Giulia e Jaime Finalmente erano finite! Non ne poteva veramente

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Giulia e Jaime Finalmente erano finite! Non ne poteva veramente
Giulia e Jaime
Finalmente erano finite! Non ne poteva veramente più! Piuttosto la scuola, ma le
vacanze estive in questi ultimi anni erano state orribili. Tre mesi da sola con la
baby-sitter
che
la
seguiva
come
un’ombra.
Se
avesse
potuto
l’avrebbe
accompagnata perfino in bagno. Già: non fare questo, non fare quello, non va
bene così…. Era in tale modo che Giulia trascorreva le ferie estive, chiusa o nella
casa in città o nella villa sul lago di Como o in quella in campagna a Parma.
Giulia Rossini era una giovane ragazzina di tredici anni dalla pelle candida, i
capelli biondi lunghi, un viso dagli occhi verdi, un naso delicato e una bocca
carnosa. Una ragazza come tante altre nel quartiere bene di Torino se non fosse
per i suoi genitori: ricchi sfondati e proprietari di una grandissima azienda
immobiliare.
Sua madre, la signora Susanna Rossini, era alta, bruna e vestita sempre in modo
elegante. La classica donna che anche quando va a dormire mette del profumo.
Suo padre, il signor Alessandro Rossini, era altrettanto alto e giovane, molto
ambizioso e serio. Potevano sembrare una famiglia comune, se non fosse per la
ricchezza, agli sconosciuti, ma non lo era.
Giulia non sopportava i genitori perché la lasciavano sempre sola d’estate e molte
volte anche durante il resto dell’anno con la tata che la faceva andare su tutte le
furie.
Si chiamava Venusia ed era russa e le ricordava costantemente le buone maniere,
il galateo, la musica classica, ma soprattutto la pulizia e l’ordine e la sana
alimentazione. Aveva quarant’anni, ma aveva già tutti i capelli grigi raccolti in
uno chignon che sembrava un topo morto raggomitolato sulla sua testa,
completamente fuori moda. Indossava sempre vestiti scuri, ornati da pizzetti
argentati che si usavano solo nel Medioevo. Insomma la tata che nessuno mai
avrebbe voluto avere.
Quella sera di settembre, dopo aver fatto una cena a base di brodino, verdura e
una leggera bistecca di pollo perché Venusia aveva detto che se avessero
mangiato cose “pesanti” avrebbero dormito poco e male, Giulia era salita in
camera sua per prepararsi la cartella per il tanto atteso primo giorno di scuola, e
a scegliere con cura il vestito da indossare il giorno dopo. Mentre provava la
divisa della scuola, cui associare trucco e pettinatura adatta, entrò la tata. “Oh
cielo, tutte le volte che ti vedo con quella gonna così corta mi vengono i brividi. Il
preside non dovrebbe ammettere un vestiario così inappropriato per delle formali
lezioni scolastiche”. “Ma la scuola è cambiata, ai tuoi tempi c’erano le suorine che
ti insegnavano il galateo e tutte quelle cose lì, e poi, preferirei andare a scuola in
mutande che con quella specie di tunica da prete o da funerale che hai addosso”,
disse Giulia con un sospiro. Venusia la guardò scandalizzata con gli occhi
sbarrati. “Uffa, sei ancora qui? Guarda che ci sono sei bagni pieni zeppi di germi e
batteri che non aspettano altro che tu mandi qualcuno a disinfettarli”.
Il primo giorno di scuola all’istituto privato (figurarsi se statale!) Nicolò
Machiavelli fu un susseguirsi di emozioni, baci e abbracci e sorrisi, ma ci fu una
novità che in particolare mise stupore: l’arrivo di un nuovo compagno. Si
chiamava Jaime e veniva dell’Africa. Ormai non si parlava d’altro a scuola. Era
appena arrivato e già giravano mille ipotesi su di lui. Al “Macchia”, così la
chiamavano tutti, le persone nere non erano ben viste, soprattutto in quel periodo
dove sembrava che il razzismo andasse di moda per i ragazzi, così l’arrivo di uno
studente nero aveva un po’ scandalizzato tutti. Circondavano molte e strane voci
sulle persone dalla pelle scura, così, in pochi giorni tutti i ragazzi più grandi e i
bulletti della scuola lo consideravano un ladro, uno “sfigato” e lo chiamavano con
disprezzo “negro”.
Giulia all’inizio non faceva molto caso a lui. Sì, era suo compagno di classe, ma
non sarebbe stata certo lei la prima ad andarsi a presentare o a parlargli. Mano a
mano che il tempo scorreva la scuola riprese il suo corso normale, quella di
sempre. Nessuno faceva più caso a Jaime, nessuno tranne Giulia. Aveva
cominciato ad osservarlo meglio quando si erano trovati vicini di banco e si era
accorta che era più bello di quanto immaginava. Aveva la carnagione scura, ma
non troppo, gli occhi verdi, cosa insolita, e i capelli neri che formavano dei piccoli
ricciolini così fitti da sembrare spugna. Era molto alto e magro, aveva una
corporatura muscolosa e robusta, un naso grande e una bocca carnosa. Più i due
si conoscevano più diventavano amici e si divertivano, sempre però mantenendo
quella “giusta” distanza da non creare pettegolezzi vari o sospetti. Erano due
persone completamente diverse l’una dall’altra: lei sempre abituata ad avere tutto
e anche a scuola ad essere al centro dell’attenzione, lui sincero e un po’ timido e
da quel poco che si sapeva aveva vissuto anni molto difficili prima di raggiungere
gli Stati Uniti.
Un giorno mentre la tata era fuori casa Giulia ne approfittò per uscire a fare una
passeggiata. L’aria invernale era più grigia e densa del solito, ma il traffico era
sempre lo stesso: ovunque lunghe colonne di auto impazzite che suonano il
clacson contro i mille semafori. La dispersiva città con i suoi palazzi
ottocenteschi, grandi marciapiedi e la sua gente che cammina velocemente senza
guardarti in faccia, immersa nei suoi pensieri, piena di pacchi sotto un braccio e
con il cellulare nell’altra mano o una sigaretta in bocca. Erano soprattutto queste
le cose che lei notava del centro di Torino le volte che lo vedeva. Ad un tratto un
“ciao” la risvegliò dai suoi pensieri. Con sua sorpresa si ritrovò davanti Jaime che
stava camminando con un sacchetto di plastica in mano. Era avvolto in una
giacca color marrone militare e una sciarpa color verde scuro, l’unico ragazzo che
conosceva che non si vergognava a portare una sciarpa. Era per questo che in un
certo senso la affascinava, era così diverso, così… strano. Non si vergognava di
nulla e non sembrava per niente afflitto quando a scuola lo offendevano. “Ti va di
fare due passi a piedi? Se vuoi possiamo fare un giro qui nei dintorni dove non c’è
molta gente, così non ti vergogni”. Le chiese lui. La domanda colse Giulia alla
sprovvista. Così si limitò a guardarlo. “Scusami, ma ormai sono abituato a non
uscire con la gente perché si vergogna e ha paura di essere presa in giro”.
Camminarono a lungo, parlando della scuola, di Torino, di come avesse potuto
iscriversi alla nostra scuola (“Sai, una borsa di studio…”), dei cibi della mensa
scolastica e poi, per ultimo si raccontarono senza volerlo la loro storia.
Giulia scoprì che Jaime non viveva con i genitori, ma con gli zii, era rimasto
orfano in un bombardamento quando era piccolo e che, dopo aver visto morire
amici, genitori e parenti era stato costretto a lasciare l’Africa e assieme agli zii
raggiungere New York che in seguito, per esigenze di lavoro, avevano dovuto
trasferirsi in Italia. Ora a scuola andava abbastanza bene, ma sognava un giorno
di tornare in Africa. Non sopportava l’aria della città, lo smog, le macchine, il
freddo… lo intristivano.
Giulia colpita da quella storia sentì che la sua non aveva nulla di speciale
confronto a quella di Jaime, ma come lui si era confidato, lei si sentì in obbligo di
fare lo stesso. Gli raccontò di quanto i suoi genitori fossero assenti e di quanto
fosse brutto stare sempre e solo con la tata, di quanto si divertissero i suoi
genitori in viaggio per il mondo, ai concerti, ai balli, agli inviti, a fare shopping…
mentre lei era sempre rimasta a casa. “Da sola con la tata! Mi hanno sempre
lasciata lì come un soprammobile e la maggior parte delle persone non sa
nemmeno che esisto. Tornano una volta ogni due settimane, ma non abbiamo
confidenza, sono come degli sconosciuti che vengono ogni tanto a casa mia”.
Con Jaime riuscì a sfogarsi come non aveva mai fatto con nessun’altra persona.
Era raro che si confidasse con qualcuno perché era sempre stata una ragazza
piuttosto chiusa. Quando la conversazione cominciò a languire, si resero conto di
aver girato attorno all’isolato quattro volte e che si stava facendo tardi. “Vuoi che
ti accompagni?” le chiese gentilmente anche se sapeva benissimo la risposta.
Giulia si immaginò la faccia di Venusia vedendola tornare in compagnia di un
africano e, a quel pensiero, rifiutò gentilmente. Da quel giorno si ritrovarono più
spesso, e, settimana dopo settimana, cominciarono a conoscersi sempre più.
Jaime le fece capire quali fossero le cose importanti della vita e grazie alla sua
semplicità e alla sua perfetta amabilità, Giulia decise che per tutti non sarebbe
più stata la “riccona sfondata, viziata, sempre seguita dalla tata” ma Giulia
Rossini, la Giulia che era veramente, non quella che volevano gli altri.
Lo dimostrò stando vicino a Jaime anche a scuola, ridendo dei banali problemi
d’amore coi fidanzati delle sue amiche. Molte persone ora la evitavano e le sue
amiche, in particolare Veronica (l’amica con cui si trovava meglio), non la
capivano e chiamavano lei e Jaime i “fidanzatini”.
Infatti tra Jaime e Giulia non c’era più una semplice amicizia, ma una profonda
amicizia. I due erano in perfetta sintonia, bastava solo un cenno col capo o uno
sguardo e capivano esattamente quello che l’altro pensava. Per loro era come se a
scuola non esistesse nessun altro, loro due inglobati in una sfera dove regnava la
pace e un amore che diventava sempre più intenso.
Un giorno Jaime venne a scuola con il cappuccio calato sul viso e Giulia, che
come sempre lo aspettava all’entrata della scuola, si accorse subito che qualcosa
non andava. Si avvicinarono l’un l’altro e senza dire una parola svoltarono
l’angolo e si diressero verso un vialetto interno tra le case dove nessuno li poteva
disturbare. Ad un tratto si fermarono e Jaime si tolse il cappuccio. Giulia scorse
con orrore un taglio lungo quanto un dito sul sopracciglio destro e un livido su
quello sinistro. “Che ti hanno fatto?” disse con un filo di voce. Jaime non la
guardava e non rispose. “Jaime, chi è stato?” disse con lo stesso tono. “Ieri sera
mi hanno pestato. Stavo tornando a casa dopo la nostra passeggiata, era un po’
buio e… mi hanno aspettato in un angolo, colpito da dietro con qualcosa di
grosso e solido e mi hanno picchiato. Tutte le volte che cercavo di rialzarmi da
terra mi riempivano di botte. Poi… mi hanno detto che ci avevano visti assieme e
di stare alla larga da te, che non ti dovevo toccare e che un negro come me le
donne bianche le deve lasciar stare.” Due lacrime gli scesero lungo le sue guance.
Il suo solare e bel viso era gonfio e il suo sorriso era sparito, in cambio c’era
un’espressione triste. I ricciolini neri, che Giulia tanto adorava, erano tagliuzzati
qua e là a ciocche. Le disse che gli avevano tagliato i capelli con delle forbici.
“Ricresceranno” disse lei.
Aveva il cuore a pezzi. Chi poteva essere in grado di distruggere il suo Jaime, una
persona così gentile che non aveva mai fatto male a nessuno? Ora degli stupidi
ragazzi stavano rovinando tutto, le passeggiate, le chiacchere, i sorrisi, tutto. No,
lei non l’avrebbe permesso. Lui era l’unica persona che l’aveva fatta stare
veramente bene, che l’aveva fatta sentire importante non per dovere o per chi
fosse all’apparenza, ma per quello che era dentro.
Altre lacrime rigarono il volto di Jaime. Lei lo guardò con un’espressione dolce,
cercando di consolarlo o comunque di calmarlo. “Scusami se piango come un
bambino” le disse lui. “Piangi, sfogati, non vergognarti, sono solo io e non devi
scusarti perché come tutti provi delle emozioni”. Jaime la abbracciò e lei lo
strinse forte perché sapeva che quelle lacrime contenevano rabbia, paura e
scoramento, mentre gli passava una mano tra i capelli tagliuzzati. Per la tristezza
anche Giulia pianse lacrime amare, piene anch’esse di tristezza. Quando si
furono calmati, entrambi avevano un nodo alla gola ed erano troppo infelici e
sconvolti per entrare a scuola.
Girovagarono fino ad incontrare un minuscolo spiazzo erboso, in un luogo un po’
isolato. Si sedettero pesantemente su una panchina e buttarono gli zaini a terra.
Rimasero lì abbracciati l’uno all’altro scontenti e demoralizzati. Tra loro regnava
un insolito silenzio rotto solo dal rumore di qualche macchina o dallo strombettio
dei clacson in lontananza. Entrambi volevano andarsene da Torino, un mondo
grigio, senza colore, pieno di persone che non sanno nemmeno cosa sia la
diversità, il vivere senza un cellulare e dei vestiti all’ultima moda che costano una
cifra.
Era incredibile, pensava Giulia, quanto lui fosse riuscito a cambiarla. Prima la
pensava come tutti, ora la pensava come pochi, come Jaime. Ad un tratto i loro
occhi verdi si incrociarono. Jaime le chiese con l’espressione più dolce che poté:
“Posso baciarti?”. Lo chiese con un tono di voce insolito, più serio e sicuro. Lei
annuii calma e disse “È da tanto che lo aspetto”. Sorrisero debolmente, e quando
le loro labbra si incontrarono fu per entrambi una sensazione meravigliosa. Era il
significato che tutti quei sorrisi, le battute, gli scherzi e gli abbracci erano serviti
a qualcosa, quel qualcosa di così intimo e inspiegabile che li univa.
Quello sconsolante giorno per fortuna terminò e la scuola proseguì lentamente.
Jaime aveva denunciato alla polizia il fatto e tutto sembrava tornare alla
normalità, finché a Giulia un mercoledì sera verso le otto squillò il telefono, era
un numero sconosciuto. Lei rispose e una voce le disse: “Sappiamo tutto di te,
dove abiti, che scuola e chi frequenti. Se non vuoi che veniamo anche da te a fare
un giro, stai alla larga da quel negro, se sta ancora in piedi, o gli procurerai solo
guai.” “Lasciatemi stare, cosa volete da me o da lui non lo so, ma lasciateci in
pace!” Urlò Giulia e riattaccò subito. Tremava, di paura e di rabbia, lacrime le
scesero dalle guance. Lanciò il cellulare contro il muro che si spense e si gettò sul
letto singhiozzando. Ad un tratto un pensiero agghiacciante le folgorò la mente.
“Se sta ancora in piedi, se sta ancora in piedi…” quella frase rimbombò nella sua
mente. Jaime, Jaime, doveva correre da lui, chissà cosa gli avevano fatto.
Si precipitò fuori di casa con Venusia alle calcagna che le urlava di fermarsi, ma
non le diede retta, quello che stava dicendo o pensando non le importava. Correva
come una disperata per le strade, era scalza e in maniche corte. Gelava dal
freddo, ma non le importava nulla. Raggiunse la casa di Jaime proprio mentre
un’ambulanza se ne andava a sirene spiegate. C’era qualche persona qui e là
sparsa, ma una in particolare che piangeva a dirotto. Aveva la pelle dello stesso
colore di quella di Jaime, gli occhi tutti rossi di pianto, doveva essere sua zia. Per
terra lì vicino c’era un pozza di sangue e qualche ciocca di capelli riccioli neri. Il
cuore le batteva all’impazzata, a quella vista cominciò a piangere, prese una
ciocca di quei bei capelli e li strinse tra le mani.
Aveva il fiatone per la corsa e le guance in fiamme. Ripartì correndo verso
l’ospedale, per due volte una macchina quasi le andava addosso. Fu per lei
un’esperienza orribile, ma doveva arrivare all’ospedale, doveva aiutare Jaime. I
piedi a contatto con l’asfalto le si sbucciarono, i biondi capelli le si appiccicarono
al viso madido di sudore. Respirava freneticamente senza sosta, stremata ma con
un solo obbiettivo ben chiaro nella mente. Raggiunse l’ospedale, oltrepassò il
cancello con gli occhi delle persone tutti puntati su di lei, entrò in fretta e furia e
tutti si voltarono a guardarla. Si diresse verso un bancone dove chiese tutto d’un
fiato se fosse entrato un certo Jaime Yacuiba e la signora le rispose che per
quanto ne sapeva era entrato in ospedale con l’ambulanza in codice rosso ed era
al piano due.
Si precipitò sulle scale sempre con gli occhi intrisi di pianto. Nella sala d’aspetto
non c’era molta gente, chiese ad un medico che passava la stessa cosa che aveva
chiesto alla signora al piano terra, che le disse in modo frettoloso e freddo che era
in sala operatoria e non poteva vederlo per nessun motivo.
Giulia era talmente amareggiata, sconvolta, stanca, esasperata e… semplicemente
esplose. Pianse disperatamente, gridò che doveva assolutamente vederlo perché
altrimenti di lui le sarebbe rimasta solo la ciocca di capelli, doveva vederlo. Il
medico sussultò mentre Giulia si accasciò a terra stremata.
Ad un tratto tra le persone in sala d’aspetto si alzò un uomo, alto, magro con il
viso scarno e un’espressione dipinta sul volto che era un misto tra preoccupato,
sorridente e speranzoso. La prese delicatamente e la sollevò da terra, la fece
sedere su una sedia e le sussurrò di stare calma ad un orecchio. Quando si fu
calmata le porse un bicchiere d’acqua e le disse di essere lo zio di Jaime. “Come
sta, dov’è, cosa gli è successo?” Sillabò tra le tristi e trasparenti lacrime Giulia,
ma lo zio non rispose, quindi dopo un po’ si rassegnò ad aspettare. Attendeva
speranzosa con le gambe circondate dalle braccia, mano nella mano con lo zio di
Jaime.
Dopo circa quattro ore la voce di un’infermiera echeggiò nella sala, lo zio si alzò e
disse: “Vieni, e… qualunque cosa succeda non disperarti.” Seguirono l’infermiera
sempre mano nella mano e prima di entrare si voltò a guardarli con aria grave.
Non disse nulla, ma tutti e due intuirono quel messaggio. Aprì la porta ed eccolo,
Jaime era lì, disteso sul letto dell’ospedale.
Aveva gli occhi chiusi, ma non appena entrarono li aprì in due fessure
piccolissime. La faccia era piena di tagli, i capelli rasati a zero e due buchi, uno
nel bacino e l’altro nel fianco. Giulia gli si avvicinò con l’espressione più calma
possibile, si asciugò le lacrime e lo guardò. Respirava attraverso una maschera
sulla bocca e, quando la vide, se la tolse e sussurrò: “Ciao amore”.
Giulia si avvicinò a lui il più possibile, avrebbe voluto scoppiare a piangere e
portarselo via, ma lo baciò delicatamente sulle labbra screpolate e con la voce
rotta dall’emozione sussurrò un debole “ciao”. Jaime e lo zio si salutarono e
parlarono nella loro lingua un po’. Jaime le fece cenno di avvicinarsi e le disse:
“Grazie, grazie davvero per tutto quello che hai fatto per me, non ho mai trovato
una ragazza come te. Sappi comunque che quegli scemi che mi hanno ridotto così
non hanno vinto, non sono riusciti a dividerci, ricordatelo, è importante!” Dopo
una breve pausa disse “Promettimi che andrai in Africa, al posto mio e… Giulia,
sei stata la prima ragazza che ho amato davvero. Grazie, grazie.”
Con queste parole e un debole sospiro la vita di Jaime volò via.
Giulia rimase chiusa in se stessa per alcuni anni, i suoi genitori tornarono una
settimana dopo della morte di Jaime perché avevano un affare urgente da
sbrigare. Appena fu possibile Giulia lasciò la casa dei suoi genitori e si trasferì
nelle campagne in Scozia, lì trovò marito, ebbe quattro figli e, come promesso a
Jaime, andò in Africa per tre mesi.
Giulia conservò per sempre quel ciuffo di capelli e tutte le volte che lo prendeva
tra le mani, provava quella sensazione di quando aveva tredici anni, si ricordava
delle labbra di Jaime e di lui, Jaime, quel ragazzo unico, speciale, il suo primo
amore.
Adele Annechini 2B