La voce del cuore. Lettere di Raffaella Cerase a padre Pio da
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La voce del cuore. Lettere di Raffaella Cerase a padre Pio da
La voce del cuore. Lettere di Raffaella Cerase a padre Pio da Pietrelcina (1914-15) di Elisabetta Ciancio Esperienze di vita Nella storia di Raffaella Cerase, nobildonna foggiana vissuta tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, un evento sembra determinante per la sua condizione di donna nubile: la morte del padre nel 1904, il «santo vecchio» che fino all’età di ottantaquattro anni aveva lavorato per i figli (11.6.1914) - e che fa seguito a quella dei suoi tre fratelli prima del 1892, della madre nel gennaio 1889 e della sorella Anna nel 1902 - è un evento carico di tensioni e significato perché sfocia in una frattura affettiva nonché economica della vita privata di Raffaella. Sorgono disaccordi per motivi di interesse con il fratello Matteo e altri familiari che la costringono ad abitare per sette anni, dal 1907 al 1914, in «esilio», come lei stessa afferma, in una casa presa in fitto con la sorella Giovina a cui resterà sempre molto legata. Il problema della casa, ovvero la mancanza della rassicurante e organizzata abitazione paterna, è fortemente avvertito come un bisogno necessario alla serenità delle due sorelle: «Da sette anni ci troviamo in casa di affitto [ ... ] Da sei anni andiamo in cerca di una casa più conveniente della presente [ ... ] Dove Gesù ci manderà? [ ... ] Tutto è buio: dubbi, incertezze, timori senza fine» (8.4.1914). E’ un’esigenza che si affaccia prepotente nelle lettere a delineare una situazione di disagio materiale che è anche disagio affettivo. Raffaella vede attorno a sé solo miserie e tristezze e il suo lutto non riesce a trovare pace. La figura paterna nella società di fine Ottocento è infatti dominante e rappresentativa della famiglia e della società politica: il padre governa la casa, amministra e decide della sorte dei figli, sia per quel che riguarda la loro educazione che per quanto concerne i matrimoni; dispone incontrastabilmente dei beni e prende le decisioni in merito all’eredità. Alla morte del padre le due sorelle avrebbero dovuto ricevere l’eredità promessa e Raffaella, 303 ormai in età matura, avrebbe potuto usufruire di una sicurezza economica e sociale che avrebbe dato stabilità a una donna nubile. La riconquista successiva della casa paterna rappresenta infatti un recupero, sostiene la stessa Raffaella, dei «confini» che forzatamente lei e Giovina erano state costrette ad abbandonare, un rientrare in una dimensione di vita che nella memoria è rimasta immutata nella sua specificità - «un continuo cinematografo passa dinanzi la mia mente: in tutti gli angoli vedo i miei cari morti» (8.10.1914) -, e al contempo simboleggia un rimpossessarsi dei benefici affetti dei cari: «proteggeranno dall’alto le due infelici superstiti sole, senza difesa, bersaglio continuo di guerre accanite, rancori sordi, maligne insinuazioni» (13.5.1914). L’unico saldo legame con la famiglia d’origine sarà quindi rappresentato dal rapporto con la sorella Giovina con cui condivide la quotidianità dei bisogni e le comuni tribolazioni della coscienza e della malattia: «non sono sola [ ... ] La mia vita è legata ad un essere carissimo, la seconda mamma mia, unico filo che mi annoda alla terra» (24.3.1914). Raffaella la definisce «seconda mamma» ma nei suoi confronti mostra una profonda apprensione sia per le sorti dell’anima che per la malattia e più che filiale il suo sembra essere l’atteggiamento tipico delle figlie maggiori che al momento della scomparsa dei genitori si sentono in dovere di assumere compiti domestici presso i fratelli minori. «Mia sorella si accosta alla santa messa due o tre volte l’anno» (20.4.1914), dice di lei, ma sarà pronta a difenderla dalla «indifferenza» di cui padre Pio l’accusa (P 25.4.1914) addossando su se stessa la colpa della sua condotta morale come pure del «solito male (gastralgia allo stomaco prodotta da continui dispiaceri)» (13.5.1914) che la tormenta costantemente: dalla infelice giovinezza (le muore il fidanzato) Giovina resta «coll’avvenire spezzato, la vita vuota, sempre insoddisfatta, anelante sempre pace ed affetti domestici» (8.7.1914), fa vita «claustrale» non per libera scelta, e se non riesce a diventare «fervida cristiana», afferma Raffaella, è sua la responsabilità, perché lei non è riuscita a darle l’aiuto necessario, il consiglio giusto al momento opportuno, «le sante insinuazioni, il buon esempio» (13.5.1914). La rivalità sorta con il fratello Matteo responsabile insieme alla moglie di avere determinato una «burrasca orrenda» (20.4.1914) al momento della divisione dell’eredità paterna è l’altra relazione che Raffaella conserva con la famiglia. Anche questo rapporto, che avrebbe potuto essere il necessario referente affettivo dopo la perdita del padre, piuttosto che funzionare come rassicurante modello maschile diventa motivo di ulteriore smarrimento e di angoscia morale. «Da tre anni ci negano perfino 304 il saluto», dice di suo fratello e della cognata, e aggiunge: «quanto ne soffro... Ho tentato la conciliazione, inutile» (8.4.1914). «Nostro fratello non vuole affatto riconoscere i suoi doveri e noi costrette fra l’uscio e il muro, dibattendoci fra dissidi e agitazioni, non sappiamo proprio a quale partito appigliarci per la gloria di Dio e il bene e la pace dell’anima» (20.4.1914). «Pregate per mio fratello; è furibondo con noi, sua moglie, più di lui; quando finirà tutto fra noi? quando sarà la sospirata pace?» (13.5.1914). I «vincoli più sacri» sono stati accantonati dall’interesse, dalla prepotenza e dall’ingiustizia: «minacce, calunnie, insulti, giudizi, condanne» determinano in Raffaella una inquietudine profonda. «Siamo affogate», confida riferendosi anche a Giovina, il dissidio l’ha condotta alla rabbia di chi è offesa nella dignità e quindi al materialismo del contingente da cui lei invece si sforza di sfuggire: «Mi sento esquilibrata di spirito e di corpo; il cervello è sempre in moto; il cuore freme di passioni brutte e contrarie alla carità cristiana» (11.6.1914). Dopo la ritrovata pace tra i fratelli Raffaella parlerà sempre di Matteo con un mal celato rancore (8.10.1914) e probabilmente solo l’orgoglio del suo ruolo di amorevole sorella la spingerà a raccomandarlo ancora alle preghiere di padre Pio, a cercare per lui il perdono dei suoi peccati, a pregare per preservarlo dai mali del mondo. Tuttavia mai lo vedrà con un semplice e spontaneo sentimento fraterno di condivisione dei propri problemi. Attorno a questa prima cerchia di relazioni, gli altri parenti che entrano nei rapporti relazionali di Raffaella sono rappresentati dai sei cugini «tutti vecchi, sbalzati da una posizione all’altra» (20.4.1914) e in particolare dalla nipote, dalla sventurata storia del marito suicida verso cui Raffaella sente, fra i tanti nipoti e pronipoti, «una particolare debolezza» (27.5.1914) e poi, al di là della parentela, dall’amica spirituale Rosa, accanto a lei e in casa sua come domestica da venticinque anni, e da una seconda sua amica spirituale, Francesca, entrambe piene di preoccupazioni e dispiaceri (20.4.1914) con cui condivide i segreti della sua intimità (31.7.1915). In questo universo, in cui famiglia e amicizia si intrecciano nella formazione della personalità di Raffaella, fa da sfondo un «paese dilaniato da guerre e partiti, servilismo, indifferentismo, scetticismo» e più da vicino, «la siccità terrorizzante delle nostre campagne» della madre ha già creato una prima piaga nel suo intimo. Fino a quel momento (20.4.1914). La «conversione» di Raffaella si annuncia a ventun anni, nel 1889, quando la sua condizione di nubile si è già pienamente delineata e la perdita lei stessa dichiara di essere stata lontana dalla fede, ossia da una pratica costante e quotidiana degli esercizi. Vive infatti l’adole- 305 scenza nella casa paterna dopo essere stata fino all’età di sette anni presso le suore carmelitane di Lucera, in cui una sua zia era morta in concetto di santità, un esempio che lascia una forte impronta nel suo carattere (22.7.1914). Trascorre lungo tempo fra libri «dallo stile moderno e dalla forma spigliata», «appassionatissima» dei libri «profani», di «romanzi», come poi lo sarà di periodici e bollettini cattolici, delle vite di sante come Gemma Galgani, Caterina Volpicelli, Teresa d’Avila e, un po’ meno, con suo rammarico, del Vangelo, libro che considera «antico», se non altro perché letto sin dall’infanzia (22.7.1914). Verso la fine del 1914 tramite padre Agostino di San Marco in Lamis Raffaella inizia la corrispondenza epistolare con padre Pio. Nel gennaio del 1915 dopo vari tentativi ristabilisce la pace in famiglia, attribuendo il felice evento alle preghiere del suo direttore spirituale. Si iscrive al Terz’Ordine francescano e milita con Giovina nelle fila dell’Azione Cattolica femminile, ma non è soddisfatta della sua partecipazione che ritiene passiva e infruttuosa (23.6.1915). Entrambe malate, intraprendono molti viaggi: nel giugno del 1914 trovandosi ospiti a Savona in una pensione di suore, pensano di raggiungere Lourdes, ma lo scoppio della guerra le riporta a Foggia, dove nel marzo del 1915 ottengono il permesso di impiantare un oratorio privato. Trascorrono le vacanze nell’isola di Ischia, a Casamicciola, dove Raffaella nell’estate del ’15 avverte i primi sintomi di un grave tumore. Solo il 17 febbraio del 1916 ha modo di conoscere padre Pio, giunto a Foggia per trasferirsi nel convento di Sant’Anna. A lungo aveva desiderato l’incontro e aveva cercato invano, insieme a padre Agostino, di condurlo a Foggia. Il 25 marzo dello stesso anno muore assistita da lui. Il «triste cosaccio» Nel XIX secolo il nubilato è una condizione che viene accettata o subita dalle donne, qualche volta scelta a favore di una vocazione e, per tutto il secolo, ma anche nella prima parte del successivo, deriva da strategie matrimoniali di distribuzione del patrimonio. Non ci è dato sapere se la solitudine di Raffaella sia stata vissuta come libera scelta o imposizione, ma possiamo concordare sul fatto che la sua vita quotidiana, come quella di molte nubili a lei contemporanee, doveva essere difficile. Ci vorrà ancora del tempo perché la solitudine femminile venga riconosciuta dalla società come un diritto dell’individuo. Nelle sue parole spes- 306 so il riferimento sarà al buio, alla notte e alle tenebre come angoscia di una vita ormai trascorsa che preannuncia lotte e dispiaceri e che richiede un grande sforzo di volontà e di determinazione: «Ho un cruccio […] le tenebre mi fanno paura, mi opprimono» (27.5.1914). La fragilità di Raffaella si riversa tutta nella sua gravità nelle lettere a padre Pio. Oltre a esprimere il disagio di un ruolo sociale non ancora definito, la sua inquietudine la avvicina a quella spiritualità dualistica di impronta ottocentesca che separa antagonisticamente l’anima dal corpo e che giunge al XX secolo attraverso le congregazioni religiose, i collegi e gli ordini terziari. In questi ambienti viene codificato un modello di comportamento ascetico che raggiunge elevate punte di violenza nelle cruenti mortificazioni a cui i religiosi si sottopongono e che ha come referente l’iconografia di Cristo crocifisso, agonizzante e morente. A partire dalla seconda metà del XIX secolo l’esasperazione del messaggio cristiano, in virtù anche delle influenze del pensiero medico, tende a scomparire mantenendo il dogma della supremazia dell’anima sul corpo – l’anima, depositaria dei segreti dell’intimità, guida il corpo alla sua vocazione - e sostituendo il severo ascetismo con una serie di piccoli sacrifici e di rinuncia al proprio io, di cui la quotidiana pace claustrale femminile ne diventa esempio. Il fascino della vita conventuale come modello di santità è presente in Raffaella nella figura della zia suora come nelle sue letture. Quando è a Savona scrive a padre Pio dell’educandato presso cui è ospite come il porto di salvezza e di pace dell’anima verso cui lei anela ma che sente negato: «il silenzio delle cose, la quiete, la calma della natura si comunica al corpo e parla all’anima [ ... ] le vedo sempre queste anime che amano davvero e si sacrificano per Gesù [ ... ] tacitamente, severamente mi rimproverano la mia accidia, condannano la mia vita egoista, comoda, vuota, inutile» (8.7.1914). «Vivere collo spirito unito a Gesù [ . . ] col cuore staccato da tutti e da tutto i ... ] Perché [Gesù] ci fa vivere in continue occasioni di offenderlo [ ... ]? Siamo stanche [si riferisce anche a Giovina], l’anima ormai è fiacca, sfibrata; ha bisogno di calma; dopo tante tempeste ha bisogno di ossigeno santo» (22.7.1914). Il corpo prigione dell’anima rappresenta la tentazione, il male, e solo l’ascesi fisica e morale condotta sulla strada della perfezione può combatterlo e consegnare l’anima all’unione con Dio. Sin dalla prima lettera Raffaella lamenta una «miseria estrema» come suo unico «privilegio» ma, dichiara con la sincerità di colei che, affranta dalla lotta, è esausta dalla solitudine in cui avverte di essere stata relegata, «è la malizia che 307 mi spaventa e non mi fa trovar pace» (24.3.1914). Questa malizia che «Gesù odia» e che Raffaella vuole farsi «perdonare» (11.6.1914) - «voi», scrive a padre Pio, «[ ... ] dovete parlare di questa poveretta a Gesù. Ditegli che non mi scacciasse; ditegli che mi facesse morire a me stessa ed a tutto» (24.3.1914) -va intesa come «orgoglio, presunzione, superbia» e «illusioni, inganni», amor proprio e soprattutto paura di se stessa. «Temo tanto e sempre di me stessa, mio capitale nemico» (27.5.1914). «Gesù mi preservi da ogni tentazione, pericolo, emozione, eccitazione, distrazione. Temo e tremo sempre di me stessa, mi conosco abbastanza. Temo qualsiasi contatto. Temo i nemici interni ed esterni. Temo di tutti e di tutto. Desidero la santa libertà, la santa indifferenza, pace allo spirito, unione continua con Gesù» (17.6.1914). «11 Presepe, il Calvario mi additano il sentiero, mi spingono, mi attraggono alla vera vita, ed io sorda, cieca, malvagia, resisto» (13.5.1914). «L'attimo fuggente in cui Gesù mi afferra per davvero, vorrei fissarlo sempre, fermarlo per mirare Gesù solo e sentirlo dovunque; invece, il vuoto, la inerzia al bene, le passioni furenti, ipocrisia, attacchi, vivo amore di me stessa» (13.5.1914). Le insidie di satana che padre Pio vede nel l'immaginazione e nella fantasia di Raffaella (P 19.5.1914; P 15.8.1914) non sono quelle che lei invece teme di più: «Ritengo che il demonio si fa stare a posto ma quando si vuole; invece è la mia malizia che mi fa agire e peccare. Le tentazioni del demonio (se si diverte con me), le sue insinuazioni non le conosco, o meglio, non le so discernere; dico sempre che sono io, è la mia cattiva volontà, la mia malizia, e non il demonio che non lo penso mai e dimentico perfino che esista» (12.8.1914). In questa ricerca di elevazione dello spirito fortemente richiesta da Raffaella - a padre Pio giunge perfino a rimproverare il silenzio sulla sua privilegiata esperienza santificante che lei vuole condividere: «io so tutto di voi, perché tacere con me? perché nascondere?» (13.5.1914) e a cui vorrà partecipare con l'offerta di preghiere e comunioni - è dato individuare una scelta di vita, un cammino in cui le passioni del cuore di cui si sente vittima (27.5.1914) si svelano gradualmente da dietro alle barriere del corpo e ai vincoli delle tentazioni e che la sensibilità di padre Pio conduce sulla strada della pace, della luce, di quella «calma dello spirito assetato, bisognoso, affranto, esausto per le continue lotte» (24.3.1914): «un po' di luce, padre, l'aspetto da voi, dalla vostra carità, luce ai miei passi, moto santo a questa mia vite inerte e stupida, fuoco puro divino al mio cuore di ghiaccio» (8.4.1914). In questo cammino l'esaltazione del dolore - la «tempesta» come 308 «contrassegno» dell'amore divino, il «timore» illusorio di peccare causato dal demonio, il «triste cosaccio» (P 29.3.1914) - che padre Pio infonde in Raffaella quale sorgente di gioia per essere stata chiamata a cooperare alla salvezza delle anime, viene indirizzato in una illimitata fiducia in Gesù e nell'azione dello Spirito Santo, il vero direttore delle anime e quindi nel desiderio di una serafica perfezione che si nutre al contempo della carità salvifica di padre Pio e che ci consente di avvicinarci ai gridati «bisogni dell'anima» (24.3.1914) di Raffaella Cerase. Verso la Perfezione Il primo passo di Raffaella è quello di accettare l'idea che la grazia divina si manifesta attraverso i tormenti dello spirito e del corpo, che gli assalti di satana testimoniano la misericordia divina, che l'avvenire non rappresenta un inganno, ma la speranza che l'imitazione del Figlio si spinga in lei ai livelli più alti. «Gesù vuole agitarvi, scuotervi, battervi e vagliarvi come il grano, affinché il vostro spirito arrivi a quella mondezza e purità ch'egli desidera» (P 11.4.1914): questo è il concetto essenziale della direzione spirituale che la deve indurre a non giudicarsi «povero atomo disperso» (8.4.1914), ma «grano» che, sbattuto alle intemperie, diventa «candido» per potersi presentare a Dio (P 11.4.1914). E’ un cammino difficile, tormentato dall'insicurezza e dal bisogno di vigilare costantemente sulle possibili distrazioni, confortata dall'amore e dalla carità di Gesù che padre Pio vede in lei, come pure da quel «timore» che lei sente sempre in sé, «timore santo» perché appunto accompagnato dall'arma dell'amore: «Fo bene, fo male, non so. Mi confesso bene, mi confesso male? non so. Vado bene per la via cominciata? non so» (24.3.1914). «Non so pregare, non so raccogliermi, mi manca assolutamente il dono della meditazione, della presenza di Dio. Vedo, sento le altre anime tanto buone ed io... sempre così misera, sempre tanto tanto cattiva». «Parlate per me a Gesù, io non so dirgli nulla» (8.4.1914). Il «voler essere tutta di Gesù», l'incessante desiderio «d'esser sciolta dai lacci di questo corpo» testimoniano invece per padre Pio la liberalità divina e la presenza in lei della grazia salvifica che innalza l'anima al «trono di Dio» (P 11.4.1914). Quello che deve ancora fare Raffaella è «una vita veramente cristiana, pregando incessantemente» consacrando tutta se stessa alla salvezza delle anime, lottando e disprezzando le «persuasioni» del nemico (ivi). 309 La «conversione» di Raffaella procede quindi dalla volontà di sopportare coraggiosamente tutto ciò che riguardi il servizio e l'onore di Dio, avendo come fine la volontà divina, cogliendo nel dolore le occasioni di mostrarsi animata dall'amore divino, un amore che Cristo ha dimostrato con il sacrificio e che rappresenta l'aiuto fornito agli uomini nella perseveranza delle buone azioni e a cui i devoti devono corrispondere meditandone la passione: il «secreto della croce» che consiste proprio nel seguire la strada percorsa dal Figlio per arrivare al «porto della salute» (P 15.8.1914). La sofferenza e i disagi devono essere sopportati pazientemente: lo stato di grazia santificante che ne deriva compensa tutte le pene subite. La mortificazione implica infatti la penitenza, una delle tappe fondamentali del cammino verso la salute dell'anima, e comporta un'umile sottomissione alla volontà di Dio, mezzo efficace per contrastare la «malizia» che Raffaella teme (P 15.6.1914). Il cammino della perfezione si attua quindi pensando a Dio nella sua grandezza, con umiltà e guardando al peccato come principale nemico: i tre segni che Raffaella deve vedere in sé quali «raggi di luce» provenienti da Dio (P 25.4.1914). La fedeltà e la costanza agli obblighi di precetto e la frequenza al sacramenti sono i mezzi messi a disposizione della devota affinché possa mostrare le prove del suo amore, superando gli ostacoli che separano da Dio e da cui si è assaliti durante il cammino di perfezione. In questo consiste la «divozione sostansiale»: servire Dio e amarlo «senza provare nella parte sensibile un certo che di consolazione» (P 14.7.1914), certi che la consolazione invece verrà data all'anima dalle gioie dell'eternità (P 15.8.1914). La lettura dei «libri santi» verso cui padre Pio indirizza Raffaella contribuisce ad avanzare nella via della perfezione non meno delle preghiere, dell'orazione mentale e della santa meditazione (P 14 e 28.7.1914; P 10. 10. 1914). Dell'amore divino Raffaella avverte i benefici per la sua sconsolata e triste intimità: «sento un gran vuoto attorno a me, e, col vuoto, un grande scoraggiamento. Anelo, sospiro luce, dolore, perdono, amore. La mattina del venerdì, festa dei dolori della mia buona Mamma Addolorata, dopo due mesi, dal giorno della Purificazione, feci la santa comunione. Dopo, la chiave di questo mio cuore povero e miserabile, tenendomi stretto stretto Gesù, la consegnai, fra le sue mani, o meglio, fra le spade della sua Mamma afflitta, col patto di prestarmela tutte le mattine per far entrare solo solo Gesù» (8.4.1914). L'avvicinamento di Raffaella a Gesù avviene quindi attraverso il culto della Vergine. La figura di Maria è nell'educazione religiosa otto-nove- 310 centesca un modello già consolidato di pietà a cui il devoto non rinvia con una passiva ripetizione o con la richiesta di patrocinio, ma con un confronto spirituale che implica l'assimilazione del modello attraverso l'adeguamento a una norma di vita che rispecchi fedelmente il profilo mariano. La Vergine infatti garantisce il ricalco di un modello perfetto e certo di esiti positivi, i cui benefici si esplicano in particolare in quelle virtù che l'hanno resa gradita al Signore: l'umiltà, il disprezzo di se stessi, l'essere puri, la rassegnazione al volere divino, l'amore manifestato a Dio, l'amore e la carità verso il prossimo, la preghiera e la perseveranza del bene, caratteristiche che contraddistinguono il fedele e che delineano un profilo etico che consente di vivere e morire santamente. Mediatrice per eccellenza dei peccati dell'umanità, Maria è quindi la rassicurante figura materna a cui Raffaella si accosta con facilità nel cammino di pietà per le sue qualità amorevoli: «la Mamma sua santissima la chiamo, oh sempre sempre la buona Mamma mia; la Madre dei dolori è la mia confidente, la mia consigliera, la mia maestra, la mia potente avvocata» (20.4.1914), il «primo anello della santa catena» che la lega a Gesù (31.10.1914). Il cambiamento di Raffaella avviene fra tentennamenti e piccole ribellioni (P 6.9.1914). Lei non sembra rendersi conto della trasformazione del suo spirito, del graduale cammino verso la pace che invece padre Pio scorge: si sente sempre in preda alle passioni, prigioniera delle miserie del corpo e ritiene di praticare la meditazione e gli esercizi di pietà con troppa distrazione per poterne usufruire dei positivi effetti (15.9.1914). Nel silenzio del cuore padre Pio la invita a offrire lodi e benedizioni a Dio, a perseverare nel desiderio di soffrire, a essere umile, ubbidiente e caritatevole, ad accettare la malattia e le sventure e ad avere fiducia in Gesù. La direzione di padre Pio, insigne mediatore di questa vicenda, le lettere e le vicende personali della nobildonna foggiana sono testimonianze che possono introdurci a una indagine che, muovendo da uno spaccato di storia locale, offre utili spunti di riflessione sull'universo femminile tra fine Ottocento e inizi del Novecento. Lungi dall'assimilare il colloquio di Raffaella come mezzo di uno scandaglio psicoanalitico, ma considerando che la confessione che Raffaella stessa costantemente richiede «la mia povera penna non è atta ad uguagliare la parola, è inefficace» (8.4.1914) - è un'esigenza di confidenza che nella scrittura trova una sua forma di espressione, nonché uno strumento per conoscere se stessi e per riflettere sulla propria spiritualità, vediamo nell'esperienza umana 311 e religiosa di Raffaella la storia di una donna che visse con fervore un ideale e uno stile di vita improntato all'ascesi cristiana. Le sue emozioni, il suo modo di vivere e agire, di sentire e amare, il suo stato d'animo, il suo rapporto con gli altri e con se stessa, le sue stesse abitudini quotidiane, di cui troviamo traccia nella scrittura, fortemente influenzata dal vocabolario mistico femminile, ci offrono una serie di informazioni sulla sua intimità perché trattano unicamente della sfera interiore in cui penetra e fa da sfondo il contingente, ma sempre sublimato dalla ricerca della perfezione e della santità verso cui il direttore guida l'anima della «povera terziaria», come amava definirsi la stessa Raffaella e in cui, dalla parte della diretta, ansiosa di vedere realizzata la «conversione», scorgiamo la ricerca di se stessa, di una propria identità smarrita: «vi espongo, sempre alla buona, le mie povere idee, i molti miei bisogni; è la grande confidenza che m'ispirate» (8.4.1914), afferma agli esordi del rapporto epistolare. Ciò che infatti colpisce sin dalle prime lettere è l'estrema agitazione in cui la donna si dibatte e che, affermano gli editori dell'epistolario, evolve nel superamento della prova della purificazione sensitiva e nel passaggio al periodo doloroso di quella spirituale, attraverso una soda preparazione dottrinale e un costante desiderio di santità che si ispirava al contempo all'esperienza mistica di padre Pio. In ciò è possibile vedere, senza togliere nulla alla direzione spirituale del padre da Pietrelcina, la ricerca di uno spazio, il bisogno di colmare un vuoto che, superati i quarant'anni, dava a Raffaella la certezza di avere sprecato l'esistenza. Si tratta del recupero di un mondo interiore alla conquista della maturità individuale, intima ma anche sociale, che si nutre di momenti segreti come, si è visto, la lettura, la scrittura personale, la confidenza. 312 BIBLIOGRAFIA Le lettere di Raffaella Cerase e quelle di padre Pio (queste ultime indicate con P) da cui sono stati dedotti i brani, sono contenute in padre PIO DA PIETRELCINA, Epistolario. II. Corrispondenza con la nobildonna Raffaelina Cerase (1914-1915), a cura di Melchiorre da Pobladura e Alessandro da Ripabottoni, II ed. a cura di padre Gerardo Di Flumeri, San Giovanni Rotondo, Edizioni «Padre Pio da Pietrelcina», 1994. Sulla spiritualità di padre Pio si veda padre PIO DA PIETRELCINA, Epistolario. I. Corrispondenza con i direttori spirituali (1910-1922), a cura di Melchiorre da Pobladura e Alessandro da Ripabottoni, San Giovanni Rotondo, Edizioni «Padre Pio da Pietrelcina», 1973. Sulla direzione spirituale nell’insegnamento di padre Pio si vedano gli Atti del I° Convegno di studio sulla spiritualità di padre Pio (San Giovanni Rotondo, 1-6 maggio 1972), a cura di padre Gerardo Di Flumeri, San Giovanni Rotondo, Edizioni «Padre Pio da Pietrelcina», 1973, pp. 245-284. Molte, com’è noto, sono le biografie di padre Pio. Ricordiamo, per la ricca e ben articolata documentazione: ALESSANDRO DA RIPABOTTONI, Padre Pio da Pietrelcina. Un Cireneo per tutti, Foggia, Centro Culturale Francescano Convento «Immacolata», 1974; A. D’APOLITO, Padre Pio da Pietrelcina. Ricordi, esperienze, testimonianze. A cura di P. Gerardo di Flumeri, San Giovanni Rotondo, Edizioni «Padre Pio da Pietrelcina», 1992 commossa testimonianza di un autore cresciuto vicino a padre Pio. Per una bibliografia commentata: ALESSANDRO DA RIPABOTTONI, Molti hanno scritto di lui. Bibliografia su Padre Pio da Pietrelcina, San Giovanni Rotondo, Edizioni «Padre Pio da Pietrelcina», 1986, 2 voll. Una ricerca antropologica sull’esperienza religiosa degli abitanti di Pietrelcina è stata condotta recentemente da FRANZ BRANDMAYR, La patria del profeta. Analisi antropologica -culturale del tratto religioso dei Pietrelcinesi, Pietrelcina, Edizioni Comune di Pietrelcina, 1995, che segnaliamo per coloro che vogliano esaminare il contesto in cui nasce la figura di padre Pio. Un profilo di Raffaella Cerase è stato tracciato da BENEDETTO DA SAN MARCO IN LAMIS, 0. F. M., Raffaelina Cerase, dei nobili di Foggia, terziaria francescana, tesoro nascosto, Barletta, Prem. Stab. Tipografico G. Dellisanti 1917. Per la vicenda biografica di Raffaella Cerase, nelle dimensioni pubblica e privata, indispensabile il riferimento a P. ARIÈS, G. DUBY, La vita privata. L'Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988 e a G. DUBY, M. PERROT, Storia delle donne. Dal Rinascimento all'età moderna, 313 Laterza, Roma-Bari 1991. Sul linguaggio mistico femminile, a cui quello di Raffaella Cerase si lega in particolare per la ricerca dell’annichilimento dell’io, nonché per l’assoluta spontaneità espressiva, si veda GIOVANNI POZZI, L'alfabeto delle sante, in SCRITTRICI mistiche italiane, a cura di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, Genova, Marietti, 1988, pp. 21-42. 314