TRENT`ANNI
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TRENT`ANNI
94 una speciale pubblicazione AVOID MISSING BALL: TRENT’ANNI DELLA NOSTRA VITA Marco Cerigioni, autore del libro sulla storia dei videogiochi realizzato su iniziativa della Sapar, ne illustra le motivazioni e i contenuti, per poi ripercorrere la sua storia personale di giocatore e appassionato, che comincia proprio con l’arrivo dei primi Tennis Tv. Aneddoti di vita vissuta, che danno l’idea dell’importanza che il videogame ha assunto nella vita dei giovani degli anni ‘70 e ‘80 Marco Cerigioni A void Missing Ball nasce con un proposito piuttosto ambizioso: quello di ricostruire – come sinora nessuno ha fatto – la storia dei coin-op videogames, rivalutando, nel contempo, il ruolo dell’industria italiana, a cui nemmeno gli storiografi nazionali hanno mai dedicato la pur minima attenzione. Riuscire a tanto non era facile, per tanti motivi che qui è inutile sviscerare. Ma l’importante era costruire una traccia, trovare un filo conduttore, rimettere insieme almeno una parte dei frammenti sparsi nelle riviste, nelle memorie individuali, nelle fotografie e nei documenti su cui era possibile mettere mano, senza avere la pretesa di raccontare tutto, ma perlomeno con la certezza che il poco materiale raccolto gode di tutti i riscontri del caso. Raccontare i retroscena di questo libro è come narrare un’avventura ai limiti della follia, per i tempi e i modi in cui è stata realizzata. Ma è stata davvero una bella sfida, che ho voluto accettare perché era da anni che avevo in mente di produrre un’opera del genere. Dico la verità, un buon 30% del materiale lo avevo già raccolto ritagliando le pagine delle riviste internazionali e setacciando internet, che di anno in anno è diventato fonte sempre più ricca di informazioni. Poi avevo del mio, perché i trent’anni di storia dei videogames sono anche trent’anni di storia della mia vita. Della mia come di tutta quella generazione di adolescenti - oggi quarantenni o poco più - cresciuta ai margini di una società ribel- 95 le e conflittuale come quella degli anni ‘70. L’inizio della storia fu Tennis Tv, gioco che, personalmente, non mi entusiasmava più di tanto, anche perchè non era facile (per tutti) familiarizzare con quella manopola rotonda, i cui movimenti non erano perfettamente sincronizzati con quelli del paddle sullo schermo, tanto che, quando l’azione prendeva velocità e la “pallina” cominciava a schizzare sui bordi con traiettorie imprevedibili, solamente i “fenomeni” riuscivano a tenerla in gioco per qualche secondo in più. E le cose non andarono meglio quando sulla scena comparve Breakout, il mitico “muretto” che, anzi, era ancora più difficile, soprattutto quando la pallina, aperto un varco, finiva nella parte superiore a martellare i mattoncini più alti, per poi schizzar via a velocità supersonica. Eppure quei giochi esercitavano uno strano magnetismo su tutti noi, giovani di allora, anche se destinati a repentina sconfitta. Il motivo? Forse la mancanza di valide alternative per l’impiego del tempo libero. All’epoca la Tv offriva pochissimo, i personal computer erano ancora un sogno e le prime console erano merce rarissima. E lo sport non faceva ancora parte della no- stra cultura, o meglio, la nostra cultura dello sport era limitata al giocare a pallone sotto casa, nei ritagli di strada più impensati, all’oratorio o, al limite, qualche rara volta, al parco. Insomma, una volta superata l’età del Lego, del Meccano, dei soldatini e delle figurine, per giocare non rimanevano altro che il Subbuteo, i giochi da tavolo e i videogames. Ma per fare una partita a Subbuteo a Risiko o a Monopoly erano necessarie tante condizioni: avere la disponibilità di almeno quattro amici, trovare una mamma disposta a sopportarci e, soprattutto, avere un pomeriggio intero a disposizione, cosa che poteva capitare solo di sabato. All’epoca eravamo davvero tanti, noi figli del miracolo economico degli anni ‘60, e certe scuole funzionavano addirittura coi tripli turni, mattino, pomeriggio, tarda serata (si usciva alle 23!): sincronizzare gli incontri, si capirà, era davvero difficile. Poi, finita la scuola, tutti alla caccia del lavoretto estivo: di soldi ne giravano pochi e solo i più fortunati potevano concedersi la vacanza lunga. I videogames hanno accompagnato la nostra vita di adolescenti e di ragazzi, creando una sorta di vita parallela a quella reale. Difficile, se non impossibile, trovare dei punti di contatto fra il mondo che vedevamo coi nostri occhi e quello che ci appariva sui monitor, appena inserite le 100 lire nella gettoniera. Era come entrare in un’impenetrabile campana di vetro per poi liberarsi dai vincoli dello spazio e del tempo, viaggiando ad alta velocità su strade piene di pericoli, attraversando lo spazio infinito per combattere creature e corpi di vario tipo, affrontando apocalittiche battaglie di terra o ancora divenendo protagonisti di match sportivi tirati all’ultimo punto. Grazie a Space Invaders, ad Asteroids e a Carnival siamo diventati “videogiocatori” a tutti gli effetti. E da allora la nostra abilità con joystick e pulsanti si è affinata sempre più, qualunque fosse il tipo di gioco che ci venisse proposto. Oggi poteva essere una guerra spaziale, domani una battaglia aerea, dopodomani una corsa automobilistica. Tutto dipendeva dal volere del padrone del bar, o almeno così pensavamo, ignorando l’esistenza di un “noleggiatore”. Certo, il distacco dai giochi che ho appena menzio- 96 AVOID MISSING BALL: TRENT’ANNI DELLA NOSTRA VITA nato fu di quelli drammatici. Quando ci levarono Space Invaders “emigrammo” in massa verso un altro bar, più lontano, che ancora lo aveva. Ma non era la stessa cosa. Al nostro bar non potevamo rinunciare eppoi, alla fine, scoprivamo che il nuovo gioco era sempre più bello del precedente. All’epoca si andava anche alla sala giochi, o meglio, al circolo. Ambienti per la gran parte oscuri, maleodoranti, dove i videogiochi facevano da contorno ai tavoli da biliardo e, insieme ad essi, facevano da copertura a chi giocava a carte, nascosto dietro improvvisati separee. Anche quello, se vogliamo, era uno spaccato di vita irreale, perchè caratterizzato da una strana eppur pacifica convivenza fra gaglioffi di vario tipo, vecchiacci con la sigaretta perennemente penzolante tra le labbra, giovanotti un po’ “ganzi” ma tutto sommato innocui e noi, le nuove leve. Ovvio, qualche volta si pagava dazio. Comunque, la regola aurea era “se ti fai gli affari tuoi campi cent’anni”. Rispettata quella, potevi stare abbastanza tranquillo. Nei circoli non ho mai assistito ad incursioni di polizia e carabinieri - nemmeno quando apparvero i videopoker - come invece ho visto fare nelle prime “vere” sale giochi. Nei primi anni ‘80, come tutti ricorderete, un po’ in tutta Italia si scatenò la guerra sui limiti di età e sugli orari d’apertura, col preciso obiettivo di reprimere un fenomeno che stava crescendo troppo velocemente, coltivando un pericoloso anarchismo. E sì perché, sebbene nessuno lo abbia mai scritto o detto apertamente, quella del videogame è una terra senza bandiera, senza schieramenti politici, senza lotte di classe, senza conflitti di fede. E’ terra di tutti e di nessuno; terra libera ed infinita. Il videogame è straordinariamente democratico, perché fa partire tutti ad armi pari, ed ha solo una legge: rimanere in “vita” più a lungo possibile. Col passare degli anni nulla è cambiato, anche se la tecnologia ha fatto passi da gigante e i progettisti si sono dilettati sempre più nell’inventare “mosse segrete”, che hanno un po’ rotto la “democrazia” di partenza, in quanto alcuni riuscivano a saperle, molti altri no. Ma, insomma, il bello era anche questo, conquistare il videogioco quadro per quadro, livello per livello, con le proprie esclusive forze. Quei ragazzini cresciuti a “pane e Nintendo” E l’entusiasmo era via via alimentato da videogames sempre più affascinanti nelle trame, nelle opzioni e nella grafica. Ricordo lo stupore di tutti di fronte a Dragon’s Lair, alle prime guide “sedute”, ai primi simulatori cabinati, ma anche al cospetto della costante quanto rapida evoluzione di giochi classici come quelli del calcio o del genere adventure. La nostra generazione la prima generazione di videogiocatori - terminò, praticamente, con Tetris. Roba come Street Fighters e Mortal Kombat non siamo mai riusciti a capirla, pur guardando con ammirazione quei ragazzini che col mento arrivavano al massimo alla plancia, i quali, una volta saliti sulla sedia, diventavano dei giganti imbattibili. Forse noi non ce l’avrem- mo mai fatta, alla loro età, a giocare con un apparecchio con sei pulsanti più il joystick. Ed anche questo è un segno dell’evoluzione dei tempi. Le nuove leve – i ragazzini degli anni ’80 - erano già dei piccoli mostri che il software lo vivisezionano con gli occhi e poi lo neutralizzano scoprendone tutti i segreti ed i limiti. Il merito, dobbiamo dirlo, è stato anche dei diabolici Commodore 64 ed Amiga: con la scusa di portare l’informatica nelle case, questi “computerini” divennero la palestra per la nuova generazione di videogiocatori, la cui destinazione finale, però, non poteva che essere il coin op, in quanto i sistemi home di allora erano nettamente inferiori sotto tutti i punti di vista. Quei terribili marmocchi diventarono il nostro vero incubo! Arrivavano loro al bar e capivi che il divertimento era finito. Ci pressavano ai fianchi e non smettevano mai di parlare, per criticarci su come stavamo giocando e per darci delle “dritte” che risultavano essere sempre, maledettamente giuste. Poi, una volta che ci avevano scalzati, restavano inchiodati al video per delle mezzore. E noi lì a schiumare rabbia, aspettando il nostro turno in silenzio, perchè ogni parola storta poteva essere carpita dal padre del ragazzino stesso, che nel frattempo se ne stava a chiacchierare con gli amici. Anche quei ragazzini sono diventati grandi, lasciando a loro volta il posto ad altri ragazzini ancor più “mostruosi”, che hanno avuto la fortuna di crescere a “pane e Nintendo”. Ma, con loro - siamo già negli anni ‘90 - è finita anche la grande epopea dei coin-op. Il fenomeno videogame ormai da anni si è trasferito nelle mura di casa, sulle console, sui Pc, su internet ed ora pure sui cellulari, lasciando alle sale giochi solo le briciole. Non credo ci sia bisogno di psicologi e sociologi per spiegarne il perchè. E’ un fatto di mode e di opportunità. Alle grandi case produttrici sono state mosse tante critiche: mancanza di innovazione; incapacità di incontrare i gusti dell’utenza; competizione spietata; scelte commerciali sbagliate. Una parte di verità c’è, ma il nocciolo del problema è un altro: nel momento in cui il gioco da casa ha colmato il gap tecnologico che lo divideva dai coin-op, questi ultimi hanno perso il loro appeal, la loro esclusività, la loro dominanza nella nostra vita. Playstation, la “tata” virtuale La PlayStation ha fatto tabula rasa, anche perchè teneva (e tiene) i bambini inchiodati dentro casa, per buona pace dei genitori, che in quella console hanno scoperto una sorta di “tata” virtuale. Figuriamoci poi le console di terza generazione, PS2 e company, connesse persino ad internet e perciò in grado di creare una vera e propria comunità internazionale di videogiocatori. Racconto tutto questo con un profondo senso di nostalgia, perché in fondo i nostri anni eroici sono stati i migliori. Scrivere “Avoid Missing Ball” è stato anche un modo per esprimere la mia riconoscenza nei confronti di chi, importando o costruendo videogiochi, mi ha regalato tante ore di svago e di emozioni. Forse non ho reso giustizia a tutti, come meritavano. Ma ci sarà modo e tempo per completarla, quest’opera, perché la storia dei videogames è tutt’altro che finita. E ci sarà sempre bisogno di un qualcuno che abbia voglia di aggiornarla.