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n° 345 - maggio 2010
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Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it
Il Novecento russo
Dallo Zar a Stalin, a Putin, dalle avanguardie all’underground, un secolo
d’arte e storia attraverso due grandi collezioni italiane presentate a Venezia
Rappresenta un evento
per molti aspetti eccezionale, la rassegna che
l’Università Ca’ Foscari
a Venezia ospita dal 22
aprile al 25 luglio, Russie! Memoria/Mistificazione/Immaginario. Arte
russa del ‘900 dalle collezioni Morgante e Sandretti. È infatti la prima
volta che in Italia
un’esposizione presenta
organicamente l’intero
Novecento russo, e lo
fa attingendo a due collezioni private italiane,
tra le più importanti
di arte russa al mondo
e in gran parte sconosciute: quelle di Alberto
Morgante e Alberto Sandretti. Sono due raccolte
costituite con intenzioni
diverse, e che forse proprio per questo risultano complementari,
fornendo una panoramica esauriente dell’arte
del Novecento in Russia.
Alberto Morgante comincia a collezionare
pittura italiana dalla
fine degli anni Quaranta:
Boccioni, Balla, Severini, De Chirico, Guttuso, Casorati, Morandi,
De Pisis. L’incontro con
l’arte russa avviene tramite l’amico Franco
Miele, pittore e storico
dell’arte, che in quanto
diplomatico riusciva a
portare in Italia da Mosca opere scelte. Nasce
così una ricca collezione,
che contiene autentici
capolavori dell’arte russa
dell’inizio del XX secolo e che arriva fino all’underground russo degli anni Sessanta: oltre
a opere di rappresentanti delle avanguardie, vi figurano esempi
di arte post-rivoluzionaria, con la presenza
di alcuni pezzi del Realismo socialista.
Alberto Sandretti ha iniziato a collezionare al
principio degli anni ‘60
a Mosca, dove aveva compiuto gli studi universitari. Attualmente la
collezione comprende
oltre ventimila pezzi
fra dipinti, sculture, opere
grafiche, porcellane, manifesti, cartoline, oggetti e libri, che rispecchiano il processo artistico, culturale e politico in Russia nel corso
di tutto il XX secolo.
Ne fa parte anche un importante nucleo di opere
pittoriche e grafiche del
periodo delle Avanguardie storiche, e soprattutto di pezzi appartenenti alle correnti artistiche alternative al Realismo socialista, sviluppatesi negli anni Cinquanta e Sessanta. Completano la collezione
opere realizzate negli
ultimi anni del XX secolo da alcuni fra gli artisti russi più noti. La
parte più consistente
della raccolta è costituita dai manifesti, con
oltre 5.000 pezzi: accanto a esemplari risalenti ai primi anni dopo
la Rivoluzione, vi figurano alcune decine
di opere del maestro del
manifesto sovietico Viktor Ivanov. Fanno parte
della raccolta anche diecimila cartoline illustrate, pubblicate fra
la metà dell’Ottocento
e la fine del Novecento,
e un fondo di circa 2.500
periodici e libri: fra questi sono presenti alcuni
rari esemplari di libri
futuristi e di pubblicazioni risalenti ai primi
anni Trenta. Infine è
rappresentata anche l’arte
applicata, con 500 pezzi
di porcellane del Novecento (particolarmente
preziose quelle “rivoluzionarie” della fine
degli anni Dieci e dei
primi anni Venti).
La rassegna veneziana
consente di rileggere e
rivivere la storia di una
nazione che ha influenzato come poche altre
la storia del mondo per
tutto il Novecento e in
cui l’arte ha avuto un
ruolo primario - di volta
in volta strumento di
Vladimir Tatlin: Modella - Collezione Morgante
sopra Viktor Ivanov: Guache - Collezione Sandretti
a lato Kazimir Malevich: Contadina - Collezione
Morgante
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memoria, mistificazione,
riappropriazione - in
virtù del quale l’immaginario di un grande popolo è stato oggettivamente influenzato dai
messaggi veicolati dagli artisti. Nel percorso
espositivo vengono analizzati gli sviluppi della
cultura figurativa russa
e sovietica dalle avanguardie di inizio secolo
al realismo socialista
degli anni ‘30-’50, fino
all’underground, per concludere con alcune opere
degli anni ‘90. Il Realismo socialista è stato
forse il più grande esperimento mediatico mai
compiuto: all’arte fu affidato il ruolo di trasformare la materia prima
dell’ideologia in immagini e miti destinati
al consumo di massa.
Le arti figurative, ma
anche l’architettura e
il cinema, ebbero due
principali funzioni: la
propaganda e la costruzione del mito del radioso avvenire. Oggetto
della propaganda non
era la realtà, almeno non
nelle forme concrete della
vita quotidiana, ma il
mito che l’arte era destinata a creare, al centro del quale campeggia la raffigurazione del
leader: questo vale soprattutto per la monumentale iconografia di
Stalin, che prosegue e
sviluppa quella di Lenin. Qui l’importante
non era la resa attendibile della figura del capo,
ma il simbolo, la mitizzazione, cioè il leader rappresentato come
il popolo lo immaginava, e il popolo lo poteva immaginare solo
come le arti figurative
glielo presentavano. I
cittadini sovietici sa-
rebbero stati stupiti dall’apprendere che in realtà Stalin, piccolo, butterato e con un braccio
più esile dell’altro, non
aveva niente a che vedere con l’immagine
trionfalistica offerta dai
ritratti ufficiali.
Va colta in questa prospettiva la grande attenzione riservata, in
mostra, al manifesto di
propaganda e al cinema:
la giovane Unione Sovietica riconobbe infatti nel cinema e nell’immagine dei manifesti uno dei veicoli più
importanti per la trasmissione dei nuovi concetti e dell’ideologia promossa dalla Rivoluzione
d’Ottobre e per la costituzione del nuovo universo socialista in antitesi al passato. Il manifesto di propaganda (plakat) nacque nell’ambito
dell’attività politica e
fu utilizzato per divulgare tra le masse i concetti ideologici con efficacia e immediatezza,
rivolgendosi a un pubblico che era oltretutto
in gran parte analfabeta.
Il messaggio dei manifesti doveva risultare
“facile” ed emotivamente
trascinante: celebrare
un “nuovo mondo” in
cui, secondo il famoso
slogan di Stalin, “vivere è diventato più allegro”, mostrato in tutto
il suo splendore attraverso le realizzazioni
“virtuali” del comunismo. In quest’opera vennero coinvolti artisti
di ogni livello, dagli autori più grandi agli scribacchini di corte. L’arte
doveva raffigurare i tipici aspetti della nuova
vita e l’ottimismo che
le era proprio, e che più
che essere ispirato al presente era proiettato verso
il futuro: le facce dei
lavoratori raffigurati
nei manifesti d’epoca
diventano così sempre
più radiose man mano
che il presente si faceva
più terribile: le raffigurazioni più gioiose
risalgono alla metà degli anni Trenta, subito
dopo la collettivizzazione, la carestia e l’inizio delle deportazioni
di massa.
Anche l’architettura era
usata per dare forma a
miti che prendessero
corpo nella coscienza
sopra Nicolaj Troshin: Colazione sull’erba - Collezione Sandretti
a lato Valentina Monachova: Nuotatrice - Collezione Sandretti
Nicolaj Lapshin: Dalla serie metropolitana di Mosca.
La fermata Paveleckaja-Kol’cevaja
Collezione Sandretti
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collettiva. A Mosca, dove il centro
storico era rimasto praticamente invariato per secoli, negli anni Trenta
fu avviato il grande piano per la ricostruzione della città, che doveva
essere l’inizio della ricostruzione di
tutto il paese. Il centro e simbolo di
tale ricostruzione doveva essere il
monumentale Palazzo dei Soviet,
mai realizzato, progettato come l’edificio più alto del mondo, 415 metri, che avrebbe dovuto sorgere nel
sito della chiesa di Cristo Salvatore.
Un altro evento centrale nel piano
architettonico fu la costruzione della
metropolitana di Mosca, intesa non
solo come mezzo di trasporto, ma
anche come insieme architettonico
di stazioni-palazzi: la costruzione
del metrò doveva essere l’esempio
dell’evoluzione dell’architettura nel
suo insieme, il prototipo dell’organizzazione socialista del sistema dei
mezzi di trasporto.
Nel campo delle arti figurative, accanto alle testimonianze del Realismo socialista, l’itinerario della mostra presenta opere straordinarie di
artisti del simbolismo e di coloro
che, come Larionov, Goncharova,
Ekster, Chagall, Kandinskij, Malevich, Tatlin e altri, presero parte da
protagonisti alla grande avventura
delle avanguardie storiche dell’arte
europea agli inizi del Novecento.
Stalin provò a cancellare questa memoria fondamentale, senza riuscirci,
nascondendo per anni le opere di
questi artisti alla vista del pubblico
e negando la possibilità anche fisica
di qualsiasi tipo di dissenso.
Per quanto riguarda la letteratura,
quella del sottosuolo si contrappone nettamente a quella ufficiale,
e viene veicolata dall’editoria dattiloscritta o manoscritta nel samizdat,
vocabolo coniato in Russia per indicare questo tipo di circolazione sotterranea. Nelle arti figurative si andava delineando una situazione analoga: solo dopo la morte di Stalin,
attorno alla metà degli anni Cinquanta si iniziarono a organizzare le
prime mostre autorizzate di pittura
occidentale, come quella dedicata a
Picasso (1956) o l’esposizione d’arte
nazionale degli USA, dove furono
presentate le opere degli Espressionisti astratti (1959). In seguito, gruppi
di artisti e di scrittori, ma anche di
semplici appassionati, fecero circolare le scarse informazioni di carattere culturale che si potevano ottenere in un paese ancora ermeticamente chiuso all’Occidente, dando
inizio a una vita intellettuale “sotterranea” indipendente da quella
ufficiale: i pittori presero a esporre
nelle proprie cucine e i poeti leggevano le loro opere in casa. Un’atmosfera che poteva ricordare quella degli artisti delle Avanguardie russe
degli anni Dieci e Venti, predecessori e spesso modelli dei non conformisti. Solo l’avvento del disgelo
e il nuovo indirizzo politico di Krušcev
consentirono la timida nascita di
un’arte non ufficiale: tra il 1959 e il
‘62 si registra l’inizio di una sorta
di “contestazione”, che investì soprattutto la vita artistica, anticipatrice di una generale esigenza di
cambiamento. Le opere dei primi
artisti non conformisti sono di importanza fondamentale per poter
comprendere tutta l’evoluzione dell’arte russa contemporanea: la nascita dell’underground moscovita coincide con il disgelo krušceviano, che
consentiva la coesistenza di due culture, ufficiale l’una, clandestina l’altra. Negli spazi di Ca’ Foscari viene
ricostruita parte della Biennale del
Dissenso che si tenne a Venezia nel
1977, dedicata alla cultura underground moscovita, e dove ben 26 tra
le opere esposte provenivano dalle
collezioni Sandretti e Morgante.
Il percorso espositivo presenta infine alcune opere di artisti degli
anni ‘90 che riprendono in modo
diverso i tre grandi temi della mostra: la memoria dell’avanguardia,
la mistificazione del realismo socialista e l’immaginario della pittura
non ufficiale. Ciò permette di ca-
pire come tutto il ‘900 russo sia pervaso da linee di tendenza coerenti,
per la prima volta presentate tutte
insieme come elementi di un unico
affascinante affresco, offrendo una
panoramica esauriente di una vicenda culturale di grande complessità. Per ricostruire e visualizzare
l’atmosfera e il clima emotivo in cui
tale vicenda si è svolta e coinvolgere
il visitatore nel contesto storico russo
considerato nelle diverse sezioni
della mostra, sono state impiegate
soluzioni innovative e tecnologie
multimediali d’avanguardia.
La domanda che si sono posti i curatori Giuseppe Barbieri e Silvia Burini, e alla quale la mostra vuole fornire una risposta, è se la ricerca espressiva degli artisti possa consentirci
effettivamente di “vedere la storia”:
«Questo è il problema che la mostra di Ca’ Foscari affronta. Esemplificandolo per di più in una situazione-limite: la Russia del potere
zarista e della Rivoluzione, del realismo sovietico, delle purghe staliniane, dei gulag, della Grande Guerra
Patriottica contro il nazismo, della
Guerra Fredda contro l’Occidente,
della stagnazione brezneviana, del
“dissenso”, fino alla implosione dell’URSS e al nuovo ruolo mondiale
della Federazione Russa. Si tratta di
una delle storie del nostro tempo
più dense di speranze e di tragedie,
di progetti e di disillusioni: e osservandola si comprende che i ruoli
non sono nettamente distinti come
sembrerebbe in apparenza. L’arte
moderna, anche nelle sue espressioni più innovative, raramente rinnega la tradizione precedente (in
questo caso dal realismo tardo-ottocentesco al millenario codice delle
icone): ne fa memoria, ma i percorsi
della memoria sono spesso complessi.
La memoria sconfina così con l’immaginario e può altrettanto facilmente declinarsi nella mistificazione.»
federico poletti