Belluno Ieri e Oggi, Cronache del passato
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Belluno Ieri e Oggi, Cronache del passato
Belluno ieri e oggi, cronache del passato "Belluno Ieri e Oggi, Cronache del passato" raccoglie una serie di storie legate alla Provincia di Belluno. Una trentina di articoli e racconti brevi, che inizia con un episodio del 1400 riguardante i "Longobardi di Cirvoi", e termina nel 2007, con le testimonianze e le riflessioni dei politici bellunesi Tullio Bettiol, consigliere regionale, e dei parlamentari Gianfranco Orsini, Emilio Neri e Paolo De Paoli sulla politica di ieri e oggi. Al centro vi sono le cronache del passato, in particolare del Ventennio fascista, con le visite a Belluno di Starace, il famoso discorso "Burro o cannoni" di Mussolini. E altre storie meno note come quella di Dino Gusatti Bonsembiante, l'ex Federale di Belluno il che si fece frate francescano. Aneddoti dimenticati, come quello dello "Schioppo a vento" di Girardoni e il suo silenzioso proiettile che, si narra, colpì al piede Napoleone a Ratisbona nel 1809, durante la II ^ Campagna contro l'Austria. O la spoletta di scoppio differito, nata all'Ospedaletto da Campo n.42 ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo Nel 1916, dove prestava servizio il tenente medico Ugo Cerletti. Ma anche fatti che avrebbero anche potuto cambiare il corso della grande storia. Come il cosiddetto incontro di Feltre tra i due dittatori Hitler e Mussolini, avvenuto nel 1943 a Villa Gaggia, con il retroscena del progetto dell'attentato il che non ci fu, raccontato da Armando Bettiol, uno dei protagonisti della vicenda. Un centinaio di pagine con immagini, in stile prettamente giornalistico, per una lettura rapida, che si rivolge ad ogni genere di lettore. Roberto De Nart *** 1 Quella volta che “I Longobardi di Cirvoi” si rivolsero al Vescovo-conte per essere liberati dalla schiavitù Le donne non riuscivano a trovare uomini disposti a sposarle e gli uomini non trovavano più moglie a causa di quell’antico contratto. Accadeva nel Quattrocento a Cirvoi (Belluno), la piccola frazione sulla Sinistra Piave alle pendici del Nevegal, dove gli abitanti erano condannati da un’antica servitù che li legava indissolubilmente alla terra. Nel 1414 la questione sociale sfocia in una petizione indirizzata al vescovo di Belluno e Feltre Enrico de’ Scarampi, affinché si adoperasse per liberare la popolazione dalla servitù della gleba. “Comparsero quest’anno davanti Enrico Episcopo Bellunese - scrive Giorgio Piloni nella sua Historia della Città di Belluno del 1607 - li uomini del villaggio de Cirvoio territorio di Belluno, dolendosi, che le sue donne non potevano ritrovar in chi maritarse, né li uomini ritrovavano mogliere: poi che soli tra tutti quelli del Belluno ritenevano ancora l’antica servitute: supplicando l’Episcopo ad operare, che li fosse da li suoi patroni data libertade co l’manumeterli, si come era stà dato alli altri contadini del territorio: non mancò il Vescovo di adoperarsi sin che ottenne ciò che questi infelici ricercavano”. La curiosa vicenda è ritornata alla luce qualche anno fa, in occasione del centenario della costituzione della Cooperativa di Cirvoi, festeggiato con la pubblicazione di un libro curato dagli storici bellunesi Giovanni Larese, Marco Perale e Ferruccio Vendramini, che contiene le vicissitudini della piccola comunità di Cirvoi attraverso i secoli. Lo studio condotto da Perale riesce a dare una spiegazione verosimile dei fatti, per quanto, come lo stesso 2 autore abbia prudenzialmente osservato, la microstoria sia sempre “un banco di prova estremamente arduo, in ragione della progressiva esiguità dei documenti a mano a mano che si restringe nel tempo il campo dell’osservazione”. Ebbene, per ricostruire quanto avvenne 600 anni fa, occorre partire dalla ricerca onomastica dal registro di battesimo della “Pieve castionese”, ossia dell’attuale frazione di Castion. Che fino al 1818 era stata un Comune con 16 frazioni tra cui quella di Cirvoi. Esaminando le carte del 1544 dell’umanista Piero Valeriano, risulta che il cognome “Dal Farra” era localizzato specificatamente a Cirvoi. Già alla fine dell’800, del resto - secondo gli studi di Perale era stata avanzata l’idea che il cognome “Dal Farra”, molto diffuso nel castionese, fosse il probabile indizio dell’esistenza di un’antica Farra longobarda in quella zona. Una tesi contenuta anche nelle “Memorie longobardiche bellunesi” del 1899 di Gian Luigi Andrich, dove si afferma che il nome della frazione Faverga deriverebbe appunto da “Fara”, vocabolo che indica l’unione delle famiglie longobardiche stabilitesi in una località per trattare gli affari della comunità e provvedere alla sua difesa. Tutte le fonti disponibili, insomma, convergono nel localizzare a Cirvoi il nucleo originario di tutti i “Dal Farra” presenti ancor oggi nel castionese. E allora è fondato ritenere che la “Fara” longobarda dell’altipiano, legata al “castrum”, ovvero l’opera di difesa militare, fosse situata proprio a Cirvoi. Tale ipotesi, infatti, spiegherebbe quella richiesta di aiuto per essere liberati dalla schiavitù fatta al vescovo dagli abitanti di Cirvoi, quali discendenti di un gruppo di arimanni, i liberi guerrieri di un’antica comunità longobarda stabilitisi a Cirvoi. Qui, infatti, si sarebbero consolidati i diritti e i doveri derivati dall’antico istituto giuridico dell’arimannia. Ossia quell’opzione concessa ai liberi guerrieri longobardi che, stabilitisi definitivamente, cessavano di esercitare il mestiere delle armi, vincolandosi però a provvedere al mantenimento dei guerrieri con il loro lavoro agricolo. Come contropartita, i soldati garantivano la difesa del territorio e dell’intera comunità. Un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, o di reciprocità che, col passare del tempo, degenerò in una condizione di schiavitù che i signori imposero ai loro rurali e che a Cirvoi si trascinò fino alle soglie dell’età moderna. Un peso divenuto insostenibile, dunque, che gravava su tutta la popolazione, che all’epoca possiamo stimare in un centinaio di abitanti. Considerato che l’unico dato certo al riguardo, risale al 1637, e 3 rivela a Cirvoi una consistenza di 137 abitanti di cui 49 uomini, 43 donne, 24 fanciulli e 21 fanciulle. Un’ulteriore conferma che si trattasse di una deformazione dell’antica arimannia longobarda, non già di una semplice schiavitù – secondo Perale – scaturisce dalla procedura seguita dalla popolazione di Cirvoi per riconquistare la libertà. La petizione, infatti, dal momento che riguardava l’intera popolazione, venne indirizzata al vescovo, in quanto conte e quindi autorità politico-amministrativa-militare gerarchicamente più elevata (va detto che nel 1185 papa Lucio III conferma con bolla al vescovo di Belluno Gerardo de Taccoli tutti i suoi possedimenti, “cum villis et arimaniis”). I nobili possidenti bellunesi, infatti, avrebbero potuto decidere soltanto in ordine a casi particolari di diritto privato e quindi concedere la libertà limitatamente a taluni dei loro servi personali. Il caso di Cirvoi riguardava l’intera comunità residente e dunque era di tutt’altra portata e poteva essere risolto solo dalla massima autorità presente nel territorio, ossia il vescovo-conte. *** 4 Federigo Cavessago, quel patriota bellunese che combatté con Garibaldi Quella di Federigo Cavessago, è la storia poco nota di un patriota bellunese che spese i suoi anni migliori per un ideale di patria e libertà. Nato a Belluno nel 1838 da una famiglia modesta, inizia a lavorare come apprendista nella tipografia di uno zio. Nel 1859 si arruola nel 21mo Reggimento “Brigata Vittorio Emanuele” per combattere l’Austria nella II Guerra d’Indipendenza. Poi è inquadrato nel 39mo Reggimento fanteria, con il quale partecipa alle Campagne del 1859-60-61. Nel 1861 è nell’Ascolano, con i reparti inviati a reprimere il brigantaggio. Nel corso della battaglia di Mozzano, dove la Sesta compagnia viene quasi accerchiata e cade il capitano Zanettelli, Cavessago viene ferito e fatto prigioniero dai briganti. Insieme a lui vengono catturati anche i suoi amici bellunesi Gaetano Ferigo e Ferdinando Massenz. Riescono tutti a sfuggire alla fucilazione, perché dopo 20 giorni di prigionia vengono liberati dall’intervento delle truppe regolari dell’Esercito a San Martino degli Abruzzi. Cavessago rientra nelle fila del suo reggimento e riprende a combattere il brigantaggio nelle zone di Civitella del Tronto e nella Valle Castellana. Verso la fine del 1861 si congeda e riprende la professione di tipografo a Bologna, quindi a Torino nella tipografia “Augusta” e poi a Firenze. Nel 1866, quando l’Italia riprende le armi per la liberazione del Veneto, si arruola nuovamente con il grado di sergente nel Sesto reggimento garibaldini e partecipa alla Campagna del Trentino, nei combattimenti di Condino, Cimego e Bezzecca, rimanendo ferito nel passaggio del Chiese. Dopodiché, con la Pace di Vienna ed il plebiscito con cui Napoleone III consegna il Veneto all’Italia, Federigo Cavessago ritorna a Belluno, sposa Rachele Massenz dalla quale avrà il figlio Luigi, ed apre la 5 prima edicola per la vendita di giornali. Subito dopo avvia anche una piccola tipografia artigianale, che negli anni cresce e si trasforma in uno degli stabilimenti principali del settore, grazie al suo spirito imprenditoriale e all’acquisizione di sempre nuove macchine. Il tipografo Cavessago ottiene vari riconoscimenti e premi alle esposizioni dove partecipa. Egli si distingue anche nella vita politica e sociale, diventando consigliere, assessore comunale, presidente della Camera di Commercio e delle Arti, consigliere della Banca mutua di Belluno e sindaco di Limana. Il 15 agosto del 1914 in occasione della cerimonia funebre, il cavalier Ferdinando Massenz pronuncerà le seguenti parole in memoria dell’amico e compagno d’arme scomparso: ”Nel 1859, in quattro amici, lasciammo le case paterne, per correre là, dove la Patria chiamava e nel non breve tragitto fummo raggiunti da altri bellunesi, così da formare un drappello, e giubilanti raggiungemmo la meta”. Le cronache dell’epoca ricordano che “la salma del compianto Federigo Cavessago, cavaliere al merito del lavoro morto dopo lunga e penosa malattia all’età di 76 anni, venne posta sul carro di secondo ordine. Sopra alla bara c’era la camicia rossa e le decorazioni. Ed il corteo seguì il percorso di via Carrera, piazza Campitello, piazza Santo Stefano nella quale chiesa ebbero luogo gli uffici funebri”. *** 6 Gaetano Ferigo, industriale bellunese che nell'800 combatté per l'Italia Vissuti a cavallo tra l’800 ed il ‘900, Gaetano Ferigo, Federigo Cavessago e Ferdinando Massenz sono tre patrioti bellunesi che insieme riuscirono ad evadere dalle carceri di Belluno, quando la città era sotto il dominio austriaco. Un episodio che i tre festeggiarono ogni anno con una cena insieme in una locanda del centro. Iniziamo con la storia di Gaetano Ferigo. Nato a Belluno nel 1837, trascorre la sua giovinezza nel rumore delle rivoluzioni e delle battaglie, assimilando gli ideali di Patria e Libertà. E’ tra i primi che nel 1859 corrono a cacciare gli austriaci dalla Lombardia e dal Veneto nella II Guerra d’indipendenza. Arrestato è tradotto di carcere in carcere fino a quello di Belluno, da dove riesce ad evadere con i due amici. Raggiunge quindi Bologna, pronto nuovamente a combattere per la Patria. Ma l’11 luglio del 1859 sopraggiunge l’armistizio di Villafranca tra i due imperatori Napoleone III e Francesco Giuseppe, che lascia delusi i patrioti. Ferigo nel frattempo si arruola nell’Esercito italiano e prende parte nel 1859 agli avamposti contro i papalini e sul Po fronteggia il ritorno delle truppe del Duca di Modena. Inquadrato nel 39mo Reggimento, partecipa alla Campagna delle Marche e dell’Umbria del 1860-61, dando prova di coraggio e guadagnandosi una medaglia nella presa di Ancona. Nel gennaio del 1861 è impegnato nell’azione di repressione del brigantaggio ad Ascoli e nel combattimento di Mozzano è fatto 7 prigioniero insieme a Federico Cavessago e Ferdinando Massenz. Dopo 20 giorni di prigionia sfuggono alla fucilazione grazie all’intervento delle truppe regolari dell’Esercito a San Martino degli Abruzzi. Compiuta la ferma militare, però, Gaetano Ferigo non può far ritorno a Belluno perché la città è ancora dominata dagli Asburgo ed egli è ancora ricercato come evaso. Rimane dunque a Piacenza, guadagnandosi da vivere come falegname. Qui conosce e sposa Ersilia Vandelli. E dopo il 1866, con la Pace di Vienna ed il plebiscito con cui Napoleone III consegna il Veneto all’Italia, Ferigo può finalmente ritornare a Belluno con la famiglia, proseguendo nella sua attività di falegname. Nel 1873 apre a San Francesco un laboratorio per la lavorazione meccanica del legname ottenendo i primi riconoscimenti dalla Camera di Commercio di Belluno, poi dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti che gli assegna il III premio in una gara fra industrie del Veneto. Nel 1884 trasferisce l’opificio in locali più ampi presso il Ponte nuovo sull’Ardo, dove realizza su suo progetto un motore idraulico per la lavorazione del legno. Riesce ad abbinare la tecnologia moderna delle macchine all’arte. I suoi parchetti di legno sono apprezzati ovunque per l’originalità dei disegni, l’armonica disposizione dei colori e la buona solidità di costruzione. All’Esposizione di Belluno del 1895 gli viene assegnata la medaglia di bronzo. Premio che il Ferigo rifiuta, ritenendolo insufficiente alle sue aspettative. Non aveva torto. Infatti, all’esposizione di Torino del 1898, il suo grande armadio da sala è giudicato un capolavoro. Nel 1904, all’Esposizione di 8 Perugia, vince il Gran premio e la medaglia d’oro. E l’anno seguente, all’Esposizione regionale delle Marche, tenutasi a Macerata, i suoi parchetti ottengono la medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura industriale e del Commercio, ossia la più alta onorificenza nel settore dell’epoca. Suo il portone in legno di Palazzo Rosso. Alla sua morte, avvenuta all’età di 72 anni, 300 famiglie bellunesi gli dedicarono il seguente epitaffio: “Cuore di patriota fervente, giovanetto ancora, varcò il Po quando era delitto varcarlo, combatté da prode fra i volontari nel 1859, nella Milizia regolare nel 1860-61, contro i nemici esterni ed interni d’Italia, soffrendo privazioni e carcere per la Patria diletta”. *** 9 Pier Fortunato Calvi, eroe del Cadore, tradito da una donna affascinante Nella storia recente dello spionaggio e nella filmografia, la donna che carpisce i segreti all’uomo nell’alcova, è un ingrediente collaudato. Qualcosa del genere è davvero successo durante il Risorgimento, nella vicenda di Pier Fortunato Calvi, patriota caduto nelle mani degli austriaci, di cui ricorrono i 150 anni dalla morte. Nell’arresto di Calvi, infatti, c’è di mezzo una donna affascinante e determinata. Si chiama Felicita Bonvecchiato, ama la bella vita e il lusso, non ha molti scrupoli e pare sia dotata di quelle qualità formidabili che fanno impazzire gli uomini sotto le lenzuola. Almeno questo si capisce leggendo la descrizione che di lei fa un certo Celestino Bianchi, che così la ritrae in un libro del 1863: “E’ di portamento distinto, alta di persona, bella di una bellezza regolare, maestosa, affascinante, una voluttuosa, mobile, perversa di una perversità, di una nequizia che non hanno nome, ambiziosa all’ultimo grado, sitibonda d’ogni sorta di piacere, anche i più inverecondi, vana all’estremo, orgogliosa, superba, amante del fasto e della pompa”. La Bonvecchiato è moglie dell’avvocato Breda di Burano, che lascia per seguire Demetrio Mircovich, un ricco medico dalmata naturalizzato veneziano, ardente patriota distintosi nell’assedio di Venezia e presidente del Comitato distrettuale di Mirano. A seguito della sua attività patriottica, egli finisce nella lista di proscrizione austriaca e vede sfumare sensibilmente le sue ricchezze per il conseguente sequestro dei beni che possiede nel Veneto. Fugge quindi a Torino insieme alla bellissima Felicita, sua amante e convivente, e la sua casa diventa il luogo di ritrovo degli esuli veneti, tra i quali c’è anche il prete bellunese don Sebastiano Barozzi. Qui, Felicita gode della totale fiducia dei patrioti per i quali diventa 10 un efficiente corriere di collegamento che porta comunicati e proclami tra i cospiratori piemontesi e veneti. Conosce così i disegni dell’insurrezione nelle vallate alpine che Mazzini ha preparato dalla Svizzera nel luglio del 1853 ed arrivati al Calvi tramite il conte bellunese Carlo Rudio (quello che partecipa all’attentato del 14 gennaio 1858 contro Napoleone III con Felice Orsini e poi sopravvive alla battaglia di Little Bighorn del 25 luglio 1876 dove gli indiani Sioux e Cheyenne sconfiggono il 7mo Reggimento cavalleggeri ed uccidono il suo comandante, il generale Custer). E non è difficile intuire che, sfumate le ricchezze del suo amato Demetrio, la bellissima Felicita Bonvecchiato decida di fare il doppio gioco a favore degli austriaci, per intascare la taglia di diecimila fiorini che pende sulla testa di Pier Fortunato Calvi a seguito della resistenza organizzata contro l’Austria in Cadore. Del resto, è lo stesso Calvi che ai primi di aprile del 1855, in occasione dell’ultimo incontro con la madre e la sorella riesce a passare a quest’ultima tre fogli di memorie difensive dove indica “la Mircovich” - così chiama Felicita Bonvecchiato che egli conosce fin da ragazzo - come traditrice, responsabile del suo arresto e di quello degli altri patrioti. Tutte circostanze confermate anche da Ulisse Salis che nelle sue “Memorie” racconta il ruolo avuto dalla Bonvecchiato, quale suggeritrice della polizia valtellinese. L’arresto di Pier Fortunato Calvi, insomma, in un’osteria di Cogolo a Val di Sole nel settembre del 1853, diventa un gioco da ragazzi per i gendarmi, che conoscono gli spostamenti nei minimi particolari, oltre ai nomi scritti nei passaporti falsi dietro ai quali si nascondono gli insorti. La Bonvecchiato firmerà addirittura una deposizione e sosterrà un confronto nel castello di Mantova con i compagni di Calvi: Morati, Chinelli, Marin, Fontana e don Barozzi. Ma inspiegabilmente non venne posta a confronto con lo stesso Calvi, per motivi definiti “innominabili” dal Marin. La storia si conclude con la morte in circostanze misteriose di Felicita Bonvecchiato, avvenuta il 14 febbraio 1854 a Venezia, stroncata da un morbo misterioso. O più semplicemente avvelenata dai mazziniani, oppure dagli stessi austriaci, per i quali oramai era diventata una spia inutile, troppo appariscente ed ingombrante. L’anno dopo tocca a Pier Fortunato Calvi, che dopo esser stato rinchiuso nel Castello di San Giorgio a Mantova per un paio d’anni, finisce i suoi giorni il 4 luglio 1855 sul patibolo, dopo che il Tribunale 11 Marziale conferma la sua condanna a morte. Pier Fortunato Calvi Nato a Briana di Noale, il 15 Febbraio 1817, frequenta il ginnasio a Padova (attuale Liceo "Tito Livio") e poi l’Accademia Militare di Neustadt, in Austria. A vent’anni è alfiere e subito dopo tenente nel XIII Reggimento fanteria Wumpfen. Dà le dimissioni dall'esercito austriaco quando è capitano, e abbandona il suo reggimento a Gratz per diventare patriota. Daniele Manin lo invia con Luigi Coletti a difendere il Cadore, dove fin dal Febbraio 1848 fermantava lo spirito di rivolta. Qui organizza e dirige un'audace resistenza contro l'Austria, che rappresenta una delle pagine più belle del nostro Risorgimento. Quando cessa la resistenza in Cadore, Calvi fugge a Venezia ancora in lotta. Poi, quando cade anche la Repubblica di Venezia, egli ripara prima a Torino e poi in Svizzera. Nel 1853, tenta di tornare in Cadore per organizzare una nuova insurrezione, ma viene arrestato in Val di Sole e tradotto prigioniero nel Castello di San Giorgio di Mantova. Il Tribunale Marziale conferma la condanna a morte pronunciata contro di lui nel 1851 per aver organizzato un'insurrezione contro gli austriaci. Senza mendicare alcuna grazia, sale fiero al patibolo il 4 luglio 1855 a Mantova, e al boia che si era offerto di aiutarlo a salire i gradini dice: "Grazie, le mie gambe non tremano”. *** 12 Le straordinarie avventure del conte bellunese Carlo Rudio. Cadetto austriaco, bombarolo, evaso ed ufficiale del 7mo Reggimento cavalleria del generale Custer Il I° novembre 1910 moriva a San Francisco il conte bellunese Carlo Rudio le cui avventure sono raccontate da Cesare Marino nel libro di recente ristampa dal titolo “Dal Piave a Little Bighorn”. Settantaquattro anni prima di Angelo Sbardellotto, il giovane anarchico di Villa di Villa (Mel) fucilato nel 1932 per aver progettato di uccidere Mussolini, Carlo Rudio fece parlare più volte di sé. Il suo nome, infatti, era tra quelli che presero parte al fallito attentato contro l’imperatore Napoleone III a Parigi, colpevole secondo Felice Orsini, Antonio Gomez e Carlo Rudio, di aver abbattuto la repubblica romana del 1849. Alle 8 e mezza di sera del 14 gennaio 1858 in rue Lepelletier, la carrozza che portava all’Opèra Napoleone III e la moglie Eugenia viene colpita da tre bombe. L’esplosione provoca 8 morti e 156 feriti tra cui 11 ragazzi e 21 donne. Napoleone III° se la cava con una leggera ferita alla guancia destra, tant’è che può assistere con la moglie allo spettacolo teatrale: il Guglielmo Tell di Rossini, la Muta di Portici di Auber e la Maria Stuarda di Alfieri interpretato dell’ attrice italiana Adelaide Ristori, e un balletto intitolato L'assassinio di Gustavo re di Svezia. Orsini, Gomez e Rudio vengono subito arrestati dalla polizia. Un quarto uomo, Giuseppe Andrea Pieri era già stato arrestato prima dell’attentato. A differenza dell’anarchico di Mel, però, Rudio riuscirà sempre a cavarsela, in un crescendo straordinario di eventi degni del migliore film d’azione. Evita la ghigliottina, sopravvive ad una letale epidemia di febbre gialla quand’era rinchiuso nelle carceri francesi della Cajenna, da dove riesce ad evadere. Poi si arruola nell’esercito americano e 13 riuscirà a salvare la pelle nella celebre battaglia di Little Bighorn, dove i Sioux ed i Cheyenne massacrarono il 7mo Reggimento cavalleggeri del generale Custer. Nel novembre del 1910 muore, serenamente nel suo letto a San Francisco, all’età di 78 anni. Di lui, si è occupata varie volte la stampa internazionale dell’epoca. Il quotidiano italo americano “L’eco d’Italia”, ad esempio, in un editoriale del 1881 scrive sarcasticamente: “se il conte Carlo Camillo di Rudio fosse stato uno yankee d’origine anglosassone anziché italiana, avrebbe certamente ottenuto i galloni da generale”! Il nobile bellunese, infatti, arruolatosi nel leggendario Settimo Cavalleggeri del generale Custer (lo stesso reggimento che nell’aprile 2003 ha guidato le avanguardie della Terza divisione dei marines nella liberazione dell’Iraq da Saddam), era già in pensione da 8 anni a Los Angeles con l’amata moglie Eliza Booth, quando riceve la promozione al grado di maggiore. Carlo Rudio, secondogenito di una famiglia nobile bellunese, nasce il 26 agosto 1832 a Belluno e trascorre l’infanzia e i mesi estivi della giovinezza nella villa di famiglia a Sala di Cusighe (nella foto la facciata principale della villa), nell'immediata periferia di Belluno. E’ qui che ascolta i primi sermoni velati di patriottismo di don Sebastiano Barozzi, prete del paese. A 13 anni Rudio è ammesso all’Imperial-regio collegio militare di San Luca a Milano, con il fratello maggiore Achille. Il giovane Carlo è testimone più volte di episodi di violenza dei soldati austriaci sulla popolazione civile. Durante le Cinque giornate di Milano (18- 22 marzo 1848) vede uccidere a sangue freddo una giovane donna incinta dai soldati croati del feldmaresciallo Radetzky. La stessa cosa succede a Castelnuovo, dove una giovane ragazza viene uccisa senza ragione da un soldato austro-ungarico. Rudio questa volta reagisce ed ammazza il soldato. Si schiera, insomma, con l’Italia oppressa. Rifiuta di raffermarsi nell’esercito di Radetzky e passa nella Legione dei cacciatori delle Alpi, comandata da Pier Fortunato Calvi. Nell’aprile del 1849 combatte insieme a Garibaldi nella vittoriosa battaglia di Roma, contro il generale Oudinot. Poi a Velletri è inquadrato nella Compagnia dei ragazzi che sorprende sul fianco i Borbonici costringendoli alla ritirata. Seguono gli anni delle cospirazioni, con gli arresti, le fughe e l’esilio dell’inafferrabile Moretto, come oramai era stato soprannominato. A Parigi, nel corso del processo a carico di Felice Orsini e Antonio Gomez, protagonisti del fallito attentato a Napoleone III del 14 gennaio 1858, viene 14