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GEMMA 3 4 'A vita dura n'anno. 8 GIUGNO, LUNEDÌ Ormai è maturo l’albero di fichi, proprio come me ormai. Piccolo albero bonsai comprato in un punto vendita all’Ikea, per un’operazione di beneficenza, malandato e malaticcio, e che ormai arriva a più di un metro e mezzo di altezza. Con le amorevoli cure paterne, fu salvato (era infatti un regalo che feci a mio padre una decina d’anni fa), e da allora, un po’ per gioco, un po’ per scacciare via il pensiero della mia partenza per Parigi, lui mi ha come identificata a questo “Benjamin ficus” che ad ogni mio ritorno nella città assolata e svogliata, natale, archetipa, la città di Napoli, mi mostra orgoglioso, proprio come fosse il suo nuovo bambino. guarda che bello, le foglie tutte verdi… Ed io, a poco, a poco, ci sono cascata, e ad ogni mio (raro in effetti) ritorno a Napoli, passavo per la veranda della grande casa napoletana, un attimo giusto, per affacciarmi come si fa con gli altri componenti della famiglia, per salutarlo. 5 Ciao! dicevo tra me e me, rispecchiandomi in quel Ficus, ti trovo bene. Adesso, a quasi dieci anni, o forse a otto anni e una mezzaluna di estate di distanza, ritorno qui, e lo vedo così: grande, sì! forte, ma chi lo dice che non sia comunque provato? Se l’esperienza rende la vita unica, come dicevano i miei e i nonni di tutti, suppongo, degna di essere vissuta, la luce riflessa dalle sue foglie sembra ormai di una tonalità differente: non solo verde brillante, foglie grandi scure, intermezzate da tanti mazzetti di foglioline appena nate, ramoscelli nuovi, pieni di linfa. No, non più. Piuttosto l’immagine di un albero adulto, solido ormai. (Sarebbe ridicolo ricordare la sua origine bonsai.) Con foglie verdi e foglie gialle… già nel mese di giugno: un autunno dolce, anticipato. Ecco, mi sento così. Questa è la prima cosa che mi viene da scrivere, iniziando come nelle più intense delle ipotesi, questo diario napoletano di molti anni fa. Ce ne saranno tanti di diari sparsi per il mondo, parigino, pechinese, porto alegrense, losangelino, fiorentino, tessalonicese… citando solo alcune città a me care, in cui un mio diario avrebbe potuto vedere la luce; e io, partorire un figlio all’età di 35 anni. Ma no!, sapevo già che 6 sarebbe stato un diario napoletano; perché, in fondo, la necessità, il bisogno di raccontare se stessi e gli altri, credo che nasca solo da un “riposo” forzato, una “vacanza” o una “pausa” coatta, insomma quando la vita vuole che ti ci allontani dalla tua, o almeno quella che pensavi si delineasse davanti a te come la tua, incomprensibile, ma come il disegno che tu stessa tracci da bambina (o, forse, quello anche è il diario d’infanzia?), per rientrare, inconciliabilmente, nella vita della famiglia. O della città in cui ti trovi ad essere nata. Nella vita di un altro. Oppure, l’altra ipotesi, e io le metto insieme, le “coniugo” (e mi diverto mentre scrivo questa parola, pensando proprio come una bambina, che siano sposi – e come Totò de i fuorilegge mentre parla con la sua avara consorte, Concetta de Filippo: “Sono io, il tuo coniugo!”), è tutta pratica, del tipo: sono qui a Napoli, più del dovuto (e non so ancora per quanti giorni dovrò starci), dovevo solo – come sempre – passarci (cioè: godermi il sole, il mare e… la famiglia per uno, massimo due giorni, e ripartire altrove), e invece, sono qui, e chissà, ripeto, per quanto tempo ancora! Tutto sembra cristallizzarsi. I miei libri che nessuno leggerà mai, come viaggi in questo mondo perfetto dell’immaginario 7 nordamericano, o anche dell’Immaginario della Resistenza, in cui è compreso quello delle Brigate Rosse, subiranno, benché avessi programmato di presentarli all’editore di Parigi per la fine di giugno, un arresto improvviso, e dunque, leggo: leggo Goliarda Sapienza, la storia di Roberta compagna incontrata a Rebibbia e piango leggendo l’ultima pagina che mi scorge impreparata anche per questo desiderio di maternità inaspettato per tutti i figli perduti, che si sono sacrificati per genitori incapaci; leggo di Prospero Gallinari, la sua vita e la sua mano da contadino che si iscrivono nella storia emiliana partigiana, combattiva e antica, e ne scrivono la lotta armata delle BR, nobile anche per questo; ora inizio un mainstream, più soft, ma il più bello di Ermanno Rea, Mistero Napoletano… oltre ai saggi che porto con me per le mie ricerche. Ma sto divagando. Insomma, la scommessa: scrivere narrativa, cosa credo impossibile per me (e forse qualcuno di voi mi giudicherà per questo), ma spinta da una sola prospettiva pratica: scrivere in una settimana e pubblicare questo libro, immaginando di partecipare a un concorso… e vincerlo! Così il mio cruccio che si traduceva in “un tempo scrivevo poesie” – che poi è diventato 8 scrivere saggi decostruzionisti pop, come furono allegramente definiti da un critico parigino – potrebbe essere aggirato dalla scommessa fatta in una pizzeria di Salerno, in un vicolo prossimo al corso e il lungomare (O’ Spicule per chi volesse provare: ottimi saltimbocca e signore simpatico alla salernitana, burbero e timido, scontroso e sorridente, a suo modo gentile, affascinante), con il mio compagno. In questa separazione forzata (che sia chiaro, ce ne sono state tante altre, anche di più lunghe – almeno spero! – per il nostro pseudo-lavoro da universitari che ci ha portati a vivere lontani per qualche tempo, ognuno di noi a prendere aerei seguendo rotte e tratte impossibili – anche in base alle oscillazioni dei prezzi della borsa dei voli –, per incontrarci tra Rio e New York, oppure tra Parigi e, molto più semplicemente, Firenze) ognuno di noi scriverà un libro. Un racconto, un giallo (sicuramente lui!), una storia d’amore, che sia anche una critica letteraria, una recensione, comunque autobiografica… Per me che comincio, è più semplice lasciarmi andare così, ma senza annoiarvi spero, raccontandovi di me, della mia famiglia e di questo giallo napoletano che mi sembra un accostamento così perfetto che mi è capitato, 9 che vale la pena avvicinarmi e provarci anch’io. Perché no? A proposito, io sono Gemma: Gemma Imposimato. 10 10 GIUGNO, MERCOLEDÌ Il mio portiere parla francese, legge di tutto, di Napoleone, i girondini, la Grande Rivoluzione, la Comune, la Liberazione di Parigi del ’44, con la saggezza e la cultura partenopea sembra aver viaggiato e vissuto in epoche diverse: sempre, però, uguale a se stesso, sempre – magari – un portiere! Lo sarà stato di quei bellissimi palazzi tardo seicenteschi di via Toledo, a Napoli, quando ancora questa strada rappresentava la quintessenza della città di Partenope: porosa, come la definì Walter Benjamin, qualche tempo dopo, viaggiando anche lui nel tempo insieme alla sua Asja Lacis. (Anche se i due, come tanti altri intellettuali organici del futuro, tra cui lo stesso Lenin, finirono coll’abitare nell’isola di Capri. Certo, quest’isola non doveva essere più la stessa, come quella delle feste modaiole della metà degli anni Cinquanta. Del resto si sa, dice il mio portiere, dopo la guerra tutto sembrò cambiare. E aggiunge (dal romanzo di Tomasi di Lampedusa): “tutto cambia per rimanere sempre uguale”. Lui, in effetti, il portiere, non sarebbe cambiato neanche allora.) 11 E meglio così, mi dico, visto che quando varco questa soglia, il portone di casa mia, detto alla napoletana, di un posto che più brutto non ce n’è, anche se un tempo doveva essere bello (almeno così mi sembra dalle fotografie che ci ritraggono, me e mia sorella piccirelle, con cappottini di lana e passamontagna, a tinta unica da capo e piedi, bianca io e rossa lei – oggi mi sarei incazzata di essere “bianca” e non “rossa” – giù nella piazza sulla quale si affaccia la mia casa, e che è popolata ora solo da selvaggi in motorini, macchine con stereo ad alto volume e chalets, quasi che fosse un ameno luogo da villeggiatura, settimana bianca o safari!), quella faccia – la prima che vedo quando ritorno a Napoli –, perennemente abbronzata sulla soglia del portone di casa, è pronta a darmi, in francese, il benvenuto. Facendomi sentire ancora, per un istante, chez moi (ma non so, con un effetto spaesante, se più lì o qui). Bene, il portiere dello stabile, con passione tra l’altro di animali esotici (ha posseduto due iguane, un pitone, una tartaruga, e per cambiare “genere” anche due pappagalli!), ha dato il via a tutta la storia, perché come sempre, il mistero nasce, come diceva Lacan del suo Dupin, da un oggetto che circola, che cambia di posto, come una casella vuota. E 12 vuota lo era, quella missiva! Solo una frase: bentornata! Chi avrebbe potuto immaginare del mio “passaggio” nella decadente città partenopea? Guardo, rigiro e mi rigiro la busta bianca, tra le mie mani, e lo sguardo indagatore del portiere (che, dimenticavo, annovera anche, tra le sue tante qualità: 1) quella di essere un appassionato di gialli nordamericani: i classici di tutti i tempi, e impareggiabili: uno fra mille: John Dickson Carr, e 2) di non essere proprio quella che si dice una persona “discreta”). Ciò che lo rende ai miei occhi ancora più unico, un archetipo: il portiere universale di razza napoletana! 13 15 GIUGNO, LUNEDÌ A questo punto, nella mia testolina, e tra le pagine di questo semi-diario, necessario per svelare e avviluppare di mistero, al contempo, la mia presenza a Napoli, segnalata da una lettera tutta bianca, è d’uopo fare una piccolissima digressione, e percorrere le vie dai nomi delle città dell’Italia intera, che si diramano a raggiera dalla stazione centrale di Piazza Garibaldi, Napoli. Via Ferrara, via Firenze, via Torino, via Parma, via Milano che per ora sembrano solo abitate dai cittadini del mondo. Senegalesi, marocchini, e il resto dei nord sahariani: il ceppo più antico, e sicuramente un tempo, anche quello più formato e politicizzato, “accolto” se non dalla città almeno in città (parlo della prima generazione). Ma anche (dall’Ottantanove in poi) albanesi, rumeni, polacchi (che si aggirano, e dormono talvolta, per le strade dietro la stazione, tra Barra e Ponticelli), stampati anch’essi nei gouaches delle rappresentazioni grottesche dei “c’era una volta” della città nei loro abiti sgargianti, non più à la mode, soprattutto i primi, gli albanesi che aprirono la strada al commercio, e dei loro traffici e fiumi di birra, e di conseguente quantità di rivoli di urina lungo i marciapiedi, 14 gli altri che li seguirono a ruota; e, naturalmente (forse da sempre), l’armata compatta e silenziosa dei cinesi (compagni, mi sono sempre chiesta, che cercano di infiltrarsi nella società occidentale o “dissidenti” disposti a tutto pur di cercar fortuna?) – proprio come il pc su cui sto scrivendo oggi: n.b. un Lenovo notebook. In effetti, poiché a quella prima lettera non ci fu alcun seguito immediato, ma incalzata dal portiere, il quale nei giorni successivi, ogni volta che mi vedeva, mi “bloccava” per aggiungere qualche particolare colorito alla vicenda che aveva accompagnato quella strana rimessa del messaggio bentornata (che, ovviamente, egli conosceva stampato a lettere di fuoco nella testa), gironzolavo da qualche giorno tra quelle strade dai nomi per me divenuti esotici alla ricerca di un ragazzino che, a detta del portiere, un tempo doveva rientrare, anche questa sub specie aeternitatis, nella classe aristotelicomedievale-partenopea (un Vico?) di O’ scugnizzo, ma per il quale adesso urgeva – almeno così mi sembrava vedendo gli sforzi del mio portiere che si trovava impreparato, cosa alquanto rara, di fronte a questa nuova anima napoletana, cercando tra i più antichi e più affettuosi Vu cumprà (già fu questa la loro unificata etnia d’origine commerciale, e il loro 15 carisma archetipo, per noi italiani che li completavamo ontologicamente, e già purtroppo insufficientemente, ai tempi della grande recessione del ’92), passando al nostalgico, perché già assimilato, italianizzato fratello – trovare una nuova sistemazione nel catalogo delle forme di vita di Stanley Cavell (che lo conoscesse anche il portiere?). Che lo conoscesse o meno, o che si fosse accorto della mia esitazione a scegliere tra Cavell e Wittgenstein, e perché non un locale Campanella o San Tommaso, bon! per la sua aria diabolica, che non ti abbandona mai, che ti segue con lo sguardo, pur incurante sembrerebbe di te, perché apparentemente perso dietro le sue “passioni” – quella sorta di Nero Wolfe, immobile nella sua guardiola, protetto dalla grata di vetro che apre proprio come un secondino che ti sorveglia: che sorveglia tutti voi che entrate e uscite o che avete intenzione di farlo e che non sapete che ad essere in cella siete invece proprio voi –, insomma urgeva (ri)trovare quel, semplicemente, ragazzino, in quella marea di persone, di commerci, e, perché no?, pure di affetti, che pullulano, inquinano e nutrono questo quartiere autogestito della città di Napoli, ma soffocante come un panottico di 16 mura invisibili, che su ordine del mio diretto supervisore mi toccava attraversare. 17 16 GIUGNO, MARTEDÌ Ci crederete voi, che si chiama Mustafà? Infatti, io no! E penso di essere stata, giustamente, presa in giro, sfottuta come si dice qui da quel ragazzino svelto, che di mestiere fa tutto e un poco di tutto. Ora non so se gli sono risultata simpatica, ma lui sì, a me! Mi sembrava di condividere qualcosa, nel caldo torrido, un poco sopra il termometro delle temperature abituali, di questo inizio mese di giugno, all’altezza di via Foria, quasi vicino al Museo nazionale. Forse la condizione di straniero, che ti viene strappata di dosso, dalla vita cittadina locale, che sembra sbatterti sempre in faccia, che tutto può andare bene qui, basta che ti adatti alle “mie” regole, cioè: ai miei tempi, alle mie risate, ai miei suoni e volumi insopportabili, al mio caldo, alla mia bellezza mozzafiato, che diventi, insomma napoletano (anche se hai lasciato la città da sempre, e non la ritrovi più la stessa) proprio come in Viaggio in Italia di Rossellini, in cui la penisola intera sembra raggrinzirsi e rimpicciolirsi tra quelle ombre del passato che si svelano di colpo, alla bella addormentata, Ingrid Bergman, nella condensa calda e umida della pulsione di morte che abita quelle stanze 18 fresche e abbandonate del Museo della città. Unico luogo di ristoro, in questa città incandescente, i vapori della solfatara, e le effigie pompeiane, come le iscrizioni nei sogni, di cui parlava Freud, ricordandoci che nulla può essere trasformato in absentia o in effigie. Non c’è più scampo, neanche per questa sorta di pseudo-transfert con la storia. È che questa identità flou (certo, come dovrebbe essere), melliflua e incandescente, è forgiata, portata avanti, e ad ogni passo perdendo irreversibilmente qualcosa delle vecchie generazioni, dalla gente del posto: Droit de cité, direbbe un filosofo francese. Solo che qui nessuno sa più a chi o a cosa aggrapparsi, se non alla massa, informe nella strada. Pronta a riempire questa voragine, ad alimentare questo stomaco insaziabile. Per le strade, io e Mustafà prendiamo un gelato. Più che domandargli di come e di chi gli avesse dato appena 5 euro per recapitarla al portiere di una certa sconosciuta Gemma Imposimato, lo guardo e lo ascolto in silenzio: sì, innamorata! Perché non pensavo che lui esistesse ancora, che potevo trovarlo lì, scugnizzo (dovrò dirlo al mio caro portiere), proprio come nei miei sogni, nei miei film di una Napoli andata. Vincenzo m’è pate a me. 19 Ma anche Peppiniello, per l’appunto, di Ladri di biciclette, più serio però (ché già si chiama in romanesco “Bruno”) proprio come la miseria senza nobiltà. Certo, il mio Mustafà era diverso, non si piegava né assecondava i miei desideri-pensieri, aveva la sua vita, già adulto, autonomo, ed era, direi (cosa che mi rendeva colma di felicità), anche lui, incuriosito da me. Come dicevo: una certa affinità di condizione, certo non più sociale, ma della buona vecchia scuola esistenziale, ci univa in quella città. 20 Fiutando tra i vicoli Peppino, o Mustafà, conosce la mia città, meglio di me. Lo seguo, tra vicoli e vicarielli, di una Napoli che si sposta continuamente, che frana, o così mi sembra, sotto i miei piedi, verso l’enorme caldera su cui è costruita, una baia azzurra che è anche la bocca di un vulcano immenso. Quel poco più di un bambino, che mi aspetta a stento, scontento, agli angoli di bar, tra due semafori, appoggiato ad un muro scalcinato, che lo raggiunga – che pure mi sorge ad un certo punto il sospetto che faccia apposta, o’ ffai apposta, o’ ffai?, e che non voglia altro che perdere un po’ di tempo, anche se con me! –, mi sembra proprio un topolino che sbuca per prendersi la sua rivincita sulla città. Non certo quel topolino di fiume della mia amata Parigi, che solo poco prima di essere vigliaccamente sfrattata dall’ottantenne ereditiera castigliana fin troppo esigente e fin troppo borbonica (ma non senza soddisfacenti e rigeneranti rappresaglie anarchiche da parte mia) ho scoperto coabitare nel mio piccolo loft sul canale Saint Martin. Topolino pur sempre francese, discreto, forse infastidito dalla mia stessa presenza… No, qui ci troviamo di fronte a 21 un essere superiore che non sa, benché lo intuisca, di essere tale, e anche lui subisce incurante il sortilegio di questa malefica fattucchiera che è il cuore vibrante, pulsante di liquido rosso sotterraneo che attraversa la città, e che lo rende l’eroe, o forse l’antieroe, metà uomo-bambino, metà uomo-topo, e metà bambino-topo pronto a sacrificarsi, o ad essere sacrificato, rigurgitato dalle sue viscere. Cerco a stento di seguirlo e di non perderlo, dopo che quel topo lì mi ha dato ad intendere, evasivo, che la lettera gli era stata data da un “tizio” sulla settantina, un signore distinto, tiene a precisare, italiano quasi napoletano nei pressi dell’università, dietro quei vicoletti che nella sua cartina topo-grafica salgono da via Marina al Centro Storico, cancellando di colpo il corso principe Umberto (e tutta la strada da percorrere dalla nostra postazione per raggiungerli!). La descrizione era accurata – il topolino, come si sa, è abituato a muoversi anche solo per istinto e al buio –, per cui ancora prima che i tuoni si cominciassero ad avvertire premonitori della pioggia torrenziale, che sarebbe scesa giù da lì a poco costringendoci a rifugiarci in un antro sporco, tra bottiglie di birra vuote ed erbacce – una 22 specie di rifugio nucleare, lì, a cielo aperto, nei pressi del centro storico di Napoli –, e a raccontarci barzellette inventate ma secondo le sacre regole del canovaccio più tradizionale, del tipo: c’era un francese, un americano e un napoletano…, immaginavo forse già questo signore napoletano (o era un francese? un americano?) che, vestito di chiaro, con una giacca verde marino, di lino, aveva fermato un ragazzino di colore sbiadito, scambiato, consegnandogli la busta. Il giorno del mio arrivo. Più che una lettera, però, rimuginavo, inseguivo dunque una giacca, di taglio rifinito, di stoffa di ottima qualità, ben fatta (eh, sì, questo ometto dai mille volti e mestieri, sorridevo orgogliosa dentro di me, sembrava capirne di haute couture!). Cucita da mano esperta e sapiente. Come solo nella vecchia Napoli (se esisteva ancora!) avrei potuto trovare. Ma questo ancora non lo sapevo. 23 Strani spagnoli pensieri a Trinità degli Girovagando con quel bambino sconosciuto al mio fianco – o meglio: a cui tentavo, aggrappandomi a tutto ciò che fosse a portata di mano, di rimanere al suo di fianco: per paura di perdermi e mai più sapere ritrovare l’uscita tra buste, pacchi di persone all’improvviso riverse sull’asfalto, brulicante di calore di motorini appollaiati, reggendomi a stento a questi alberelli appena piantati per ridare un poco di vigore a questo selciato vecchio e stanco – riscoprivo stupita e meravigliata una nuova (non so se più bella, o se ancora più scostante del consueto, proprio come una vecchia matrona dei bassi delle scale e dei vicoli più rinomati al mondo: i quartieri spagnoli) Napoli. Quella vita mi incantava e mi procurava un sentimento di fastidio e di rivalsa costante, essendomene andata anch’io ormai quasi un’epoca fa (o in effetti otto anni e pochi mesi) per approdare nella città sua gemella, ma che come tutte le sorelle o i fratelli abbindolati dal destino della duplicità fanno di tutto per differenziarsene (all’esterno) e per riprodurre in qualche modo, intimamente (all’interno), una 24 certa vaga somiglianza. Quelle due vecchie signore, una popolare e l’altra borghese, o viceversa, ma entrambe aristocratiche e nobili, come per nascita o per destino, anche se io direi, più democraticamente e non senza una laica accettazione della possibile trascendenza: per (in)vocazione, si rassomigliano, o si imitano, ingiustamente e simmetricamente proprio come un’immagine allo specchio. Parigi (di lei parlavo, della città assorbita e percepita, più che scoperta, camminando per strada con un libro di Benjamin aperto sui Passages e leggendolo) non era meno viva e brulicante di questa Napoli. Ma al di là del luogo comune, io cercavo (ho cercato, in tutti questi anni) di mantenere le distanze, in un equilibrio (a quanto pare) abbastanza precario (vi dicevo che la leggevo attraverso i suoi visitatori, più che vederla), per non sentirmi attratta, e cedere, all’inferno dall’alto del paradiso, cadendo verso – pensavo tra me e me –, forse proprio intimamente verso quelli come me. Partoriti dallo stesso ventre a cui è stato dato in sorte di popolare questo fazzoletto folle e bruciante sotto i piedi di terra arsa. Ma lasciamo Gemma di circa dieci anni fa a camminare per Parigi senza sapere quale 25 strada sta percorrendo, e ritorniamo al mio racconto. Anche perché mi sento strattonare da Mustafà, Peppino o Gennariello che mi fa: Gemma (sì, già ci diamo del tu), ascolti? (ascoltavo?) Guarda cosa ci dice il signore Loiacono. Il mio aiutante, o assistente, lo scugnizzo dei tempi post-moderni, sembra aver letto tutto delle celebri coppie di investigatori-detective (eh, sì, dovrò prima o poi, alla fine di questa lunga giornata offrirgli un po’ di ristoro a casa mia, e perché no, presentarlo al gardien) che già si sente parte, soggetto attivo della storia, insieme a me, il mio aiutante, o complice, forse meglio tuttofare che qui è più consono di natura, ma devo dire con l’energia che sprizza da tutti i pori (e non so a chi dovrà egli, o io, a questo punto rendere conto delle sue avventure o fuoriuscite del suo universo abituale, mi preoccupo appena un po’). Ma è meglio rimanere concentrati ed ascoltare ciò che tale Loiacono, dottore, ci sta dicendo. 26 21 GIUGNO, DOMENICA Eccomi qui a infrangere la promessa. Dovevo scrivere solo a Napoli, che mi autorizzava, avendo vista crescermi questa piccola, forse innocente ma non so quanto, regressione. Invece non è che io non resista alla tentazione, ma le circostanze “avverse”, senza voler esagerare, mi perseguitano anche qui, nella città che mi ha visto maturare, épanouir, direbbero i francesi, senza che io le avessi chiesto niente. Quell’incantesimo sembrerebbe dunque rotto, spezzato? O è solo che mi porto appresso un po’ della mia Napoli? Comunque non resisto alla tentazione, e nell’impossibilità di riprendere il mio saggio su Sade (cominciato passeggiando sotto la Bastiglia e immaginando il titolo, interrotto a Napoli e fino ad ora non più aperto), anche qui a Parigi, richiamata da una collega per una vicenda impossibile da rinviare, riprendo le file del discorso è faccio, con uno schiocco di dita, e amerei: con quel pernacchio – non pernacchia – che solo a Napoli conoscono, rivivere qui il mio ragazzino, la nostra amicizia, e l’avventura di quell’altra città. 27 Chi è il Sig. Loiacono? Mi domanderete se poteste voi parlare… Era un signore dalla pelle di velluto, cioè non di cuoio, né di stoffa, ma velluto, come i suoi occhi verde mare. Un tempo faceva il maestro elementare alla scuola pubblica statale Lombardo Radice a via Stadera, quartiere di Poggioreale. Questa scuola, se ubicata nella città in cui ora sto scrivendo, sarebbe nei pressi della periferica nord di Paris, quartiere Barbès o Marcadet-Poissonière. Meteoriti esotici al centro della ville. Quell’uomo che mi apparve nelle nuvole di un sogno, come le rivedo ora, strattonata nei miei pensieri dal furbo Mustafà, mi sembrò un uomo di altri tempi, viso camosciato, occhialini tondi, un poco curvo, e con grandi mani tremanti, ora in pensione. Da quando aveva smesso gli abiti del maestro, aveva cominciato a frequentare le strade, gli amici del circolo sotto le scale di Santa Maria Francesca (angolo Ospedale Militare), i negozi e le botteghe, e soprattutto aveva finalmente deciso di fare concretamente la corte alla sua amata, la bellissima e leggendaria donna Elisabetta, sarta sopraffina napoletana, conosciuta col nome d’arte e di commercio (ed era un grande nome nel mondo) di Sisa. 28 Loiacono dunque si affacciava ogni giorno, sporgendo prima la testa e poi appoggiando di peso, senza più fiatare, il suo lungo e magro corpo allo stipite della porta del laboratorio segreto di Sisa. E rimaneva così, uno sguardo, un sospiro, senza che lei, così indaffarata lo degnasse di un sorriso, fino alla pausa pranzo, quando lei si toglieva la divisa da lavoro, si sistemava (cioè si storceva un poco) il cappellino sul viso immacolato, e incorniciato dai soffici capelli bianchi, si dava un’occhiata nello specchio e finalmente glielo diceva in un sussurro simile a quello della macchina da cucire quando si alza il piede dal pedale. Sei pronto? Andiamo. Sisa era così. I due attraversavano cunicoli e labirinti di seminterrati sotterranei, per emergere, pure loro, dalle viscere della città, proprio come dai cunicoli della memoria dei miei ricordi. (E vi confesso che, per quanto abbia cercato, non sono mai riuscita a trovare il laboratorio segreto, e mio nonno, commerciante di pellami e, sono convinta, anche lui convintamente e clandestinamente innamorato della sarta più misteriosa di Napoli, non fece a tempo a scriverlo prima dell’ictus che lo 29 costrinse al silenzio, ma sempre sorridente, qualche mese prima di morire.) I due andavano a sedersi alla famosa trattoria Mangia e bevi che ancora oggi esiste e sforna ancora oggi, squisite come allora, ma per persone molto più rassegnate e stupide di allora, le antiche ricette della dolce cucina partenopea. Io e Mustafà abbiamo quasi l’acquolina alla bocca, e non interrompiamo il giovane vecchio, sentendolo decantare le doti culinarie, come delle pratiche erotiche che i due si concedevano ogni dì, alle ore 12.30 in punto, anche se tutto sembrava allontanarci da un senso, seppur esistesse, infinito, remoto del nostro incontro. Tra l’altro, dimenticavo di aggiungere che il mio “assistente” mi aveva indicato il Sig. Loiacono come “persona a conoscenza dei fatti” perché questi era il titolare della giacca verde mare. 30 L’arte di Sisa Sisa, Elisabetta. Nessuno ricordava il suo cognome, ma forse era più un segno di rispetto: non ce ne era bisogno. Immortale e immortalata dalla bellezza e dall’eleganza, come di giovinezza assoluta… ma anche di saggezza instancabile, entrambe musicate dal suo volto di rughe, e ritmate dalle sue mani agili. Un direttore d’orchestra, in equilibrio supremo sull’albero maestro di una nave corsara. Nel porto di Napoli. Nei due dopoguerra. Fissammo tramite il barbiere baffutissimo e con i pochi capelli arruffatissimi (pensavo alla variante del paradosso di Russell: a Napoli nessun barbiere si rasa da sé) un appuntamento con il dottor maestro Loiacono, per il giorno dopo: ore dodici e trenta, in presenza della sua amata. Pensai tra me, di ritorno verso casa, che era già passato poco più di un mese, dall’ultima volta che misi di nuovo piede qui, nella mia città e dopo qualche vai e vieni con Parigi, e una piccola parentesi (romantica e professionale, con il mio compagno ad Ischia, ché con lui tutto è sempre professionale e romantico allo stesso tempo, anche quando mi accarezza 31 espertamente il seno o ci baciamo perdutamente sulle labbra). Mustafà era quasi scappato via, non prima di accordarci, però, che ci saremmo visti l’indomani e che anche lui sarebbe venuto a pranzo con me, con Sisa e Marcello, il Sig. Loiacono. E poi, anche lui, come il tempo qui, volatilizzato. Camminando per una Napoli quasi vuota, provai a ricostruirmi nel pensiero il percorso di quella lettera. Lo faccio anche a vostro profitto. La lettera che mi annunciava così semplicemente il bentornato era stata data dal maestro elementare al ragazzino di colore, che lui conosceva bene, per averlo inseguito – è proprio il caso di dirlo! – vari anni or sono dalla quarta elementare perché potesse almeno fargli conseguire il diploma. Ma quella lettera non gli apparteneva, o meglio apparteneva alla giacca verde marino che aveva per scambio confusa con la sua. Ricordava bene quel momento, fu quando la bella e impossibile donna Elisabetta accettò finalmente di farsi accompagnare, come si dice a Napoli, dà casa à puteca, solamente che nel suo caso trattasi di percorso inverso: da bottega a casa. Che poi, significava ancora, permettergli di salire le scale con lei, aprirle la porta nascosta dietro a quel lungo e scuro corridoio di questo 32 palazzo di vicolo Girolomini all’angolo della chiesa, che era stato in passato un convento di frati. E lì, offrirgli, no, non una tazzullella e cafè, ma un thè, anzi: un antico tha. Lì, indossato l’abito migliore – Marcello Loiacono aveva optato per un completo spezzato, grigio, quasi bianco il pantalone e, su di una camicia rosa pastello, una giacca azzurrina, quasi verde marino, e un fiore all’occhiello (non sono certa che sia questo il caso, ma lo dico egualmente: ogni fiore è la pansé libidica resa celebre da Aurelio Fierro e Carosone, con testo di Pisano musicato, dopo l’impermalosimento del maestro Cioffi, da Furio Rendine, già organizzatore del festival di Piedigrotta) –, il maestro aveva dato il meglio di sé; forse un poco spaurito e imbarazzato, ché da tempo accademico non corteggiava una bella donna, soprattutto se questa donna era la sua dirimpettaia, fantastica, linda e profumata come sempre, Sisa. Così, dopo aver chiacchierato dei tempi andati, dell’amico comune, il professore di diritto Carlo Almirante, palafreniere sfrenato nei vicoli notturni quanto barone rosso in accademia, e le bravate da ragazzi nel borgo di Santa Lucia, come per ogni dama che si rispetti, era scoccata l’ora inconveniente per ritrovarsi soli a casa. E come ogni cavaliere 33 innamorato, lui, sempre imbarazzato, con una mano le aveva preso la sua e sfiorato leggermente il dorso con le labbra, e con l’altra tastato dietro la spalliera della sedia alla ricerca della sua giacca. Già conscio, o inconscio, di portarsi con lui, nella notte, il profumo di lei, dei suoi ricordi, e la voglia, come di tanti anni fa, che ritorna intatta, in sogno, per amarla ancora. Bene, mi dico. Sisa saprà. O almeno la signora, tanto acclamata, saprà comparire dignitosamente in scena, per darmi una spiegazione. E cioè, com’è che in quella giacca, nella sua stanza da pranzo, era scivolato, o fatto scivolare, forse tanti anni fa, o sicuramente, un biglietto nella tasca con su scritto “bentornata” e indirizzato alla sig.na Gemma Imposimato, via delle Rose, Napoli. Che, fino a prova contraria, e in mancanza di comparabili omonimi, ma non senza incertezze (pratiche e trascendenti, e legate anche all’Io e l’Es freudiano e alla Massenpsichologie, ecc.), sono io. 34 25 GIUGNO, GIOVEDÌ In effetti, io non abitavo certo a via delle rose, una via, tra l’altro, che mica so se esiste ancora e realmente a Napoli. Sta di fatto, che quel ragazzo furbo, e dubitavo che fosse più napoletano di me, aveva trovato proprio me. Ero io Gemma Imposimato, in fin dei conti… O almeno credo! O comunque ero io quella Gemma a cui davano il bentornato. Il portiere mi guarda, anzi, direi mi fissa, e io mi spazientisco sotto a quello sguardo accigliato, quasi sovrappensiero, che mi oltrepassa per immaginare la scena, e non vedere più me. Insomma Enrico (è il nome del portiere)! Non mi tenere sulle spine, non sono abituata al tuo silenzio prolungato: che cosa c’è? Ho forse sbagliato qualcosa? Mi immagino dire, mentre in realtà guardo l’orlo della mia camicetta, maltrattata, che ho preso dall’armadio di casa fuggendo via da un altro sguardo indagatore: quello di mia madre. Che penserà questa povera donna, che vede forse due volte all’anno sua figlia, e che se la ritrova per un soggiorno sì prolungato, ma sempre di corsa, sempre fuori casa, al contrario 35 delle sue (mie dunque) abitudini di rientro da Parigi con il lavoro sempre a portata di mano, e dunque immersa nei libri, assorta sulla pagina del portatile, oppure, unica eccezione, tra le librerie di Napoli, Firenze, Roma e Salerno. Ma soprattutto, famose, tra quelle dei vicoli della sua città, nei pressi di Port’Alba. Port’Alba? Sì, buona idea, Gemma! Ci sta un mio caro amico, Totò, che vende libri antichi… Potremo partire da lì, allora. Cioè tu, secondo me, dovresti capire dove e che storia aveva questa via delle rose. Che proprio non mi risulta, no! Cerco di focalizzare un’immagine della mia memoria, facendo un vuoto tutt’attorno, ma proprio questo nome e tu conosci la mia esperienza e la mia conoscenza, pratica e teorica, della realtà napoletana. questo nome non mi sovviene! Credo che non sia mai esistita. Però, si potrebbe provare… Come? Sì sì, certo. Tra l’altro contavo di fare un giro lì! Però prima vorrei, col tuo permesso, s’intende, parlare con Donna Sisa. 36 Lei saprà dirci qualcosa di via delle rose, oppure della sua giacca. Le mostreremo il biglietto. Intanto non so proprio come quel ragazzino abbia fatta ad arrivare sin qui: via degli scalzi, numero centodiciotto… Ma lui non c’è mica arrivato! In che senso, Enrico? Mi sogno domandare (nel senso che me lo immagino), mentre taccio interrogandolo… È che l’ho incontrato per caso, al mercato, vicino la stazione, alla spalle di porta capuana, che domandava in giro, dappertutto, ai commercianti, ai ragazzi del bar, al parroco e finanche ai mendicanti se conoscevano vossìa – e qui lui mi prende certamente in giro! Ma non dico niente curiosa del continuo – ed è allora che ha domandato anche a me, cioè a noi (ero con mia moglie Sandra per delle commissioni “urgenti” che la riguardavano, il giorno di domenica!). Insomma, Sandra mi chiama subito! Sì sì che la conosciamo! Ma lui non ci dice nulla di Via delle rose, però. Dunque, potrei non essere io, e potrei avere solo perso del tempo, sottratto alla preziosa scrittura! Mi sfugge l’incazzatura! Fingermi in un complotto di famiglia, e forse, 37 proprio come in quel film, giocare la parte della finta cartomante! E solo per il tuo piacere, Enrico! Questa volta lo dico davvero! Sono arrabbiata, perché mi sento abbindolata, anche dalle persone, oltre che dalla città. Sisa, Loiacono, Mustafà, come fossero comparse! E io? Cara signorina! Non si arrabbi! Ma mi dai del Lei? E da quando. Da quando non La riconosco più! Da quando assume pose da “non ho tempo da perdere” e trascura tutti. Me stessa in primis, tiene lui ad aggiungere epicamente, quasi verrico. Il suo discorso non mi convince, però fa sicuramente centro! Non è curiosa? Curiosa. Scusa, non sei curiosa nemmeno un poco? Un poco. Ragiona. Ragiono. 38 Ragiona. Esiste via delle rose? Se esiste, chi è questa Gemma Imposimato, tua omonima? È forse in pericolo? E comunque, anche volendo tralasciare quest’ultimo particolare che l’ammetto è da Intrigo internazionale, e se non esistesse, come suppongo via delle rose, e questa gemma imposimato, fossi tu. Oppure realmente un’altra donna, vissuta in un altro tempo, e in un altro luogo? Pensaci: in un’altra Napoli? Non vorresti conoscerla davvero? Parlo anche di Napoli. Magari tra le pause silenziose delle persone che davvero l’hanno incontrata? Nelle rughe delle loro vite? Raccontate a te per caso, Gemma, per un fatto di. Coincidenza? Un fatto di coincidenza. Voire – e qui sfoggia il suo francese – di noms-du-père? Insomma, per farla breve, la morale della favola è che è un bene quello che mi è capitato, almeno è una ricerca, ed io in quella sono brava! Lavoro sul campo, con tanto da scrivere. 39 VENERDÌ MATTINA Alle sei del mattino, ricevo una telefonata. Mi fanno delle domande sul mio grado di soddisfazione dei servizi di posta celere. Sto dormendo ancora, rispondo qualcosa ma mi pare di sognare, poiché non riesco a capire dove l’operatore del call center vuole arrivare “a parare”. In qualche modo riesco a chiudere, e mi rimetto a dormire. A sognare. Gemma, lui l’aveva dimenticata; lui ti ha dimenticata. Il postino è arrivato in ritardo, e non ha suonato. Forse ti eri assentata, anzi ricordo proprio bene, di non averti mai incontrata. Eri sempre via! E io sempre a rincorrerti. Dappertutto! Ho anche affittato un servizio per raccomandata. Ma niente, tu non c’eri! Non ti decidevi a ritornare. Gemma, mia adorata, bentornata! Lui l’aveva dimenticata, mi ripete Sisa, aspettando la fritturina all’italiana che abbiamo ordinato per quattro. E lei ne soffriva! Una ragazza così bella, piena di portamento e di classe, tua nonna era la modellista più ammirata, desiderata e richiesta di tutta Napoli! Ed anche invidiata! 40 Il tempo di assaggiare una frittella d’alghe (mi chiedo come mai si debbano chiudere gli occhi per gustare il sapore) e lei riprende. Ricordo, mi fa, che c’era un industriale del Nord, lì, dalle parti di Milano, innamoratosene perdutamente, di tua nonna Gemma. Ma lei aveva occhi solo per lui, mi spiega Sisa come se volesse convincermi e convincersi. Per quel bell’imbusto di Renato, che poi diventerà tuo nonno. Ma che la faceva soffrire e continuerà – lo so, non dovrei dirlo a te, che eri la sua nipotina prediletta… Signora Elisabetta… Mi sento dire un po’ coquette. Ti prego cara, chiamami come tua nonna: Sisa! Sisa, come può esserne sicura? Voglio dire, credere, dopo tanti anni che quel biglietto fosse indirizzato a lei, a mia nonna voglio dire, da parte di Renato? Quando poi, il suo cognome da nubile era Fiore, Gemma Fiore… Così incominciammo a parlare, nel locale fitto fitto di gente che spinge per trovare posto, ma ride e scherza come se niente potesse spezzare l’armonia naturale che li circonda, lì, alla locanda. Gli altri due, cioè Loiacono e 41 Mustafà, si guardano negli occhi, e parlano così: tanto i due si conoscono e preferiscono anche loro non turbare l’ordine naturale delle cose, quello di due compagni, anche se di età molto differente, che si sono rincorsi per tanti anni, e che ora per magia si ritrovano uno di fronte l’altro, a mangiare nello stesso piatto. Sisa e io siamo sole, lì dentro. Lei mi guarda come se mi conoscesse e mi spiattella così, con la sua grazie e la sua autorevolezza la sua teoria: e cioè quel biglietto indirizzato a Gemma Imposimato di Villa – non Via – delle Rose, appartenesse a mia nonna Gemma, madre di mia madre, quando lei fu abbandonata (ma da chi, allora?), o meglio quando decise di lasciare il suo compagno, mio nonno Renato (che io e mia madre, ovviamente, non abbiamo mai visto né conosciuto come tale, chiamandosi invece mio nonno anagrafico semplicemente Gennaro). Gemma, lei era innamorata lì, spiega la signora Elisabetta, dirle che non era serio, non affidabile, forse o di sicuro non l’uomo per lei, per mia nonna… persa di quello e hai voglia di era un uomo era comunque …ma lei, ricordi com’era? Una bellissima capa fresca! Me la ricordo. 42 Dunque, ti dirò, che secondo me, ma non ricordava proprio quando, sicuramente quando stanca dei suoi tradimenti lei sarà andata via, per stare come spesso accadeva, e accade tutt’oggi con molte ragazze della tua età mia cara, da me, in laboratorio, per qualche giorno… Ecco forse, proprio lì, un giorno lui sarà venuto per parlare con lei, e lei, capa fresca anche allora, avrà pensato di non farsi trovare, di nascondersi, oppure di non farsi trovare sola… Ecco, uno di quei giorni, che lo spasimante si consuma d’amore e di nostalgia… …insomma, ecco, io gli promisi, impietosita, e forse, lo ammetto, segretamente innamorata dell’aria da duro, sempre col cappello e una sigaretta tra le mani e quell’acqua di colonia… ecco io promisi di “rendergli” tua nonna: che aspettasse lì da me, che con l’inganno l’avrei costi quel che costi fatta ricongiungere a lui. E allora? Non possono trattenersi all’unisono Mustafà e Loiacono che fino a qualche minuto fa sembravano averci dimenticato intenti ad osservare la gente intorno scambiandosi professionalmente e virilmente qualche occhiataccia furbesca. E allora, non so! Risponde la Signorina Elisabetta. Io con una scusa ho chiesto a 43 Gemma, la mia piccola e bellissima modella, di aspettare su ché un fornitore speciale avrebbe dovuto portare dei disegni di modelli da Parigi, che mi avrebbe dato in esclusiva da confezionare qui, ma che io purtroppo non potevo esserci perché impegnata con la Signora Franca della Porta in laboratorio per i ritocchi necessari all’abito da cerimonia in occasione del fidanzamento della penultima figlia Assunta. E che non poteva però comunicare al rappresentante, che poi rappresentante non era, alcun ritardo o spostamento. E quindi non sa cosa successe? Lei salì, incontrò Renato, oppure no? E lui perché le scrisse “bentornata”? Come saprai, mi disse aprendo con grazia un’altra fritturina d’alghe, non rividi più tua nonna per tantissimo tempo. Lei mi scrisse dall’estero qualche volta per dirmi che si era sposata e che aveva avuto una bellissima bambina. Finì di masticare, senza parlare. Si vedeva che la dentiera non era fissata bene. Ma io sospetto, che Renato fosse tuo nonno. E che quel biglietto lui l’avesse scritto quando seppe del suo ritorno a Napoli. Ma Imposimato era il cognome di chi? 44 Questi che irrompe con l’aria da sbirro buono è ancora l’intelligentissimo mio collaboratore. Sono grata che sia lì, perché già mi gira la testa, non so se più per il vino o quelle chiacchiere di una vita che non riconosco e che ri-aprono i misteri della fondazione della nostra famiglia. Imposimato era il cognome del marito di tua nonna, o, per essere esatti, dell’uomo col quale si sposerà e che tua nonna buonanima [si vedeva che cercava la parola esatta] utilizzava [ecco il verbo e la coniugazione esatte: sapeva tessere le parole come faceva con gli abiti?] utilizzava come un pupazzo per ingelosire il tuo vero nonno, Renato Di Salvo. Sì, sapeva tessere bene. Era la migliore. Non sapevo se la stavo ancora ascoltando, o se fossi passata a leggerla, a ammirare il prodotto, a studiare gli spazi, a contemplarne l’atmosfera. Insomma Sisa, l’interrompe Marcello, ti rendi conto di cosa racconti a questa povera ragazza che man mano che vai avanti nella storia diventa sempre più pallida? Faceva la parte dello sbirro buono che, stanco di fingere indifferenza, diventa impaziente, ora. Gemma, bevi un po’ d’acqua, prendi il bicchiere. Anzi no, aspetta che chiedo di portare una fanta o qualche altro intruglio con zucchero sufficiente… 45 Sì anche a me! È la voce squillante di Mustafà che sento solo, ma non riesco più a vedere. I timori del giorno prima, minimizzati da don Enrico, allungano le loro ombre dentro di me, e mi offuscano la vista. No, grazie… è che vorrei tornare a casa. Ed è allora che sogno. Sogno di una donna dai tratti del volto simile a quello di mia madre che ritorna perché ha sofferto, si è sposata, intanto ha avuto una figlia ma che forse è innamorata ancora di lui, e vuole ritornare a casa per stargli vicino e che lui la cerca, ma i due non si trovano e la vecchia Sisa che si fa sempre più vecchia, e vecchia più non è, si perde anche lei nel suo laboratorio, tra i ricordi che mescola e le storie che inventa. Lui l’aveva dimenticata, lei ha sofferto e lui l’ha cercata. Ma di che parlano tutti, sento voci nel sogno come squittii di topi. E perché proprio mia nonna? Signora, signora? Allora desidera abbonarsi al nostro servizio di posta celere? In omaggio potrà inviare ovunque e a chiunque un pacco dal peso di 19 libbre. 46 Sì, spietati. 47 28 GIUGNO, DOMENICA Un pacco, l’indomani, effettivamente mi è stato consegnato. Anche questa volta: senza mittente. Ma mi è facile, invece, questa volta, scioglierne il nodo di mistero, basta aprirlo; ma senza trovare la soluzione a questa storia, che per me è un complicato problema a cui non so sottrarmi (o moltiplicarmi). Come a confermare che le chiacchiere di ieri non erano voci dell’inconscio, o che comunque, quelle si sono mischiate a queste, aprendo il pacco mi ritrovo davanti, la vedo lì, in effetti, come materializzandosi, Sisa che mi porge, credo, le sue scuse, qui c’è scritto un biglietto, per quelle “rivelazioni” che potrebbero avermi turbato – io direi: perturbato – ma a conferma delle quali eccomi inviarmi ricordi tangibili, concreti, di mia nonna, dell’uomo, o degli uomini, basta contare i due Di Salvo e Imposimato, che ella ha amato, foto di lei, con loro, e tessuti prediletti, conservati, cappellini indossati, nastrini colorati, réclame della vecchia Napoli… e una foto, di una villa, in un posto ameno, così bello che mi sembra di scorgervi… È Ischia: villa delle Rose. 48 Vorrei partire senza attesa e senza interpretazione, come colpita da un desiderio puro, senza sintomo, ma mi impongo la lucidità e la pazienza dell’analista, che, non senza seguire le intuizioni, prende però una lente di ingrandimento, oppure si mette nell’angolo della stanza più illuminato dal sole, e baciato dalla fortuna, spera di intravedere un indizio, almeno una prova, scrutando quella fotografia come se fosse una lastra di emozioni, sensazioni, e sedimenti di patimenti vari. Una geologia dell’anima (qualunque cosa animus e anima, e dunque psiche, significhino nelle varie scuole psicologiche). Un cancello fiorito, che si apre su di un viale alberato, ma non curato, abbastanza incolto, lasciato lì a dare i suoi frutti spontanei nella bellezza struggente del paesaggio. Un paesaggio di mare, ma non mi è dato vedere. Il cammino di terra battuta, con mucchietti di erba ai lati. E qualche muretto solitario, per consentire la sosta, che s’interrompe bruscamente davanti alla lastra trasparente del cielo estivo, bianco latte. Ritorniamo alla donna, e alla villa che ci sorride: un cartello apposto manualmente sul muretto bianco di fianco al cancello segnala scritto a mano, villa delle Rose. La donna sembra una giovinetta sicura di sé, davanti la macchina da presa, e anche 49 audace nei suoi shorts e con le lunghe gambe in posa, un foulard nei capelli, e quel sorriso inconfondibile di mia nonna materna: lo stesso sorriso di mia madre, e qualcuno che le ha conosciute entrambe, come la Sisa, dice anche mio. O, meglio, lei dice tuo. Forse Sisa, penso tra me, preparandomi un caffè a casa, prima di scendere al bar, perché ho voglia di assaporare ancora qualche minuto di totale intimità e ascolto dei rumori lontani della strada – visto che casa qui è vuota, e che mia madre è ora al mare per qualche giorno –, quel minuto mattutino che non potrei prolungare. Cosa tra l’altro che non avrebbe senso, con Gino e Michele che mi augurano allegramente il buongiorno dietro al bancone, con mille paste e pasticcini, ticket e scontrini, giornali e tazze e bicchieri d’acqua, frizzante o naturale?, che mi svolazzano attorno. E poi, c’è che soprattutto voglio evitare il portiere, che come tutti i portieri del mondo, è troppo invadente, impiccione… insomma Sisa, penso tra me, forse vuole dirmi qualcosa. 50 Quella vecchia signore, anch’ella stralunata, prima donna, sempre in cerca di un sentimento, una favola, à la mode… insomma, Sisa forse, non ha avuto il coraggio, ieri di andare fino in fondo, aprire quella porta o quel cancello, storpiando consciamente il ricordo, forse chissà per non soffrire: che pure si è detta innamorata di Renato. Renato? Ma chi è costui? Mio nonno? Mio nonno biologico. E dove vive? So che dovrei attaccarmi al telefono e chiamare mia madre, ma non voglio coinvolgerla. Abbiamo sempre saputo che la nostra era una famiglia di donne, matriarcale, senza contaminazioni paterne. E che il presunto nonno, Gennaro Imposimato è morto di crepacuore, già anche ictus (qui si dice soltanto “colpo”, unificando dunque cuore e testa), troppo presto per averne anche solo un ricordo… Che l’abbia ucciso lei, Gemma Fiore vedova Imposimato? Oppure Elisabetta Cardillo, in arte Sisa, la sarta (so di essere ingiusta con lei, sfogandomi così sulla tastiera del mio pc, lontano ora nel tempo e nello spazio come dall’altra parte di un buco nero, ma in questo modo, senza interferire con il flusso 51 della mia coscienza inconscia, potrei scoprire qualcosa, o scegliere quanto meno la strada migliore: la mia!)? E che sia stato tale Renato Di Salvo a ucciderlo, vogliamo almeno considerarlo? Oppure di concerto, perché no? I due, anzi i tre, con la complicità di Sisa, la finta partenza di nonna Gemma, le cartoline indirizzate alla protettrice amica… e poi il ritorno, mentre invece lei è sempre stata qui… a Ischia. Un coup monté, ben imbastito, come un modello di tight per un uomo di spalle strette. Dovrei sottoporre mia madre ad una seduta ipnotica, rido tra me. Ma un poco inquieta, mentre giro lo zucchero nel caffè, che oramai si è fatto sicuramente freddo e mi tocca scendere alla caffetteria di sotto. Però il bentornata trovato di recente nella tasca di una giacca, per lo più appoggiata alla spallina della seggiola del salotto di Sisa, dal maestro, l’ha tradita! O li ha traditi! Quel “bentornata”, rivolto pretesamente a Gemma Imposimato presenta traiettorie temporali come dei frattali, uguali ma sparse e irriducibili. Ché se Gemma è lei – fermo restante la veridicità di tutta questa storia – allora, il bentornata scritto da Renato – secondo la versione di Sisa – dovrebbe essere il sigillo 52 dell’incontro organizzato nel retrobottega, quando mia nonna parte e/o ritorna, da o verso Ischia, se Mustafà mi cercava a via, cioè villa delle Rose. Dopo o prima la morte di mio nonno Gennaro? Ma perché allora quella giacca si trova da Sisa, oggi nella sua casa? E se fosse realmente (ma la realtà è un sintomo, lo si dovrebbe sapere) destinata a me? Renato ha saputo qualcosa, anche lui all’oscuro della maternità di mia nonna, e ora, dopo tanti anni, mi cerca, per sapere. E perché non mia madre, però? Forse che sarebbe uno choc? Per lei o per lui? E ancora, chi gli ha detto di me? A questo punto, ritorno alla circolarità dei miei pensieri, e del tempo, e conscia di questo eterno fallimento, cerco subito un biglietto via Procida: Napoli-Ischia, il primo vaporetto. 53 TRA LUGLIO E SETTEMBRE (APPUNTI) Ischia, la vedo dal mare. Con Napoli, il suo golfo, le sue insenature – la collina di Posillipo, Bagnoli, Baia, Bacoli e Capo Miseno. E la terra di nessuno che continua per ricongiungersi alla costa laziale, pontificia e papale – che lascio dietro di me, al vento che le porta via, e alle quali una mano di straniero, affacciato alla balaustra del traghetto della vecchia compagnia navale, porta il suo saluto. Ischia: ritorno sola. Senza nuovi amici e amori eterni. Ho solo deciso, per precauzione, di scrivere al mio compagno, prevenendolo che mi sarei allontanata da Napoli per qualche giorno. A scrivere. E vorrei anche dirgli che la bellezza dell’Isola l’avevo riscoperta appena un mese or sono insieme, era questo che me l’aveva fatta scegliere di nuovo come meta. E lui ha riso e sospirato, un poco perché mi conosce e sa sempre tutto senza il bisogno che parli, e un poco perché, egoisticamente, è un po’ invidioso di questa mia sortita, lui che si trova ancora a casa a Parigi, che seppure bellissima sotto la 54 pioggia, è già fredda come se l’inverno fosse ormai alle porte. Avrebbe forse svernato una settimana a Firenze, allora, sia per starmi più vicino (ma solo in miglia nautiche!) sia per visitare Palazzo Vecchio di notte, la sala delle carte geografiche, e il mappamondo, la nostra passione. Vieni, vuole dirmi? Io no, io ormai sono qui. Approdo nel calore di Ischia, che mi saluta materna, in un abbraccio di mare e luce: sole. Qualche turista ancora mollemente indaffarato, ma soprattutto pochi napoletani e molti stranieri. Il vero volto dell’isola, la vera Ischia amata dai nostri intellettuali: e corro già con la mente a Forio, lì alla Colombaia, nella speranza di dirigermi quanto prima davanti al cancello della villa di Visconti, lungo la linea dell’orizzonte, a precipizio sul mare, per respirare anch’io la mia morte a Venezia! Intanto il traghetto attracca. Anche questa volta non ho fatto a tempo a finire Lalla Romano. Il libro più bello non riusciva a correre con i miei ricordi. La mia lettura era il mio respiro. La mia scrittura era il sangue che immaginavo scorrere dentro di me, sempre un poco anemico peraltro. Poche righe anche a casa. E una lettera bianca, con su annotato “ci vediamo al mio ritorno” lasciata giù in guardiola, alla 6 di mattina, sicura di non 55 trovarvi nessuno. Una piccola vendetta? Sì. Ma forse anche un modo affettuoso per dirgli che sono ancora sul punto, certa di recuperare così quell’assurda complicità che si è andata via via creando tra me e il mio portiere. Intanto so che questo sarà il mio viaggio. Nella storia che si è delineata mio malgrado, rappresenta certo lo snodo centrale. Lo dico anche a voi, lettori generosi e disponibili, che ormai siete, lo so, sempre più curiosi, incuriositi, accanto a me nelle viuzze dell’isola, a seguire i miei sandali di corda e il mio vestitino giallo, raccogliendo l’aria tagliata dalla mia paglietta nuova. Dopo di allora si vedrà, vedrete. Per ora so che non posso sottrarmi alla ricerca di un luogo che coincida con la foto della villa e che forse potrebbe prevedere anche qualcuno in attesa di accogliermi. Certo, lo so, avrei potuto chiedere altre spiegazioni a Donna Elisabetta. Se effettivamente la foto di villa delle Rose fosse il segno, tra tutte quelle carte, e ricordi di mia nonna… Ma Sisa non avrebbe dato spiegazioni, non avrebbe ripassato di un celeste visibilmente inopportuno l’imbastitura perfetta blu notte. No, non sarebbe comparsa due volte sulla scena… e solo per togliere la magia alla storia, 56 per togliere tutto lo sfizio al mistero… che forse lei conosce già. Ma che importa. Eccomi alla ricerca di un uomo, ne sono sicura, che ancora abita quella dimora, o forse, controlla da lontano, di tanto in tanto. Appena un figlio più affidabile, o un nipote cresciuto, o una balia instancabile – oppure col solo aiuto del suo bastone – lo accompagnano senza capire il perché sempre e solo in quest’isola di Ischia lui vuole ritornare. 57 APPUNTI N. 1 Sono due giorni che ho perso il contatto con il mondo. Ma in fondo è che ho voglia di starmene un po’ per fatti miei, prima di ricominciare presto tutte le cose da fare, e in questi ultimi tempi, lasciate in sospeso. Vieni, sento dire dal mio compagno che osserva la copia della Battaglia di Anghiari a Firenze, Palazzo Vecchio, insistendo con le guide su che cosa sia originale e cosa una copia spacciata ai turisti. Per lui tutto è copia, forse originali sono le emozioni, il perturbamento, il ricordo (quanto più lontano, meglio!). Cammino, giro l’isola in autobus. Ancora non mi sono fatta un’idea su come ritrovare la villa della fotografia di nonna Gemma, ché ormai la chiamo cosi. La riguardo: è una donna stupenda: occhi verdi profondo, capelli biondi come le star americane della Hollywood di quegli anni; solo che lei ha avuto un’infanzia diversa. Durante la guerra, raccontava a mia madre ciò che sua madre le disse, la mia bisnonna era scappata di casa con un compagno comunista di Napoli, che volle andare a combattere in qualche valle del centro Italia, 58 credo vicino Firenze. Lei non l’ha più rivista, se non alla liberazione di Firenze, quando nella gioia che si propagava a vista d’occhio, unitamente alla certezza ed incertezza del prosieguo della guerra al Nord come al Sud d’Italia (perché anche lì, mi diceva, di una guerra si tratta, solo che diversa: una guerra di classe s’avesse avute fa’) quella donna riuscì a ricontattarla per riprenderla con sé. Perché voleva – disse – che anche una ragazzetta contribuisse ad esprimere une nuova società italiana attraverso i Comitati di liberazione nazionale. Perché voleva – le ripeteva – che lei vedesse ciò per cui sua madre si era battuta anche a costo di lasciare la figlia per qualche tempo sola (ché tanto di gente ce n’era a cui affidarla, perché si sa, quando lo Stato manca, lì si riannodano i sentimenti di solidarietà della gente, e naturalmente parlava dell’anima popolare di Napoli, non di quella sacca secca e arida che da tempo immemorabile non batteva più, forse dalla Rivoluzione del 1799, nel petto dei pochi intellettuali borghesi 59 napoletani che fuggirono dalla città in occasione dello sbarco degli Alleati e soprattutto della Resistenza delle Quattro giornate, lasciando così il popolo solo, quello più povero, a combattere restituendo dignità alla nostra città). Ed ella la riprese con lei, a Firenze – il destino di Napoli essendo irrimediabilmente compromesso dal comando militare alleato e dai poteri di ogni sorta locali che proliferarono come per magia proprio allora –, mia madre raccontava sempre di quanto mia nonna fosse stata infine fortunata, di quanto l’avesse formata direttamente quell’esperienza con i compagni, le sezioni del Partito e anche assistere alle discussioni e lotte intestine tra i diversi esponenti dei partiti antifascisti, e espressioni incomprensibili sui volti di ognuno, come ne i cospiratori di Celan, tanto la speranza e lo scetticismo deformavano e riformavano i visi ampliando le loro possibilità mimiche al di là delle emozioni, delle paure, dei sentimenti, degli stati d’animo, dei ricordi e dei sogni. È lì che mia nonna Gemma ha potuto leggere e scrivere su tutto e di tutto ciò che volesse; e ritornare quindi a Napoli, appena ventenne, ma come se ne avesse quaranta di anni! E come se avesse viaggiato ovunque per il mondo, a riallacciare fili di movimenti vecchi e nuovi, mai 60 scomparsi. (Questo, almeno stando alla storia ufficiale della mia famiglia.) Non so perché, guardare il cielo e il mare di Ischia, dalla finestra della pensioncina di Monte sant’Angelo mi facesse pensare alla guerra, al destino dei popoli, e forse ai tanti prigionieri politici che hanno saputo resistere ai confini e nelle carceri speciali (di ieri come di un passato futuro più prossimo) per ritornare a combattere. Forse è anche l’aria romantico-rivoluzionaria di Ischia, isola di intellettuali e di pescatori – “pescatori di perle” come Walter Benjamin descritto da Hannah Arendt. Del resto, del dopo-Napoli ne so poco e niente. Di quel periodo disvelatomi dalla foto di Donna Sisa, dell’incontro di Gemma Imposimato e del suo lavoro di modellista in una Napoli dominata ancora dalle potenze alleate, in un clima sempre depressivo, seppure apparentemente frivolo, tutto mi è ignoto. Immagino, fantasticando anch’io sulla mia eroina, che lei, rimasta sempre emancipata e radicale, abbia fatto la modella proprio per contribuire in qualche modo alla liberazione dei costumi di una società, non patriarcale, forse ancora matriarcale, ma di sicuro “amorale”, come direbbe il mio compagno – senza peraltro soffocare con un’occhiata complice l’ambiguità semantica che riferisce amorale alla morale, sì, 61 ma soprattutto all’amore – sfatando il mito del matriarcato come paradiso comunista, per ritrovare quello di una società che si fonda sul dono, e che si oppone anche a questa forma di transizione al patriarcato, quale è il sistema economico basato sui clan orizzontali. E spero, che questo suo “esserci” non si sia limitato a giocare la carta dell’enfant terrible, ma che con la sua scaltrezza e bellezza, utilizzando anche queste sue doti femminili, abbia mantenuto contatti con un mondo di vita fuori, e non ai margini, del sistema politico, culturale, della moda e dell’immaginario, degli anni ’50 e ’60. Je hâte de retrouver ses lettres, ou un journal intime qui me témoigne de quelques activités à elle subversives ! Forse quello di Ischia era davvero un esilio, una fuga in clandestinità! 62 APPUNTI 10 LUGLIO, DISCESA AL MARE Un uomo viene a cercarmi in albergo. È Alfonso, il proprietario della locanda, che mi ha consigliato il vecchio. Dice: lui è tutto, è Ischia. E mi ha visto nascere. Mi aspetto dunque un’altra persona che mi conduca attraverso porte invisibili spazio-temporali e buconeristiche (con le corrispondenti increspature impercettibili del tempo a causa della gravità universale e della meccanica quantistica, tanto sfuggenti da farmi ritornare, magari domattina, a Napoli o a Parigi senza rendermi conto di avere invece passato quasi un secolo sull’isola). Per le strade del Porto, oppure sotto il Castello. Ma anche nell’irraggiungibile Barano (per me, che sono a piedi). Don Gerardo, un altro uomo, un’altra storia che forse stasera, ritornando a casa stanca, nel mio letto, racconterò, scrivendo un’altra pagina di diario napoletano. Il suo sguardo non mi è nuovo. Un misto tra Neil Young e Lionel Richie, è un bell’oriundo, alto, e ancora sportivo. Dice che lui può trovarmi Villa delle Rose, che lui ne è stato per tanto tempo l’antico proprietario, e 63 che si ricorda anche di questa bella donna. Solitaria, certo, ma piena di amici. Si faceva amici dovunque andasse, così graziosa e così gentile. In paese la chiamavano “la toscana”, perché diceva a tutti che era di lì, e che per lavoro o per studio, adesso non ricordo, anzi forse per seguire suo marito, era scesa qui a Forio, mentre lui rimaneva a Napoli tutti i giorni, e solo ogni tanto ritornava. Però studiava, sì, aveva sempre un libro tra le mani, e organizzava pure tanti seminari, incontri, dove si parlava di politica, di emancipazione, di lotte di genere… Era proprio così, un libro tra le mani anche da vecchia, anche per quel poco che mi ricordo, quando andavo a trovarla, purtroppo velocemente, sempre presa tra scuola e musica, oppure assorta nei miei pensieri… e pensare che adesso avrei potuto chiederle tante cose. Però con me era sempre silenziosa, quasi intuisse la nostra somiglianza, ma fin troppo discreta per “accompagnarmi”: ecco l’unica tua mancanza, Gemma Fiore! Penso avvolta dalla nostalgia del rimpianto. Passare un poco di tempo in più con lei. Tutto qui. Perché ci sono dati i “nonni” solo 64 da infanti? Perché vederli come “vecchi” imbambolati dalla tenerezza o dalla durezza? La Natura è tragica, e insieme spietata. E, cosa ancora per me incomprensibile, ignora lei stessa le sue leggi (“sue”, ma sarebbe meglio dire “quelle che noi uomini incapaci e senza fantasia e immaginazione le abbiamo attribuito fingendo di scoprirle nel mondo esterno e non nel nostro, così poco agile, cervello”), per esempio quelle che la vorrebbero insensibile al tempo come durata, o quelle che deridono lo spazio come estensione, o ancora quelle che dicono che la materia nasce da un incontro creativo col nulla (quest’ultima, per me, è la più interessante di tutte, ma alcuni stupidi divulgatori hanno chiamato il bosone di Higgs “la particella di dio”, proprio per questa capacità “creativa” di materia, come se la complessità irriducibile del vuoto e del nulla potesse confortevolmente e beatamente comprendersi con un’idea tanto vuota quanto inutile come quella di un dio creatore: creatore di tutto, e dunque inutile, perché il problema non è quel vuoto pretesamente iniziale, e chiamato scioccamente nulla, ma il tutto che sembra avvolgerci, senza senso e senza direzione – e almeno quei secessionisti chiamati cristiani hanno avuto un’intuizione buona quando, anziché il nulla 65 hanno messo il verbo all’inizio, cioè la grammatica, la logica, lo sforzo di scrivere su un rigo di una pagina il proprio semplice nome come se fosse un’azione: io non sono e non potrei mai essere colui-che-è o quello-che-sono, ma forse potrei i-are, che è quello che poi faccio sapendo di farlo anziché illudermi di essere o di esistere: e che, le mosche e le zanzare e i batteri non esistono? E il cazzo, pene o fallo, non ha una vita sua? O i sogni notturni che, magari mi ponessero nel corpo di una farfalla fino al risveglio, e invece mi lasciano nel mio limitandosi a darmi sì l’illusione, la recita teatrale, il concerto di capodanno, del tempo, del mio tempo, della mia durata da androide dickiano, che tutti chiamano vita?). E sì che mi piacerebbe davvero ritrovare la Villa! di cui ignoravo l’esistenza fino ad ora, confesso al Signore amabile che mi sta dando una mano a ritrovarla. Nel tragitto nella sua macchina posso chiedergli, penso, ancora tante cose: 1. Fino a quando ne è stato proprietario? 2. A chi l’ha venduta e perché? 3. Ed ora, magari, conosce se ci abita qualcuno? E poi, naturalmente, tutto della donna col foulard e gli shorts tipici degli anni Cinquanta, ma anche della vita 66 intellettuale del posto, ché quasi penso di avere paura di avvicinarmi alla “verità”: fine del viaggio, voltare pagina. Gemma, chi sei? Vorrei forse essere te? Ed ho paura davvero di ritrovare qualcuno. Così paura che gli chiedo di accostare, perché ho dimenticato una faccenda da sbrigare, perché invece ho voglia di illudermi che dalle parti di Casamicciola non può non esserci una cabina telefonica per telefonare al mio di amore. E sentire i suoi progetti, e l’organizzazione del nostro trimestre, gravido di futuro. 67 GENTE DELL’ISOLA Sono corsa via, scusandomi. E chiedendogli di fissare un appuntamento per domani. Che mi dia direttamente il numero della via dove vederci, che mi farò trovare lì, pronta. Ha sentito la mia paura? Quasi frena di getto, e mi lascia lì alla curva di un tramonto mozzafiato, che mi fa sentire per un attimo così sola, che mi precipito su di un autobus preso a volo e pieno zeppo di persone, per andare in libreria. L’unico posto che mi faccia sentire in possesso delle mie qualità, più che facoltà, mentali (e anche spirituali). La libreria nei pressi del castello Aragonese, così fornita! E curata, che si sente la mano amorevole di una donna straniera, anche lei espatriata, non importa se volente o nolente, e da dove. C’è il solito gatto che mi guarda, e che forse, voi che conoscete bene l’isola, avete anche imparato a chiamarlo per nome. Io no. Ma in compenso faccio amicizia con Chiara, la proprietaria. Che vive su, appena un piano oltre la libreria, accanto alla sala del pianoforte, e che vedo apparire e riapparire di continuo 68 proprio come un gatto in soffitta, il quale invece, la fa da padrone. Continua così uno dei pomeriggi più belli, in compagnia finalmente di un’altra donna. Poco più grande di me. Anche lei per il momento sola. Chiude prima, ché tanto in questo pomeriggio assolato, chi vuoi che venga a chiedere informazioni o a cercare la prima traduzione italiana dell’Erotismo di Bataille? E decidiamo di comprare un gelato da mangiare sui bordi del porticciolo, cullate dal vento, guardando il mare. A Ischia c’è il cinema? E subito mi pento della mia stupida insolenza. Che domande! Mi fa dopo qualche secondo, come per cercare il tono giusto tra orgoglio, risentimento, allegria e critica politica. Certo che no! E ride… No davvero, qualche cinema sparso qui e lì c’è. Però quello che mi fa impazzire è un’altra esperienza sensoriale: sentire i vecchi programmi di Radio due registrati su cassetta, per esempio la top ten di Chiambretti e Aldo Grasso, o, se vuoi andare un po’ più indietro, Arbore e Boncompagni, sorseggiando una birra, fuori sul solarium di casa, mentre guardo le stelle col mio super cannocchiale! E mi strizza l’occhiolino! 69 Non immagini neanche che significa connettere due mondi; lanciare un messaggio mentre scruto l’orizzonte… il cielo e la terra, la nostra cultura e le stelle… mi sembra proprio di guardare un film, cioè lo immagino proiettandolo io stessa sullo sfondo della volta celeste. Proprio come una canzone di Neil Young e un pezzo di pizza in bocca (ancora lui!). Quando tutti vanno a ballare a Harvest Moon, ed è lui lì che canta mentre proietta quel suo film di giovinezza, rendendo omaggio all’America intera che non lo sa! Sei incredibile! E so che non hai fumato (perdona, caro lettore, ma battute di questo tipo erano correnti ai tempi)… è solo che lasci andare la fantasia così, perché ami gli altri, e perché la vita è bella e because I’m still love with you, always Harvest Moon! Dai che andiamo al cinema a vedere Star Treck! 70 APPUNTI N. 4 Gerardo, a cui vorrei dare, per imposizione, rigorosamente del “tu”, mi fa fare il giro della casa. E io mi accorgo che la villa non è completamente disabitata, perché tra i due piani, che corrispondono in effetti, alle due ale del palazzotto, la differenza è notevole. La prima, piano terra: i miei occhi da investigatore si abituano al buio, ai ripiani dei pochi mobili, il resto venduti per lo più ad aste, a seguito di pignoramenti per debiti (i debiti, quando non sono semplici scadenze lontane, possono anche raccontare una storia ricca e vivace, e quanto!, molto più di quanto possano farlo gli stupidi e piatti crediti), ricoperti da lenzuola (non bianche ma colorate, e non necessariamente giallo crema o ghiaccio sporco, ma verde, porpora, blu notte) e altrimenti da un forte odore di polvere e di chiuso. Come fosse disabitato da tempo, tranne forse per un pianoforte a coda (dove c’è un piano a coda lunga e nero, cantava Paolo Conte, c’è sempre un gran mistero), stranamente lucente, nero perlato, bellissimo, un pugno al mio stomaco, ricordando mia madre e la sua “passione”. 71 Questo piano della casa è composto da un grande salone di ricevimento, che si affaccia tramite le portefinestre direttamente sulla strada di ciottolato misto a sabbia che porta al cancello – quello davanti al quale compariva sorridente Gemma Fiore – e che disegna un serpentello sconnesso che striscia cercando di camuffarsi e nascondersi tra grandi ciuffi d’erba, di un verde scuro, bottiglia, che per essere incolto però non presenta i segni soliti dell’abbandono, essendo – forse per le piogge, ma di certo non solo – verdeggiante, vivace, e disseminato qui e lì di fiori. Che contrasto, penso, rispetto al dentro dell’abitazione! Mi ero prefissa di fare domande a Gerardo, ma quell’uomo mi incute, già ve l’ho fatto capire, un poco di spavento. Non che mi senta in trappola, o minacciata, ché anzi si offre come un galantuomo tenendomi il passo, accogliendomi in ogni stanza, facendomi sentire “a casa”, la mia casa: come se dovessi, tra poco, prendere una decisione importante, e trasferirmi lì, di punto in bianco, lasciando la mia vita. E lui, questo gentiluomo, comprende, senza fare domande, semplicemente mi accompagna, per mano (o afferrandomi il braccio quando resto, come si dice con aggettivo perturbante e quasi fuori dal tempo, imbambolata). 72 Lo stupore è enorme quando salgo le scale, che mi rivelano, pezzettino dopo pezzettino di luce, delle camere bianche, illuminate dal sole che attraversa i pori della maison d’été, la quale, essendo stata scelta per viverci la freschezza e l’intimità di momenti liberi, o anche rosicchiati, per non dire “rubati”, alla vita frenetica di città – che sia Napoli, o qualunque altra città al mondo – mostra orgogliosa questa appartenenza a te, questa vicinanza, questa dolcezza come luogo d’elezione, e direi quasi d’amore. Tutto è amore, pur essendo ormai un involucro vuoto. Ma le mura calde, dipinte dal sole, e dal verde brillante e dal mare turchese che si vede in lontananza affacciandosi a quelle finestre che rappresentano ormai i tuoi occhi, mi fanno sembrare quasi che la casa lì respirasse ancora. Che qualcuno, finanche uno spettro si manifestasse in questo modo. Mentre lì ci siamo solo noi. Gemma Imposimato. E Gerardo. Anni 79. 73 APPUNTI N. 5, SABATO POMERIGGIO Posso restare un poco sola, qui? Vorrei assaporare questo momento di silenzio, di quiete pomeridiana assoluta, ai margini di settembre, quando tutto dovrebbe riprendere a vibrare con ritmi prestabiliti ma diversi, come dice uno spartito musicale, un cantato: allegro, ma non troppo. Io farei, come Satie, quest’altra annotazione: settembrino, fine d’estate. Invece i musicisti sono indomiti, ribelli a questo strano direttore d’orchestra che sono e che forse si crede un compositore, perché incominciano dunque a rispondermi per i versi ossessionanti e altalenanti di cicale che ricordano le distese di grano sotto il cielo cocente, quello della Sicilia magari, in cui, come in un romanzo della Sapienza, ricompare tra i covoni di ricordi il tuo Tuzzu, le sue mani forti, il tuo primo amore di bambina, e quali e quanti desideri erotici, che ti prende in braccio e ti fa sognare il mare. Vorrei essere sola. Vorrei essere sola lì. 74 Per subito impossessarmi di quelle stanze, di quelle sensazioni, suonare il piano, da sola. Farlo risuonare, tasto dopo tasto, con il mio corpo nudo, spogliarmi. Ecco perché vorrei essere sola. Vorrei spogliarmi in quel momento e masturbarmi, direi meglio: toccarmi. Che mi è montata su una strana eccitazione, eccitazione di bambina, ripeto, regressiva e primaria, per le scene immaginate in quei luoghi, per fantasmi primitivi dell’infanzia, per voglia di dispossessarmi di me, delle mie carni e darle in dono a qualcun altro. Uno strano principe azzurro che mi cerchi, come mi ha cercata lui, con un biglietto bianco, portandomi da Napoli – no, anzi – da Parigi, fino a qui. In questa casa remota, vuota, con solo un pianoforte a coda, su cui potrebbe prendermi, sdraiarmi. E fare l’amore fino a tardi, fino a dimenticare: lui, immergendosi in me, nei suoi ricordi, facendo l’amore con l’altra, la sua Gemma, e io, ritornando in una folle regressione – non temete: ne sono ben consapevole, l’ho detto – all’oggetto del mio primo amore, del mio investimento libidico: non mio padre, ma mio nonno, a cui portavo tremante una tazza di caffè. Vorrei essere un poco sola, gli dico tremante anche ora ma disperatamente insistente e piagnucolosa (si tratta pur sempre 75 di regressione). Chiudo gli occhi, non oso pensare a quello che lui possa scorgere sul mio volto, e soprattutto vorrei schiudere la bocca, passando con la lingua sul labbro e lasciando una scia, impercettibilmente saporosa e odorosa, ma impercettibilmente, di saliva (come di femmina gravida), senza provare vergogna. E allora chiudo gli occhi. Poi li riapro. E sono di nuovo sola. 76 APPUNTI, DOMENICA SERA Il cielo è immenso, e il sole mi porta. Mi porta a scrutare i volti di chi mi attraversa come fossero orizzonti, approdi da ricercare al di là del mare. Ridiamo insieme con una birra in mano, per inaugurare la pioggerellina che ci fa capolino, come un occhiolino autunnale, tra i profili del monte Epomeo. Quest’estate non c’è stata mai burrasca. Come add’a essere, mi dicono i pescatori al porto, e come ora add’a essere tempo di risacca… tempo settembrino, sorrido dentro di me, ripensando a quel momento di un giorno o di trenta anni fa. Passeggio perché ho voglia di assaporare tutto di quei luoghi che ho scelto come casa “primaverile”. Come un risveglio, come un tempo di rigenerazione. Forse il tempo di un figlio. Dico tutte queste cose a Chiara, sul suo terrazzo-osservatorio come un film che proietto anch’io, scegliendo adeguatamente la mia colonna sonora: le lettere d’amore di Marx alla sua Jenny, lettere di passione che riecheggiano e si accendono in parole di fuoco, come lapilli che colpiscono chi rimase lì ad ascoltare quella 77 visione, leggo in declamo d’amore Carlo. incapace di scappare. Prendo fiato, silenzio le parole che scelgo e poi le – si badi, con voci diverse se lo scritto va da Carlo a Jenny o da Jenny a Chiara dice che sono pazza, ma che mi capisce. Capisce, guardandomi, il mio corpo. Capisce che è come in attesa, ed è per questo che è splendido. Io avrei voglia di richiamare tutti i compagni per organizzare una cena, ma non solo: un bellissimo incontro dove parlare dei figli fondatori, le loro imprese, le loro sconfitte, ma soprattutto la loro avventura, così difficile perché sfida le leggi di Kronos, e riprendere politicamente la scena di Ischia: approfittare del “tempo di risacca”. E poi vorrei chiamare pure loro: il portiere, Loiacono e Sisa, e il mio Mustafà. Ma penso che non ho ancora nessun segreto da svelare, se non al fine comunque nobile e spesso apprezzato e richiesto di sciorinare qualche discorso filosofico sul senso della vita, e sul presente gravido di futuro da costruire per noi tutti. Come un’isola felice, strapiena di cultura, che significa amore estetico-politico per il paesaggio. Qualunque sia. Sempre mutabile e spesso troppo mutevole, come in tutti i territori 78 vulcanici (cioè quasi sull’intero pianeta), e sempre imprevisto. Una sfida alla nostra intelligenza di compagni. Quindi dovrei astenermi ancora un poco, prima di chiamarli tutti a Villa delle Rose, e fare incontrare loro Don Gerardo, quest’uomo fantastico di cui mi sono perdutamente innamorata, perché lui è quella figura in ombra, a fianco alla sua Gemma, dopo che nonno Gennaro è morto, sì, di morte naturale – ed era proprio mio nonno! –, mentre lui ha in serbo per me una specie di lascito o di donazione da parte di Gemma, ma diverso da quella chiamata all’incanto del lotto 49 in cui spesso mi sono rivista, nei panni divertiti e spavaldi dell’Oedipa di Pynchon. Quella villa è una prova. E lui è uno dei doni più belli che Gemma abbia potuto lasciare alle generazioni a venire. Forse è immortale. Sorrido, sorseggiando ancora la mia birra che ho imparato a bere con Chiara a soli trentacinque anni, e mi preparo a scrutare le stelle per rileggere il frammento più lucente di due secoli fa. 79 APPUNTI 1 SETTEMBRE, VENERDÌ Chi sei tu venuto da lontano? Che spiavi il suo amore? Chi sei tu che hai ripagato il suo dolore con caldi e genuini abbracci? Vorrei chiamare tutti voi… Dormo agitata, e un incubo mi sveglia. Ma quest’incubo non è che un sogno a metà che riconosco tra mille. Tra mille scale che salgono e scendono sempre allo stesso posto, e una madonna nera col bambino dal cuore perlato. Ricordi di infanzia. Vorrei avere vicino a me Gerardo. La sua sicurezza d’uomo, la sua forza me lo fanno apparire come un san Gennaro – direi – che non ha paura degli spiriti malvagi che popolano il mondo notturno. The dream of the underworld. Ci incontriamo il giorno dopo al bar della piazzetta di Sant’Angelo, quello in cui ci sta la bellissima Anna, forse straniera, forse russa, occhi azzurro cielo, mani di fata, sorriso enigmatico che prepara il caffè più buono – e non par hasard – che abbia mai sorseggiato. Lo vedo lì appoggiato sul cofano della sua macchina. Mi sorride incantato pure lui, appena mi scorge da lontano. Ho raccontato a Bonbon Robespierre, così chiamo a volte il mio 80 compagno (confessandogli, ogni volta, con le parole di un altro rivoluzionario, questa volta poeta e cileno, que he vivido!), che strano effetto mi ha fatto quell’uomo, con la sua mano che mi culla lontana, come se mi insegnasse a “fare il morto” – da bambini – e io riuscissi a stare di colpo a galla per magia. A galla tra i miei sogni, i miei desideri e anche i miei rimorsi. Tra le schegge dell’infanzia. A galla perché mi piace sentire la superficie fredda del mare che mi solletica le gambe e io non posso più muovermi perché se inarco il dorso un pesciolino mi scivola di dosso… e non posso più permettermi di perderlo, di perdere nessuno. So che mi propone oggi di fare amicizia, dopo che ieri lui è scomparso così tra i miei ricordi di bambina, evaporandosi nel rossore delle mie guance (è la mancanza di Francesco, sì, quel Bonbon che avete già conosciuto velocemente qualche rigo sopra, messo accanto ad un cileno, che mi provoca brutti scherzi: è sempre così quando siamo troppo tempo lontani, e quando qualcuno mi attrae, mi attrae davvero perché in qualche modo misterioso e abile mi penetra…). 81 Amore mio! Ti raggiungo presto, ovunque tu sia! È tale l’assenza, che mi trovo a riempirla con tutti gli odori dell’isola dando all’isola i tuoi odori e regalandole il suono di brezza del tuo sorriso. Ma è ora di andare, di avvicinarmi a lui sorridente che già sento di amarmi. Di più. Ciao! Come stai oggi? Mi guarda e mi stringe come avesse trenta quaranta diciotto anni incurante degli altri e della vita. Gli sorrido, trattenendo una risata. Sono sua. Pronta per un giro in macchina e per la verità? Prontissima! Partiamo, a piedi, per gustare il suono della natura, tra i vicoli labirintici delle strade in collina, forse sarebbe opportuno parlare di sassi di montagna che si gettano a capofitto sul mare. E allora, perché non so, incomincio a raccontargli di me, di quello che sono stata e di quello che sarò. Soprattutto di quando l’ho scoperto (cambiando prospettiva), quello che voglio essere, non quello che sono! (e quindi implicitamente – ma lui lo sa! – gli parlo di te, amore mio, che guardi le stelle in quell’altra isola di tanti anni fa, quando mi curasti della 82 “palla di pelo” che sentivo proprio sotto allo stomaco come una piccola ulcera, e sgorgando lacrime, mi aprii finalmente all’orgasmo – anzi: agli orgasmi! –, senza chiedere più il permesso in quella sorta di lamento prefico e veterinario che mi usciva dalla bocca quando venivo – ahàà, ahhh… – e che ho imparato a riconoscere con te! E ogni volta ridevamo di queste, e di quante altre tonalità diverse, e non più il bello ma “sospetto” interrogativo dal tono ascendente discendente, le mie labbra dischiudessero come scritture (o forse parole, e comunque musicali, ma di certo non discorsi, ché questi sono implicitamente autoritari), come parola dell’orgasmo: in mattinata baritono, prima di pranzo appena sospirato, la sera poi “incazzato”, un giorno contento, sempre divertito, a volte “perso”, “in anticipo”, “stoppato”!). Sì, so bene che le pagine del mio diario potrebbero sembrare oggi irreversibilmente sbiadite dalla mancanza e dal ricordo, come trovate scritte da qualcuno che senza interesse, quindi, le legge. Ma questa è la mia lettera, almeno stasera, prima di ricominciare la storia, come Marx scrisse alla sua Jenny, come Engels scrisse a Marx, come Longo a Secchia a cui amiamo paragonarci: questo siamo noi, sei tu: quell’infinito orgasmo gravido di futuro. 83 SERA Camminiamo ancora, ti prego, non fermarti! E parlami di te! Gli sussurro all’orecchio riconoscendo che è lì lì per dirmi qualcosa, che invece lo trattiene. Vedi Gemma, tua nonna, la mia Gemma, ha sempre nutrito per te una stima profonda, ti sentiva come una specie di anima gemella [“gemmella”, direi io, se non “gemmata”, gemmate entrambe anche nel senso di nate entrambe per “gemmazione” spontanea su un altro corpo che già esisteva]. Io le promisi, prima che morisse, che ci saremmo ritrovati. Mi scrisse infatti una lettera ché troppa era la fatica di prendere di nuovo il traghetto, e forse per l’ultima volta, che preferì così, mandarmi una cartolina come ai tempi di guerra dove ci siamo incontrati. Io avevo ben dieci anni più di lei, ma me ne innamorai, come adesso mi innamoro di te, e non provo onta a dirtelo, e a dirlo. Ché qualcosa, quando si è intelligenti e compagni, e si ha esperienza, si fiuta nell’aria. Come nell’aria sapevo che un’altra Gemma sarebbe venuta, o forse lei, ancora lì ad attendermi, dalla sua “maîtresse” amica, donna Sisa. 84 Ecco, quando lasciai quel biglietto, Gerardo mi disse, ricordo ancora, guardando la luna alla Colombaia e realizzando per me un sogno, senza saperlo, avevo messo il piede per la prima volta in vita mia nel laboratorio di questa Sisa di cui Gemma mi parlava. Mi parlava nelle sue lunghe lettere che mi scriveva sapendomi delegato del Partito a Mosca, alla “casa”, e chiedendomi mille volte di portarla con me, o di scendere giù a Napoli, “che pure cà ci son tant’e cose à fa”, mi diceva. Imitando con l’accento toscano il suo dialetto napoletano. E mi raccontava della vita, degli spasimanti, che a lei non interessavano perché voleva fare politica, come sua madre, e come me, quando ci incontrammo, e sempre. Mi raccontava di Gennaro e di Renato, di come non sapesse chi scegliere: no! Di come non volesse scegliere, ma, quasi nell’emergenza della disfatta andasse presa la decisione migliore per un cambiamento radicale delle condizioni materiali per una sua rivoluzione privata, “se quella vera non si poteva fare!”. Io non la prendevo troppo sul serio, e questo forse fu il mio sbaglio. Forse chissà avrei potuto richiamarla tra i compagni a Roma, Milano, e perché non in Unione sovietica? Una bellissima napoletana dai capelli 85 biondi e gli occhi verde lucertola, che sogna il cinema come la Rivoluzione, avrebbe potuto trascinare chissà quante masse di onesti lavoratori italiani, compresi gli intellettuali! – e qui si mette a ridere, mentre, tossisce e si schiarisce la voce. Gemma cara, sposata, embè, che fa sta pazzerella! Non lascia Napoli, scorrazza per l’Europa e me la ritrovo un giorno lì, davanti al Comitato esecutivo della sezione italiana del Partito, fatta, ormai: non più una bambolina, ma una bellissima donna, con una bellissima bambina, forse vedova, speravo, e con tanta tanta impazienza di restare. Tua madre, sai, ha vissuto i primi mesi della sua vita nella madre Russia, e pure ci sarebbe cresciuta, e forse anche tu, se io non l’avessi convinta a ritornare, con la promessa che presto ci saremmo rincontrati qui sotto il sole. 86 MACCHERONI Parlami di te, ora è il tuo turno. Come non fosse, non fossimo sazi ancora, ci avviciniamo a Villa delle Rose. Cosa dirti di ciò che sai, che saprai, perché per ora non ho voglia di lasciare te, né l’isola: a costo di fare ogni mese otto viaggi avanti e indietro Napoli-Parigi! Però una cosa posso dirgliela, e dirla anche a voi, che potrebbe chiarire, se fosse importante, un poco meglio il mio stato d’animo, e il senso di questo assurdo racconto che prende il verso di una “cronaca”, e proprio di quella di un annunciato amore, in cui spero che nessuno – letterariamente parlando – muoia! È che mia madre, che hai conosciuta come una piccola “staliniana”, ma che forse ti deluderebbe un poco: non so, così alle prese con il lavoro, ma non nel senso più bello, di ingaggiamento, di passione, quanto sul versante più pesante, dell’ambiente con le sue malelingue, (Gemma, quante volte mi dice e io quasi non l’ascolto più 87 con le orecchie, e non solo, ovviamente, nella disposizione di spirito e nei fatti, cercando di fare tutto al contrario di quel che mi dice! Gemma, mi dice, non ti fidare mai dei tuoi colleghi nel mondo del lavoro! Anche chi sembra amico, disponibile, se può per un proprio vantaggio non esiterebbe a metterti in cattiva luce, o comunque sarebbe invidioso!) per finire sempre depressa: e quel pianoforte che ho visto alla Villa mi ha stretto il cuore perché conosco la sua passione, di mia madre, ricordo la sua giovinezza, con me piccolina tra le sue braccia a impasticciarle il lavoro, il componimento, o forse a stravolgerlo con una mossa situazionista e crearne uno dal senso inverso a quello che lei si proponeva… Chissà, ma mi sto dilungando su mia madre, perché forse mi sento un poco in colpa, a averti finalmente visto e conosciuto! Perché sai, tu sei questo nonno di cui ho sempre sognato (e sospetto che quella furbona di nonna abbia sostituito la tua foto con quella di Gennaro, o le abbia semplicemente – come la famosa lettera di Poe ancora, con cui si apre pure questa mia storia – confuse (ma devo dire che un poco vi assomigliavate: che dici abbia scelto Gennaro per Gerardo?). Insomma, prima di pasticciare ancora queste pagine di mille puntuazioni, come facevo ai poveri 88 Chopin, Mahler e Beethoven di mamma, devo dirti che se chiudo gli occhi di fronte al mare, pensando alle terre lontane, ma sentendomi protetta nella mia infanzia cresciuta senza uomini, con donne che non ne hanno voluto prendere il posto, o ancora peggio, riprodurre gli atteggiamenti – due donne fantastiche: la prima forse migliorata sempre più nella vecchiaia, la seconda, mi duole dirlo, “peggiorata” (come tutti i genitori!) –, se chiudo gli occhi io ti riconosco tra le foto, i ricordi di Gemma Fiore, vedova Imposimato, e di sua figlia Rosanna. Sei tu l’uomo che mi faceva sognare, prima di andare a dormire, con le sue mille, eroiche avventure. Un poco come nel film di Ettore Scola dedicato a Napoli, alla Napoli effervescente, che cresceva, che ribolliva, che avrebbe tra poco trovato il suo punto di arrivo ma anche di arresto nell’esperienza bassoliniana: la Napoli centrale, la Napoli molesta, la Napoli vesuviana, voire un poco mar(x)ziana. E di nuovo a perdermi! Perdonami! Ma vedo che non parli, e fai bene. Insomma quel film, Maccaroni: tu mi ricordi il mio Jack Lamon, nella versione nonna Gemma (e data la complicità delle due vecchie, ne sono sicura: di Donna Sisa pure!), alias un fantastico Marcello Mastroianni (che solo per 89 aprire una parentesi ancora: è la versione che preferisco rispetto a quella, troppo lontana, troppo onirica, piccola borghesuccia della vera anima felliniana!). Ecco, e ho detto tutto! 90 APPUNTI N. 10, MARTEDÌ 5 SETTEMBRE Mustafà, sono io! Ti ricordi di me? (a volte, penso, sono proprio ridicola…), e infatti mi fa: Gemma chi? Ma poi ritrovata la sua vera verve, da ragazzino pre o post adolescenziale, non ha importanza perché la sua età (e il suo vero nome) dovrò rassegnarmi a non conoscere mai (tanto dominato dalla sua voce e dai suoi occhi è il suo tempo): Gemma Fiore o Gemma Imposimato? “Gemma quella che hai incontrato, in carne e ossa”, piccolo e sfuggente dio immortale. E ora apri bene le orecchie, che ti invita ad una festicciola che la tua amica sta organizzando qui a Forio d’Ischia con tanti compagni simpatici che tu deeeevi assolutamente conoscere! E poi mi sei mancato, penso, fratellino mio. Ma non glielo dico, anche se gli fa piacere, lo so, sarò perseguitata a vita e dovrò sottopormi ad 91 acerrima autocritica per questo mio sentimentalismo dovuto forse alla “mezza” età… Sentimi bene ancora: vai da Enrico, a casa mia, portagli una lettera tutta bianca e scrivi su: Villa delle rose, ore 17h, Ischia. Ah, e poi un’altra cosa, dimenticavo: ovviamente Sisa e Loiacono sono miei ospiti, come tutti voi. Ok? Mustafà? Zi padrona!? Non cambiare! Non mi diventare pop, è vero che sei più napoletano di me, ma non dirlo mai, manco per scherzo, penso, e mi accorgo che è veramente giunto il momento di riattaccare senno chissà quante smancerie e stupidaggini dalla mia boccuccia di rosa! Però prima gli dico: Mustafà mi vuoi bene? Anche se non me ne vuoi, sappi che io ti voglio bene, e che puoi sempre contare su di me, e con me: possiamo fare e sognare tante cose insieme; puoi fare e sognare tutto. Hai capito?! Cià! 92 INVITI [Prima di iniziare, creiamo l’atmosfera per il finale, mettiamoci la bande sonore: From Lyrics 1964-2008 by Paul Simon. E devo anche avvertirvi che molto di quanto vi dirò potrebbe sfuggirvi se non avete ancora sfogliato almeno un libro di Dick, che ho fatto tornare apposta dalla Luna per questo mio pimpante e commovente (nel senso che vi muove, vi porta altrove) finale. O se non avete ancora scoperto dove si nascondeva una certa missiva segreta e di fondamentale importanza per l’equilibrio dei poteri che Poe aveva nascosto al povero Dupin ne La lettera rubata (rileggetelo mille volte, e non la vedrete, anche se, certo, è fin ovvio, la troverete). E almeno Gramsci, con quegli occhiali invisibili e i suoi assurdi e divertenti capelli da fumetto francese anni ’10 o da Saint-Exupery, che parlava con Teresa Noce mentre lavavano i piatti e di là Togliatti annoiava (cullandolo nei sogni, però, ne sono sicura) il povero Longo. Insomma, caro lettore che sei venuto fin qui, Gramsci almeno! Trova il tempo, rubalo, per questo Leopardi che è riuscito a diventare, una vita dopo, padre. Trova il tempo per cercare negli scatoloni e su in soffitta. Dovremmo 93 saperlo che c’è sempre una lettera dal carcere che arriva a destinazione, anche se dopo anni di viaggio, di deviazioni e di passaggi di mano in mano. Come è successo con me. Eccoci qui, allora. Nous voici (in francese, che ogni lettera per la rivoluzione arriva da Parigi). Assieme.] La giornata si preannunciava uggiosa, afosa, carica di elettricità omeostatica, regolandosi forse sul mio nucleo interiore, quello più profondo, fatto di psiche e materia, il nucleo di sostanza subatomica che fa dei nostri sogni acceleratori di particelle. Ero radioattiva, le particelle dell’anima hillmaniana, cioè dei luoghi e dei posti, dell’isola, mi attraversavano trovando un varco nei miei orifizi, piccoli oggetti a, déjà chus, collassati, quindi: mi fermo a riflettere ad un incrocio sul “mio” positrone fuggitivo… Abbiamo concordato ogni dettaglio: io mi occupo degli amici che arrivano al porto col traghetto delle cinque. Purtroppo non ci sarà la coppia Donna Elisabetta – Don Marcello, (s)fuggiti anche loro in una perfezione cosmica stellare: unici, indistruttibili, il nucleo più resistente che conosca che mi scovo a pensarli come l’essere androgino di Platone, uomo- 94 donna, senza sesso, venuti da una galassia lontana. Purtroppo a rischio di estinzione. Invece dovrò accogliere un’altra coppia strana, alquanto stralunata, come quelle del Clan della luna Alpha, un essere spungiforme che sicuramente è il mio portiere, come modello di tutti i portieri napoletani doc (N.d.A. che sono sempre stati anche orgogliosamente “cafoni” in senso tecnico: quelli che venivano c’a fune, da fuori le mura delle città, e nei tempi più vicini a noi, del dopoguerra, quelli delle campagne di Avellino e Benevento, emigrati per un posto sicuro con mini appartamento incorporato), e poi l’altro essere: direi, ricordando il romanzo mio preferito di Philip Kindred Dick: un polivalente: il ragazzo sbiadito come uno spectre di Marx! Una coppia che, se la vedete, è anche, nei termini così poco ortodossi e così poco marxisti di Gramsci, in se stessa, e anche in maniera erotica, sicuramente edipica ma già antiedipica, un blocco storico. Villa delle Rose torna a suonare. Via i teli colorati, che per non essere bianchi, pure non erano male: ma via, via quel sentimento assoggettato di precarietà: si riparte da zero: spazi vuoti, solo di libri. 95 E qui entra in gioco la mia anima gemella: la mia Mani preferita col suo gatto acchiappapensieri: Chiara, che vedo nella sua luce guerriera. Sì, l’idea, discussa col mio Robespierre (Robert, s’intende ormai!) attorno al solito kebab di Parigi, per una sorpresa a volo, è di trasformare quella villa in culla o astronave del popolo, e considerando la genialità del mio Skiz1 a trasformare – riuscendoci! – tutto quello che vede e tocca in progetti visionari, quale “formidabile organizzatore di cultura” (N.d.A. prendo la frase a prestito dal piccolo Dep Antonio Gramsci che così definisce il Para liberal Piero Gobetti), con le altre proprietà che ci troviamo giocando sulla stupidità del sistema, della Banca come “ripresentarsi della forma corporativa-economica dello Stato gendarme, guardiano notturno etc.” (ancora Gramsci: “come confusione tra società civile e società politica”), abbiamo già in mente il progetto di ritornare e colonizzare i tanti piccoli Norm senza nome, così normali, anonimi. 1 Ti ho avvertito, lettore, che conveniva leggersi Dick. 96 ORAZIO 97 98 E 'o palo viecchio? Se 'nfracetaje L’inverno mi fa paura. Mi ha sempre fatto paura. Dal balcone di casa si vede un nuvolone carico di cenere che si avvicina. Spesso chiudo gli occhi, mi sforzo di pensare ai tramonti dorati che tanto mi piace guardare in estate. Di là sono tutti indaffarati. È la mattina, è la cucina, è il bagno, è il cane che duole che vuole fare pipì. Di qui, per strada, tutto ancora calmo. Qualche raro autobus sfila sotto il mio sguardo. Se avessi un binocolo, riuscirei a guardarci dentro. Come alle prove di teatro, sarebbe tutto ri-go-ro-sa-men-te improvvisato, anche se le “situazioni” sono sempre le stesse, non mutano. C’è la signora bionda, di mezz’età, riccioluta e grassoccia, dal soprabito verde militare, che cerca disperatamente di uscire prima che le porte le si chiudano in faccia perché qualcuno le ha fatto il dispetto di salire da dove si scende (o viceversa); ci sono netturbini appisolati che ondeggiano sbattendo il capo ad ogni fermata sul finestrino, aprendo gli occhi, ancora stropicciati dalle mani sudice, con quel filo di saliva invisibile che un tempo li accoglieva nel letto di casa, sdraiati nei loro 99 sogni ovattati, sogni arcobaleno, lucidi e trasparenti, dove tutti gli oggetti indecifrabili, trovati lungo il percorso della collina di Posillipo, giù fino alla discarica che è diventata Coroglio, assumono finalmente un’identità serena, come pezzetti di un compito andato (a) male, giudicato con un 4, che si ricompongono sotto gli scherzi del vento di novembre e ne fanno invece un componimento degno di essere letto in classe, e pure ad alta voce dalla maestra. Che darei per leggere quei loro compiti mattutini, che si trascrivono da soli per quasi 365 giorni all’anno! Che miniera per uno studente dei quartieri alti. E per uno sbandato di quelli un po’ più giù della collina o dall’altro lato, quando la domenica con la macchina attraversiamo la piana di Fuorigrotta, per andare allo stadio, quando gioca la mia squadra del cuore, oppure quando, invece, è ancora bel tempo e prendiamo la strada del lungomare di Bagnoli. Un giorno ho preso anch’io il tram che arrivava affaccendato dall’altro lato della città per portarmi al capolinea vicino alla linea azzurra del mare. Pian piano riacquistando vigore, si alleggeriva della zavorra umana. Con un binocolo potrei anche osservare la gente in mare, se avesse, come è evidente, un’ottima lente. D’estate. Immagina quante 100 scene divertenti tra ragazzi in gita sul gommone, che tentano di sedurre qualche liceale che neanche arriva a risalire dopo un tuffo profondo nel blu del mare e un leggero panico sul bordo del grigio e liscio gommone che sembra che si possa bucare da un momento all’altro con le loro unghiette verniciate perlato chiaro, per svolazzare nel blu del cielo, questa volta, e poi come la mettiamo con papà? Questo accadrebbe nei giorni di primavera, quando la scuola continua monotona col suo tran-tran per entrare nel suo periodo peggiore, finite le rivendicazioni, gli attimi fuggenti, solo grande rompimento di coglioni salvo che qualcuno della classe non ti piaccia davvero o che ti faccia la corte il belloccio dell’ultimo anno, anche rappresentante d’istituto! E quindi, pronti a disertare, soprattutto se fuori c’è il sole (e quale migliore prova se già sotto al portone di scuola, alle ore 8 in punto, si suda – soprattutto se per raggiungere la scuola bisogna prendere un autobus in corsa – e già si ha voglia di mare) e se la professoressa ha finito di spiegare Ovidio e attacca con Seneca. D’estate invece, ma non ancora piena estate, diciamo verso giugno, con questo binocolo che ora è diventato un potente cannocchiale, incomincio a passare in rassegna 101 le universitarie che, lontane, distanti da tutto, dal traffico che sfreccia loro accanto, dai ragazzini che ridacchiano e che si fermano a guardare, da qualche gatto e insetto molesto (e non oso immaginare altro) prendono il sole sugli scogli di Mergellina e del lungomare, come premio per un esame andato bene, o semplicemente, andato, fino alla colonna spezzata, anche se lì, per essere una illustre latrina del passato romano, ancora si sente leggero puzzo di evacuazioni, tra mare e terra, che potrebbe trattenerle dal denudarsi in città. Queste donnine ascoltano musica dalle loro cuffie, come l’ascolto io che si diffonde nella stanza in questo momento, che proviene dall’appartamento sottostante il mio. Duke Ellington. Che fortuna abitare in un palazzo signorile ma non troppo alla fine di via Posillipo, dopo la svolta per il parco della Rimembranza… siamo agli ultimi minuti di solitudine, che mi accompagnano con lo sguardo fino al tabacchi in basso, in fondo alla strada che diventa improvvisamente avvolta di un’atmosfera irreale, come un porto di mare perso nella nebbia, pronto ad attendere la sua tempesta, e come sempre a sconfiggerla solo per riattenderla ogni giorno, di nuovo alla stessa ora, che decido finalmente di distogliermi 102 anch’io dalla finestra, di chiudere le tende, di prendere il mio cappotto, con in testa Duke Ellington, nella seconda versione di solitude più blues e più ritmata, prendo la mia borsa con tutto l’occorrente della prime quattro ore della mattinata, e mi dirigo verso la porta. Un bacio alla mia amata, che vorrebbe stringermi di più, farmi le solite raccomandazioni ma che ancora, anche questa volta, si trattiene. Sarà la mia aria da duro anni venti. Non un americano, ma un francese della costa normanna, con la faccia rugosa, la pelle incartapecorita bianca, non rossa come quella dei nostrani pescatori isolani, che beve calvados (o padre, troppi racconti d’infanzia!) e aspetta lo sbarco degli americani come sulla luna. Come io aspetto lo sbarco del bus 140, guardando per un attimo in su, alla mia finestra, vuota, cercando di scorgervi un movimento dietro la tendina, che invece non viene. Il solito. Ma nessuno mi comprende. Cosa aspettarmi da un uomo che a sessanta anni è sempre lì a fare il suo caffè, che non sa neppure riconoscere i suoi clienti abituali. Sempre vestito con la consunta divisa di ragazzo, vorrei 103 quasi prenderlo a pugni, ma poi abbracciarlo ed offrirgli un porto per consolarlo. Tremante, raffreddato, sempre sull’attenti dietro al bancone del bar, mentre il proprietario sorride dietro la sua cassa, roccaforte dei suoi pensieri, alle signore perbene della zona di Chiaia che indossano animali morti sulle spalle nonostante in inverno raramente arriviamo sotto i dieci gradi. Perché quando ‘o maste decise allora di assumerti in prova come garzone, qualche giorno, mese dopo, non lo mandasti a quel paese? Forse incuriosito dal tuo orgoglio, e da quello scatto degno di un felino in un corpo mingherlino che gli avrebbe ricordato i film di guerra con John Wayne, contro gli indiani (e lui si sarebbe identificato in Wayne, ovviamente, mentre tu nel piccolo grande uomo), avrebbe cominciato a trattarti, se non da pari, almeno come un essere umano, e non da strofinaccio di cucina per pulire il suo lustro bancone. Quel suo figlio poi, seduto, abbronzato e muscoloso, e che parla al telefonino tutto il santo giorno, non ti guarda neanche più con gli stessi occhi, con un sorriso di complicità servo-padrone, non ti guarda proprio, che si è aggiunta anche una questione di età, uno scarto di generazione, vecchio... Un’altra giornata nata male. 104 Mi ritrovo a bere il decaffeinato, e che non mi andare alle toilette appena palazzo, altrimenti dovrò permesso per allontanarmi. solito cappuccino fa venire voglia di varco la soglia del pure chiedere il Nonostante tutto, mi piacerebbe trattenermi più a lungo di fronte alla villa Comunale, mi piacerebbe comprare come tutti il Mattino e leggerlo tra una schedina del totip e una occhiataccia al vigile che mette multe solo per ottenere un aumento a fine mese. E commentare Ma pure loro devono campare... Oppure Questa città è folle, e ancora non mi sono abituato! Me lo sento ripetere spesso da tutti quelli che mi girano intorno. Ma anche se non me lo dicessero, me ne accorgerei da me io stesso, basta guardare come tutti sono incattiviti, sembrano che abbiano perso quell’allure che li faceva nobili, un tempo, anche qualora fossero popolari. Come durante quella rivolta (o era una rivoluzione?) di Masaniello (devo andare a riaprire i libri di storia), dove duchi e arcivescovi vari erano i personaggi più loschi e più rozzi che 105 si aggiravano intimoriti tra la folla inferocita, per paura di perdere i loro beni, che nessuno del popolo doveva toccare, ma tutti bruciare, assistere a quello spettacolo simbolico, in confronto alla grandezza del pescatore e dei suoi compari. Cosa ci è rimasto di Masaniello, e della sua eredità nascosta, anche se solo per pochi mesi, dagli intellettuali della Repubblica partenopea del ‘799? La madre di mia madre me lo raccontava spesso, quando ero più piccolo, ripetendo questa frase di Vincenzo Cuoco, era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicità?, alludendo forse a un’altra storia “romana”, come un giorno mi fece notare mio padre. Come premio per l’attenzione mi regalava pure un cioccolatino, uno di quelli senza nome, dalla carta colorata a strisce, di cui dovevi memorizzare il colore con le papille gustative per non sbagliare gusto, quando lei ti porgeva la coppa di cristallo colma fino all’orlo di assurde leccornie di un secolo fa, e di uno spesso strato di polvere, e dovevi fare la tua scelta, in una volta sola. Il rischio era di ritrovarti in bocca quel sapore di whisky che non ti andava giù, oppure un limone stonato con il resto. 106 Ma a me piacciono quelle storie, che popolano i miei pensieri, quando sono assorto, come capita spesso, anche questa mattina, davanti all’inespressività degli altri, o delle cose. Mai, come è ovvio della natura. Compresa della città, malgrado questa possa essere più dura, e spesso aggressiva. Ma fa bene a vendicarsi ogni tanto di noi, mi dico, in tutte le sue manifestazioni. Soprattutto di quelli là, ma sono attento a non fare nomi, ricordando la strizzata d’occhi di complicità che mio padre mi rivolse quel giorno. E di notte, spesso, i miei pensieri finiscono lì, sul cratere di quel vulcano femmina sconosciuto: una divinità madre, indomita, prima dell’arrivo dei figli che la violentino e la scaccino dal trono come abbiamo appreso un giorno in classe, studiando la storia della città di Atene, del politeismo e del monoteismo, ma prima già che si cominciasse a parlare di divinità; giovani eroi che sembrerebbero aver soppiantato le più antiche madri, amazzoni, donne guerriere… O forse era Freud che ne parlava nel suo saggio su quell’altro uomo barbuto come mi spiegava mio padre? Ma si è fatta già l’ora di andare, di andare anch’io – di già! – che sono come dei delatori, poi chi li sente quelli, non solo del palazzo, ma anche di casa. Ogni giorno sempre la solita 107 storia, non si sente altro quando siamo seduti tutti riuniti al tavolo, che la notizia principale della mia testa tra le nuvole. È vero sì, che meccanicamente lascio cadere tutto; automaticamente sono distratto, ma così è come se mi difendessi da una Morale sovrastante che mi sovrasta – proprio come la divinità madre – e che si incarna nelle parole – purtroppo, anche in quella del padre. Pensieroso lo sono. So anche che mi considerano tutti un poco strano. Io mi considero picchiatello, (grazie padre, perché sempre a te devo tutte le scoperte mie più interessanti: è che mi conosci meglio di tutti, tu!), ma se ne parlo con gli amici nessuno sembra in grado di cogliere il riferimento… troppo giovani, più di me, senz’altro! Spero di non aver dimenticato niente: ho pagato e pure dato una mancia al “ragazzo” (che altro fare per lui?). Ho preso la mia cartella, non mi sono sporcato né spiegazzato l’orlo dei pantaloni né impiastricciato nel fango delle pozzanghere le scarpe nuove comprate sa-crosan-te-men-te per il nuovo inverno (e che mi dovranno durare almeno fino alla quaresima); e poi, che altro? sono forse un poco in ritardo. Ma qualche minuto aspetta sempre il Sig. Moccia prima di chiudere il portone. Non è antipatico 108 pur svolgendo la sua funzione di guardiano. Forse perché è sciancato, e non pretende andare oltre nelle sue mansioni. Resta solo una faccenda da approfondire per le mie ricerche dei tipi sociali, non psicologici, che di quest’ultimi, forse a torto, chi se ne frega più? E poi, sono mai esistiti? Guardate me! Io dovrei esserne già uno, bello e pronto, confezionato. Ma è meglio smettere di pensare e mettersi in moto. Camminare non mi stanca mai, e ho ancora un altro tratto di salita da fare. Attraversare Piazza San Pasquale, svoltare a sinistra da Via San Pasquale a Chiaia, lì dove c’è il mercatino ogni mercoledì. E trovare il numero 8 di Via Santa Teresa a Chiaia. Camminare, mi distrae anche da me. Chi mi guarda diversamente è Linda. Me ne accorgo appena varco la soglia della sala, tutti sono indaffarati, e anche se lei ha già scelto il suo gruppo di lavoro, eccola che si volta di scatto, come se mi fiutasse, o mi sentisse. Linda come la distesa in lontananza che cercavo di scorgere ovunque mi trovassi, quando con mia padre incominciavamo gli esercizi al suo pianoforte, e per me era la prima volta: linda è il tasto che premo, e il suono che produce, uno per volta, ricominciamo. E la pioggia che batte sui vetri. 109 Le faccio un sorriso, direi piuttosto un semi-sorriso. L’ho ripetuto tante volte in soggiorno, davanti la finestra, fingendo di guardare fuori interessato alla scena che mi si presenta tutti giorni davanti, don Enrico che non ne può più della mancanza di civiltà dei condomini che non hanno ancora capito i principi base della raccolta differenziata, e mescolano tutto in quei bidoni colorati, sorrido a metà, come un ghigno per non farmi scorgere dagli altri che come al solito avrebbero riso loro. Forse per questo non mi riesce, che invece lei si volta di scatto. Mi trovo un posto, l’ultimo rimasto che sono tutti presenti oggi. Anche Luigi che doveva parlarmi (ma durante la pausa pranzo, mi raccomando, che nessuno deve saperlo) e Raffaele che mi si avvicina silenzioso alle spalle credendo di farmi prendere uno spavento. E come di consueto, io ci sto a questo giuoco, che non ho tanti amici, e che tutto sommato, anche se assai scontato e prevedibile Raffaele è un bravo compagno. Ormai sono tre anni che lo conosco. Si può dire che abbiamo varcato insieme il cancello, per la prima volta. Le mie prime vacanze. Mi emoziono a pensarci ancora, perché erano le prime (e da allora le ultime) che abbiamo trascorse insieme. Se penso a quante cose siano cambiate dentro di 110 me da quel momento. Non parlo solo dei miei cambiamenti fisici, del mio peso, della mia postura, della mia voce, del mio sguardo (incupito, mi dicono), ma soprattutto dei miei sentimenti. Se metto a confronto quelli che nutrivo e quelli che nutro ora nei suoi confronti, non ne capisco più niente! Non che i primi – di affetto, di amore, di gratitudine, di amicizia, di calore, di serenità, di sicurezza quando ero con lei – siano cambiati, a questi piuttosto se ne sono aggiunti altri, contrastanti. Ed è questo paesaggio nuovo, non più piatto, come la superficie della luna di un disegno a matita su foglio A4 dello spessore di 0,1 mm, ma discreto, con zone d’ombra, monti e valli che con stupore, un giorno, quando cresci, scorgi su quel bel viso lunare che sembra aver preso ora solo botte, e tutte le notti!, su cui mi muovo come su tasti di pianoforte, grato ad una gravità fittizia che mi tiene in equilibrio, mentre in realtà mi sento in bilico in ogni istante per evitare che i miei piedi calpestino solo degli armonici, gruppi – pacchetti potremmo definirli utilizzando il linguaggio di chi crede al principio di indeterminazione della realtà ultima, quella che trovo fin in fondo al mio cuore – di suoni dissonanti, che ha cambiato pure la mia disposizione verso l’inverno. Quando tutto è più calmo, la casa silenziosa nei giorni di festa, o al mio ritorno da quello che oramai devo 111 anch’io considerare come essere il mio lavoro, e spesso ci troviamo soli, io e lei. Raffaele, come sempre, mi si siede accanto, e incomincia a enumerarmi le “grandi” meraviglie, le “grandi” scoperte che ieri, nel pomeriggio, gli hanno strappato ammirazione e stupore durante le ore trascorse da quella sua zia, un giorno dovrò pure capire perché il suo nome non ricordo mai. Caterina, sì. Così giovane, così bella: bionda come una modella, e delicata. Quelle sua mani lo fanno impazzire, soprattutto, e spesso arrossisce dei pensieri che vorrebbe scacciare via con uno scacciamosche perché nella sua testa sembrano mille di questi diabolici insetti che gli ronzano intorno, e ha pure paura, quel tonto, che gli escano dagli occhi e che lei se ne accorga! Mi chiede se anche a me capita, a volte, di sentire gli animali in testa, dei ronzii, o dei brulichii, quelli poi sono insopportabili, soprattutto quando dalla testa strisciano giù… e qui arrossisce pure con me! Perché arrossire se poi non c’è dato di temere, il futuro si irradia felice e luminoso davanti i nostri giovani corpi, come giorni che non subiranno più le decadi dell’anno! Già si pensa alla riforma del calendario – ne parlavano in questi giorni in aula, esaltandone le qualità 112 disvelatrici, di energie liberate per questo dal futuro, il nostro futuro. Però senza più padri, solo padroni. Perché arrossire ancora come prova del potere, dell’angoscia che si delinea sui volti pure degli innocenti e dei più piccoli: che vengano a me, Signore, dicesti, rappresentante della nostra morte. Anch’io dovrei arrossire allora per questi pensieri che contrastano con tutto l’ambiente che ogni giorno mi circonda, con questa aula di un edificio pubblico che però è addobbata come una chiesa, e che non è più l’irriverente sacrilegio della Napoli dei mille colori della storia, mélange di popoli e di cuori, e anche di oppressioni, ma solo austerità sobria, cioè morta, incolore, di un crocifisso appeso, di un corpo in catene che dovrebbe ricordare la nostra rivoluzione. È così stupido il potere a non rendersi conto del solito compromesso delle coscienze, anche quella dei turbamenti di Raffaele che mi siede accanto e che ora sembra incurante dei suoi pomeridiani assilli, alle prese con l’uomo nuovo di cui non capisce un granché di significato, anche lui sarebbe più vivo di, di, di… Mi si avvicina lei, e io mi sento che sto tradendo, in questo momento così lontano, nel tempo… comunichiamo così poco, e lei, che io amo è così triste e sola ogni 113 giorno che non posso distogliermi dai miei piani di lotta, di evasione, da tutti, dal mondo. Ma perché faccio il duro, che poi lei se ne va, e ridacchia con le amiche, cosa che in genere non sopporto ma mi sembra adorabile, vedere questa volta il suo di rossore. No, non è più timore che la scoprano, è imbarazzo: cioè manifestazione (angosciosa?) del suo desiderio, per me? O per Antonio? Luigi che deve parlarmi, mi fa inviare un pizzino, come fosse un importante e serioso appuntamento di lavoro. Di te mi fido, mi dice. Con le tue risorse, la tua cultura, potrà riuscirci facile, senza cadere nel terrore, nella disperazione, nell’angoscia, quando accadrà, e sarà tra breve, i segni sono premonitori – ricordi le auspici che ci hanno insegnato alla scuola? – ma anche senza ansia, ovvio che sarebbe peggio, con te possiamo camuffare, noi stessi avere più chance di non essere scoperti, senza macchie, pulsazioni o battiti accelerati, e animali striscianti che ti escono dai pori della pelle e dai pensieri nei sogni, come con quel Raffaele lì che non so come tu lo sopporti, etc., etc. Insomma di questo voleva parlarmi, e gli dico che ho bisogno di tempo, che ne abbiamo bisogno entrambi anche se capisco la gravità 114 del momento. So che bisogna rivedersi magari giù da me, a Coroglio, tra quelle rovine del tempio, per rivedere i nostri punti forti, eppure deboli… intanto gli dico tutto questo, ma non i miei pensieri di linda, di qualche istante fa, di crateri, vagine notturne che mi divorano i pensieri, e di telefilm immaginati – in mancanza di buoni programmi alla televisione – affacciato tutte le mattine davanti la finestra di casa, con l’anima che vaga, persa nelle strade, sotto un bidone della spazzatura, nell’attesa, ma non solo, nella certezza di trovare resti, frammenti, bucce di pelli di quell’essere progenitore che ci ha fatti nascere senza conoscenza. E se n’è andato senza lasciare alcun sapere lontano. Solo noi, su questa terra, solo con noi e con la speranza posticcia di mettere un giorno veramente piede sulla luna. Solo noi, senza neanche più loro, l’immagine riflessa dell’occidente opulente, ignorante e stramaledetto, che non ho vissuto, ho solo percepito negli occhi di lui. Mio padre. Come un uomo che non conosco. La giornata non passa mai, in quelle quattro ore imposteci ogni giorno, per una riabilitazione – rispolverando le vecchie dottrine socialiste potremmo parlare pure di una finalità educativa, dell’espoir di un reinserimento sociale, nonostante questa coscienza di non 115 durare, se non nella forma trasmigrata di qualche altra povera e dannata anima – non posso fare a meno di ricordare il mio passato, di desiderarlo come il giorno dopo, quando lei venne ad accogliermi e lui si preparava per accompagnarmi nelle prime ronde notturne dei nostri incontri, per cercare un posto adeguato, adatto, per reperire nuovo e vecchio materiale, per contattare altri come noi. Altri come noi, poi, chi sono? Gli chiedo mentre mi soffermo a tutti quelli che mi sono intorno, che girano, che urlano, che gesticolano, che fingono silenzi carichi di pensieri e di tormenti e che promettono. Altri come noi non hanno nomi di battesimo che risalgono a un secolo fa, o a qualche libro scolorito, o ad un programma ristabilito, riprogrammato, riciclato. Altri come noi bisogna imparare a riconoscerli nei particolari delle mimesi facciali, non nel rossore, nell’imbarazzo, nell’emozione, o nei battiti accelerati del cuore. Non sono quelli che suonano meravigliosamente una sonata di Beethoven al pianoforte, ma quelli, come noi, come me e te, che immaginiamo e sogniamo. Nei sogni mi appaiono questi uomini che hanno rappresentato per anni un’alternativa al blocco di cemento che cola come liquido dai tetti spioventi delle bidonville che circondano il quartiere base di Napoli. Napoli, stazione lunare, 116 sul cratere di un pianeta che si credeva disabitato: adesso è qui con un posticcio vulcano, con un posticcio venditore ambulante figlio di poca gente, qualche costruttore navale costretto a fare e disfare il suo destino. Questa è diventata la città: una finta e lunga cometa che circumnaviga la terra ormai morente e che noi vediamo, talvolta, rappresentata in un fotogramma (o era un fonogramma) nelle scuole di stato del pianeta. Tra i pochi sopravvissuti, il mio programma di reinserimento è di grado alfa dominante: per un uomo nuovo senza più sesso e età, i miei ricordi gli servono però per capire meglio il mondo: per la serenità. I ricordi che mi carpiscono – e che già sbiadiscono in questa dialisi di primo grado che subisco tutte le mattine e a tutte le ore e che mi fanno essere come il gatto di Schrödinger, oppure come l’indiano Talbott di Philip K. Dick – servono solo a munirsi di anticorpi, oppure a creare virus, di nuovi. Che tanto non riusciranno mai a riprodurre tutto il passato, e dovremo accontentarci solo di una vita scialba, insulsa e incolore, come quella che sto vivendo, interminabile, nelle mie quattro ore. Mi manca quella donna che persi e che pure mi accompagna, nelle melodie che faccio rivivere 117 ogni giorno per loro; nella luce pomeridiana di quando andavamo a rincorrerci alla Villa Floridiana per aspettare lui dalla Funicolare. Andavo a distenderci sui prati, davanti al panorama mozzafiato di una città dalle ore sempre contate che per questo ci sembrava infinita, come lo zero: un lungo attimo dilatato nella coscienza e nei pori. Nell’albero sotto casa e in don Enrico che sbuffava. Ecco che arriva il momento di ritornare, di ripercorrere quel cammino di tanti anni fa, di dover essere attento ai particolari, di accompagnare Raffaele, per spiegargli dell’erezione e dei normali sintomi di eccitazione-attrazione-innamoramento. Del significato delle mani come oggetto fallico e del grand Autre. Questo grande Altro diverso dal grande fratello che pure non ho mai letto ma che terrorizza o dovrebbe terrorizzare i sogni di tutti noi bambini scomparsi prematuramente – i sogni, non i bambini, anche se, se scompaiono quelli, come potremmo distinguere questi? Devo ricordare, devo ricordare tutto per riuscire a sopravvivere, ma proprio questo accavallare fatti, nomi, epoche e luoghi, crea quel tormento che mi rende diverso, debole e più sottoposto malgrado l’enorme lavoro e l’enorme esperienza che compirono loro, i miei genitori adottivi, con me. 118 La luce soffusa delle lampadine gialle che illuminano i lampioni, circondandoli di un’aurea benjaminiana stringe il cuore. Quest’aura elettrica dell’elettricità scambiata per poche vecchie lire, al baratto della Fiera città, la Mostra d’oltremare. Altro nome esotico, come un viaggio diderotiano nel materialismo assoluto, perché più lontano. Una lista di libri è altra cosa da fare. Riempire i miei pomeriggi, non più giù al parco, perché non c’è senso anche se dovrei insegnare i bambini a giocare, a cantare. Ma sono troppo stanco e mi sento già vecchio. Riflesso nella luce dei lampioni che per miracolo si accendono ad ogni mio passo, lì, lungo la svolta del piazzale che s’immette su via Posillipo, a largo Sermoneta rifletto, guardando dal lato del mare, guardando le riproduzioni del bagno Elena che neanche io conobbi, forse mia madre. Ricordo di una sua foto in bianco e nero: riccioli d’oro che non si scorgevano però si intuivano dal viso, la foto del volto sorridente, aggraziato, labbra carnose, che mi diceva(no), non sembrava napoletana, sennò della stirpe più alta, nobiliare, mentre invece era una paesana amata e desiderata da tutti. Ecco bagno Elena: così si chiamava. Era in bianco e nero. China sul bagnasciuga con una sigaretta tra le labbra. 119 Perché riprodurre in-fi-ni-ta-men-te una scena, nella memoria e nello sguardo di tutti? Come nella città in costruzione, ché già sembra subire un’apocalissi, ma che invece nasce sotto il mio sguardo, le mie parole, nelle quattro ore dell’alba, ogni giorno, un poco in ritardo alla stessa ora, con lo stesso sguardo. Non che mi seguano, no, finanche, nei miei pensieri. È la malinconia inarrivabile e impercettibile che ricopre come la bruma, come quella luce dei lampioni elettrica, che scende piano, ovattata, come un velo, una palpebra, una membrana (il Debussy di Arturo Benedetti Michelangeli o il Leopardi di Torre del Greco). Infinite, insondabili letture come elettroshock per i più fragili, come composti di cera a edificare la storia. A riscriverla. Sui loro corpi. Con le mie intonazioni, le miei inflessioni. I miei gusti musicali. Con la materia viva, parcellizzata a parcellizzare di souvenir nascosti durante le ore di sonno. Madre stanca, partorita dormiente. Che raccontavo loro, che erano la copia identica, esatta dei miei genitori. I miei veri, unici eroi. Ritrovarmeli un giorno, quando la città, quella malsana, putridamente eruttava ed ogni contatto si arresta. E io me li ritrovo di nuovo a 120 casa, sul bordo del mare, per essere risvegliato piano, per essere incorniciato per sempre nel mio passato che dura un attimo, un istante infinito carico di futuro, a leggere libri di storia e ogni sorta di materiale pornografico. Ovvero opuscoli che ti danno alla stazione radio, per apprendere il tuo compito. E per questo ti presentano loro. I tuoi nuovi, vecchi genitori. Da ricostruire. Da amare. Due persone che litigano: non so chi glielo abbia insegnato. Cabaret di strada, bordello oserei suggerire. Mi avvicino per scorgere meglio, e per intuirne la fonte originale, per assaporare, di nuovo, finché posso, il vecchio contesto: Eduardo (l’avv. Fattibene) con suo figlio Luigi, Il Palo (Luigi Poveretti), al Circolo della Caccia, al posto del sesto piano do’ vico Scassacocchi, traversa via dei Tribunali. Un uomo dice di non aver guardato “storto”, cioè ammiccando un sorriso sberleffo, con gli occhi, l’altro seduto al lato opposto e intento a leggere un giornale – il solito Mattino! Ma forse è una riproduzione originale? E così, lui che si sente offeso si sente richiamato da un antico istinto di spazio da conquistare su quel piccolo e stretto marciapiede che costeggia la 121 collinetta di Posillipo, ad inaugurare la strofa di controcanto: Embè, che guardi a fare? Gli suggerisce pure una battuta per chiudere la scena, anziché portarla per le lunghe e attendere la replica dell’incurante dallo sguardo svelto, fuorilegge – che poverino, così l’hanno confezionato –, addirittura con un cappello modello panama e dell’ombretto rosa su guance e occhi, rossetto scuro e occhiello. Un tipico figuro di tanti anni fa. Questa sembra diventata la città: una finta messa-in-scena, in cui si scambiano e si invertono i ruoli, e a me mi tocca camminare, guardare, forse sorridere un po’ per partecipare, e a volte pure donare spiegazioni. Quando il sipario, ovviamente, cala. E la luna va a dormire, e si vede il suo riflesso sul mare che si allontana, che intanto lei gira, ruota, viaggia. E ci si dona un rendez-vous d’amanti per la prossima puntata. Intanto lei mi aspetta, da dietro la finestra. Questa volta la scorgo, vedendola da lontano, a piedi, sotto la luce del faro, come la tempesta. Questa volta, penso, l’inverno potrebbe finire per sempre, cioè non farmi più paura. Penso di avere le ore contate, e il mio desiderio più 122 intimo, nascosto, che non rivelo, nemmeno nelle prime, vulnerabili, quattro ore della giornata, quando sono veramente stanco, per lo sforzo di rivivere tutto, raccontare, trasmettere, e pure combattere contro di me e dentro di me… quella fiammella incondizionata, che ancora conservo, nonostante viaggi intergalattici che un tempo, bambini ci avrebbero fatto sognare, e invece, se realizzati, adesso rendono solo sfiniti, più pessimisti ancora di quanto non lo fossimo già un tempo, perché non c’è più possibilità di ritorno, quel desiderio sopravvive a lei che mi ha accolto, che forse mi ha amato imparando, come le dissi di mia madre, guardando quella riproduzione sbiadita della foto anni cinquanta dei Bagni Elena di Posillipo. Lei mi attende finalmente, mi desidera come una donna madre, mentre il padre è ormai assente a fare la guerra: mio padre che mi insegnava tutto e a cui io ho trasmesso il segreto della morte, l’arma letale del compromesso, o meglio, forse del sentimentalismo/ nazionalismo. Non quell’uomo integerrimo che si avvicinava a me tanti anni luce fa, mentre disegnavo, e mi indicava col dito, sul foglio bianco, l’altro lato, l’altra metà. Da attraversare sprezzante, senza disegnare. Ad occhi aperti, provare a rivedere, ovunque fossi, oltre. E si 123 raccomandava, conscio forse dei miei giovanili ardori; della mia poca esperienza, e molta inesperienza. Che lui cercava di colmare con la bellezza, con quel poco che le passeggiate su per le colline, e per i ruderi, i castelli, arena e spiagge, e finanche l’acqua del mare, della sua amata Napoli, svuotata come un museo, gli consentisse di ricreare, sentendo quella lava sotto i piedi. Che forse un giorno sarebbe esplosa, inghiottendo tutti. E se impreparati i più forti, cioè ignoranti e ricchi, avrebbero vinto per sempre. Perché – mi diceva – come ricostruire quattromila anni di storia. Ovvero, per essere sinceri, e più scientifici, l’altra metà, quella all’inverso. La più bella, la storia ancora non scritta. Solo i progressi per tutti ci avrebbero fatti ripartire da capo. Riformattati. Mentre io, invece, sono uno strano programma, che miscela bello e brutto. Come una macchina, ma in strange loop. Perché tanto ho assorbito, pur senza volerlo, e saperlo: dalla maestra nei miei primi anni di scuola, pei conventi dai preti – anche senza saio, tonaca o toga – nel mondo che la televisione lasciava entrare per le finestre. La musica americana (anche se il jazz mio padre l’amava). 124 Sempre a spiegarmi tutto, a farmi la controstoria, sennò che sfizio c’è, mi diceva, essere attraversati così dalla vita e dal tempo? Io, padre, quelli come noi li ho trasformati con le mie stesse parole. E ogni giorno ripetendo lo stesso tragitto emozionale, con minuscole intonazioni o alterazioni, vedevo prendere forma le miei emozioni, cioè, come nei sogni, animarli in voi, quindi in me, nei miei sentimenti ambivalenti che solo ora, comprendo, nutrivo per voi. Ora che tutto è distorto, confuso, eppure così i-nu-ma-no. Anche le scarpe da cambiare prima di pasqua o il torrone da comprare a Piazza Mercato per il giorno dei morti. Per non parlare della Befana! Una vecchia ringrinzita! Tutta la mia infanzia, irrecuperabile e irrisolta, tutti i miei istinti, anzi pulsioni, ho messo in quegli occhi cloni, per svuotarmi di me e di voi, dello spettro del mondo, di quella città assente che dico essere stupenda, e che riproduco perfettamente – anzi riproducono, sulla base di quei modelli che ci divertimmo un giorno a fabbricare insieme: di quello che resta, nelle miei misere riproduzioni. E che pure hanno costato la tua morte che continua, come vita, nella mia. E che io lascio in dono perché stanco. Un bambino già vecchio, un animale già uomo, nasco. Mi arrendo. 125 Una città già sola, in solitude, si risveglia ogni giorno. E l’inverno incomincia a farmi paura, proprio come le classiche ombre del passato (ma quale?) che ritorna a chiedere il conto. Tutto questo vorrei dirle, già condannata mi aspetti come ogni sera e come ogni mattino, alla porta di casa, o alla finestra, mentre io mi affollo, mi quadruplico o centuplico nei ricordi appassiti, come fiori avvizziti della storia. Una madre già morta, speranzosa per un figlio tiranno, che non le appartiene. E che la ucciderà, inseguendo invece la legge del Padre, quella che io avrei potuto sovvertire di nascosto, come mi insegnasti tu, o padre, e come il Cristo risorto, nell’ambivalenza del perché del non senso, restauro restituendola a questi essere vuoti, pronti ad essere riempiti del mio flatus vocis. Ma la notte è calata: e lei, sempre lì ad attendermi, non si accorge della mia decisione presa. Di non superare il Parco delle Rimembranze – mai nome fu oggi più appropriato: no, non voglio perpetuare questo eden ma cadere nell’oblio, nel mio oblio. Anche senza che tu te ne accorga. Alla finestra per sempre. Come un presagio di Rivoluzione voglio che tu mi attenda. Lui, l’uomo che ti è stato messo al tuo fianco non ritornerà più. Nei miei ricordi, ma forse sarebbe più opportuno parlare 126 di invenzioni della memoria, decisi di ucciderlo, e fu presto fatto. Ma ora, sappi che tutto mi appartiene: questo misero satellite, quest’aria di malinconia inguaribile, questo inutile struggimento. Ora potrei fare lo stesso, ma nel segno inverso! Eppure, la pietà, il dolore di vederti soffrire per la verità, mi suggerisce saggiamente di prendere la strada della scogliera, lì di nuovo nel sacro tempio dedicato a Coroglio, quel mostro marino, come mi divertivo a chiamarlo con mio padre, quando ancora gli operai gli rendevano grazia e luce, e suoni riempiendolo di impossibili odori. Perso tra quelle macerie dei miei ricordi, potrei fare un sacrificio: immolarmi per loro e con loro. Costruire la mia vendetta. Questo c’è da fare: autodistruggersi senza salvare più nessuno: né Raffaele, né Antonio, ne Luigi, né Lei, e neanche Linda… Che una bambina sappia cambiare il mondo? Piccola guerriera che ti vedo spaurita tra mille occhi e mille mani che ti bramano ad ogni costo, che ti vogliono cambiare, che già sei putrida fino all’osso. No, non posso fermare tutto, lasciando scorrere l’allegria della morte invadere le strade, anche per te. Anche tu sei 127 nata già morta, partorita da pochi superstiti, anche tu sei figlia di nessuno. Non più mia. Come Napoli, tu sei questa città morta, e sepolta. Salgo lentamente le scale. Tu mi apri la porta senza che io provi neanche a suonare il campanello, o ad alitare più forte, per farti sentire il mio respiro, per riempirti della mia presenza. Sono abitudinario, il mio mondo, spoglio, la mia fantasia povera. Poche memorie. E solo bisogno di sicurezza. 128 Indice GEMMA 3 8 GIUGNO, LUNEDÌ 5 10 GIUGNO, MERCOLEDÌ 11 15 GIUGNO, LUNEDÌ 14 16 GIUGNO, MARTEDÌ 18 Fiutando tra i vicoli 21 Strani pensieri a Trinità degli spagnoli 24 21 GIUGNO, DOMENICA 27 L’arte di Sisa 31 25 GIUGNO, GIOVEDÌ 35 VENERDÌ MATTINA 40 28 GIUGNO, DOMENICA 48 TRA LUGLIO E SETTEMBRE (APPUNTI) 54 APPUNTI N. 1 58 APPUNTI 10 LUGLIO, DISCESA AL MARE 129 63 GENTE DELL’ISOLA 68 APPUNTI N. 71 4 APPUNTI N. 5, SABATO POMERIGGIO 74 APPUNTI, DOMENICA SERA 77 APPUNTI 1 SETTEMBRE, VENERDÌ 80 SERA 84 MACCHERONI 87 APPUNTI N. 91 10, MARTEDÌ 5 SETTEMBRE 93 INVITI ORAZIO 97 130