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GEMMA
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'A vita dura n'anno.
8 GIUGNO, LUNEDÌ
Ormai è maturo l’albero di fichi, proprio
come me ormai. Piccolo albero bonsai comprato
in un punto vendita all’Ikea, per un’operazione
di beneficenza, malandato e malaticcio, e che
ormai arriva a più di un metro e mezzo di
altezza. Con le amorevoli cure paterne, fu
salvato (era infatti un regalo che feci a mio
padre una decina d’anni fa), e da allora, un po’
per gioco, un po’ per scacciare via il pensiero
della mia partenza per Parigi, lui mi ha come
identificata a questo “Benjamin ficus” che ad
ogni mio ritorno nella città assolata e svogliata,
natale, archetipa, la città di Napoli, mi mostra
orgoglioso, proprio come fosse il suo nuovo
bambino.
guarda che bello, le foglie tutte verdi…
Ed io, a poco, a poco, ci sono cascata, e ad
ogni mio (raro in effetti) ritorno a Napoli,
passavo per la veranda della grande casa
napoletana, un attimo giusto, per affacciarmi
come si fa con gli altri componenti della
famiglia, per salutarlo.
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Ciao! dicevo tra me e me, rispecchiandomi
in quel Ficus, ti trovo bene.
Adesso, a quasi dieci anni, o forse a otto
anni e una mezzaluna di estate di distanza,
ritorno qui, e lo vedo così: grande, sì! forte, ma
chi lo dice che non sia comunque provato? Se
l’esperienza rende la vita unica, come dicevano i
miei e i nonni di tutti, suppongo, degna di
essere vissuta, la luce riflessa dalle sue foglie
sembra ormai di una tonalità differente: non
solo verde brillante, foglie grandi scure,
intermezzate da tanti mazzetti di foglioline
appena nate, ramoscelli nuovi, pieni di linfa.
No, non più. Piuttosto l’immagine di un albero
adulto, solido ormai. (Sarebbe ridicolo ricordare
la sua origine bonsai.) Con foglie verdi e foglie
gialle… già nel mese di giugno: un autunno
dolce, anticipato.
Ecco, mi sento così. Questa è la prima cosa
che mi viene da scrivere, iniziando come nelle
più intense delle ipotesi, questo diario
napoletano di molti anni fa.
Ce ne saranno tanti di diari sparsi per il
mondo, parigino, pechinese, porto alegrense,
losangelino, fiorentino, tessalonicese… citando
solo alcune città a me care, in cui un mio diario
avrebbe potuto vedere la luce; e io, partorire un
figlio all’età di 35 anni. Ma no!, sapevo già che
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sarebbe stato un diario napoletano; perché, in
fondo, la necessità, il bisogno di raccontare se
stessi e gli altri, credo che nasca solo da un
“riposo” forzato, una “vacanza” o una “pausa”
coatta, insomma quando la vita vuole che ti ci
allontani dalla tua, o almeno quella che pensavi
si delineasse davanti a te come la tua,
incomprensibile, ma come il disegno che tu
stessa tracci da bambina (o, forse, quello anche
è
il
diario
d’infanzia?),
per
rientrare,
inconciliabilmente, nella vita della famiglia. O
della città in cui ti trovi ad essere nata. Nella
vita di un altro.
Oppure, l’altra ipotesi, e io le metto
insieme, le “coniugo” (e mi diverto mentre scrivo
questa parola, pensando proprio come una
bambina, che siano sposi – e come Totò de i
fuorilegge mentre parla con la sua avara
consorte, Concetta de Filippo: “Sono io, il tuo
coniugo!”), è tutta pratica, del tipo: sono qui a
Napoli, più del dovuto (e non so ancora per
quanti giorni dovrò starci), dovevo solo – come
sempre – passarci (cioè: godermi il sole, il mare
e… la famiglia per uno, massimo due giorni, e
ripartire altrove), e invece, sono qui, e chissà,
ripeto, per quanto tempo ancora! Tutto sembra
cristallizzarsi.
I miei libri che nessuno leggerà mai, come
viaggi in questo mondo perfetto dell’immaginario
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nordamericano, o anche dell’Immaginario della
Resistenza, in cui è compreso quello delle
Brigate Rosse, subiranno, benché avessi
programmato di presentarli all’editore di Parigi
per la fine di giugno, un arresto improvviso, e
dunque, leggo: leggo Goliarda Sapienza, la
storia di Roberta compagna incontrata a
Rebibbia e piango leggendo l’ultima pagina che
mi scorge impreparata anche per questo
desiderio di maternità inaspettato per tutti i figli
perduti, che si sono sacrificati per genitori
incapaci; leggo di Prospero Gallinari, la sua vita
e la sua mano da contadino che si iscrivono
nella storia emiliana partigiana, combattiva e
antica, e ne scrivono la lotta armata delle BR,
nobile anche per questo; ora inizio un
mainstream, più soft, ma il più bello di
Ermanno Rea, Mistero Napoletano… oltre ai
saggi che porto con me per le mie ricerche. Ma
sto divagando.
Insomma,
la
scommessa:
scrivere
narrativa, cosa credo impossibile per me (e forse
qualcuno di voi mi giudicherà per questo), ma
spinta da una sola prospettiva pratica: scrivere
in una settimana e pubblicare questo libro,
immaginando di partecipare a un concorso… e
vincerlo!
Così il mio cruccio che si traduceva in “un
tempo scrivevo poesie” – che poi è diventato
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scrivere saggi decostruzionisti pop, come furono
allegramente definiti da un critico parigino –
potrebbe essere aggirato dalla scommessa fatta
in una pizzeria di Salerno, in un vicolo
prossimo al corso e il lungomare (O’ Spicule per
chi volesse provare: ottimi saltimbocca e signore
simpatico alla salernitana, burbero e timido,
scontroso e sorridente, a suo modo gentile,
affascinante), con il mio compagno. In questa
separazione forzata (che sia chiaro, ce ne sono
state tante altre, anche di più lunghe – almeno
spero! – per il nostro pseudo-lavoro da
universitari che ci ha portati a vivere lontani
per qualche tempo, ognuno di noi a prendere
aerei seguendo rotte e tratte impossibili – anche
in base alle oscillazioni dei prezzi della borsa dei
voli –, per incontrarci tra Rio e New York,
oppure tra Parigi e, molto più semplicemente,
Firenze) ognuno di noi scriverà un libro. Un
racconto, un giallo (sicuramente lui!), una
storia d’amore, che sia anche una critica
letteraria,
una
recensione,
comunque
autobiografica…
Per me che comincio, è più semplice
lasciarmi andare così, ma senza annoiarvi
spero, raccontandovi di me, della mia famiglia e
di questo giallo napoletano che mi sembra un
accostamento così perfetto che mi è capitato,
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che vale la pena avvicinarmi e provarci anch’io.
Perché no?
A proposito, io sono Gemma: Gemma
Imposimato.
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10 GIUGNO, MERCOLEDÌ
Il mio portiere parla francese, legge di
tutto, di Napoleone, i girondini, la Grande
Rivoluzione, la Comune, la Liberazione di Parigi
del ’44, con la saggezza e la cultura partenopea
sembra aver viaggiato e vissuto in epoche
diverse: sempre, però, uguale a se stesso,
sempre – magari – un portiere!
Lo sarà stato di quei bellissimi palazzi
tardo seicenteschi di via Toledo, a Napoli,
quando ancora questa strada rappresentava la
quintessenza della città di Partenope: porosa,
come la definì Walter Benjamin, qualche tempo
dopo, viaggiando anche lui nel tempo insieme
alla sua Asja Lacis.
(Anche se i due, come tanti altri
intellettuali organici del futuro, tra cui lo stesso
Lenin, finirono coll’abitare nell’isola di Capri.
Certo, quest’isola non doveva essere più la
stessa, come quella delle feste modaiole della
metà degli anni Cinquanta. Del resto si sa, dice
il mio portiere, dopo la guerra tutto sembrò
cambiare. E aggiunge (dal romanzo di Tomasi di
Lampedusa): “tutto cambia per rimanere
sempre uguale”. Lui, in effetti, il portiere, non
sarebbe cambiato neanche allora.)
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E meglio così, mi dico, visto che quando
varco questa soglia, il portone di casa mia,
detto alla napoletana, di un posto che più
brutto non ce n’è, anche se un tempo doveva
essere bello (almeno così mi sembra dalle
fotografie che ci ritraggono, me e mia sorella
piccirelle,
con
cappottini
di
lana
e
passamontagna, a tinta unica da capo e piedi,
bianca io e rossa lei – oggi mi sarei incazzata di
essere “bianca” e non “rossa” – giù nella piazza
sulla quale si affaccia la mia casa, e che è
popolata ora solo da selvaggi in motorini,
macchine con stereo ad alto volume e chalets,
quasi che fosse un ameno luogo da
villeggiatura, settimana bianca o safari!), quella
faccia – la prima che vedo quando ritorno a
Napoli –, perennemente abbronzata sulla soglia
del portone di casa, è pronta a darmi, in
francese, il benvenuto. Facendomi sentire
ancora, per un istante, chez moi (ma non so,
con un effetto spaesante, se più lì o qui).
Bene, il portiere dello stabile, con passione
tra l’altro di animali esotici (ha posseduto due
iguane, un pitone, una tartaruga, e per
cambiare “genere” anche due pappagalli!), ha
dato il via a tutta la storia, perché come
sempre, il mistero nasce, come diceva Lacan del
suo Dupin, da un oggetto che circola, che
cambia di posto, come una casella vuota. E
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vuota lo era, quella missiva! Solo una frase:
bentornata! Chi avrebbe potuto immaginare del
mio
“passaggio”
nella
decadente
città
partenopea? Guardo, rigiro e mi rigiro la busta
bianca, tra le mie mani, e lo sguardo indagatore
del portiere (che, dimenticavo, annovera anche,
tra le sue tante qualità: 1) quella di essere un
appassionato di gialli nordamericani: i classici
di tutti i tempi, e impareggiabili: uno fra mille:
John Dickson Carr, e 2) di non essere proprio
quella che si dice una persona “discreta”). Ciò
che lo rende ai miei occhi ancora più unico, un
archetipo: il portiere universale di razza
napoletana!
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15 GIUGNO, LUNEDÌ
A questo punto, nella mia testolina, e tra le
pagine di questo semi-diario, necessario per
svelare e avviluppare di mistero, al contempo, la
mia presenza a Napoli, segnalata da una lettera
tutta bianca, è d’uopo fare una piccolissima
digressione, e percorrere le vie dai nomi delle
città dell’Italia intera, che si diramano a
raggiera dalla stazione centrale di Piazza
Garibaldi, Napoli. Via Ferrara, via Firenze, via
Torino, via Parma, via Milano che per ora
sembrano solo abitate dai cittadini del mondo.
Senegalesi, marocchini, e il resto dei nord
sahariani: il ceppo più antico, e sicuramente un
tempo, anche quello più formato e politicizzato,
“accolto” se non dalla città almeno in città
(parlo della prima generazione). Ma anche
(dall’Ottantanove in poi) albanesi, rumeni,
polacchi (che si aggirano, e dormono talvolta,
per le strade dietro la stazione, tra Barra e
Ponticelli), stampati anch’essi nei gouaches
delle rappresentazioni grottesche dei “c’era una
volta” della città nei loro abiti sgargianti, non
più à la mode, soprattutto i primi, gli albanesi
che aprirono la strada al commercio, e dei loro
traffici e fiumi di birra, e di conseguente
quantità di rivoli di urina lungo i marciapiedi,
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gli altri che li seguirono a ruota; e,
naturalmente (forse da sempre), l’armata
compatta e silenziosa dei cinesi (compagni, mi
sono sempre chiesta, che cercano di infiltrarsi
nella società occidentale o “dissidenti” disposti
a tutto pur di cercar fortuna?) – proprio come il
pc su cui sto scrivendo oggi: n.b. un Lenovo
notebook.
In effetti, poiché a quella prima lettera non
ci fu alcun seguito immediato, ma incalzata dal
portiere, il quale nei giorni successivi, ogni volta
che mi vedeva, mi “bloccava” per aggiungere
qualche particolare colorito alla vicenda che
aveva accompagnato quella strana rimessa del
messaggio bentornata (che, ovviamente, egli
conosceva stampato a lettere di fuoco nella
testa), gironzolavo da qualche giorno tra quelle
strade dai nomi per me divenuti esotici alla
ricerca di un ragazzino che, a detta del portiere,
un tempo doveva rientrare, anche questa sub
specie aeternitatis, nella classe aristotelicomedievale-partenopea
(un
Vico?)
di
O’
scugnizzo, ma per il quale adesso urgeva –
almeno così mi sembrava vedendo gli sforzi del
mio portiere che si trovava impreparato, cosa
alquanto rara, di fronte a questa nuova anima
napoletana, cercando tra i più antichi e più
affettuosi Vu cumprà (già fu questa la loro
unificata etnia d’origine commerciale, e il loro
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carisma archetipo, per noi italiani che li
completavamo ontologicamente, e già purtroppo
insufficientemente, ai tempi della grande
recessione del ’92), passando al nostalgico,
perché già assimilato, italianizzato fratello –
trovare una nuova sistemazione nel catalogo
delle forme di vita di Stanley Cavell (che lo
conoscesse anche il portiere?).
Che lo conoscesse o meno, o che si fosse
accorto della mia esitazione a scegliere tra
Cavell e Wittgenstein, e perché non un locale
Campanella o San Tommaso, bon! per la sua
aria diabolica, che non ti abbandona mai, che ti
segue con lo sguardo, pur incurante
sembrerebbe di te, perché apparentemente
perso dietro le sue “passioni” – quella sorta di
Nero Wolfe, immobile nella sua guardiola,
protetto dalla grata di vetro che apre proprio
come un secondino che ti sorveglia: che
sorveglia tutti voi che entrate e uscite o che
avete intenzione di farlo e che non sapete che
ad essere in cella siete invece proprio voi –,
insomma
urgeva
(ri)trovare
quel,
semplicemente, ragazzino, in quella marea di
persone, di commerci, e, perché no?, pure di
affetti, che pullulano, inquinano e nutrono
questo quartiere autogestito della città di
Napoli, ma soffocante come un panottico di
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mura invisibili, che su ordine del mio diretto
supervisore mi toccava attraversare.
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16 GIUGNO, MARTEDÌ
Ci crederete voi, che si chiama Mustafà?
Infatti, io no! E penso di essere stata,
giustamente, presa in giro, sfottuta come si dice
qui da quel ragazzino svelto, che di mestiere fa
tutto e un poco di tutto.
Ora non so se gli sono risultata simpatica,
ma lui sì, a me! Mi sembrava di condividere
qualcosa, nel caldo torrido, un poco sopra il
termometro delle temperature abituali, di
questo inizio mese di giugno, all’altezza di via
Foria, quasi vicino al Museo nazionale. Forse la
condizione di straniero, che ti viene strappata di
dosso, dalla vita cittadina locale, che sembra
sbatterti sempre in faccia, che tutto può andare
bene qui, basta che ti adatti alle “mie” regole,
cioè: ai miei tempi, alle mie risate, ai miei suoni
e volumi insopportabili, al mio caldo, alla mia
bellezza mozzafiato, che diventi, insomma
napoletano (anche se hai lasciato la città da
sempre, e non la ritrovi più la stessa) proprio
come in Viaggio in Italia di Rossellini, in cui la
penisola
intera
sembra
raggrinzirsi
e
rimpicciolirsi tra quelle ombre del passato che
si svelano di colpo, alla bella addormentata,
Ingrid Bergman, nella condensa calda e umida
della pulsione di morte che abita quelle stanze
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fresche e abbandonate del Museo della città.
Unico luogo di ristoro, in questa città
incandescente, i vapori della solfatara, e le
effigie pompeiane, come le iscrizioni nei sogni,
di cui parlava Freud, ricordandoci che nulla
può essere trasformato in absentia o in effigie.
Non c’è più scampo, neanche per questa sorta
di pseudo-transfert con la storia. È che questa
identità flou (certo, come dovrebbe essere),
melliflua e incandescente, è forgiata, portata
avanti,
e
ad
ogni
passo
perdendo
irreversibilmente
qualcosa
delle
vecchie
generazioni, dalla gente del posto: Droit de cité,
direbbe un filosofo francese. Solo che qui
nessuno sa più a chi o a cosa aggrapparsi, se
non alla massa, informe nella strada. Pronta a
riempire questa voragine, ad alimentare questo
stomaco insaziabile.
Per le strade, io e Mustafà prendiamo un
gelato. Più che domandargli di come e di chi gli
avesse dato appena 5 euro per recapitarla al
portiere di una certa sconosciuta Gemma
Imposimato, lo guardo e lo ascolto in silenzio:
sì, innamorata! Perché non pensavo che lui
esistesse ancora, che potevo trovarlo lì,
scugnizzo (dovrò dirlo al mio caro portiere),
proprio come nei miei sogni, nei miei film di
una Napoli andata.
Vincenzo m’è pate a me.
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Ma anche Peppiniello, per l’appunto, di
Ladri di biciclette, più serio però (ché già si
chiama in romanesco “Bruno”) proprio come la
miseria senza nobiltà. Certo, il mio Mustafà era
diverso, non si piegava né assecondava i miei
desideri-pensieri, aveva la sua vita, già adulto,
autonomo, ed era, direi (cosa che mi rendeva
colma di felicità), anche lui, incuriosito da me.
Come dicevo: una certa affinità di condizione,
certo non più sociale, ma della buona vecchia
scuola esistenziale, ci univa in quella città.
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Fiutando tra i vicoli
Peppino, o Mustafà, conosce la mia città,
meglio di me. Lo seguo, tra vicoli e vicarielli, di
una Napoli che si sposta continuamente, che
frana, o così mi sembra, sotto i miei piedi, verso
l’enorme caldera su cui è costruita, una baia
azzurra che è anche la bocca di un vulcano
immenso.
Quel poco più di un bambino, che mi
aspetta a stento, scontento, agli angoli di bar,
tra due semafori, appoggiato ad un muro
scalcinato, che lo raggiunga – che pure mi sorge
ad un certo punto il sospetto che faccia
apposta, o’ ffai apposta, o’ ffai?, e che non
voglia altro che perdere un po’ di tempo, anche
se con me! –, mi sembra proprio un topolino
che sbuca per prendersi la sua rivincita sulla
città. Non certo quel topolino di fiume della mia
amata Parigi, che solo poco prima di essere
vigliaccamente
sfrattata
dall’ottantenne
ereditiera castigliana fin troppo esigente e fin
troppo borbonica (ma non senza soddisfacenti e
rigeneranti rappresaglie anarchiche da parte
mia) ho scoperto coabitare nel mio piccolo loft
sul canale Saint Martin. Topolino pur sempre
francese, discreto, forse infastidito dalla mia
stessa presenza… No, qui ci troviamo di fronte a
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un essere superiore che non sa, benché lo
intuisca, di essere tale, e anche lui subisce
incurante il sortilegio di questa malefica
fattucchiera che è il cuore vibrante, pulsante di
liquido rosso sotterraneo che attraversa la città,
e che lo rende l’eroe, o forse l’antieroe, metà
uomo-bambino, metà uomo-topo, e metà
bambino-topo pronto a sacrificarsi, o ad essere
sacrificato, rigurgitato dalle sue viscere.
Cerco a stento di seguirlo e di non
perderlo, dopo che quel topo lì mi ha dato ad
intendere, evasivo, che la lettera gli era stata
data da un “tizio”
sulla settantina, un signore distinto, tiene a
precisare, italiano quasi napoletano
nei pressi dell’università, dietro quei
vicoletti che nella sua cartina topo-grafica
salgono da via Marina al Centro Storico,
cancellando di colpo il corso principe Umberto
(e tutta la strada da percorrere dalla nostra
postazione per raggiungerli!). La descrizione era
accurata – il topolino, come si sa, è abituato a
muoversi anche solo per istinto e al buio –, per
cui ancora prima che i tuoni si cominciassero
ad
avvertire
premonitori
della
pioggia
torrenziale, che sarebbe scesa giù da lì a poco
costringendoci a rifugiarci in un antro sporco,
tra bottiglie di birra vuote ed erbacce – una
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specie di rifugio nucleare, lì, a cielo aperto, nei
pressi del centro storico di Napoli –, e a
raccontarci barzellette inventate ma secondo le
sacre regole del canovaccio più tradizionale, del
tipo: c’era un francese, un americano e un
napoletano…, immaginavo forse già questo
signore napoletano (o era un francese? un
americano?) che, vestito di chiaro, con una
giacca verde marino, di lino, aveva fermato un
ragazzino di colore sbiadito, scambiato,
consegnandogli la busta. Il giorno del mio
arrivo. Più che una lettera, però, rimuginavo,
inseguivo dunque una giacca, di taglio rifinito,
di stoffa di ottima qualità, ben fatta (eh, sì,
questo ometto dai mille volti e mestieri,
sorridevo orgogliosa dentro di me, sembrava
capirne di haute couture!). Cucita da mano
esperta e sapiente. Come solo nella vecchia
Napoli (se esisteva ancora!) avrei potuto trovare.
Ma questo ancora non lo sapevo.
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Strani
spagnoli
pensieri
a
Trinità
degli
Girovagando
con
quel
bambino
sconosciuto al mio fianco – o meglio: a cui
tentavo, aggrappandomi a tutto ciò che fosse a
portata di mano, di rimanere al suo di fianco:
per paura di perdermi e mai più sapere
ritrovare l’uscita tra buste, pacchi di persone
all’improvviso riverse sull’asfalto, brulicante di
calore di motorini appollaiati, reggendomi a
stento a questi alberelli appena piantati per
ridare un poco di vigore a questo selciato
vecchio e stanco – riscoprivo stupita e
meravigliata una nuova (non so se più bella, o
se ancora più scostante del consueto, proprio
come una vecchia matrona dei bassi delle scale
e dei vicoli più rinomati al mondo: i quartieri
spagnoli) Napoli.
Quella vita mi incantava e mi procurava
un sentimento di fastidio e di rivalsa costante,
essendomene andata anch’io ormai quasi
un’epoca fa (o in effetti otto anni e pochi mesi)
per approdare nella città sua gemella, ma che
come tutte le sorelle o i fratelli abbindolati dal
destino della duplicità fanno di tutto per
differenziarsene (all’esterno) e per riprodurre in
qualche modo, intimamente (all’interno), una
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certa vaga somiglianza. Quelle due vecchie
signore, una popolare e l’altra borghese, o
viceversa, ma entrambe aristocratiche e nobili,
come per nascita o per destino, anche se io
direi, più democraticamente e non senza una
laica accettazione della possibile trascendenza:
per (in)vocazione, si rassomigliano, o si imitano,
ingiustamente e simmetricamente proprio come
un’immagine allo specchio.
Parigi (di lei parlavo, della città assorbita e
percepita, più che scoperta, camminando per
strada con un libro di Benjamin aperto sui
Passages e leggendolo) non era meno viva e
brulicante di questa Napoli.
Ma al di là del luogo comune, io cercavo
(ho cercato, in tutti questi anni) di mantenere le
distanze, in un equilibrio (a quanto pare)
abbastanza precario (vi dicevo che la leggevo
attraverso i suoi visitatori, più che vederla), per
non sentirmi attratta, e cedere, all’inferno
dall’alto del paradiso, cadendo verso – pensavo
tra me e me –, forse proprio intimamente verso
quelli come me. Partoriti dallo stesso ventre a
cui è stato dato in sorte di popolare questo
fazzoletto folle e bruciante sotto i piedi di terra
arsa.
Ma lasciamo Gemma di circa dieci anni fa
a camminare per Parigi senza sapere quale
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strada sta percorrendo, e ritorniamo al mio
racconto. Anche perché mi sento strattonare da
Mustafà, Peppino o Gennariello che mi fa:
Gemma (sì, già ci diamo del tu), ascolti?
(ascoltavo?) Guarda cosa ci dice il signore
Loiacono.
Il mio aiutante, o assistente, lo scugnizzo
dei tempi post-moderni, sembra aver letto tutto
delle celebri coppie di investigatori-detective
(eh, sì, dovrò prima o poi, alla fine di questa
lunga giornata offrirgli un po’ di ristoro a casa
mia, e perché no, presentarlo al gardien) che già
si sente parte, soggetto attivo della storia,
insieme a me, il mio aiutante, o complice, forse
meglio tuttofare che qui è più consono di
natura, ma devo dire con l’energia che sprizza
da tutti i pori (e non so a chi dovrà egli, o io, a
questo punto rendere conto delle sue avventure
o fuoriuscite del suo universo abituale, mi
preoccupo appena un po’). Ma è meglio
rimanere concentrati ed ascoltare ciò che tale
Loiacono, dottore, ci sta dicendo.
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21 GIUGNO, DOMENICA
Eccomi qui a infrangere la promessa.
Dovevo scrivere solo a Napoli, che mi
autorizzava, avendo vista crescermi questa
piccola, forse innocente ma non so quanto,
regressione.
Invece non è che io non resista alla
tentazione, ma le circostanze “avverse”, senza
voler esagerare, mi perseguitano anche qui,
nella città che mi ha visto maturare, épanouir,
direbbero i francesi, senza che io le avessi
chiesto niente. Quell’incantesimo sembrerebbe
dunque rotto, spezzato? O è solo che mi porto
appresso un po’ della mia Napoli?
Comunque non resisto alla tentazione, e
nell’impossibilità di riprendere il mio saggio su
Sade (cominciato passeggiando sotto la
Bastiglia e immaginando il titolo, interrotto a
Napoli e fino ad ora non più aperto), anche qui
a Parigi, richiamata da una collega per una
vicenda impossibile da rinviare, riprendo le file
del discorso è faccio, con uno schiocco di dita, e
amerei: con quel pernacchio – non pernacchia –
che solo a Napoli conoscono, rivivere qui il mio
ragazzino, la nostra amicizia, e l’avventura di
quell’altra città.
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Chi è il Sig. Loiacono?
Mi domanderete se poteste voi parlare…
Era un signore dalla pelle di velluto, cioè non di
cuoio, né di stoffa, ma velluto, come i suoi occhi
verde mare. Un tempo faceva il maestro
elementare alla scuola pubblica statale
Lombardo Radice a via Stadera, quartiere di
Poggioreale. Questa scuola, se ubicata nella
città in cui ora sto scrivendo, sarebbe nei pressi
della periferica nord di Paris, quartiere Barbès o
Marcadet-Poissonière. Meteoriti esotici al centro
della ville.
Quell’uomo che mi apparve nelle nuvole di
un sogno, come le rivedo ora, strattonata nei
miei pensieri dal furbo Mustafà, mi sembrò un
uomo di altri tempi, viso camosciato, occhialini
tondi, un poco curvo, e con grandi mani
tremanti, ora in pensione. Da quando aveva
smesso gli abiti del maestro, aveva cominciato a
frequentare le strade, gli amici del circolo sotto
le scale di Santa Maria Francesca (angolo
Ospedale Militare), i negozi e le botteghe, e
soprattutto aveva finalmente deciso di fare
concretamente la corte alla sua amata, la
bellissima e leggendaria donna Elisabetta, sarta
sopraffina napoletana, conosciuta col nome
d’arte e di commercio (ed era un grande nome
nel mondo) di Sisa.
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Loiacono dunque si affacciava ogni giorno,
sporgendo prima la testa e poi appoggiando di
peso, senza più fiatare, il suo lungo e magro
corpo allo stipite della porta del laboratorio
segreto di Sisa. E rimaneva così, uno sguardo,
un sospiro, senza che lei, così indaffarata lo
degnasse di un sorriso, fino alla pausa pranzo,
quando lei si toglieva la divisa da lavoro, si
sistemava (cioè si storceva un poco) il
cappellino sul viso immacolato, e incorniciato
dai soffici capelli bianchi, si dava un’occhiata
nello specchio e finalmente glielo diceva in un
sussurro simile a quello della macchina da
cucire quando si alza il piede dal pedale.
Sei pronto? Andiamo.
Sisa era così.
I due attraversavano cunicoli e labirinti di
seminterrati sotterranei, per emergere, pure
loro, dalle viscere della città, proprio come dai
cunicoli della memoria dei miei ricordi.
(E vi confesso che, per quanto abbia
cercato, non sono mai riuscita a trovare il
laboratorio segreto, e mio nonno, commerciante
di pellami e, sono convinta, anche lui
convintamente e clandestinamente innamorato
della sarta più misteriosa di Napoli, non fece a
tempo a scriverlo prima dell’ictus che lo
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costrinse al silenzio, ma sempre sorridente,
qualche mese prima di morire.)
I due andavano a sedersi alla famosa
trattoria Mangia e bevi che ancora oggi esiste e
sforna ancora oggi, squisite come allora, ma per
persone molto più rassegnate e stupide di
allora, le antiche ricette della dolce cucina
partenopea.
Io e Mustafà abbiamo quasi l’acquolina alla
bocca, e non interrompiamo il giovane vecchio,
sentendolo decantare le doti culinarie, come
delle pratiche erotiche che i due si concedevano
ogni dì, alle ore 12.30 in punto, anche se tutto
sembrava allontanarci da un senso, seppur
esistesse, infinito, remoto del nostro incontro.
Tra l’altro, dimenticavo di aggiungere che il mio
“assistente” mi aveva indicato il Sig. Loiacono
come “persona a conoscenza dei fatti” perché
questi
era il titolare della giacca verde mare.
30
L’arte di Sisa
Sisa, Elisabetta. Nessuno ricordava il suo
cognome, ma forse era più un segno di rispetto:
non ce ne era bisogno. Immortale e immortalata
dalla bellezza e dall’eleganza, come di giovinezza
assoluta… ma anche di saggezza instancabile,
entrambe musicate dal suo volto di rughe, e
ritmate dalle sue mani agili. Un direttore
d’orchestra, in equilibrio supremo sull’albero
maestro di una nave corsara. Nel porto di
Napoli. Nei due dopoguerra.
Fissammo tramite il barbiere baffutissimo
e con i pochi capelli arruffatissimi (pensavo alla
variante del paradosso di Russell: a Napoli
nessun
barbiere
si
rasa
da
sé)
un
appuntamento con il dottor maestro Loiacono,
per il giorno dopo: ore dodici e trenta, in
presenza della sua amata.
Pensai tra me, di ritorno verso casa, che
era già passato poco più di un mese, dall’ultima
volta che misi di nuovo piede qui, nella mia
città e dopo qualche vai e vieni con Parigi, e una
piccola parentesi (romantica e professionale,
con il mio compagno ad Ischia, ché con lui tutto
è sempre professionale e romantico allo stesso
tempo,
anche
quando
mi
accarezza
31
espertamente
il
seno
o
ci
baciamo
perdutamente sulle labbra). Mustafà era quasi
scappato via, non prima di accordarci, però, che
ci saremmo visti l’indomani e che anche lui
sarebbe venuto a pranzo con me, con Sisa e
Marcello, il Sig. Loiacono. E poi, anche lui,
come il tempo qui, volatilizzato.
Camminando per una Napoli quasi vuota,
provai a ricostruirmi nel pensiero il percorso di
quella lettera. Lo faccio anche a vostro profitto.
La lettera che mi annunciava così
semplicemente il bentornato era stata data dal
maestro elementare al ragazzino di colore, che
lui conosceva bene, per averlo inseguito – è
proprio il caso di dirlo! – vari anni or sono dalla
quarta elementare perché potesse almeno fargli
conseguire il diploma. Ma quella lettera non gli
apparteneva, o meglio apparteneva alla giacca
verde marino che aveva per scambio confusa
con la sua. Ricordava bene quel momento, fu
quando la bella e impossibile donna Elisabetta
accettò finalmente di farsi accompagnare, come
si dice a Napoli, dà casa à puteca, solamente
che nel suo caso trattasi di percorso inverso: da
bottega a casa.
Che poi, significava ancora, permettergli di
salire le scale con lei, aprirle la porta nascosta
dietro a quel lungo e scuro corridoio di questo
32
palazzo di vicolo Girolomini all’angolo della
chiesa, che era stato in passato un convento di
frati. E lì, offrirgli, no, non una tazzullella e
cafè, ma un thè, anzi: un antico tha.
Lì, indossato l’abito migliore – Marcello
Loiacono aveva optato per un completo
spezzato, grigio, quasi bianco il pantalone e, su
di una camicia rosa pastello, una giacca
azzurrina, quasi verde marino, e un fiore
all’occhiello (non sono certa che sia questo il
caso, ma lo dico egualmente: ogni fiore è la
pansé libidica resa celebre da Aurelio Fierro e
Carosone, con testo di Pisano musicato, dopo
l’impermalosimento del maestro Cioffi, da Furio
Rendine, già organizzatore del festival di
Piedigrotta) –, il maestro aveva dato il meglio di
sé; forse un poco spaurito e imbarazzato, ché
da tempo accademico non corteggiava una bella
donna, soprattutto se questa donna era la sua
dirimpettaia, fantastica, linda e profumata
come sempre, Sisa.
Così, dopo aver chiacchierato dei tempi
andati, dell’amico comune, il professore di
diritto Carlo Almirante, palafreniere sfrenato nei
vicoli notturni quanto barone rosso in
accademia, e le bravate da ragazzi nel borgo di
Santa Lucia, come per ogni dama che si
rispetti, era scoccata l’ora inconveniente per
ritrovarsi soli a casa. E come ogni cavaliere
33
innamorato, lui, sempre imbarazzato, con una
mano le aveva preso la sua e sfiorato
leggermente il dorso con le labbra, e con l’altra
tastato dietro la spalliera della sedia alla ricerca
della sua giacca. Già conscio, o inconscio, di
portarsi con lui, nella notte, il profumo di lei,
dei suoi ricordi, e la voglia, come di tanti anni
fa, che ritorna intatta, in sogno, per amarla
ancora.
Bene, mi dico. Sisa saprà. O almeno la
signora, tanto acclamata, saprà comparire
dignitosamente in scena, per darmi una
spiegazione. E cioè, com’è che in quella giacca,
nella sua stanza da pranzo, era scivolato, o
fatto scivolare, forse tanti anni fa, o
sicuramente, un biglietto nella tasca con su
scritto “bentornata” e indirizzato alla sig.na
Gemma Imposimato, via delle Rose, Napoli.
Che, fino a prova contraria, e in mancanza di
comparabili omonimi, ma non senza incertezze
(pratiche e trascendenti, e legate anche all’Io e
l’Es freudiano e alla Massenpsichologie, ecc.),
sono io.
34
25 GIUGNO, GIOVEDÌ
In effetti, io non abitavo certo a via delle
rose, una via, tra l’altro, che mica so se esiste
ancora e realmente a Napoli. Sta di fatto, che
quel ragazzo furbo, e dubitavo che fosse più
napoletano di me, aveva trovato proprio me. Ero
io Gemma Imposimato, in fin dei conti… O
almeno credo! O comunque ero io quella
Gemma a cui davano il bentornato.
Il portiere mi guarda, anzi, direi mi fissa, e
io mi spazientisco sotto a quello sguardo
accigliato, quasi sovrappensiero, che mi
oltrepassa per immaginare la scena, e non
vedere più me.
Insomma Enrico (è il nome del portiere)!
Non mi tenere sulle spine, non sono abituata al
tuo silenzio prolungato: che cosa c’è? Ho forse
sbagliato qualcosa? Mi immagino dire, mentre
in realtà guardo l’orlo della mia camicetta,
maltrattata, che ho preso dall’armadio di casa
fuggendo via da un altro sguardo indagatore:
quello di mia madre.
Che penserà questa povera donna, che
vede forse due volte all’anno sua figlia, e che se
la ritrova per un soggiorno sì prolungato, ma
sempre di corsa, sempre fuori casa, al contrario
35
delle sue (mie dunque) abitudini di rientro da
Parigi con il lavoro sempre a portata di mano, e
dunque immersa nei libri, assorta sulla pagina
del portatile, oppure, unica eccezione, tra le
librerie di Napoli, Firenze, Roma e Salerno. Ma
soprattutto, famose, tra quelle dei vicoli della
sua città, nei pressi di Port’Alba.
Port’Alba? Sì, buona idea, Gemma! Ci sta
un mio caro amico, Totò, che vende libri antichi…
Potremo partire da lì, allora.
Cioè tu, secondo me, dovresti capire dove e
che storia aveva questa via delle rose. Che
proprio non mi risulta, no!
Cerco di focalizzare un’immagine della mia
memoria, facendo un vuoto tutt’attorno, ma
proprio questo nome
e tu conosci la mia esperienza e la mia
conoscenza, pratica e teorica, della realtà
napoletana.
questo nome non mi sovviene! Credo che
non sia mai esistita. Però, si potrebbe provare…
Come? Sì sì, certo. Tra l’altro contavo di fare
un giro lì! Però prima vorrei, col tuo permesso,
s’intende, parlare con Donna Sisa.
36
Lei saprà dirci qualcosa di via delle rose,
oppure della sua giacca. Le mostreremo il
biglietto. Intanto non so proprio come quel
ragazzino abbia fatta ad arrivare sin qui: via
degli scalzi, numero centodiciotto…
Ma lui non c’è mica arrivato!
In che senso, Enrico? Mi sogno domandare
(nel senso che me lo immagino), mentre taccio
interrogandolo…
È che l’ho incontrato per caso, al mercato,
vicino la stazione, alla spalle di porta capuana,
che domandava in giro, dappertutto, ai
commercianti, ai ragazzi del bar, al parroco e
finanche ai mendicanti se conoscevano vossìa –
e qui lui mi prende certamente in giro! Ma non
dico niente curiosa del continuo – ed è allora
che ha domandato anche a me, cioè a noi (ero
con mia moglie Sandra per delle commissioni
“urgenti” che la riguardavano, il giorno di
domenica!). Insomma, Sandra mi chiama subito!
Sì sì che la conosciamo! Ma lui non ci dice nulla
di Via delle rose, però.
Dunque, potrei non essere io, e potrei
avere solo perso del tempo, sottratto alla
preziosa scrittura! Mi sfugge l’incazzatura!
Fingermi in un complotto di famiglia, e forse,
37
proprio come in quel film, giocare la parte della
finta cartomante!
E solo per il tuo piacere, Enrico!
Questa volta lo dico davvero! Sono
arrabbiata, perché mi sento abbindolata, anche
dalle persone, oltre che dalla città. Sisa,
Loiacono, Mustafà, come fossero comparse! E
io?
Cara signorina! Non si arrabbi!
Ma mi dai del Lei? E da quando.
Da quando non La riconosco più! Da quando
assume pose da “non ho tempo da perdere” e
trascura tutti. Me stessa in primis, tiene lui ad
aggiungere epicamente, quasi verrico.
Il suo discorso non mi convince, però fa
sicuramente centro!
Non è curiosa?
Curiosa.
Scusa, non sei curiosa nemmeno un poco?
Un poco.
Ragiona.
Ragiono.
38
Ragiona. Esiste via delle rose? Se esiste, chi
è questa Gemma Imposimato, tua omonima? È
forse in pericolo? E comunque, anche volendo
tralasciare
quest’ultimo
particolare
che
l’ammetto è da Intrigo internazionale, e se non
esistesse, come suppongo via delle rose,
e questa gemma imposimato, fossi tu.
Oppure realmente un’altra donna, vissuta
in un altro tempo, e in un altro luogo? Pensaci:
in un’altra Napoli?
Non vorresti conoscerla davvero? Parlo
anche di Napoli.
Magari tra le pause silenziose delle persone
che davvero l’hanno incontrata? Nelle rughe
delle loro vite?
Raccontate a te per caso, Gemma, per un
fatto di.
Coincidenza?
Un fatto di coincidenza. Voire – e qui sfoggia
il suo francese – di noms-du-père?
Insomma, per farla breve, la morale della
favola è che è un bene quello che mi è capitato,
almeno è una ricerca, ed io in quella sono
brava! Lavoro sul campo, con tanto da scrivere.
39
VENERDÌ MATTINA
Alle sei del mattino, ricevo una telefonata.
Mi fanno delle domande sul mio grado di
soddisfazione dei servizi di posta celere. Sto
dormendo ancora, rispondo qualcosa ma mi
pare di sognare, poiché non riesco a capire dove
l’operatore del call center vuole arrivare “a
parare”. In qualche modo riesco a chiudere, e
mi rimetto a dormire. A sognare.
Gemma, lui l’aveva dimenticata; lui ti ha
dimenticata. Il postino è arrivato in ritardo, e non
ha suonato. Forse ti eri assentata, anzi ricordo
proprio bene, di non averti mai incontrata. Eri
sempre via! E io sempre a rincorrerti.
Dappertutto! Ho anche affittato un servizio per
raccomandata. Ma niente, tu non c’eri! Non ti
decidevi a ritornare. Gemma, mia adorata,
bentornata!
Lui l’aveva dimenticata, mi ripete Sisa,
aspettando la fritturina all’italiana che abbiamo
ordinato per quattro. E lei ne soffriva! Una
ragazza così bella, piena di portamento e di
classe, tua nonna era la modellista più
ammirata, desiderata e richiesta di tutta Napoli!
Ed anche invidiata!
40
Il tempo di assaggiare una frittella d’alghe
(mi chiedo come mai si debbano chiudere gli
occhi per gustare il sapore) e lei riprende.
Ricordo, mi fa, che c’era un industriale del
Nord, lì, dalle parti di Milano, innamoratosene
perdutamente, di tua nonna Gemma.
Ma lei aveva occhi solo per lui, mi spiega
Sisa come se volesse convincermi e convincersi.
Per quel bell’imbusto di Renato, che poi
diventerà tuo nonno. Ma che la faceva soffrire e
continuerà – lo so, non dovrei dirlo a te, che eri
la sua nipotina prediletta…
Signora Elisabetta… Mi sento dire un po’
coquette.
Ti prego cara, chiamami come tua nonna:
Sisa!
Sisa, come può esserne sicura? Voglio dire,
credere, dopo tanti anni che quel biglietto fosse
indirizzato a lei, a mia nonna voglio dire, da
parte di Renato? Quando poi, il suo cognome da
nubile era Fiore, Gemma Fiore…
Così incominciammo a parlare, nel locale
fitto fitto di gente che spinge per trovare posto,
ma ride e scherza come se niente potesse
spezzare l’armonia naturale che li circonda, lì,
alla locanda. Gli altri due, cioè Loiacono e
41
Mustafà, si guardano negli occhi, e parlano
così: tanto i due si conoscono e preferiscono
anche loro non turbare l’ordine naturale delle
cose, quello di due compagni, anche se di età
molto differente, che si sono rincorsi per tanti
anni, e che ora per magia si ritrovano uno di
fronte l’altro, a mangiare nello stesso piatto.
Sisa e io siamo sole, lì dentro. Lei mi
guarda come se mi conoscesse e mi spiattella
così, con la sua grazie e la sua autorevolezza la
sua teoria: e cioè quel biglietto indirizzato a
Gemma Imposimato di Villa – non Via – delle
Rose, appartenesse a mia nonna Gemma,
madre di mia madre, quando lei fu
abbandonata (ma da chi, allora?), o meglio
quando decise di lasciare il suo compagno, mio
nonno Renato (che io e mia madre, ovviamente,
non abbiamo mai visto né conosciuto come tale,
chiamandosi invece mio nonno anagrafico
semplicemente Gennaro).
Gemma, lei era innamorata
lì, spiega la signora Elisabetta,
dirle che non era serio, non
affidabile, forse o di sicuro non
l’uomo per lei, per mia nonna…
persa di quello
e hai voglia di
era un uomo
era comunque
…ma lei, ricordi com’era?
Una bellissima capa fresca! Me la ricordo.
42
Dunque, ti dirò, che secondo me, ma non
ricordava proprio quando, sicuramente quando
stanca dei suoi tradimenti lei sarà andata via,
per stare come spesso accadeva, e accade
tutt’oggi con molte ragazze della tua età mia
cara, da me, in laboratorio, per qualche giorno…
Ecco forse, proprio lì, un giorno lui sarà
venuto per parlare con lei, e lei, capa fresca
anche allora, avrà pensato di non farsi trovare,
di nascondersi, oppure di non farsi trovare
sola… Ecco, uno di quei giorni, che lo
spasimante si consuma d’amore e di nostalgia…
…insomma, ecco, io gli promisi, impietosita,
e forse, lo ammetto, segretamente innamorata
dell’aria da duro, sempre col cappello e una
sigaretta tra le mani e quell’acqua di colonia…
ecco io promisi di “rendergli” tua nonna: che
aspettasse lì da me, che con l’inganno l’avrei
costi quel che costi fatta ricongiungere a lui.
E
allora?
Non
possono
trattenersi
all’unisono Mustafà e Loiacono che fino a
qualche
minuto
fa
sembravano
averci
dimenticato intenti ad osservare la gente
intorno scambiandosi professionalmente e
virilmente qualche occhiataccia furbesca.
E allora, non so! Risponde la Signorina
Elisabetta. Io con una scusa ho chiesto a
43
Gemma, la mia piccola e bellissima modella, di
aspettare su ché un fornitore speciale avrebbe
dovuto portare dei disegni di modelli da Parigi,
che mi avrebbe dato in esclusiva da confezionare
qui, ma che io purtroppo non potevo esserci
perché impegnata con la Signora Franca della
Porta in laboratorio per i ritocchi necessari
all’abito da cerimonia in occasione del
fidanzamento della penultima figlia Assunta. E
che
non
poteva
però
comunicare
al
rappresentante, che poi rappresentante non
era, alcun ritardo o spostamento.
E quindi non sa cosa successe? Lei salì,
incontrò Renato, oppure no? E lui perché le
scrisse “bentornata”?
Come saprai, mi disse aprendo con grazia
un’altra fritturina d’alghe, non rividi più tua
nonna per tantissimo tempo. Lei mi scrisse
dall’estero qualche volta per dirmi che si era
sposata e che aveva avuto una bellissima
bambina. Finì di masticare, senza parlare. Si
vedeva che la dentiera non era fissata bene. Ma
io sospetto, che Renato fosse tuo nonno. E che
quel biglietto lui l’avesse scritto quando seppe
del suo ritorno a Napoli.
Ma Imposimato era il cognome di chi?
44
Questi che irrompe con l’aria da sbirro
buono
è
ancora
l’intelligentissimo
mio
collaboratore. Sono grata che sia lì, perché già
mi gira la testa, non so se più per il vino o
quelle chiacchiere di una vita che non riconosco e che ri-aprono i misteri della
fondazione della nostra famiglia.
Imposimato era il cognome del marito di tua
nonna, o, per essere esatti, dell’uomo col quale si
sposerà e che tua nonna buonanima [si vedeva
che cercava la parola esatta] utilizzava [ecco il
verbo e la coniugazione esatte: sapeva tessere le
parole come faceva con gli abiti?] utilizzava
come un pupazzo per ingelosire il tuo vero nonno,
Renato Di Salvo.
Sì, sapeva tessere bene. Era la migliore.
Non sapevo se la stavo ancora ascoltando, o se
fossi passata a leggerla, a ammirare il prodotto,
a studiare gli spazi, a contemplarne l’atmosfera.
Insomma Sisa, l’interrompe Marcello, ti
rendi conto di cosa racconti a questa povera
ragazza che man mano che vai avanti nella
storia diventa sempre più pallida? Faceva la
parte dello sbirro buono che, stanco di fingere
indifferenza, diventa impaziente, ora. Gemma,
bevi un po’ d’acqua, prendi il bicchiere. Anzi no,
aspetta che chiedo di portare una fanta o
qualche altro intruglio con zucchero sufficiente…
45
Sì anche a me!
È la voce squillante di Mustafà che sento
solo, ma non riesco più a vedere. I timori del
giorno prima, minimizzati da don Enrico,
allungano le loro ombre dentro di me, e mi
offuscano la vista.
No, grazie… è che vorrei tornare a casa.
Ed è allora che sogno.
Sogno di una donna dai tratti del volto
simile a quello di mia madre che ritorna perché
ha sofferto, si è sposata, intanto ha avuto una
figlia ma che forse è innamorata ancora di lui, e
vuole ritornare a casa per stargli vicino e che lui
la cerca, ma i due non si trovano e la vecchia
Sisa che si fa sempre più vecchia, e vecchia più
non è, si perde anche lei nel suo laboratorio, tra
i ricordi che mescola e le storie che inventa.
Lui l’aveva dimenticata, lei ha sofferto e lui
l’ha cercata. Ma di che parlano tutti, sento voci
nel sogno come squittii di topi.
E perché proprio mia nonna?
Signora, signora? Allora desidera abbonarsi
al nostro servizio di posta celere? In omaggio
potrà inviare ovunque e a chiunque un pacco dal
peso di 19 libbre.
46
Sì, spietati.
47
28 GIUGNO, DOMENICA
Un pacco, l’indomani, effettivamente mi è
stato consegnato. Anche questa volta: senza
mittente. Ma mi è facile, invece, questa volta,
scioglierne il nodo di mistero, basta aprirlo; ma
senza trovare la soluzione a questa storia, che
per me è un complicato problema a cui non so
sottrarmi (o moltiplicarmi).
Come a confermare che le chiacchiere di
ieri non erano voci dell’inconscio, o che
comunque, quelle si sono mischiate a queste,
aprendo il pacco mi ritrovo davanti, la vedo lì,
in effetti, come materializzandosi, Sisa che mi
porge, credo, le sue scuse, qui c’è scritto un
biglietto, per quelle “rivelazioni” che potrebbero
avermi turbato – io direi: perturbato – ma a
conferma delle quali eccomi inviarmi ricordi
tangibili, concreti, di mia nonna, dell’uomo, o
degli uomini, basta contare i due Di Salvo e
Imposimato, che ella ha amato, foto di lei, con
loro, e tessuti prediletti, conservati, cappellini
indossati, nastrini colorati, réclame della
vecchia Napoli… e una foto, di una villa, in un
posto ameno, così bello che mi sembra di
scorgervi…
È Ischia: villa delle Rose.
48
Vorrei partire senza attesa e senza
interpretazione, come colpita da un desiderio
puro, senza sintomo, ma mi impongo la lucidità
e la pazienza dell’analista, che, non senza
seguire le intuizioni, prende però una lente di
ingrandimento, oppure si mette nell’angolo della
stanza più illuminato dal sole, e baciato dalla
fortuna, spera di intravedere un indizio, almeno
una prova, scrutando quella fotografia come se
fosse una lastra di emozioni, sensazioni, e
sedimenti di patimenti vari. Una geologia
dell’anima (qualunque cosa animus e anima, e
dunque psiche, significhino nelle varie scuole
psicologiche).
Un cancello fiorito, che si apre su di un
viale alberato, ma non curato, abbastanza
incolto, lasciato lì a dare i suoi frutti spontanei
nella bellezza struggente del paesaggio. Un
paesaggio di mare, ma non mi è dato vedere. Il
cammino di terra battuta, con mucchietti di
erba ai lati. E qualche muretto solitario, per
consentire
la
sosta,
che
s’interrompe
bruscamente davanti alla lastra trasparente del
cielo estivo, bianco latte. Ritorniamo alla donna,
e alla villa che ci sorride: un cartello apposto
manualmente sul muretto bianco di fianco al
cancello segnala scritto a mano, villa delle Rose.
La donna sembra una giovinetta sicura di
sé, davanti la macchina da presa, e anche
49
audace nei suoi shorts e con le lunghe gambe in
posa, un foulard nei capelli, e quel sorriso
inconfondibile di mia nonna materna: lo stesso
sorriso di mia madre, e qualcuno che le ha
conosciute entrambe, come la Sisa, dice anche
mio. O, meglio, lei dice tuo.
Forse Sisa,
penso tra me, preparandomi un caffè a
casa, prima di scendere al bar, perché ho voglia
di assaporare ancora qualche minuto di totale
intimità e ascolto dei rumori lontani della
strada – visto che casa qui è vuota, e che mia
madre è ora al mare per qualche giorno –, quel
minuto mattutino che non potrei prolungare.
Cosa tra l’altro che non avrebbe senso, con
Gino e Michele che mi augurano allegramente il
buongiorno dietro al bancone, con mille paste e
pasticcini, ticket e scontrini, giornali e tazze e
bicchieri d’acqua, frizzante o naturale?, che mi
svolazzano attorno. E poi, c’è che soprattutto
voglio evitare il portiere, che come tutti i portieri
del mondo, è troppo invadente, impiccione…
insomma Sisa,
penso tra me,
forse vuole dirmi qualcosa.
50
Quella
vecchia
signore,
anch’ella
stralunata, prima donna, sempre in cerca di un
sentimento, una favola, à la mode… insomma,
Sisa forse,
non ha avuto il coraggio, ieri di andare fino
in fondo, aprire quella porta o quel cancello,
storpiando consciamente il ricordo, forse chissà
per non soffrire: che pure si è detta innamorata
di Renato.
Renato? Ma chi è costui? Mio nonno? Mio
nonno biologico. E dove vive?
So che dovrei attaccarmi al telefono e
chiamare
mia
madre,
ma
non
voglio
coinvolgerla. Abbiamo sempre saputo che la
nostra era una famiglia di donne, matriarcale,
senza contaminazioni paterne. E che il presunto
nonno, Gennaro Imposimato è morto di
crepacuore, già anche ictus (qui si dice soltanto
“colpo”, unificando dunque cuore e testa),
troppo presto per averne anche solo un
ricordo… Che l’abbia ucciso lei, Gemma Fiore
vedova
Imposimato?
Oppure
Elisabetta
Cardillo, in arte Sisa, la sarta (so di essere
ingiusta con lei, sfogandomi così sulla tastiera
del mio pc, lontano ora nel tempo e nello spazio
come dall’altra parte di un buco nero, ma in
questo modo, senza interferire con il flusso
51
della mia coscienza inconscia, potrei scoprire
qualcosa, o scegliere quanto meno la strada
migliore: la mia!)? E che sia stato tale Renato Di
Salvo
a
ucciderlo,
vogliamo
almeno
considerarlo? Oppure di concerto, perché no? I
due, anzi i tre, con la complicità di Sisa, la finta
partenza di nonna Gemma, le cartoline
indirizzate alla protettrice amica… e poi il
ritorno, mentre invece lei è sempre stata qui… a
Ischia. Un coup monté, ben imbastito, come un
modello di tight per un uomo di spalle strette.
Dovrei sottoporre mia madre ad una seduta
ipnotica,
rido tra me. Ma un poco inquieta, mentre
giro lo zucchero nel caffè, che oramai si è fatto
sicuramente freddo e mi tocca scendere alla
caffetteria di sotto. Però il bentornata trovato di
recente nella tasca di una giacca, per lo più
appoggiata alla spallina della seggiola del
salotto di Sisa, dal maestro, l’ha tradita! O li ha
traditi! Quel “bentornata”, rivolto pretesamente
a Gemma Imposimato presenta traiettorie
temporali come dei frattali, uguali ma sparse e
irriducibili.
Ché se Gemma è lei – fermo restante la
veridicità di tutta questa storia – allora, il
bentornata scritto da Renato – secondo la
versione di Sisa – dovrebbe essere il sigillo
52
dell’incontro organizzato nel retrobottega,
quando mia nonna parte e/o ritorna, da o verso
Ischia, se Mustafà mi cercava a via, cioè villa
delle Rose. Dopo o prima la morte di mio nonno
Gennaro? Ma perché allora quella giacca si
trova da Sisa, oggi nella sua casa? E se fosse
realmente (ma la realtà è un sintomo, lo si
dovrebbe sapere) destinata a me? Renato ha
saputo qualcosa, anche lui all’oscuro della
maternità di mia nonna, e ora, dopo tanti anni,
mi cerca, per sapere.
E perché non mia madre, però? Forse che
sarebbe uno choc? Per lei o per lui? E ancora,
chi gli ha detto di me?
A questo punto, ritorno alla circolarità dei
miei pensieri, e del tempo, e conscia di questo
eterno fallimento, cerco subito un biglietto via
Procida: Napoli-Ischia, il primo vaporetto.
53
TRA LUGLIO E SETTEMBRE (APPUNTI)
Ischia, la vedo dal mare.
Con Napoli, il suo golfo, le sue insenature –
la collina di Posillipo, Bagnoli, Baia, Bacoli e
Capo Miseno.
E la terra di nessuno che continua per
ricongiungersi alla costa laziale, pontificia e
papale – che lascio dietro di me, al vento che le
porta via, e alle quali una mano di straniero,
affacciato alla balaustra del traghetto della
vecchia compagnia navale, porta il suo saluto.
Ischia: ritorno sola.
Senza nuovi amici e amori eterni. Ho solo
deciso, per precauzione, di scrivere al mio
compagno,
prevenendolo
che
mi
sarei
allontanata da Napoli per qualche giorno. A
scrivere. E vorrei anche dirgli che la bellezza
dell’Isola l’avevo riscoperta appena un mese or
sono insieme, era questo che me l’aveva fatta
scegliere di nuovo come meta. E lui ha riso e
sospirato, un poco perché mi conosce e sa
sempre tutto senza il bisogno che parli, e un
poco perché, egoisticamente, è un po’ invidioso
di questa mia sortita, lui che si trova ancora a
casa a Parigi, che seppure bellissima sotto la
54
pioggia, è già fredda come se l’inverno fosse
ormai alle porte. Avrebbe forse svernato una
settimana a Firenze, allora, sia per starmi più
vicino (ma solo in miglia nautiche!) sia per
visitare Palazzo Vecchio di notte, la sala delle
carte geografiche, e il mappamondo, la nostra
passione. Vieni, vuole dirmi?
Io no, io ormai sono qui. Approdo nel
calore di Ischia, che mi saluta materna, in un
abbraccio di mare e luce: sole. Qualche turista
ancora mollemente indaffarato, ma soprattutto
pochi napoletani e molti stranieri. Il vero volto
dell’isola, la vera Ischia amata dai nostri
intellettuali: e corro già con la mente a Forio, lì
alla Colombaia, nella speranza di dirigermi
quanto prima davanti al cancello della villa di
Visconti, lungo la linea dell’orizzonte, a
precipizio sul mare, per respirare anch’io la mia
morte a Venezia!
Intanto il traghetto attracca. Anche questa
volta non ho fatto a tempo a finire Lalla
Romano. Il libro più bello non riusciva a correre
con i miei ricordi. La mia lettura era il mio
respiro. La mia scrittura era il sangue che
immaginavo scorrere dentro di me, sempre un
poco anemico peraltro. Poche righe anche a
casa. E una lettera bianca, con su annotato “ci
vediamo al mio ritorno” lasciata giù in
guardiola, alla 6 di mattina, sicura di non
55
trovarvi nessuno. Una piccola vendetta? Sì. Ma
forse anche un modo affettuoso per dirgli che
sono ancora sul punto, certa di recuperare così
quell’assurda complicità che si è andata via via
creando tra me e il mio portiere.
Intanto so che questo sarà il mio viaggio.
Nella storia che si è delineata mio
malgrado, rappresenta certo lo snodo centrale.
Lo dico anche a voi, lettori generosi e
disponibili, che ormai siete, lo so, sempre più
curiosi, incuriositi, accanto a me nelle viuzze
dell’isola, a seguire i miei sandali di corda e il
mio vestitino giallo, raccogliendo l’aria tagliata
dalla mia paglietta nuova. Dopo di allora si
vedrà, vedrete. Per ora so che non posso
sottrarmi alla ricerca di un luogo che coincida
con la foto della villa e che forse potrebbe
prevedere anche qualcuno in attesa di
accogliermi. Certo, lo so, avrei potuto chiedere
altre spiegazioni a Donna Elisabetta. Se
effettivamente la foto di villa delle Rose fosse il
segno, tra tutte quelle carte, e ricordi di mia
nonna…
Ma Sisa non avrebbe dato spiegazioni, non
avrebbe ripassato di un celeste visibilmente
inopportuno l’imbastitura perfetta blu notte.
No, non sarebbe comparsa due volte sulla
scena… e solo per togliere la magia alla storia,
56
per togliere tutto lo sfizio al mistero… che forse
lei conosce già. Ma che importa. Eccomi alla
ricerca di un uomo, ne sono sicura, che ancora
abita quella dimora, o forse, controlla da
lontano, di tanto in tanto. Appena un figlio più
affidabile, o un nipote cresciuto, o una balia
instancabile – oppure col solo aiuto del suo
bastone – lo accompagnano senza capire il
perché sempre e solo in quest’isola di Ischia lui
vuole ritornare.
57
APPUNTI N. 1
Sono due giorni che ho perso il contatto
con il mondo. Ma in fondo è che ho voglia di
starmene un po’ per fatti miei, prima di
ricominciare presto tutte le cose da fare, e in
questi ultimi tempi, lasciate in sospeso. Vieni,
sento dire dal mio compagno che osserva la
copia della Battaglia di Anghiari a Firenze,
Palazzo Vecchio, insistendo con le guide su che
cosa sia originale e cosa una copia spacciata ai
turisti. Per lui tutto è copia, forse originali sono
le emozioni, il perturbamento, il ricordo (quanto
più lontano, meglio!).
Cammino, giro l’isola in autobus. Ancora
non mi sono fatta un’idea su come ritrovare la
villa della fotografia di nonna Gemma, ché
ormai la chiamo cosi. La riguardo: è una donna
stupenda: occhi verdi profondo, capelli biondi
come le star americane della Hollywood di
quegli anni; solo che lei ha avuto un’infanzia
diversa.
Durante la guerra, raccontava a mia madre
ciò che sua madre le disse, la mia bisnonna
era scappata di casa con un compagno
comunista di Napoli, che volle andare a
combattere in qualche valle del centro Italia,
58
credo vicino Firenze.
Lei non l’ha più rivista, se non alla
liberazione di Firenze, quando nella gioia che si
propagava a vista d’occhio, unitamente alla
certezza ed incertezza del prosieguo della guerra
al Nord come al Sud d’Italia
(perché anche lì, mi diceva, di una guerra si
tratta, solo che diversa:
una guerra di classe s’avesse avute fa’)
quella donna riuscì a ricontattarla per
riprenderla con sé.
Perché voleva – disse – che anche una
ragazzetta contribuisse ad esprimere une nuova
società italiana attraverso i Comitati di
liberazione nazionale.
Perché voleva – le ripeteva – che lei vedesse
ciò per cui sua madre si era battuta
anche a costo di lasciare la figlia per
qualche tempo sola (ché tanto di gente ce n’era
a cui affidarla, perché si sa, quando lo Stato
manca, lì si riannodano i sentimenti di
solidarietà della gente, e naturalmente parlava
dell’anima popolare di Napoli, non di quella
sacca secca e arida che da tempo immemorabile
non batteva più, forse dalla Rivoluzione del
1799, nel petto dei pochi intellettuali borghesi
59
napoletani che fuggirono dalla città in
occasione dello sbarco degli Alleati e soprattutto
della Resistenza delle Quattro giornate,
lasciando così il popolo solo, quello più povero,
a combattere restituendo dignità alla nostra
città).
Ed ella la riprese con lei, a Firenze – il
destino di Napoli essendo irrimediabilmente
compromesso dal comando militare alleato e dai
poteri di ogni sorta locali che proliferarono
come per magia proprio allora –, mia madre
raccontava sempre di quanto mia nonna fosse
stata infine fortunata, di quanto l’avesse
formata direttamente quell’esperienza con i
compagni, le sezioni del Partito e anche
assistere alle discussioni e lotte intestine tra i
diversi esponenti dei partiti antifascisti, e
espressioni incomprensibili sui volti di ognuno,
come ne i cospiratori di Celan, tanto la speranza
e lo scetticismo deformavano e riformavano i
visi ampliando le loro possibilità mimiche al di
là delle emozioni, delle paure, dei sentimenti,
degli stati d’animo, dei ricordi e dei sogni. È lì
che mia nonna Gemma ha potuto leggere e
scrivere su tutto e di tutto ciò che volesse; e
ritornare quindi a Napoli, appena ventenne, ma
come se ne avesse quaranta di anni! E come se
avesse viaggiato ovunque per il mondo, a
riallacciare fili di movimenti vecchi e nuovi, mai
60
scomparsi. (Questo, almeno stando alla storia
ufficiale della mia famiglia.)
Non so perché, guardare il cielo e il mare di
Ischia, dalla finestra della pensioncina di Monte
sant’Angelo mi facesse pensare alla guerra, al
destino dei popoli, e forse ai tanti prigionieri
politici che hanno saputo resistere ai confini e
nelle carceri speciali (di ieri come di un passato
futuro più prossimo) per ritornare a combattere.
Forse è anche l’aria romantico-rivoluzionaria di
Ischia, isola di intellettuali e di pescatori –
“pescatori di perle” come Walter Benjamin
descritto da Hannah Arendt. Del resto, del
dopo-Napoli ne so poco e niente. Di quel
periodo disvelatomi dalla foto di Donna Sisa,
dell’incontro di Gemma Imposimato e del suo
lavoro di modellista in una Napoli dominata
ancora dalle potenze alleate, in un clima
sempre depressivo, seppure apparentemente
frivolo,
tutto
mi
è
ignoto.
Immagino,
fantasticando anch’io sulla mia eroina, che lei,
rimasta sempre emancipata e radicale, abbia
fatto la modella proprio per contribuire in
qualche modo alla liberazione dei costumi di
una società, non patriarcale, forse ancora
matriarcale, ma di sicuro “amorale”, come
direbbe il mio compagno –
senza peraltro
soffocare con un’occhiata complice l’ambiguità
semantica che riferisce amorale alla morale, sì,
61
ma soprattutto all’amore – sfatando il mito del
matriarcato come paradiso comunista, per
ritrovare quello di una società che si fonda sul
dono, e che si oppone anche a questa forma di
transizione al patriarcato, quale è il sistema
economico basato sui clan orizzontali. E spero,
che questo suo “esserci” non si sia limitato a
giocare la carta dell’enfant terrible, ma che con
la sua scaltrezza e bellezza, utilizzando anche
queste sue doti femminili, abbia mantenuto
contatti con un mondo di vita fuori, e non ai
margini, del sistema politico, culturale, della
moda e dell’immaginario, degli anni ’50 e ’60.
Je hâte de retrouver ses lettres, ou un
journal intime qui me témoigne de quelques
activités à elle subversives !
Forse quello di Ischia era davvero un esilio,
una fuga in clandestinità!
62
APPUNTI
10 LUGLIO, DISCESA AL MARE
Un uomo viene a cercarmi in albergo. È
Alfonso, il proprietario della locanda, che mi ha
consigliato il vecchio. Dice: lui è tutto, è Ischia.
E mi ha visto nascere. Mi aspetto dunque
un’altra persona che mi conduca attraverso
porte
invisibili
spazio-temporali
e
buconeristiche
(con
le
corrispondenti
increspature impercettibili del tempo a causa
della gravità universale e della meccanica
quantistica, tanto sfuggenti da farmi ritornare,
magari domattina, a Napoli o a Parigi senza
rendermi conto di avere invece passato quasi
un secolo sull’isola).
Per le strade del Porto, oppure sotto il
Castello. Ma anche nell’irraggiungibile Barano
(per me, che sono a piedi).
Don Gerardo, un altro uomo, un’altra
storia che forse stasera, ritornando a casa
stanca, nel mio letto, racconterò, scrivendo
un’altra pagina di diario napoletano.
Il suo sguardo non mi è nuovo. Un misto
tra Neil Young e Lionel Richie, è un
bell’oriundo, alto, e ancora sportivo. Dice che
lui può trovarmi Villa delle Rose, che lui ne è
stato per tanto tempo l’antico proprietario, e
63
che si ricorda anche di questa bella donna.
Solitaria, certo, ma piena di amici. Si faceva
amici dovunque andasse, così graziosa e così
gentile. In paese la chiamavano “la toscana”,
perché diceva a tutti che era di lì, e che per
lavoro o per studio, adesso non ricordo, anzi
forse per seguire suo marito, era scesa qui a
Forio, mentre lui rimaneva a Napoli tutti i
giorni, e solo ogni tanto ritornava. Però
studiava, sì,
aveva sempre un libro tra le mani,
e organizzava pure tanti seminari, incontri,
dove si parlava di politica, di emancipazione, di
lotte di genere…
Era proprio così, un libro tra le mani
anche da vecchia, anche per quel poco che mi
ricordo, quando andavo a trovarla, purtroppo
velocemente, sempre presa tra scuola e musica,
oppure assorta nei miei pensieri… e pensare
che adesso avrei potuto chiederle tante cose.
Però con me era sempre silenziosa, quasi
intuisse la nostra somiglianza, ma fin troppo
discreta per “accompagnarmi”:
ecco l’unica tua mancanza, Gemma Fiore!
Penso
avvolta
dalla
nostalgia
del
rimpianto. Passare un poco di tempo in più con
lei. Tutto qui. Perché ci sono dati i “nonni” solo
64
da infanti? Perché vederli come “vecchi”
imbambolati dalla tenerezza o dalla durezza? La
Natura è tragica, e insieme spietata. E, cosa
ancora per me incomprensibile, ignora lei
stessa le sue leggi (“sue”, ma sarebbe meglio
dire “quelle che noi uomini incapaci e senza
fantasia e immaginazione le abbiamo attribuito
fingendo di scoprirle nel mondo esterno e non
nel nostro, così poco agile, cervello”), per
esempio quelle che la vorrebbero insensibile al
tempo come durata, o quelle che deridono lo
spazio come estensione, o ancora quelle che
dicono che la materia nasce da un incontro
creativo col nulla
(quest’ultima, per me, è la più interessante
di tutte, ma alcuni stupidi divulgatori hanno
chiamato il bosone di Higgs “la particella di
dio”, proprio per questa capacità “creativa” di
materia, come se la complessità irriducibile del
vuoto e del nulla potesse confortevolmente e
beatamente comprendersi con un’idea tanto
vuota quanto inutile come quella di un dio
creatore: creatore di tutto, e dunque inutile,
perché il problema non è quel vuoto
pretesamente iniziale, e chiamato scioccamente
nulla, ma il tutto che sembra avvolgerci, senza
senso e senza direzione – e almeno quei
secessionisti chiamati cristiani hanno avuto
un’intuizione buona quando, anziché il nulla
65
hanno messo il verbo all’inizio, cioè la
grammatica, la logica, lo sforzo di scrivere su un
rigo di una pagina il proprio semplice nome
come se fosse un’azione: io non sono e non
potrei mai essere colui-che-è o quello-che-sono,
ma forse potrei i-are, che è quello che poi faccio
sapendo di farlo anziché illudermi di essere o di
esistere: e che, le mosche e le zanzare e i batteri
non esistono? E il cazzo, pene o fallo, non ha
una vita sua? O i sogni notturni che, magari mi
ponessero nel corpo di una farfalla fino al
risveglio, e invece mi lasciano nel mio
limitandosi a darmi sì l’illusione, la recita
teatrale, il concerto di capodanno, del tempo,
del mio tempo, della mia durata da androide
dickiano, che tutti chiamano vita?).
E sì che mi piacerebbe davvero ritrovare la
Villa!
di cui ignoravo l’esistenza fino ad ora,
confesso al Signore amabile che mi sta dando
una mano a ritrovarla.
Nel tragitto nella sua macchina posso
chiedergli, penso, ancora tante cose: 1. Fino a
quando ne è stato proprietario? 2. A chi l’ha
venduta e perché? 3. Ed ora, magari, conosce
se ci abita qualcuno? E poi, naturalmente, tutto
della donna col foulard e gli shorts tipici degli
anni Cinquanta, ma anche della vita
66
intellettuale del posto, ché quasi penso di avere
paura di avvicinarmi alla “verità”: fine del
viaggio, voltare pagina.
Gemma, chi sei?
Vorrei forse essere te?
Ed ho paura davvero di ritrovare qualcuno.
Così paura che gli chiedo di accostare, perché
ho dimenticato una faccenda da sbrigare,
perché invece ho voglia di illudermi che dalle
parti di Casamicciola non può non esserci una
cabina telefonica per telefonare al mio di amore.
E sentire i suoi progetti, e l’organizzazione del
nostro trimestre, gravido di futuro.
67
GENTE DELL’ISOLA
Sono
corsa
via,
scusandomi.
E
chiedendogli di fissare un appuntamento per
domani. Che mi dia direttamente il numero
della via dove vederci, che mi farò trovare lì,
pronta.
Ha sentito la mia paura? Quasi frena di
getto, e mi lascia lì alla curva di un tramonto
mozzafiato, che mi fa sentire per un attimo così
sola, che mi precipito su di un autobus preso a
volo e pieno zeppo di persone, per andare in
libreria. L’unico posto che mi faccia sentire in
possesso delle mie qualità, più che facoltà,
mentali (e anche spirituali).
La libreria nei pressi del castello
Aragonese, così fornita! E curata, che si sente la
mano amorevole di una donna straniera, anche
lei espatriata, non importa se volente o nolente,
e da dove. C’è il solito gatto che mi guarda, e
che forse, voi che conoscete bene l’isola, avete
anche imparato a chiamarlo per nome. Io no.
Ma in compenso faccio amicizia con Chiara, la
proprietaria. Che vive su, appena un piano oltre
la libreria, accanto alla sala del pianoforte, e
che vedo apparire e riapparire di continuo
68
proprio come un gatto in soffitta, il quale
invece, la fa da padrone.
Continua così uno dei pomeriggi più belli,
in compagnia finalmente di un’altra donna.
Poco più grande di me. Anche lei per il
momento sola. Chiude prima, ché tanto in
questo pomeriggio assolato, chi vuoi che venga
a chiedere informazioni o a cercare la prima
traduzione italiana dell’Erotismo di Bataille? E
decidiamo di comprare un gelato da mangiare
sui bordi del porticciolo, cullate dal vento,
guardando il mare.
A Ischia c’è il cinema? E subito mi pento
della mia stupida insolenza.
Che domande! Mi fa dopo qualche secondo,
come per cercare il tono giusto tra orgoglio,
risentimento, allegria e critica politica. Certo che
no! E ride… No davvero, qualche cinema sparso
qui e lì c’è. Però quello che mi fa impazzire è
un’altra esperienza sensoriale: sentire i vecchi
programmi di Radio due registrati su cassetta,
per esempio la top ten di Chiambretti e Aldo
Grasso, o, se vuoi andare un po’ più indietro,
Arbore e Boncompagni, sorseggiando una birra,
fuori sul solarium di casa, mentre guardo le
stelle col mio super cannocchiale!
E mi strizza l’occhiolino!
69
Non immagini neanche che significa
connettere due mondi; lanciare un messaggio
mentre scruto l’orizzonte… il cielo e la terra, la
nostra cultura e le stelle… mi sembra proprio di
guardare un film, cioè lo immagino proiettandolo
io stessa sullo sfondo della volta celeste.
Proprio come una canzone di Neil Young e
un pezzo di pizza in bocca (ancora lui!). Quando
tutti vanno a ballare a Harvest Moon, ed è lui lì
che canta mentre proietta quel suo film di
giovinezza, rendendo omaggio all’America intera
che non lo sa!
Sei incredibile! E so che non hai fumato
(perdona, caro lettore, ma battute di questo tipo
erano correnti ai tempi)… è solo che lasci
andare la fantasia così, perché ami gli altri, e
perché la vita è bella e because I’m still love with
you, always Harvest Moon!
Dai che andiamo al cinema a vedere Star
Treck!
70
APPUNTI N.
4
Gerardo, a cui vorrei dare, per imposizione,
rigorosamente del “tu”, mi fa fare il giro della
casa. E io mi accorgo che la villa non è
completamente disabitata, perché tra i due
piani, che corrispondono in effetti, alle due ale
del palazzotto, la differenza è notevole.
La prima, piano terra: i miei occhi da
investigatore si abituano al buio, ai ripiani dei
pochi mobili, il resto venduti per lo più ad aste,
a seguito di pignoramenti per debiti (i debiti,
quando non sono semplici scadenze lontane,
possono anche raccontare una storia ricca e
vivace, e quanto!, molto più di quanto possano
farlo gli stupidi e piatti crediti), ricoperti da
lenzuola (non bianche ma colorate, e non
necessariamente giallo crema o ghiaccio sporco,
ma verde, porpora, blu notte) e altrimenti da un
forte odore di polvere e di chiuso. Come fosse
disabitato da tempo, tranne forse per un
pianoforte a coda (dove c’è un piano a coda
lunga e nero, cantava Paolo Conte, c’è sempre
un gran mistero), stranamente lucente, nero
perlato, bellissimo, un pugno al mio stomaco,
ricordando mia madre e la sua “passione”.
71
Questo piano della casa è composto da un
grande salone di ricevimento, che si affaccia
tramite le portefinestre direttamente sulla
strada di ciottolato misto a sabbia che porta al
cancello – quello davanti al quale compariva
sorridente Gemma Fiore – e che disegna un
serpentello sconnesso che striscia cercando di
camuffarsi e nascondersi tra grandi ciuffi
d’erba, di un verde scuro, bottiglia, che per
essere incolto però non presenta i segni soliti
dell’abbandono, essendo – forse per le piogge,
ma di certo non solo – verdeggiante, vivace, e
disseminato qui e lì di fiori. Che contrasto,
penso, rispetto al dentro dell’abitazione!
Mi ero prefissa di fare domande a Gerardo,
ma quell’uomo mi incute, già ve l’ho fatto
capire, un poco di spavento. Non che mi senta
in trappola, o minacciata, ché anzi si offre come
un
galantuomo
tenendomi
il
passo,
accogliendomi in ogni stanza, facendomi sentire
“a casa”, la mia casa: come se dovessi, tra poco,
prendere
una
decisione
importante,
e
trasferirmi lì, di punto in bianco, lasciando la
mia vita. E lui, questo gentiluomo, comprende,
senza fare domande, semplicemente mi
accompagna, per mano (o afferrandomi il
braccio quando resto, come si dice con aggettivo
perturbante e quasi fuori dal tempo,
imbambolata).
72
Lo stupore è enorme quando salgo le scale,
che mi rivelano, pezzettino dopo pezzettino di
luce, delle camere bianche, illuminate dal sole
che attraversa i pori della maison d’été, la
quale, essendo stata scelta per viverci la
freschezza e l’intimità di momenti liberi, o
anche rosicchiati, per non dire “rubati”, alla vita
frenetica di città – che sia Napoli, o qualunque
altra città al mondo – mostra orgogliosa questa
appartenenza a te, questa vicinanza, questa
dolcezza come luogo d’elezione, e direi quasi
d’amore.
Tutto è amore, pur essendo ormai un
involucro vuoto. Ma le mura calde, dipinte dal
sole, e dal verde brillante e dal mare turchese
che si vede in lontananza affacciandosi a quelle
finestre che rappresentano ormai i tuoi occhi,
mi fanno sembrare quasi che la casa lì
respirasse ancora. Che qualcuno, finanche uno
spettro si manifestasse in questo modo.
Mentre lì ci siamo solo noi.
Gemma Imposimato.
E Gerardo. Anni 79.
73
APPUNTI N. 5, SABATO POMERIGGIO
Posso restare un poco sola, qui?
Vorrei assaporare questo momento di
silenzio, di quiete pomeridiana assoluta, ai
margini di settembre, quando tutto dovrebbe
riprendere a vibrare con ritmi prestabiliti ma
diversi, come dice uno spartito musicale, un
cantato: allegro, ma non troppo. Io farei, come
Satie, quest’altra annotazione: settembrino, fine
d’estate.
Invece i musicisti sono indomiti, ribelli a
questo strano direttore d’orchestra che sono e
che forse si crede un compositore, perché
incominciano dunque a rispondermi per i versi
ossessionanti e altalenanti di cicale che
ricordano le distese di grano sotto il cielo
cocente, quello della Sicilia magari, in cui, come
in un romanzo della Sapienza, ricompare tra i
covoni di ricordi il tuo Tuzzu, le sue mani forti,
il tuo primo amore di bambina, e quali e quanti
desideri erotici, che ti prende in braccio e ti fa
sognare il mare.
Vorrei essere sola.
Vorrei essere sola lì.
74
Per subito impossessarmi di quelle stanze,
di quelle sensazioni, suonare il piano, da sola.
Farlo risuonare, tasto dopo tasto, con il mio
corpo nudo, spogliarmi. Ecco perché vorrei
essere sola. Vorrei spogliarmi in quel momento
e masturbarmi, direi meglio: toccarmi. Che mi è
montata su una strana eccitazione, eccitazione
di bambina, ripeto, regressiva e primaria, per le
scene immaginate in quei luoghi, per fantasmi
primitivi
dell’infanzia,
per
voglia
di
dispossessarmi di me, delle mie carni e darle in
dono a qualcun altro. Uno strano principe
azzurro che mi cerchi, come mi ha cercata lui,
con un biglietto bianco, portandomi da Napoli –
no, anzi – da Parigi, fino a qui. In questa casa
remota, vuota, con solo un pianoforte a coda,
su cui potrebbe prendermi, sdraiarmi. E fare
l’amore fino a tardi, fino a dimenticare: lui,
immergendosi in me, nei suoi ricordi, facendo
l’amore con l’altra, la sua Gemma, e io,
ritornando in una folle regressione – non
temete: ne sono ben consapevole, l’ho detto –
all’oggetto del mio primo amore, del mio
investimento libidico: non mio padre, ma mio
nonno, a cui portavo tremante una tazza di
caffè.
Vorrei essere un poco sola, gli dico
tremante anche ora ma disperatamente
insistente e piagnucolosa (si tratta pur sempre
75
di regressione). Chiudo gli occhi, non oso
pensare a quello che lui possa scorgere sul mio
volto, e soprattutto vorrei schiudere la bocca,
passando con la lingua sul labbro e lasciando
una scia, impercettibilmente saporosa e
odorosa, ma impercettibilmente, di saliva (come
di femmina gravida), senza provare vergogna. E
allora chiudo gli occhi.
Poi li riapro. E sono di nuovo sola.
76
APPUNTI, DOMENICA SERA
Il cielo è immenso, e il sole mi porta. Mi
porta a scrutare i volti di chi mi attraversa come
fossero orizzonti, approdi da ricercare al di là
del mare.
Ridiamo insieme con una birra in mano,
per inaugurare la pioggerellina che ci fa
capolino, come un occhiolino autunnale, tra i
profili del monte Epomeo. Quest’estate non c’è
stata mai burrasca. Come add’a essere, mi
dicono i pescatori al porto, e come ora add’a
essere tempo di risacca… tempo settembrino,
sorrido dentro di me, ripensando a quel
momento di un giorno o di trenta anni fa.
Passeggio perché ho voglia di assaporare
tutto di quei luoghi che ho scelto come casa
“primaverile”. Come un risveglio, come un
tempo di rigenerazione. Forse il tempo di un
figlio.
Dico tutte queste cose a Chiara, sul suo
terrazzo-osservatorio come un film che proietto
anch’io, scegliendo adeguatamente la mia
colonna sonora: le lettere d’amore di Marx alla
sua Jenny, lettere di passione che riecheggiano
e si accendono in parole di fuoco, come lapilli
che colpiscono chi rimase lì ad ascoltare quella
77
visione,
leggo in
declamo
d’amore
Carlo.
incapace di scappare. Prendo fiato,
silenzio le parole che scelgo e poi le
– si badi, con voci diverse se lo scritto
va da Carlo a Jenny o da Jenny a
Chiara dice che sono pazza, ma che mi
capisce. Capisce, guardandomi, il mio corpo.
Capisce che è come in attesa, ed è per questo
che è splendido. Io avrei voglia di richiamare
tutti i compagni per organizzare una cena, ma
non solo: un bellissimo incontro dove parlare
dei figli fondatori, le loro imprese, le loro
sconfitte, ma soprattutto la loro avventura, così
difficile perché sfida le leggi di Kronos, e
riprendere politicamente la scena di Ischia:
approfittare del “tempo di risacca”.
E poi vorrei chiamare pure loro: il portiere,
Loiacono e Sisa, e il mio Mustafà. Ma penso che
non ho ancora nessun segreto da svelare, se
non al fine comunque nobile e spesso
apprezzato e richiesto di sciorinare qualche
discorso filosofico sul senso della vita, e sul
presente gravido di futuro da costruire per noi
tutti.
Come un’isola felice, strapiena di cultura,
che significa amore estetico-politico per il
paesaggio. Qualunque sia. Sempre mutabile e
spesso troppo mutevole, come in tutti i territori
78
vulcanici (cioè quasi sull’intero pianeta), e
sempre imprevisto. Una sfida alla nostra
intelligenza di compagni.
Quindi dovrei astenermi ancora un poco,
prima di chiamarli tutti a Villa delle Rose, e fare
incontrare loro Don Gerardo, quest’uomo
fantastico di cui mi sono perdutamente
innamorata, perché lui è quella figura in ombra,
a fianco alla sua Gemma, dopo che nonno
Gennaro è morto, sì, di morte naturale – ed era
proprio mio nonno! –, mentre lui ha in serbo
per me una specie di lascito o di donazione da
parte di Gemma, ma diverso da quella chiamata
all’incanto del lotto 49 in cui spesso mi sono
rivista, nei panni divertiti e spavaldi dell’Oedipa
di Pynchon. Quella villa è una prova. E lui è
uno dei doni più belli che Gemma abbia potuto
lasciare alle generazioni a venire. Forse è
immortale. Sorrido, sorseggiando ancora la mia
birra che ho imparato a bere con Chiara a soli
trentacinque anni, e mi preparo a scrutare le
stelle per rileggere il frammento più lucente di
due secoli fa.
79
APPUNTI
1 SETTEMBRE, VENERDÌ
Chi sei tu venuto da lontano? Che spiavi il
suo amore? Chi sei tu che hai ripagato il suo
dolore con caldi e genuini abbracci? Vorrei
chiamare tutti voi…
Dormo agitata, e un incubo mi sveglia. Ma
quest’incubo non è che un sogno a metà che
riconosco tra mille. Tra mille scale che salgono
e scendono sempre allo stesso posto, e una
madonna nera col bambino dal cuore perlato.
Ricordi di infanzia. Vorrei avere vicino a me
Gerardo. La sua sicurezza d’uomo, la sua forza
me lo fanno apparire come un san Gennaro –
direi – che non ha paura degli spiriti malvagi
che popolano il mondo notturno. The dream of
the underworld.
Ci incontriamo il giorno dopo al bar della
piazzetta di Sant’Angelo, quello in cui ci sta la
bellissima Anna, forse straniera, forse russa,
occhi azzurro cielo, mani di fata, sorriso
enigmatico che prepara il caffè più buono – e
non par hasard – che abbia mai sorseggiato. Lo
vedo lì appoggiato sul cofano della sua
macchina. Mi sorride incantato pure lui,
appena mi scorge da lontano. Ho raccontato a
Bonbon Robespierre, così chiamo a volte il mio
80
compagno (confessandogli, ogni volta, con le
parole di un altro rivoluzionario, questa volta
poeta e cileno, que he vivido!),
che strano effetto mi ha fatto quell’uomo,
con la sua mano che mi culla lontana,
come se mi insegnasse a “fare il morto” – da
bambini – e io riuscissi a stare di colpo a galla
per magia. A galla tra i miei sogni, i miei
desideri e anche i miei rimorsi. Tra le schegge
dell’infanzia. A galla perché mi piace sentire la
superficie fredda del mare che mi solletica le
gambe e io non posso più muovermi perché se
inarco il dorso un pesciolino mi scivola di
dosso… e non posso più permettermi di
perderlo, di perdere nessuno.
So che mi propone oggi di fare amicizia,
dopo che ieri lui è scomparso così tra i miei
ricordi di bambina, evaporandosi nel rossore
delle mie guance (è la mancanza di Francesco,
sì, quel Bonbon che avete già conosciuto
velocemente qualche rigo sopra, messo accanto
ad un cileno, che mi provoca brutti scherzi: è
sempre così quando siamo troppo tempo
lontani, e quando qualcuno mi attrae, mi attrae
davvero perché in qualche modo misterioso e
abile mi penetra…).
81
Amore mio! Ti raggiungo presto, ovunque tu
sia! È tale l’assenza, che mi trovo a riempirla con
tutti gli odori dell’isola dando all’isola i tuoi odori
e regalandole il suono di brezza del tuo sorriso.
Ma è ora di andare, di avvicinarmi a lui
sorridente che già sento di amarmi. Di più.
Ciao! Come stai oggi? Mi guarda e mi
stringe come avesse trenta quaranta diciotto
anni incurante degli altri e della vita.
Gli sorrido, trattenendo una risata. Sono
sua.
Pronta per un giro in macchina e per la
verità?
Prontissima!
Partiamo, a piedi, per gustare il suono
della natura, tra i vicoli labirintici delle strade
in collina, forse sarebbe opportuno parlare di
sassi di montagna che si gettano a capofitto sul
mare. E allora, perché non so, incomincio a
raccontargli di me, di quello che sono stata e di
quello che sarò. Soprattutto di quando l’ho
scoperto (cambiando prospettiva), quello che
voglio essere, non quello che sono! (e quindi
implicitamente – ma lui lo sa! – gli parlo di te,
amore mio, che guardi le stelle in quell’altra
isola di tanti anni fa, quando mi curasti della
82
“palla di pelo” che sentivo proprio sotto allo
stomaco come una piccola ulcera, e sgorgando
lacrime, mi aprii finalmente all’orgasmo – anzi:
agli orgasmi! –, senza chiedere più il permesso
in quella sorta di lamento prefico e veterinario
che mi usciva dalla bocca quando venivo –
ahàà, ahhh… – e che ho imparato a riconoscere
con te! E ogni volta ridevamo di queste, e di
quante altre tonalità diverse, e non più il bello
ma “sospetto” interrogativo dal tono ascendente
discendente, le mie labbra dischiudessero come
scritture (o forse parole, e comunque musicali,
ma di certo non discorsi, ché questi sono
implicitamente
autoritari),
come
parola
dell’orgasmo: in mattinata baritono, prima di
pranzo appena sospirato, la sera poi
“incazzato”, un giorno contento, sempre
divertito, a volte “perso”, “in anticipo”,
“stoppato”!).
Sì, so bene che le pagine del mio diario
potrebbero sembrare oggi irreversibilmente
sbiadite dalla mancanza e dal ricordo, come
trovate scritte da qualcuno che senza interesse,
quindi, le legge. Ma questa è la mia lettera,
almeno stasera, prima di ricominciare la storia,
come Marx scrisse alla sua Jenny, come Engels
scrisse a Marx, come Longo a Secchia a cui
amiamo paragonarci: questo siamo noi, sei tu:
quell’infinito orgasmo gravido di futuro.
83
SERA
Camminiamo ancora, ti prego, non
fermarti! E parlami di te! Gli sussurro
all’orecchio riconoscendo che è lì lì per dirmi
qualcosa, che invece lo trattiene.
Vedi Gemma,
tua nonna, la mia Gemma, ha sempre
nutrito per te una stima profonda, ti sentiva
come una specie di anima gemella [“gemmella”,
direi io, se non “gemmata”, gemmate entrambe
anche nel senso di nate entrambe per
“gemmazione” spontanea su un altro corpo che
già esisteva]. Io le promisi, prima che morisse,
che ci saremmo ritrovati. Mi scrisse infatti una
lettera ché troppa era la fatica di prendere di
nuovo il traghetto, e forse per l’ultima volta, che
preferì così, mandarmi una cartolina come ai
tempi di guerra dove ci siamo incontrati. Io
avevo ben dieci anni più di lei, ma me ne
innamorai, come adesso mi innamoro di te, e
non provo onta a dirtelo, e a dirlo. Ché
qualcosa, quando si è intelligenti e compagni, e
si ha esperienza, si fiuta nell’aria. Come
nell’aria sapevo che un’altra Gemma sarebbe
venuta, o forse lei, ancora lì ad attendermi,
dalla sua “maîtresse” amica, donna Sisa.
84
Ecco, quando lasciai quel biglietto, Gerardo
mi disse, ricordo ancora, guardando la luna alla
Colombaia e realizzando per me un sogno,
senza saperlo,
avevo messo il piede per la prima volta in
vita mia nel laboratorio di questa Sisa di cui
Gemma mi parlava. Mi parlava nelle sue lunghe
lettere che mi scriveva sapendomi delegato del
Partito a Mosca, alla “casa”, e chiedendomi
mille volte di portarla con me, o di scendere giù
a Napoli, “che pure cà ci son tant’e cose à fa”,
mi diceva. Imitando con l’accento toscano il suo
dialetto napoletano. E mi raccontava della vita,
degli spasimanti, che a lei non interessavano
perché voleva fare politica, come sua madre, e
come me, quando ci incontrammo, e sempre. Mi
raccontava di Gennaro e di Renato, di come non
sapesse chi scegliere: no! Di come non volesse
scegliere, ma, quasi nell’emergenza della
disfatta andasse presa la decisione migliore per
un cambiamento radicale delle condizioni
materiali per una sua rivoluzione privata, “se
quella vera non si poteva fare!”.
Io non la prendevo troppo sul serio,
e questo forse fu il mio sbaglio. Forse
chissà avrei potuto richiamarla tra i compagni a
Roma, Milano, e perché non in Unione
sovietica? Una bellissima napoletana dai capelli
85
biondi e gli occhi verde lucertola, che sogna il
cinema come la Rivoluzione, avrebbe potuto
trascinare chissà quante masse di onesti
lavoratori italiani, compresi gli intellettuali! – e
qui si mette a ridere, mentre, tossisce e si
schiarisce la voce.
Gemma cara,
sposata, embè, che fa sta pazzerella! Non
lascia Napoli, scorrazza per l’Europa e me la
ritrovo un giorno lì, davanti al Comitato
esecutivo della sezione italiana del Partito, fatta,
ormai: non più una bambolina, ma una
bellissima donna, con una bellissima bambina,
forse vedova, speravo, e con tanta tanta
impazienza di restare. Tua madre, sai, ha
vissuto i primi mesi della sua vita nella madre
Russia, e pure ci sarebbe cresciuta, e forse
anche tu, se io non l’avessi convinta a ritornare,
con la promessa che presto ci saremmo
rincontrati qui sotto il sole.
86
MACCHERONI
Parlami di te, ora è il tuo turno.
Come non fosse, non fossimo sazi ancora,
ci avviciniamo a Villa delle Rose.
Cosa dirti di ciò che sai,
che saprai, perché per ora non ho voglia di
lasciare te, né l’isola: a costo di fare ogni mese
otto viaggi avanti e indietro Napoli-Parigi!
Però una cosa posso dirgliela, e dirla anche
a voi, che potrebbe chiarire, se fosse
importante, un poco meglio il mio stato
d’animo, e il senso di questo assurdo racconto
che prende il verso di una “cronaca”, e proprio
di quella di un annunciato amore, in cui spero
che nessuno – letterariamente parlando –
muoia!
È che mia madre,
che hai conosciuta come una piccola
“staliniana”, ma che forse ti deluderebbe un
poco: non so, così alle prese con il lavoro, ma
non nel senso più bello, di ingaggiamento, di
passione, quanto sul versante più pesante,
dell’ambiente con le sue malelingue, (Gemma,
quante volte mi dice e io quasi non l’ascolto più
87
con le orecchie, e non solo, ovviamente, nella
disposizione di spirito e nei fatti, cercando di
fare tutto al contrario di quel che mi dice!
Gemma, mi dice, non ti fidare mai dei tuoi
colleghi nel mondo del lavoro! Anche chi sembra
amico, disponibile, se può per un proprio
vantaggio non esiterebbe a metterti in cattiva
luce, o comunque sarebbe invidioso!) per finire
sempre depressa: e quel pianoforte che ho visto
alla Villa mi ha stretto il cuore perché conosco
la sua passione, di mia madre, ricordo la sua
giovinezza, con me piccolina tra le sue braccia a
impasticciarle il lavoro, il componimento, o
forse a stravolgerlo con una mossa situazionista
e crearne uno dal senso inverso a quello che lei
si proponeva… Chissà, ma mi sto dilungando
su mia madre, perché forse mi sento un poco in
colpa, a averti finalmente visto e conosciuto!
Perché sai, tu sei questo nonno di cui ho
sempre sognato (e sospetto che quella furbona
di nonna abbia sostituito la tua foto con quella
di Gennaro, o le abbia semplicemente – come la
famosa lettera di Poe ancora, con cui si apre
pure questa mia storia – confuse (ma devo dire
che un poco vi assomigliavate: che dici abbia
scelto Gennaro per Gerardo?).
Insomma,
prima di pasticciare ancora queste pagine
di mille puntuazioni, come facevo ai poveri
88
Chopin, Mahler e Beethoven di mamma, devo
dirti che se chiudo gli occhi di fronte al mare,
pensando alle terre lontane, ma sentendomi
protetta nella mia infanzia cresciuta senza
uomini, con donne che non ne hanno voluto
prendere il posto, o ancora peggio, riprodurre
gli atteggiamenti – due donne fantastiche: la
prima forse migliorata sempre più nella
vecchiaia, la seconda, mi duole dirlo,
“peggiorata” (come tutti i genitori!) –, se chiudo
gli occhi io ti riconosco tra le foto, i ricordi di
Gemma Fiore, vedova Imposimato, e di sua
figlia Rosanna. Sei tu l’uomo che mi faceva
sognare, prima di andare a dormire, con le sue
mille, eroiche avventure. Un poco come nel film
di Ettore Scola dedicato a Napoli, alla Napoli
effervescente, che cresceva, che ribolliva, che
avrebbe tra poco trovato il suo punto di arrivo
ma
anche
di
arresto
nell’esperienza
bassoliniana: la Napoli centrale, la Napoli
molesta, la Napoli vesuviana, voire un poco
mar(x)ziana.
E di nuovo a perdermi!
Perdonami! Ma vedo che non parli, e fai
bene. Insomma quel film, Maccaroni: tu mi
ricordi il mio Jack Lamon, nella versione nonna
Gemma (e data la complicità delle due vecchie,
ne sono sicura: di Donna Sisa pure!), alias un
fantastico Marcello Mastroianni (che solo per
89
aprire una parentesi ancora: è la versione che
preferisco rispetto a quella, troppo lontana,
troppo onirica, piccola borghesuccia della vera
anima felliniana!).
Ecco, e ho detto tutto!
90
APPUNTI N.
10, MARTEDÌ 5 SETTEMBRE
Mustafà, sono io! Ti ricordi di me?
(a volte, penso, sono proprio ridicola…),
e infatti mi fa:
Gemma chi?
Ma poi ritrovata la sua vera verve, da
ragazzino pre o post adolescenziale, non ha
importanza perché la sua età (e il suo vero
nome) dovrò rassegnarmi a non conoscere mai
(tanto dominato dalla sua voce e dai suoi occhi
è il suo tempo):
Gemma Fiore o Gemma Imposimato?
“Gemma quella che hai incontrato, in
carne e ossa”, piccolo e sfuggente dio
immortale. E ora apri bene le orecchie, che ti
invita ad una festicciola che la tua amica sta
organizzando qui a Forio d’Ischia con tanti
compagni simpatici
che tu deeeevi assolutamente conoscere!
E poi mi sei mancato, penso, fratellino mio.
Ma non glielo dico, anche se gli fa piacere, lo so,
sarò perseguitata a vita e dovrò sottopormi ad
91
acerrima
autocritica
per
questo
mio
sentimentalismo dovuto forse alla “mezza” età…
Sentimi bene ancora:
vai da Enrico, a casa mia, portagli una
lettera tutta bianca e scrivi su: Villa delle rose,
ore 17h, Ischia.
Ah, e poi un’altra cosa, dimenticavo:
ovviamente Sisa e Loiacono sono miei
ospiti, come tutti voi. Ok? Mustafà?
Zi padrona!?
Non cambiare! Non mi diventare pop, è
vero che sei più napoletano di me, ma non dirlo
mai, manco per scherzo, penso, e mi accorgo
che è veramente giunto il momento di
riattaccare senno chissà quante smancerie e
stupidaggini dalla mia boccuccia di rosa!
Però prima gli dico:
Mustafà mi vuoi bene? Anche se non me ne
vuoi, sappi che io ti voglio bene, e che puoi
sempre contare su di me, e con me: possiamo
fare e sognare tante cose insieme; puoi fare e
sognare tutto. Hai capito?! Cià!
92
INVITI
[Prima di iniziare, creiamo l’atmosfera per
il finale, mettiamoci la bande sonore: From
Lyrics 1964-2008 by Paul Simon. E devo anche
avvertirvi che molto di quanto vi dirò potrebbe
sfuggirvi se non avete ancora sfogliato almeno
un libro di Dick, che ho fatto tornare apposta
dalla Luna per questo mio pimpante e
commovente (nel senso che vi muove, vi porta
altrove) finale. O se non avete ancora scoperto
dove si nascondeva una certa missiva segreta e
di fondamentale importanza per l’equilibrio dei
poteri che Poe aveva nascosto al povero Dupin
ne La lettera rubata (rileggetelo mille volte, e
non la vedrete, anche se, certo, è fin ovvio, la
troverete).
E almeno Gramsci, con quegli occhiali
invisibili e i suoi assurdi e divertenti capelli da
fumetto francese anni ’10 o da Saint-Exupery,
che parlava con Teresa Noce mentre lavavano i
piatti e di là Togliatti annoiava (cullandolo nei
sogni, però, ne sono sicura) il povero Longo.
Insomma, caro lettore che sei venuto fin qui,
Gramsci almeno! Trova il tempo, rubalo, per
questo Leopardi che è riuscito a diventare, una
vita dopo, padre. Trova il tempo per cercare
negli scatoloni e su in soffitta. Dovremmo
93
saperlo che c’è sempre una lettera dal carcere
che arriva a destinazione, anche se dopo anni di
viaggio, di deviazioni e di passaggi di mano in
mano. Come è successo con me.
Eccoci qui, allora. Nous voici (in francese,
che ogni lettera per la rivoluzione arriva da
Parigi). Assieme.]
La giornata si preannunciava uggiosa,
afosa,
carica
di
elettricità
omeostatica,
regolandosi forse sul mio nucleo interiore,
quello più profondo, fatto di psiche e materia, il
nucleo di sostanza subatomica che fa dei nostri
sogni acceleratori di particelle.
Ero radioattiva, le particelle dell’anima
hillmaniana, cioè dei luoghi e dei posti,
dell’isola, mi attraversavano trovando un varco
nei miei orifizi, piccoli oggetti a, déjà chus,
collassati, quindi: mi fermo a riflettere ad un
incrocio sul “mio” positrone fuggitivo…
Abbiamo concordato ogni dettaglio: io mi
occupo degli amici che arrivano al porto col
traghetto delle cinque. Purtroppo non ci sarà la
coppia Donna Elisabetta – Don Marcello,
(s)fuggiti anche loro in una perfezione cosmica
stellare: unici, indistruttibili, il nucleo più
resistente che conosca che mi scovo a pensarli
come l’essere androgino di Platone, uomo-
94
donna, senza sesso, venuti da una galassia
lontana. Purtroppo a rischio di estinzione.
Invece dovrò accogliere un’altra coppia strana,
alquanto stralunata, come quelle del Clan della
luna Alpha, un essere spungiforme che
sicuramente è il mio portiere, come modello di
tutti i portieri napoletani doc (N.d.A. che sono
sempre stati anche orgogliosamente “cafoni” in
senso tecnico: quelli che venivano c’a fune, da
fuori le mura delle città, e nei tempi più vicini a
noi, del dopoguerra, quelli delle campagne di
Avellino e Benevento, emigrati per un posto
sicuro con mini appartamento incorporato), e
poi l’altro essere: direi, ricordando il romanzo
mio preferito di Philip Kindred Dick: un
polivalente: il ragazzo sbiadito come uno spectre
di Marx!
Una coppia che, se la vedete, è anche, nei
termini così poco ortodossi e così poco marxisti
di Gramsci, in se stessa, e anche in maniera
erotica, sicuramente edipica ma già antiedipica,
un blocco storico.
Villa delle Rose torna a suonare. Via i teli
colorati, che per non essere bianchi, pure non
erano male: ma via, via quel sentimento
assoggettato di precarietà: si riparte da zero:
spazi vuoti, solo di libri.
95
E qui entra in gioco la mia anima gemella:
la mia Mani preferita col suo gatto acchiappapensieri: Chiara, che vedo nella sua luce
guerriera. Sì, l’idea, discussa col mio
Robespierre (Robert, s’intende ormai!) attorno al
solito kebab di Parigi, per una sorpresa a volo, è
di trasformare quella villa in culla o astronave
del popolo, e considerando la genialità del mio
Skiz1 a trasformare – riuscendoci! – tutto quello
che vede e tocca in progetti visionari, quale
“formidabile organizzatore di cultura” (N.d.A.
prendo la frase a prestito dal piccolo Dep
Antonio Gramsci che così definisce il Para
liberal Piero Gobetti), con le altre proprietà che
ci troviamo giocando sulla stupidità del
sistema, della Banca come “ripresentarsi della
forma
corporativa-economica
dello
Stato
gendarme, guardiano notturno etc.” (ancora
Gramsci: “come confusione tra società civile e
società politica”), abbiamo già in mente il
progetto di ritornare e colonizzare i tanti piccoli
Norm senza nome, così normali, anonimi.
1
Ti ho avvertito, lettore, che conveniva leggersi Dick.
96
ORAZIO
97
98
E 'o palo viecchio?
Se 'nfracetaje
L’inverno mi fa paura. Mi ha sempre fatto
paura. Dal balcone di casa si vede un nuvolone
carico di cenere che si avvicina. Spesso chiudo
gli occhi, mi sforzo di pensare ai tramonti dorati
che tanto mi piace guardare in estate.
Di là sono tutti indaffarati. È la mattina, è
la cucina, è il bagno, è il cane che duole che
vuole fare pipì. Di qui, per strada, tutto ancora
calmo. Qualche raro autobus sfila sotto il mio
sguardo. Se avessi un binocolo, riuscirei a
guardarci dentro. Come alle prove di teatro,
sarebbe tutto ri-go-ro-sa-men-te improvvisato,
anche se le “situazioni” sono sempre le stesse,
non mutano.
C’è la signora bionda, di mezz’età,
riccioluta e grassoccia, dal soprabito verde
militare, che cerca disperatamente di uscire
prima che le porte le si chiudano in faccia
perché qualcuno le ha fatto il dispetto di salire
da dove si scende (o viceversa); ci sono
netturbini appisolati che ondeggiano sbattendo
il capo ad ogni fermata sul finestrino, aprendo
gli occhi, ancora stropicciati dalle mani sudice,
con quel filo di saliva invisibile che un tempo li
accoglieva nel letto di casa, sdraiati nei loro
99
sogni ovattati, sogni arcobaleno, lucidi e
trasparenti, dove tutti gli oggetti indecifrabili,
trovati lungo il percorso della collina di
Posillipo, giù fino alla discarica che è diventata
Coroglio, assumono finalmente un’identità
serena, come pezzetti di un compito andato (a)
male, giudicato con un 4, che si ricompongono
sotto gli scherzi del vento di novembre e ne
fanno invece un componimento degno di essere
letto in classe, e pure ad alta voce dalla
maestra. Che darei per leggere quei loro compiti
mattutini, che si trascrivono da soli per quasi
365 giorni all’anno! Che miniera per uno
studente dei quartieri alti. E per uno sbandato
di quelli un po’ più giù della collina o dall’altro
lato, quando la domenica con la macchina
attraversiamo la piana di Fuorigrotta, per
andare allo stadio, quando gioca la mia squadra
del cuore, oppure quando, invece, è ancora bel
tempo e prendiamo la strada del lungomare di
Bagnoli.
Un giorno ho preso anch’io il tram che
arrivava affaccendato dall’altro lato della città
per portarmi al capolinea vicino alla linea
azzurra del mare. Pian piano riacquistando
vigore, si alleggeriva della zavorra umana.
Con un binocolo potrei anche osservare la
gente in mare, se avesse, come è evidente,
un’ottima lente. D’estate. Immagina quante
100
scene divertenti tra ragazzi in gita sul
gommone, che tentano di sedurre qualche
liceale che neanche arriva a risalire dopo un
tuffo profondo nel blu del mare e un leggero
panico sul bordo del grigio e liscio gommone
che sembra che si possa bucare da un
momento all’altro con le loro unghiette
verniciate perlato chiaro, per svolazzare nel blu
del cielo, questa volta, e poi come la mettiamo
con papà?
Questo accadrebbe nei giorni di primavera,
quando la scuola continua monotona col suo
tran-tran per entrare nel suo periodo peggiore,
finite le rivendicazioni, gli attimi fuggenti, solo
grande rompimento di coglioni salvo che
qualcuno della classe non ti piaccia davvero o
che ti faccia la corte il belloccio dell’ultimo
anno, anche rappresentante d’istituto! E quindi,
pronti a disertare, soprattutto se fuori c’è il sole
(e quale migliore prova se già sotto al portone di
scuola, alle ore 8 in punto, si suda – soprattutto
se per raggiungere la scuola bisogna prendere
un autobus in corsa – e già si ha voglia di mare)
e se la professoressa ha finito di spiegare Ovidio
e attacca con Seneca.
D’estate invece, ma non ancora piena
estate, diciamo verso giugno, con questo
binocolo che ora è diventato un potente
cannocchiale, incomincio a passare in rassegna
101
le universitarie che, lontane, distanti da tutto,
dal traffico che sfreccia loro accanto, dai
ragazzini che ridacchiano e che si fermano a
guardare, da qualche gatto e insetto molesto (e
non oso immaginare altro) prendono il sole sugli
scogli di Mergellina e del lungomare, come
premio per un esame andato bene, o
semplicemente, andato, fino alla colonna
spezzata, anche se lì, per essere una illustre
latrina del passato romano, ancora si sente
leggero puzzo di evacuazioni, tra mare e terra,
che potrebbe trattenerle dal denudarsi in città.
Queste donnine ascoltano musica dalle
loro cuffie, come l’ascolto io che si diffonde nella
stanza in questo momento, che proviene
dall’appartamento sottostante il mio. Duke
Ellington.
Che fortuna abitare in un palazzo signorile
ma non troppo alla fine di via Posillipo, dopo la
svolta per il parco della Rimembranza… siamo
agli ultimi minuti di solitudine, che mi
accompagnano con lo sguardo fino al tabacchi
in basso, in fondo alla strada che diventa
improvvisamente
avvolta
di
un’atmosfera
irreale, come un porto di mare perso nella
nebbia, pronto ad attendere la sua tempesta, e
come
sempre
a
sconfiggerla
solo
per
riattenderla ogni giorno, di nuovo alla stessa
ora, che decido finalmente di distogliermi
102
anch’io dalla finestra, di chiudere le tende, di
prendere il mio cappotto, con in testa Duke
Ellington, nella seconda versione di solitude più
blues e più ritmata, prendo la mia borsa con
tutto l’occorrente della prime quattro ore della
mattinata, e mi dirigo verso la porta. Un bacio
alla mia amata, che vorrebbe stringermi di più,
farmi le solite raccomandazioni ma che ancora,
anche questa volta, si trattiene.
Sarà la mia aria da duro anni venti. Non un
americano, ma un francese della costa
normanna, con la faccia rugosa, la pelle
incartapecorita bianca, non rossa come quella
dei nostrani pescatori isolani, che beve calvados
(o padre, troppi racconti d’infanzia!) e aspetta lo
sbarco degli americani come sulla luna.
Come io aspetto lo sbarco del bus 140,
guardando per un attimo in su, alla mia
finestra, vuota, cercando di scorgervi un
movimento dietro la tendina, che invece non
viene.
Il solito.
Ma
nessuno
mi
comprende.
Cosa
aspettarmi da un uomo che a sessanta anni è
sempre lì a fare il suo caffè, che non sa neppure
riconoscere i suoi clienti abituali. Sempre
vestito con la consunta divisa di ragazzo, vorrei
103
quasi prenderlo a pugni, ma poi abbracciarlo ed
offrirgli un porto per consolarlo. Tremante,
raffreddato, sempre sull’attenti dietro al
bancone del bar, mentre il proprietario sorride
dietro la sua cassa, roccaforte dei suoi pensieri,
alle signore perbene della zona di Chiaia che
indossano animali morti sulle spalle nonostante
in inverno raramente arriviamo sotto i dieci
gradi.
Perché quando ‘o maste decise allora di
assumerti in prova come garzone, qualche
giorno, mese dopo, non lo mandasti a quel
paese? Forse incuriosito dal tuo orgoglio, e da
quello scatto degno di un felino in un corpo
mingherlino che gli avrebbe ricordato i film di
guerra con John Wayne, contro gli indiani (e lui
si sarebbe identificato in Wayne, ovviamente,
mentre tu nel piccolo grande uomo), avrebbe
cominciato a trattarti, se non da pari, almeno
come un essere umano, e non da strofinaccio di
cucina per pulire il suo lustro bancone. Quel suo
figlio poi, seduto, abbronzato e muscoloso, e che
parla al telefonino tutto il santo giorno, non ti
guarda neanche più con gli stessi occhi, con un
sorriso di complicità servo-padrone, non ti
guarda proprio, che si è aggiunta anche una
questione di età, uno scarto di generazione,
vecchio...
Un’altra giornata nata male.
104
Mi ritrovo a bere il
decaffeinato, e che non mi
andare alle toilette appena
palazzo, altrimenti dovrò
permesso per allontanarmi.
solito cappuccino
fa venire voglia di
varco la soglia del
pure chiedere il
Nonostante
tutto,
mi
piacerebbe
trattenermi più a lungo di fronte alla villa
Comunale, mi piacerebbe comprare come tutti il
Mattino e leggerlo tra una schedina del totip e
una occhiataccia al vigile che mette multe solo
per ottenere un aumento a fine mese. E
commentare
Ma pure loro devono campare...
Oppure
Questa città è folle,
e ancora non mi sono abituato!
Me lo sento ripetere spesso da tutti quelli
che mi girano intorno. Ma anche se non me lo
dicessero, me ne accorgerei da me io stesso,
basta guardare come tutti sono incattiviti,
sembrano che abbiano perso quell’allure che li
faceva nobili, un tempo, anche qualora fossero
popolari. Come durante quella rivolta (o era una
rivoluzione?) di Masaniello (devo andare a
riaprire i libri di storia), dove duchi e arcivescovi
vari erano i personaggi più loschi e più rozzi che
105
si aggiravano intimoriti tra la folla inferocita,
per paura di perdere i loro beni, che nessuno
del popolo doveva toccare, ma tutti bruciare,
assistere a quello spettacolo simbolico, in
confronto alla grandezza del pescatore e dei
suoi compari.
Cosa ci è rimasto di Masaniello, e della sua
eredità nascosta, anche se solo per pochi mesi,
dagli intellettuali della Repubblica partenopea
del ‘799?
La madre di mia madre me lo raccontava
spesso, quando ero più piccolo, ripetendo
questa frase di Vincenzo Cuoco, era obbligato il
popolo a saper la storia romana per conoscere la
sua felicità?, alludendo forse a un’altra storia
“romana”, come un giorno mi fece notare mio
padre.
Come premio per l’attenzione mi regalava
pure un cioccolatino, uno di quelli senza nome,
dalla carta colorata a strisce, di cui dovevi
memorizzare il colore con le papille gustative per
non sbagliare gusto, quando lei ti porgeva la
coppa di cristallo colma fino all’orlo di assurde
leccornie di un secolo fa, e di uno spesso strato
di polvere, e dovevi fare la tua scelta, in una
volta sola. Il rischio era di ritrovarti in bocca quel
sapore di whisky che non ti andava giù, oppure
un limone stonato con il resto.
106
Ma a me piacciono quelle storie, che
popolano i miei pensieri, quando sono assorto,
come capita spesso, anche questa mattina,
davanti all’inespressività degli altri, o delle cose.
Mai, come è ovvio della natura. Compresa della
città, malgrado questa possa essere più dura, e
spesso aggressiva. Ma fa bene a vendicarsi ogni
tanto di noi, mi dico, in tutte le sue
manifestazioni. Soprattutto di quelli là, ma sono
attento a non fare nomi, ricordando la strizzata
d’occhi di complicità che mio padre mi rivolse
quel giorno.
E di notte, spesso, i miei pensieri finiscono
lì, sul cratere di quel vulcano femmina
sconosciuto: una divinità madre, indomita, prima
dell’arrivo dei figli che la violentino e la scaccino
dal trono come abbiamo appreso un giorno in
classe, studiando la storia della città di Atene,
del politeismo e del monoteismo, ma prima già
che si cominciasse a parlare di divinità; giovani
eroi che sembrerebbero aver soppiantato le più
antiche madri, amazzoni, donne guerriere… O
forse era Freud che ne parlava nel suo saggio su
quell’altro uomo barbuto come mi spiegava mio
padre?
Ma si è fatta già l’ora di andare, di andare
anch’io – di già! – che sono come dei delatori,
poi chi li sente quelli, non solo del palazzo, ma
anche di casa. Ogni giorno sempre la solita
107
storia, non si sente altro quando siamo seduti
tutti riuniti al tavolo, che la notizia principale
della mia testa tra le nuvole.
È vero sì, che meccanicamente lascio cadere
tutto; automaticamente sono distratto, ma così è
come se mi difendessi da una Morale
sovrastante che mi sovrasta – proprio come la
divinità madre – e che si incarna nelle parole –
purtroppo, anche in quella del padre.
Pensieroso lo sono. So anche che mi
considerano tutti un poco strano. Io mi
considero picchiatello, (grazie padre, perché
sempre a te devo tutte le scoperte mie più
interessanti: è che mi conosci meglio di tutti, tu!),
ma se ne parlo con gli amici nessuno sembra in
grado di cogliere il riferimento… troppo giovani,
più di me, senz’altro!
Spero di non aver dimenticato niente: ho
pagato e pure dato una mancia al “ragazzo” (che
altro fare per lui?). Ho preso la mia cartella, non
mi sono sporcato né spiegazzato l’orlo dei
pantaloni né impiastricciato nel fango delle
pozzanghere le scarpe nuove comprate sa-crosan-te-men-te per il nuovo inverno (e che mi
dovranno durare almeno fino alla quaresima); e
poi, che altro? sono forse un poco in ritardo. Ma
qualche minuto aspetta sempre il Sig. Moccia
prima di chiudere il portone. Non è antipatico
108
pur svolgendo la sua funzione di guardiano.
Forse perché è sciancato, e non pretende
andare oltre nelle sue mansioni. Resta solo una
faccenda da approfondire per le mie ricerche dei
tipi sociali, non psicologici, che di quest’ultimi,
forse a torto, chi se ne frega più? E poi, sono
mai esistiti? Guardate me! Io dovrei esserne già
uno, bello e pronto, confezionato.
Ma è meglio smettere di pensare e mettersi
in moto. Camminare non mi stanca mai, e ho
ancora un altro tratto di salita da fare.
Attraversare Piazza San Pasquale, svoltare a
sinistra da Via San Pasquale a Chiaia, lì dove
c’è il mercatino ogni mercoledì. E trovare il
numero 8 di Via Santa Teresa a Chiaia.
Camminare, mi distrae anche da me.
Chi mi guarda diversamente è Linda. Me
ne accorgo appena varco la soglia della sala,
tutti sono indaffarati, e anche se lei ha già
scelto il suo gruppo di lavoro, eccola che si volta
di scatto, come se mi fiutasse, o mi sentisse.
Linda come la distesa in lontananza che
cercavo di scorgere ovunque mi trovassi, quando
con mia padre incominciavamo gli esercizi al suo
pianoforte, e per me era la prima volta: linda è il
tasto che premo, e il suono che produce, uno per
volta, ricominciamo. E la pioggia che batte sui
vetri.
109
Le faccio un sorriso, direi piuttosto un
semi-sorriso. L’ho ripetuto tante volte in
soggiorno, davanti la finestra, fingendo di
guardare fuori interessato alla scena che mi si
presenta tutti giorni davanti, don Enrico che
non ne può più della mancanza di civiltà dei
condomini che non hanno ancora capito i
principi base della raccolta differenziata, e
mescolano tutto in quei bidoni colorati, sorrido
a metà, come un ghigno per non farmi scorgere
dagli altri che come al solito avrebbero riso loro.
Forse per questo non mi riesce, che invece lei si
volta di scatto.
Mi trovo un posto, l’ultimo rimasto che
sono tutti presenti oggi. Anche Luigi che doveva
parlarmi (ma durante la pausa pranzo, mi
raccomando, che nessuno deve saperlo) e
Raffaele che mi si avvicina silenzioso alle spalle
credendo di farmi prendere uno spavento. E
come di consueto, io ci sto a questo giuoco, che
non ho tanti amici, e che tutto sommato, anche
se assai scontato e prevedibile Raffaele è un
bravo compagno. Ormai sono tre anni che lo
conosco. Si può dire che abbiamo varcato
insieme il cancello, per la prima volta.
Le mie prime vacanze. Mi emoziono a
pensarci ancora, perché erano le prime (e da
allora le ultime) che abbiamo trascorse insieme.
Se penso a quante cose siano cambiate dentro di
110
me da quel momento. Non parlo solo dei miei
cambiamenti fisici, del mio peso, della mia
postura, della mia voce, del mio sguardo
(incupito, mi dicono), ma soprattutto dei miei
sentimenti. Se metto a confronto quelli che
nutrivo e quelli che nutro ora nei suoi confronti,
non ne capisco più niente! Non che i primi – di
affetto, di amore, di gratitudine, di amicizia, di
calore, di serenità, di sicurezza quando ero con
lei – siano cambiati, a questi piuttosto se ne sono
aggiunti altri, contrastanti. Ed è questo
paesaggio nuovo, non più piatto, come la
superficie della luna di un disegno a matita su
foglio A4 dello spessore di 0,1 mm, ma discreto,
con zone d’ombra, monti e valli che con stupore,
un giorno, quando cresci, scorgi su quel bel viso
lunare che sembra aver preso ora solo botte, e
tutte le notti!, su cui mi muovo come su tasti di
pianoforte, grato ad una gravità fittizia che mi
tiene in equilibrio, mentre in realtà mi sento in
bilico in ogni istante per evitare che i miei piedi
calpestino solo degli armonici, gruppi – pacchetti
potremmo definirli utilizzando il linguaggio di chi
crede al principio di indeterminazione della
realtà ultima, quella che trovo fin in fondo al mio
cuore – di suoni dissonanti, che ha cambiato
pure la mia disposizione verso l’inverno. Quando
tutto è più calmo, la casa silenziosa nei giorni di
festa, o al mio ritorno da quello che oramai devo
111
anch’io considerare come essere il mio lavoro, e
spesso ci troviamo soli, io e lei.
Raffaele, come sempre, mi si siede accanto,
e incomincia a enumerarmi le “grandi”
meraviglie, le “grandi” scoperte che ieri, nel
pomeriggio, gli hanno strappato ammirazione e
stupore durante le ore trascorse da quella sua
zia, un giorno dovrò pure capire perché il suo
nome non ricordo mai. Caterina, sì. Così
giovane, così bella: bionda come una modella, e
delicata. Quelle sua mani lo fanno impazzire,
soprattutto, e spesso arrossisce dei pensieri che
vorrebbe scacciare via con uno scacciamosche
perché nella sua testa sembrano mille di questi
diabolici insetti che gli ronzano intorno, e ha
pure paura, quel tonto, che gli escano dagli
occhi e che lei se ne accorga! Mi chiede se
anche a me capita, a volte, di sentire gli animali
in testa, dei ronzii, o dei brulichii, quelli poi
sono insopportabili, soprattutto quando dalla
testa strisciano giù… e qui arrossisce pure con
me!
Perché arrossire se poi non c’è dato di
temere, il futuro si irradia felice e luminoso
davanti i nostri giovani corpi, come giorni che
non subiranno più le decadi dell’anno! Già si
pensa alla riforma del calendario – ne parlavano
in questi giorni in aula, esaltandone le qualità
112
disvelatrici, di energie liberate per questo dal
futuro, il nostro futuro.
Però senza più padri, solo padroni.
Perché arrossire ancora come prova del
potere, dell’angoscia che si delinea sui volti
pure degli innocenti e dei più piccoli: che
vengano a me, Signore, dicesti, rappresentante
della nostra morte.
Anch’io dovrei arrossire allora per questi
pensieri che contrastano con tutto l’ambiente che
ogni giorno mi circonda, con questa aula di un
edificio pubblico che però è addobbata come una
chiesa, e che non è più l’irriverente sacrilegio
della Napoli dei mille colori della storia, mélange
di popoli e di cuori, e anche di oppressioni, ma
solo austerità sobria, cioè morta, incolore, di un
crocifisso appeso, di un corpo in catene che
dovrebbe ricordare la nostra rivoluzione. È così
stupido il potere a non rendersi conto del solito
compromesso delle coscienze, anche quella dei
turbamenti di Raffaele che mi siede accanto e
che ora sembra incurante dei suoi pomeridiani
assilli, alle prese con l’uomo nuovo di cui non
capisce un granché di significato, anche lui
sarebbe più vivo di, di, di… Mi si avvicina lei, e io
mi sento che sto tradendo, in questo momento
così lontano, nel tempo… comunichiamo così
poco, e lei, che io amo è così triste e sola ogni
113
giorno che non posso distogliermi dai miei piani
di lotta, di evasione, da tutti, dal mondo.
Ma perché faccio il duro, che poi lei se ne
va, e ridacchia con le amiche, cosa che in
genere non sopporto ma mi sembra adorabile,
vedere questa volta il suo di rossore. No, non è
più timore che la scoprano, è imbarazzo: cioè
manifestazione (angosciosa?) del suo desiderio,
per me? O per Antonio? Luigi che deve
parlarmi, mi fa inviare un pizzino, come fosse
un importante e serioso appuntamento di
lavoro.
Di te mi fido, mi dice. Con le tue risorse, la
tua cultura, potrà riuscirci facile, senza cadere
nel terrore, nella disperazione, nell’angoscia,
quando accadrà, e sarà tra breve, i segni sono
premonitori – ricordi le auspici che ci hanno
insegnato alla scuola? – ma anche senza ansia,
ovvio che sarebbe peggio, con te possiamo
camuffare, noi stessi avere più chance di non
essere scoperti, senza macchie, pulsazioni o
battiti accelerati, e animali striscianti che ti
escono dai pori della pelle e dai pensieri nei
sogni, come con quel Raffaele lì che non so
come tu lo sopporti, etc., etc.
Insomma di questo voleva parlarmi, e gli
dico che ho bisogno di tempo, che ne abbiamo
bisogno entrambi anche se capisco la gravità
114
del momento. So che bisogna rivedersi magari
giù da me, a Coroglio, tra quelle rovine del
tempio, per rivedere i nostri punti forti, eppure
deboli… intanto gli dico tutto questo, ma non i
miei pensieri di linda, di qualche istante fa, di
crateri, vagine notturne che mi divorano i
pensieri, e di telefilm immaginati – in mancanza
di buoni programmi alla televisione – affacciato
tutte le mattine davanti la finestra di casa, con
l’anima che vaga, persa nelle strade, sotto un
bidone della spazzatura, nell’attesa, ma non
solo, nella certezza di trovare resti, frammenti,
bucce di pelli di quell’essere progenitore che ci
ha fatti nascere senza conoscenza. E se n’è
andato senza lasciare alcun sapere lontano.
Solo noi, su questa terra, solo con noi e con la
speranza posticcia di mettere un giorno
veramente piede sulla luna. Solo noi, senza
neanche
più
loro,
l’immagine
riflessa
dell’occidente
opulente,
ignorante
e
stramaledetto, che non ho vissuto, ho solo
percepito negli occhi di lui. Mio padre. Come un
uomo che non conosco.
La giornata non passa mai, in quelle
quattro ore imposteci ogni giorno, per una
riabilitazione – rispolverando le vecchie dottrine
socialiste potremmo parlare pure di una finalità
educativa, dell’espoir di un reinserimento
sociale, nonostante questa coscienza di non
115
durare, se non nella forma trasmigrata di
qualche altra povera e dannata anima – non
posso fare a meno di ricordare il mio passato, di
desiderarlo come il giorno dopo, quando lei
venne ad accogliermi e lui si preparava per
accompagnarmi nelle prime ronde notturne dei
nostri incontri, per cercare un posto adeguato,
adatto, per reperire nuovo e vecchio materiale,
per contattare altri come noi.
Altri come noi, poi, chi sono? Gli chiedo
mentre mi soffermo a tutti quelli che mi sono
intorno, che girano, che urlano, che gesticolano,
che fingono silenzi carichi di pensieri e di
tormenti e che promettono. Altri come noi non
hanno nomi di battesimo che risalgono a un
secolo fa, o a qualche libro scolorito, o ad un
programma ristabilito, riprogrammato, riciclato.
Altri come noi bisogna imparare a riconoscerli
nei particolari delle mimesi facciali, non nel
rossore, nell’imbarazzo, nell’emozione, o nei
battiti accelerati del cuore. Non sono quelli che
suonano meravigliosamente una sonata di
Beethoven al pianoforte, ma quelli, come noi,
come me e te, che immaginiamo e sogniamo.
Nei sogni mi appaiono questi uomini che
hanno rappresentato per anni un’alternativa al
blocco di cemento che cola come liquido dai tetti
spioventi delle bidonville che circondano il
quartiere base di Napoli. Napoli, stazione lunare,
116
sul cratere di un pianeta che si credeva
disabitato: adesso è qui con un posticcio vulcano,
con un posticcio venditore ambulante figlio di
poca gente, qualche costruttore navale costretto
a fare e disfare il suo destino. Questa è
diventata la città: una finta e lunga cometa che
circumnaviga la terra ormai morente e che noi
vediamo,
talvolta,
rappresentata
in
un
fotogramma (o era un fonogramma) nelle scuole
di stato del pianeta.
Tra i pochi sopravvissuti, il mio
programma di reinserimento è di grado alfa
dominante: per un uomo nuovo senza più sesso
e età, i miei ricordi gli servono però per capire
meglio il mondo: per la serenità.
I ricordi che mi carpiscono – e che già
sbiadiscono in questa dialisi di primo grado che
subisco tutte le mattine e a tutte le ore e che mi
fanno essere come il gatto di Schrödinger,
oppure come l’indiano Talbott di Philip K. Dick
– servono solo a munirsi di anticorpi, oppure a
creare virus, di nuovi. Che tanto non
riusciranno mai a riprodurre tutto il passato, e
dovremo accontentarci solo di una vita scialba,
insulsa e incolore, come quella che sto vivendo,
interminabile, nelle mie quattro ore.
Mi manca quella donna che persi e che pure
mi accompagna, nelle melodie che faccio rivivere
117
ogni giorno per loro; nella luce pomeridiana di
quando andavamo a rincorrerci alla Villa
Floridiana per aspettare lui dalla Funicolare.
Andavo a distenderci sui prati, davanti al
panorama mozzafiato di una città dalle ore
sempre contate che per questo ci sembrava
infinita, come lo zero: un lungo attimo dilatato
nella coscienza e nei pori. Nell’albero sotto casa
e in don Enrico che sbuffava.
Ecco che arriva il momento di ritornare, di
ripercorrere quel cammino di tanti anni fa, di
dover essere attento ai particolari, di
accompagnare
Raffaele,
per
spiegargli
dell’erezione e dei normali sintomi di
eccitazione-attrazione-innamoramento.
Del
significato delle mani come oggetto fallico e del
grand Autre. Questo grande Altro diverso dal
grande fratello che pure non ho mai letto ma
che terrorizza o dovrebbe terrorizzare i sogni di
tutti noi bambini scomparsi prematuramente – i
sogni, non i bambini, anche se, se scompaiono
quelli, come potremmo distinguere questi?
Devo ricordare, devo ricordare tutto per
riuscire a sopravvivere, ma proprio questo
accavallare fatti, nomi, epoche e luoghi, crea
quel tormento che mi rende diverso, debole e
più sottoposto malgrado l’enorme lavoro e
l’enorme esperienza che compirono loro, i miei
genitori adottivi, con me.
118
La luce soffusa delle lampadine gialle che
illuminano i lampioni, circondandoli di
un’aurea benjaminiana stringe il cuore.
Quest’aura elettrica dell’elettricità scambiata
per poche vecchie lire, al baratto della Fiera
città, la Mostra d’oltremare. Altro nome esotico,
come un viaggio diderotiano nel materialismo
assoluto, perché più lontano.
Una lista di libri è altra cosa da fare.
Riempire i miei pomeriggi, non più giù al parco,
perché non c’è senso anche se dovrei insegnare
i bambini a giocare, a cantare. Ma sono troppo
stanco e mi sento già vecchio. Riflesso nella
luce dei lampioni che per miracolo si accendono
ad ogni mio passo, lì, lungo la svolta del
piazzale che s’immette su via Posillipo, a largo
Sermoneta rifletto, guardando dal lato del mare,
guardando le riproduzioni del bagno Elena che
neanche io conobbi, forse mia madre.
Ricordo di una sua foto in bianco e nero:
riccioli d’oro che non si scorgevano però si
intuivano dal viso, la foto del volto sorridente,
aggraziato, labbra carnose, che mi diceva(no),
non sembrava napoletana, sennò della stirpe più
alta, nobiliare, mentre invece era una paesana
amata e desiderata da tutti. Ecco bagno Elena:
così si chiamava. Era in bianco e nero. China sul
bagnasciuga con una sigaretta tra le labbra.
119
Perché riprodurre in-fi-ni-ta-men-te una scena,
nella memoria e nello sguardo di tutti?
Come nella città in costruzione, ché già
sembra subire un’apocalissi, ma che invece
nasce sotto il mio sguardo, le mie parole, nelle
quattro ore dell’alba, ogni giorno, un poco in
ritardo alla stessa ora, con lo stesso sguardo.
Non che mi seguano, no, finanche, nei miei
pensieri. È la malinconia inarrivabile e
impercettibile che ricopre come la bruma, come
quella luce dei lampioni elettrica, che scende
piano, ovattata, come un velo, una palpebra,
una membrana (il Debussy di Arturo Benedetti
Michelangeli o il Leopardi di Torre del Greco).
Infinite,
insondabili
letture
come
elettroshock per i più fragili, come composti di
cera a edificare la storia. A riscriverla. Sui loro
corpi. Con le mie intonazioni, le miei inflessioni.
I miei gusti musicali. Con la materia viva,
parcellizzata a parcellizzare di souvenir nascosti
durante le ore di sonno. Madre stanca, partorita
dormiente. Che raccontavo loro, che erano la
copia identica, esatta dei miei genitori. I miei
veri, unici eroi.
Ritrovarmeli un giorno, quando la città,
quella malsana, putridamente eruttava ed ogni
contatto si arresta. E io me li ritrovo di nuovo a
120
casa, sul bordo del mare, per essere risvegliato
piano, per essere incorniciato per sempre nel
mio passato che dura un attimo, un istante
infinito carico di futuro, a leggere libri di storia
e ogni sorta di materiale pornografico. Ovvero
opuscoli che ti danno alla stazione radio, per
apprendere il tuo compito. E per questo ti
presentano loro. I tuoi nuovi, vecchi genitori.
Da ricostruire. Da amare.
Due persone che litigano: non so chi glielo
abbia insegnato. Cabaret di strada, bordello
oserei suggerire.
Mi avvicino per scorgere meglio, e per
intuirne la fonte originale, per assaporare, di
nuovo, finché posso, il vecchio contesto:
Eduardo (l’avv. Fattibene) con suo figlio Luigi, Il
Palo (Luigi Poveretti), al Circolo della Caccia, al
posto del sesto piano do’ vico Scassacocchi,
traversa via dei Tribunali.
Un uomo dice di non aver guardato
“storto”, cioè ammiccando un sorriso sberleffo,
con gli occhi, l’altro seduto al lato opposto e
intento a leggere un giornale – il solito Mattino!
Ma forse è una riproduzione originale? E così,
lui che si sente offeso si sente richiamato da un
antico istinto di spazio da conquistare su quel
piccolo e stretto marciapiede che costeggia la
121
collinetta di Posillipo, ad inaugurare la strofa di
controcanto:
Embè, che guardi a fare?
Gli suggerisce pure una battuta per
chiudere la scena, anziché portarla per le
lunghe e attendere la replica dell’incurante
dallo sguardo svelto, fuorilegge – che poverino,
così l’hanno confezionato –, addirittura con un
cappello modello panama e dell’ombretto rosa
su guance e occhi, rossetto scuro e occhiello.
Un tipico figuro di tanti anni fa.
Questa sembra diventata la città: una finta
messa-in-scena, in cui si scambiano e si
invertono i ruoli, e a me mi tocca camminare,
guardare, forse sorridere un po’ per partecipare,
e a volte pure donare spiegazioni. Quando il
sipario, ovviamente, cala. E la luna va a
dormire, e si vede il suo riflesso sul mare che si
allontana, che intanto lei gira, ruota, viaggia. E
ci si dona un rendez-vous d’amanti per la
prossima puntata.
Intanto lei mi aspetta, da dietro la finestra.
Questa volta la scorgo, vedendola da lontano, a
piedi, sotto la luce del faro, come la tempesta.
Questa volta, penso, l’inverno potrebbe finire
per sempre, cioè non farmi più paura. Penso di
avere le ore contate, e il mio desiderio più
122
intimo, nascosto, che non rivelo, nemmeno
nelle prime, vulnerabili, quattro ore della
giornata, quando sono veramente stanco, per lo
sforzo di rivivere tutto, raccontare, trasmettere,
e pure combattere contro di me e dentro di
me… quella fiammella incondizionata, che
ancora
conservo,
nonostante
viaggi
intergalattici che un tempo, bambini ci
avrebbero fatto sognare, e invece, se realizzati,
adesso rendono solo sfiniti, più pessimisti
ancora di quanto non lo fossimo già un tempo,
perché non c’è più possibilità di ritorno, quel
desiderio sopravvive a lei che mi ha accolto, che
forse mi ha amato imparando, come le dissi di
mia madre, guardando quella riproduzione
sbiadita della foto anni cinquanta dei Bagni
Elena di Posillipo. Lei mi attende finalmente, mi
desidera come una donna madre, mentre il
padre è ormai assente a fare la guerra: mio
padre che mi insegnava tutto e a cui io ho
trasmesso il segreto della morte, l’arma letale
del compromesso, o meglio, forse del
sentimentalismo/ nazionalismo.
Non quell’uomo integerrimo che si
avvicinava a me tanti anni luce fa, mentre
disegnavo, e mi indicava col dito, sul foglio
bianco, l’altro lato, l’altra metà. Da attraversare
sprezzante, senza disegnare. Ad occhi aperti,
provare a rivedere, ovunque fossi, oltre. E si
123
raccomandava, conscio forse dei miei giovanili
ardori; della mia poca esperienza, e molta
inesperienza. Che lui cercava di colmare con la
bellezza, con quel poco che le passeggiate su
per le colline, e per i ruderi, i castelli, arena e
spiagge, e finanche l’acqua del mare, della sua
amata Napoli, svuotata come un museo, gli
consentisse di ricreare, sentendo quella lava
sotto i piedi.
Che forse un giorno sarebbe esplosa,
inghiottendo tutti. E se impreparati i più forti,
cioè ignoranti e ricchi, avrebbero vinto per
sempre. Perché – mi diceva – come ricostruire
quattromila anni di storia. Ovvero, per essere
sinceri, e più scientifici, l’altra metà, quella
all’inverso. La più bella, la storia ancora non
scritta. Solo i progressi per tutti ci avrebbero
fatti ripartire da capo. Riformattati. Mentre io,
invece, sono uno strano programma, che
miscela bello e brutto. Come una macchina, ma
in strange loop. Perché tanto ho assorbito, pur
senza volerlo, e saperlo: dalla maestra nei miei
primi anni di scuola, pei conventi dai preti –
anche senza saio, tonaca o toga – nel mondo
che la televisione lasciava entrare per le
finestre. La musica americana (anche se il jazz
mio padre l’amava).
124
Sempre a spiegarmi tutto, a farmi la
controstoria, sennò che sfizio c’è, mi diceva,
essere attraversati così dalla vita e dal tempo?
Io, padre, quelli come noi li ho trasformati
con le mie stesse parole. E ogni giorno ripetendo
lo stesso tragitto emozionale, con minuscole
intonazioni o alterazioni, vedevo prendere forma
le miei emozioni, cioè, come nei sogni, animarli in
voi, quindi in me, nei miei sentimenti ambivalenti
che solo ora, comprendo, nutrivo per voi. Ora che
tutto è distorto, confuso, eppure così i-nu-ma-no.
Anche le scarpe da cambiare prima di pasqua o
il torrone da comprare a Piazza Mercato per il
giorno dei morti. Per non parlare della Befana!
Una vecchia ringrinzita!
Tutta la mia infanzia, irrecuperabile e
irrisolta, tutti i miei istinti, anzi pulsioni, ho
messo in quegli occhi cloni, per svuotarmi di me e
di voi, dello spettro del mondo, di quella città
assente che dico essere stupenda, e che
riproduco perfettamente – anzi riproducono, sulla
base di quei modelli che ci divertimmo un giorno
a fabbricare insieme: di quello che resta, nelle
miei misere riproduzioni. E che pure hanno
costato la tua morte che continua, come vita,
nella mia. E che io lascio in dono perché stanco.
Un bambino già vecchio, un animale già uomo,
nasco. Mi arrendo.
125
Una città già sola, in solitude, si risveglia
ogni giorno. E l’inverno incomincia a farmi paura,
proprio come le classiche ombre del passato (ma
quale?) che ritorna a chiedere il conto.
Tutto questo vorrei dirle, già condannata
mi aspetti come ogni sera e come ogni mattino,
alla porta di casa, o alla finestra, mentre io mi
affollo, mi quadruplico o centuplico nei ricordi
appassiti, come fiori avvizziti della storia. Una
madre già morta, speranzosa per un figlio
tiranno, che non le appartiene. E che la
ucciderà, inseguendo invece la legge del Padre,
quella che io avrei potuto sovvertire di nascosto,
come mi insegnasti tu, o padre, e come il Cristo
risorto, nell’ambivalenza del perché del non
senso, restauro restituendola a questi essere
vuoti, pronti ad essere riempiti del mio flatus
vocis.
Ma la notte è calata: e lei, sempre lì ad
attendermi, non si accorge della mia decisione
presa. Di non superare il Parco delle
Rimembranze – mai nome fu oggi più
appropriato: no, non voglio perpetuare questo
eden ma cadere nell’oblio, nel mio oblio. Anche
senza che tu te ne accorga. Alla finestra per
sempre. Come un presagio di Rivoluzione voglio
che tu mi attenda. Lui, l’uomo che ti è stato
messo al tuo fianco non ritornerà più. Nei miei
ricordi, ma forse sarebbe più opportuno parlare
126
di invenzioni della memoria, decisi di ucciderlo, e
fu presto fatto. Ma ora, sappi che tutto mi
appartiene: questo misero satellite, quest’aria di
malinconia
inguaribile,
questo
inutile
struggimento. Ora potrei fare lo stesso, ma nel
segno inverso!
Eppure, la pietà, il dolore di vederti soffrire
per la verità, mi suggerisce saggiamente di
prendere la strada della scogliera, lì di nuovo nel
sacro tempio dedicato a Coroglio, quel mostro
marino, come mi divertivo a chiamarlo con mio
padre, quando ancora gli operai gli rendevano
grazia e luce, e suoni riempiendolo di impossibili
odori.
Perso tra quelle macerie dei miei ricordi,
potrei fare un sacrificio: immolarmi per loro e con
loro. Costruire la mia vendetta. Questo c’è da
fare: autodistruggersi senza salvare più
nessuno: né Raffaele, né Antonio, ne Luigi, né
Lei, e neanche Linda…
Che una bambina sappia cambiare il
mondo? Piccola guerriera che ti vedo spaurita
tra mille occhi e mille mani che ti bramano ad
ogni costo, che ti vogliono cambiare, che già sei
putrida fino all’osso. No, non posso fermare
tutto, lasciando scorrere l’allegria della morte
invadere le strade, anche per te. Anche tu sei
127
nata già morta, partorita da pochi superstiti,
anche tu sei figlia di nessuno.
Non più mia. Come Napoli, tu sei questa
città morta, e sepolta.
Salgo lentamente le scale.
Tu mi apri la porta senza che io provi
neanche a suonare il campanello, o ad alitare
più forte, per farti sentire il mio respiro, per
riempirti della mia presenza. Sono abitudinario,
il mio mondo, spoglio, la mia fantasia povera.
Poche memorie. E solo bisogno di sicurezza.
128
Indice
GEMMA
3
8 GIUGNO, LUNEDÌ
5
10 GIUGNO, MERCOLEDÌ
11
15 GIUGNO, LUNEDÌ
14
16 GIUGNO, MARTEDÌ
18
Fiutando tra i vicoli
21
Strani pensieri a
Trinità degli spagnoli
24
21 GIUGNO, DOMENICA
27
L’arte di Sisa
31
25 GIUGNO, GIOVEDÌ
35
VENERDÌ MATTINA
40
28 GIUGNO, DOMENICA
48
TRA LUGLIO E SETTEMBRE (APPUNTI)
54
APPUNTI N. 1
58
APPUNTI
10 LUGLIO, DISCESA AL MARE
129
63
GENTE DELL’ISOLA
68
APPUNTI N.
71
4
APPUNTI N. 5, SABATO POMERIGGIO
74
APPUNTI, DOMENICA SERA
77
APPUNTI
1 SETTEMBRE, VENERDÌ
80
SERA
84
MACCHERONI
87
APPUNTI N.
91
10, MARTEDÌ 5 SETTEMBRE
93
INVITI
ORAZIO
97
130