15 Febbraio 1817, frequenta il ginnasio a
Padova (attuale Liceo "Tito Livio") e poi l’Accademia Militare di
Neustadt, in Austria. A vent’anni è alfiere e subito dopo tenente nel
XIII Reggimento fanteria Wumpfen. Dà le dimissioni dall'esercito
austriaco quando è capitano, e abbandona il suo reggimento a
Gratz per diventare patriota.
Daniele Manin lo invia con Luigi Coletti a difendere il Cadore, dove
fin dal Febbraio 1848 fermantava lo spirito di rivolta. Qui organizza
e dirige un'audace resistenza contro l'Austria, che rappresenta una
delle pagine più belle del nostro Risorgimento. Quando cessa la
resistenza in Cadore, Calvi fugge a Venezia ancora in lotta.
Poi, quando cade anche la Repubblica di Venezia, egli ripara prima
a Torino e poi in Svizzera. Nel 1853, tenta di tornare in Cadore per
organizzare una nuova insurrezione, ma viene arrestato in Val di
Sole e tradotto prigioniero nel Castello di San Giorgio di Mantova.
Il Tribunale Marziale conferma la condanna a morte pronunciata
contro di lui nel 1851 per aver organizzato un'insurrezione contro gli
austriaci.
Senza mendicare alcuna grazia, sale fiero al patibolo il 4 luglio 1855
a Mantova, e al boia che si era offerto di aiutarlo a salire i gradini
dice: "Grazie, le mie gambe non tremano”.
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Le straordinarie avventure del conte bellunese Carlo Rudio.
Cadetto austriaco, bombarolo, evaso ed ufficiale del 7mo
Reggimento cavalleria del generale Custer
Il I° novembre 1910 moriva a San Francisco il conte bellunese
Carlo Rudio le cui avventure sono raccontate da Cesare Marino nel
libro di recente ristampa dal titolo “Dal Piave a Little Bighorn”.
Settantaquattro anni prima di
Angelo
Sbardellotto,
il
giovane anarchico di Villa di
Villa (Mel) fucilato nel 1932
per aver progettato di
uccidere Mussolini, Carlo
Rudio fece parlare più volte
di sé. Il suo nome, infatti, era
tra quelli che presero parte
al fallito attentato contro
l’imperatore Napoleone III a
Parigi, colpevole secondo
Felice
Orsini,
Antonio
Gomez e Carlo Rudio, di
aver abbattuto la repubblica
romana del 1849. Alle 8 e
mezza di sera del 14 gennaio 1858 in rue Lepelletier, la carrozza
che portava all’Opèra Napoleone III e la moglie Eugenia viene
colpita da tre bombe. L’esplosione provoca 8 morti e 156 feriti tra
cui 11 ragazzi e 21 donne.
Napoleone III° se la cava con una leggera ferita alla guancia destra,
tant’è che può assistere con la moglie allo spettacolo teatrale: il
Guglielmo Tell di Rossini, la Muta di Portici di Auber e la Maria
Stuarda di Alfieri interpretato dell’ attrice italiana Adelaide Ristori, e
un balletto intitolato L'assassinio di Gustavo re di Svezia. Orsini,
Gomez e Rudio vengono subito arrestati dalla polizia. Un quarto
uomo, Giuseppe Andrea Pieri era già stato arrestato prima
dell’attentato. A differenza dell’anarchico di Mel, però, Rudio riuscirà
sempre a cavarsela, in un crescendo straordinario di eventi degni
del migliore film d’azione.
Evita la ghigliottina, sopravvive ad una letale epidemia di febbre
gialla quand’era rinchiuso nelle carceri francesi della Cajenna, da
dove riesce ad evadere. Poi si arruola nell’esercito americano e
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riuscirà a salvare la pelle nella celebre battaglia di Little Bighorn,
dove i Sioux ed i Cheyenne massacrarono il 7mo Reggimento
cavalleggeri del generale Custer. Nel novembre del 1910 muore,
serenamente nel suo letto a San Francisco, all’età di 78 anni.
Di lui, si è occupata varie volte la stampa internazionale dell’epoca.
Il quotidiano italo americano “L’eco d’Italia”, ad esempio, in un
editoriale del 1881 scrive sarcasticamente: “se il conte Carlo
Camillo di Rudio fosse stato uno yankee d’origine anglosassone
anziché italiana, avrebbe certamente ottenuto i galloni da generale”!
Il nobile bellunese, infatti, arruolatosi nel leggendario Settimo
Cavalleggeri del generale Custer (lo stesso reggimento che
nell’aprile 2003 ha guidato le avanguardie della Terza divisione dei
marines nella liberazione dell’Iraq da Saddam), era già in pensione
da 8 anni a Los Angeles con l’amata moglie Eliza Booth, quando
riceve la promozione al grado di maggiore.
Carlo Rudio, secondogenito di una famiglia nobile bellunese, nasce
il 26 agosto 1832 a Belluno e trascorre l’infanzia e i mesi estivi della
giovinezza nella villa di famiglia a Sala di Cusighe (nella foto la
facciata principale della villa), nell'immediata periferia di Belluno.
E’ qui che ascolta i primi sermoni velati di patriottismo di don
Sebastiano Barozzi, prete del paese. A 13 anni Rudio è ammesso
all’Imperial-regio collegio militare di San Luca a Milano, con il
fratello maggiore Achille. Il giovane Carlo è testimone più volte di
episodi di violenza dei soldati austriaci sulla popolazione civile.
Durante le Cinque giornate di Milano (18- 22 marzo 1848) vede
uccidere a sangue freddo una giovane donna incinta dai soldati
croati del feldmaresciallo Radetzky. La stessa cosa succede a
Castelnuovo, dove una giovane ragazza viene uccisa senza
ragione da un soldato austro-ungarico. Rudio questa volta reagisce
ed ammazza il soldato. Si schiera, insomma, con l’Italia oppressa.
Rifiuta di raffermarsi nell’esercito di Radetzky e passa nella Legione
dei cacciatori delle Alpi, comandata da Pier Fortunato Calvi.
Nell’aprile del 1849 combatte insieme a Garibaldi nella vittoriosa
battaglia di Roma, contro il generale Oudinot. Poi a Velletri è
inquadrato nella Compagnia dei ragazzi che sorprende sul fianco i
Borbonici costringendoli alla ritirata. Seguono gli anni delle
cospirazioni, con gli arresti, le fughe e l’esilio dell’inafferrabile
Moretto, come oramai era stato soprannominato. A Parigi, nel corso
del processo a carico di Felice Orsini e Antonio Gomez, protagonisti
del fallito attentato a Napoleone III del 14 gennaio 1858, viene
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