Consociativismo 1. Per una definizione Nel dibattito scientifico

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Consociativismo 1. Per una definizione Nel dibattito scientifico
Consociativismo
1. Per una definizione
Nel dibattito scientifico recente accanto al concetto di C. (più raramente consociazionismo) è
diffusa la forma aggettivale per cui si parla di regime consociativo e, soprattutto, di “democrazia
consociativa” (consociational democracy). Entrambi gli usi derivano dal latino consociatio termine
che indica lo stare insieme (cum) tra più persone o compagni (sòcius) per varie finalità, ma anche
una specifica modalità di questa relazione: l’accordo stretto tra i soggetti coinvolti. In scienza
politica C. e consociativo/a indicano il particolare modo in cui si prendono le decisioni in un
sistema politico contraddistinto da “pluralismo culturale”, cioè dalla presenza di una società divisa o
frammentata lungo linee ascrittive o subculturali (etniche, religiose, linguistiche, territoriali,
ideologiche) con la conseguenza di dover affrontare il problema della coesistenza pacifica o della
tolleranza reciproca tra questi segmenti sociali o “comunità di destino”. In Occidente, avvertiva il
filosofo Michael Walzer, sono esistite storicamente diverse soluzioni istituzionali (regimi di
tolleranza) che realizzano la coesistenza con la diversità (imperi multiculturali, stati consociativi o
confederazioni, stati nazionali, società di immigrati, società internazionale). Qui interessa il
funzionamento della consociazione e la sua efficacia nel risolvere il problema della convivenza
politica.
Tale stile/assetto decisionale nei sistemi non-democratici (specificamente in chiave storica, come
nel confronto tra assolutismo e proto-democrazia) enfatizza l’importanza del “consenso” piuttosto
che della “forza”; mentre nei regimi democratici – dove il consenso è costitutivo – si risolve nella
limitazione del ricorso alla regola della maggioranza (vince chi arriva al 50% più uno) come criterio
decisionale a favore di maggioranze più ampie (qualificate), se non addirittura dell’unanimità. In
termini weberiani ciò realizza un ordinamento “stipulativo” piuttosto che “impositivo”. In questo
modo tutte le “parti” (gruppi, comunità, segmenti) rilevanti prendono parte al processo decisionale
influenzando le decisioni in rapporto alla propria forza numerica. In breve, il C. opera quale criterio
sia funzionale sia rappresentativo: chi è rilevante per decidere e chi è legittimato a prendere parte
alle decisioni. Per usare il linguaggio della teoria dei giochi, il C. comporta il ricorso a giochi a
“somma positiva”, dove tutte le parti ottengono qualcosa, piuttosto che a “somma zero”, dove per
una parte che vince (la maggioranza) tutte le altre perdono (le minoranze).
Di recente, tale questione è stata tematizzata nei termini procedurali della facilità/difficoltà di
arrivare ad una decisione o, che ho lo stesso, di produrre un cambiamento di policy. Un sistema
consociativo prevede una pluralità di punti di veto (veto points) o, se si preferisce, di attori dotati di
poteri di veto – veto players nel linguaggio di George Tsebelis – in grado di bloccare il processo
decisionale al fine di tutelare le minoranze e le diverse componenti della “comunità politica”. Tali
veti, inoltre, possono essere di natura sia “partitica” o partigiana (governi di coalizione, alleanze
parlamentari, doppie maggioranze nei sistemi presidenziali, presenza di minoranze interne ai partiti)
sia “istituzionale” (bicameralismo, federalismo, Corti costituzionali, referendum). Nel complesso,
comunque, assicurano la moderazione del processo politico.
2. La storia lunga: la reazione all’egemonia dello Stato assoluto.
Il concetto di C. o meglio di “consociazione” trova una magistrale sistematizzazione teorica
nell’opera Politica metodice digesta di Johann Althaus (1557 circa – 1638), detto latinamente
Althusius e quindi italianizzato in Altusio, la cui prima edizione è del 1603. Il pensiero del giurista
calvinista, per secoli dimenticato, venne riscoperto alla fine del XIX secolo non a caso da uno
studioso tedesco del corporativismo Otto von Gierke. Tuttavia, la sua diffusione nel mondo
anglosassone e della scienza politica si deve a Carl J. Friedrich che fu fautore, nel 1932, della
pubblicazione della sua opera per i classici della politica dell’università di Harvard.
Nella “teoria della consociazione” di Altusio confluiscono quattro filoni di pensiero: 1) la parola in
sé (consociatio) è di ascendenza ciceroniana con il richiamo alla necessità della concordia tra gli
uomini associati; 2) poi c’è la tradizione del diritto societario romano; 3) quindi della teologia
calvinista federale che si ricollega alla tradizione biblica del patto tra Dio e l’uomo; per finire 4) la
stessa riflessione aristotelica sulla koinonía. Per Altusio, quindi, il concetto di consociazione è
tutt’uno con quello di politica, definita come “l’arte per mezzo della quale gli uomini si associano
[ars consociandi] allo scopo di instaurare, coltivare e conservare tra di loro la vita sociale
[consociatio]” (cit. in Zwierlein, 2005, p. 143). Più semplicemente la politica è “arte simbiotica”.
Nello specifico, per Altusio, la società si risolve in una gerarchia di “comunità simbiotiche” o
consociazioni che partendo dalla famiglia e dalle associazioni (compagnie), entrambe “semplici e
private”, arriva alle forme “miste e pubbliche”, città, province e Stato (considerato consociatio
pubblica universalis). In tale architettura, non appena si supera la soglia della famiglia, interviene
“l’adesione libera, il consenso comune (consensus) di quanti si fanno membri di una comunità
simbiotica ossia interviene un contratto (pactum)” (Chevalier 1981, p. 488).
Con Altusio si registra una radicale inversione nel modo di guardare ai fenomeni politici: da ex
parte principis a ex parte populi, per usare due espressioni di Bobbio. In effetti, nella Politica è
cruciale la contrapposizione al “territorialismo” (cioè alla centralizzazione e all’accentramento)
proprio dello Stato assoluto delle forme di resistenza e di autonomia territoriale (federalismo),
funzionale o degli interessi organizzati (corporativismo), sub-culturale e comunitaria (C. in senso
stretto). Per Daniel J. Elazar il C. è semplicemente una forma di “federalismo non territoriale”. Ad
ogni modo questi temi li ritroveremo nella teoria politica e democratica del XX secolo (tra gli altri
Kelsen, Lehmbruch e Schmitter, Lijphart, Elazar).
3. Politica comparata e democrazie consociative
La nozione di democrazia consociativa ritrova smalto nel secondo dopoguerra nell’ambito della
politica comparata e delle ricerche volte a spiegare il crollo dei regimi democratici travolti dai
totalitarismi del XX secolo. In realtà, il termine latino consociatio e l’espressione democrazia
consociativa entrano nel dibattito scientifico agli inizi degli anni Sessanta sulla scia di una serie di
ricerche sui sistemi politici africani. Arthur Lewis nei primi anni Sessanta aveva descritto la politica
africana post-coloniale caratterizzata dal ricorso alle decisioni di compromesso e alle negoziazioni
tra élite piuttosto che della dialettica (occidentale) governo-opposizione. Qualche anno dopo
Gerhard Lehmbruch e Arend Lijphart avrebbero esteso la categoria di C. all’esperienza delle
piccole democrazie dell’Europa continentale, originariamente Olanda, Svizzera, Austria, ma anche
Belgio. Lo studio di caso di Lijphart riguardava il processo di pacificazione della società olandese
nel periodo della prima guerra mondiale realizzatosi grazie ad élite coalescenti orientate da “spirito
di accomodamento”. Per contro, la comparazione binaria di Lehmbruch tra Svizzera e Austria
metteva in evidenza l’importanza dei patti sociali nel funzionamento di quella che battezzò
“democrazia proporzionale” o “democrazia della concordanza”.
Lo stesso anno della pubblicazione del suo lavoro seminale sull’Olanda, Lijphart avrebbe dato alle
stampe, nel primo numero della rivista Comparative Political Studies, uno degli studi destinati a
maggior fortuna nella scienza politica internazionale. La “democrazia consociativa” veniva
collocata e compresa nell’ambito di una tipologia più articolata delle democrazie reali costruita
grazie a due criteri: 1) il grado di frammentazione della società; 2) l’orientamento cooperativo o
conflittuale delle élite. I tipi prodotti dall’esercizio tassonomico, oltre al C., sono le “democrazie
centrifughe” (Italia, Spagna, Francia della III e IV Repubblica, Germania di Weimar e l’Irlanda del
Nord) caratterizzate da cultura politica frammentata e da dinamiche conflittuali tra le élite, le
“democrazie centripete” (paesi anglosassoni e scandinavi, Germania di Bon, Irlanda e Israele)
tradizionalmente stabili e con una competizione aperta tra le élite, più un tipo residuale quello delle
“democrazie spoliticizzate” dove le dinamiche coesive delle élite si accoppiavano a una maggiore
omogeneità della cultura politica (l’Austria del dopoguerra, la Norvegia, in genere l’Europa
continentale). Tale tipo serviva a Lijphart per dar conto delle trasformazioni dei conflitti ideologici
sperimentate negli anni Sessanta e, non è un caso, avrebbe incontrato nuovo interesse dopo la
caduta del muro di Berlino nel 1989.
L’architettura di una democrazia consociativa è piuttosto complessa e poggia sull’interdipendenza
di aspetti socio-culturali, politici e istituzionali. Più esattamente, richiede: 1) a livello sociale la
segmentazione (o integrazione verticale) della popolazione in specifiche comunità religiose,
linguistiche, etniche, razziali o ideologiche – in Olanda si parla di “pilastri” (zuilen); in Belgio di
“famiglie politiche”, in Austria di “campi armati” (lager) –; tali divisioni sono accompagnate da
una scarsa intensità dei conflitti economici o di classe, da qui la possibilità di ricorrere a forme
neocorporative di accordo tra le parti sociali (patti sociali; Sozialpartnerschaft); 2) a livello politico
élite rappresentative in grado di controllare la coesione interna ad ogni sub-cultura e inclini allo
“spirito di accomodamento“ nei loro rapporti reciproci; il risvolto della medaglia di una politica
fatta da cartelli di élite era lo sviluppo di pratiche poco trasparenti che escludevano i cittadini –
Lijphart parla di “cospirazione del silenzio”, mentre Steiner riferendosi alla Svizzera di classe
politica “relativamente chiusa”; 3) a livello istituzionale il consolidamento di pratiche di
condivisione del potere (power-sharing) quali il ricorso al principio di proporzionalità, riferito ai
tre ambiti della rappresentanza elettorale, dell’allocazione dei fondi pubblici e del patronage nelle
cariche pubbliche, la pratiche delle grandi coalizioni come modo di conduzione del governo,
l’esistenza di poteri di veto a garanzia dei diritti delle minoranze sia costituzionalizzati (institutional
veto players) che informali (partisan veto players).
Di recente, Lijphart ritornando sul tema ha individuato nove condizioni che favoriscono
l’istituzionalizzazione di un assetto decisionale consociativo: 1) l’assenza di un’ampia maggioranza
di cittadini che preferisce il sistema maggioritario a quello consociativo; 2) l’assenza di profonde
differenze socioeconomiche tra i diversi sottogruppi della società; 3) un numero moderato di
gruppi; 4) l’esistenza di gruppi-comunità grosso modo delle stesse dimensioni; 5) una popolazione
relativamente piccola – com’era nei casi delle piccole democrazie europee; 6) la pressione di
minacce esterne di natura militare o economica che spinge alla coesione nazionale; 7) le lealtà verso
le comunità sub-culturali prevalgono sulla legittimità nazionale ma non fino al punto da
pregiudicare l’unità nazionale; 8) l’esistenza di soluzioni federali in presenza di gruppi
territorialmente concentrati; 9) e, quindi, tradizioni di compromesso e accomodamento tra élite.
Da questo quadro – fatto di interdipendenze di aspetti formali e informali, socio-culturali e politicoistituzionali – discendono i limiti del C.: enfasi eccessiva sul ruolo delle élite che riserva un ruolo
passivo ai cittadini; necessità di distinguere la frammentazione a base culturale – di tipo linguistico,
religioso, etnico – da quella a fondamento ideologico – sinistra-destra, comunismo-fascismo; il
favorire la mera convivenza tra “pilastri” sociali che comunque restano separati; i tempi delle
decisioni sono lunghi e gli esiti spesso sub-ottimali. D’altra parte, però, non mancano posizioni ed
evidenze opposte. Così, i regimi consociativi sono maggiormente inclusivi e deliberativi e ciò
corregge l’elitismo democratico; il deficit di integrazione orizzontale può essere compensato
dall’integrazione verticale tra le élite; la perdita in termini di efficienza decisionale è compensata
dai bassi costi sociali delle scelte collettive e dalla soddisfazione delle opinioni pubbliche.
Comunque sia, dagli anni Sessanta la nozione di democrazia consociativa ha mostrato un’elevata
capacità di viaggiare in paesi molto diversi e lontani dalla sua culla europea: dal Canada a Cipro,
per non parlare dei paesi in via di sviluppo quali Libano, Malesia, Colombia, Uruguay, oltre alla
Nigeria. In tempi più recenti la categoria di C. è stata applicata alla Macedonia, alla BosniaErzegovina e alla Jugoslavia, oltre all’Irlanda del Nord e al Sud Africa. La stessa Unione Europea è
stata interpretata come una forma di “Stato consociativo”.
La diffusione spaziale del concetto, così come le trasformazioni strutturali nel frattempo intercosse
(globalizzazione, rivoluzione nelle comunicazioni, declino delle ideologie e del radicamento sociale
dei partiti, secolarizzazione) hanno spinto lo stesso Lijphart a rivedere la sua tipologia, proponendo
il meno connotato modello di “democrazia consensuale”. Costruita per contrapposizione polare con
quello di “democrazia maggioritaria”, la nuova categoria analitica ha finito per mettere in secondo
piano i profili socio-culturali per enfatizzare quelli istituzionali del power-sharing organizzati lungo
le due dimensioni “esecutivo-partiti”, la forma di governo, e “unitario-federale”, la forma di stato.
Con la conseguenza che l’autonomia delle comunità e l’inclusione degli attori sociali rilevanti del
processo decisionale hanno perso d’importanza a favore del più generico incentivo alla
cooperazione.
4. Caso italiano e consociativismo
Di “democrazia consociativa” in Italia si comincia a parlare negli anni Settanta in seguito al
“terremoto elettorale” del 20 giugno 1976 che aveva inaugurato la stagione dei governi della “nonsfiducia” (1976-1977) e della “solidarietà nazionale” (1978), con i quali il Pci entrava a far parte
della maggioranza parlamentare a guida Dc. Si trattava di un’evoluzione in contrasto con l’analisi di
Lijphart che collocava l’Italia nella classe delle “democrazie centrifughe” – analisi quella del
politologo olandese che confermava l’interpretazione di Almond della “frammentazione ideologica”
e di Sartori del “pluralismo polarizzato”. Quella italiana costituiva, però, una “democrazia
consociativa sui generis” (Graziano) che aveva dei punti di contatto con il modello di Lijphart – a
partire del peso della componente “partitocratica” quale fattore di stabilizzazione di una società
comunque divisa e del ruolo di cogestione delle élite politiche delle scelte pubbliche. Tuttavia, i
punti di differenza tra il modello e il caso empirico restavano notevoli. Rispetto alle piccole
democrazie del continente, in Italia era diversa la natura dei cleavages, ideologici e radicati nella
lotta di classe nella seconda (ma ciò accadeva parzialmente anche in Austria), di tipo culturale nelle
prime. Nelle democrazie consociative esisteva comunque un accordo sulla sopravvivenza del
regime politico, aspetto che invece era compromesso nei sistemi polarizzati (Italia, Spagna, Francia
IV Repubblica, Germania di Weimar), il che consentiva la formazione di grandi coalizioni
(conventio ad includendum), mentre nelle democrazie centrifughe come l’Italia le forze politiche
antisistema venivano escluse stabilmente dal governo (conventio ad exludendum). In Italia, poi, il
coinvolgimento del principale partito di opposizione riguardava non l’accesso al governo, ma un
suo ruolo attivo nel Parlamento (e nelle commissioni parlamentari deliberanti) o in altre sedi
decisionali (regioni). Per converso, ciò che contraddistingueva il C. all’italiana erano le tendenze
già presenti dall’unificazione nazionale: trasformismo e compromesso tra élite, impossibilità
dell’alternanza governo-opposizione, scambio politico tra burocrazia apicale e politica. Si trattava
di costanti di lungo periodo che, a seconda delle interpretazioni tutt’altro che incompatibili,
rimandavano ora alla “polarizzazione ideologica” (Sartori, ma anche Galli), ora alla divaricazione
tra “politica palese e politica coperta” (Pizzorno). Resta il fatto che come modalità di accordo fra le
forze politiche o, per dirla con Samuel E. Finer, come “forma di governo conciliare” in fasi di
emergenza ed eccezionalità il C. ha ancora un futuro e vita lunga.
Bibliografia
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