NEL SEGNO DI ALDO. LE EDIZIONI DI ALDO MANUZIO NELLA

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NEL SEGNO DI ALDO. LE EDIZIONI DI ALDO MANUZIO NELLA
NEL SEGNO DI ALDO. LE EDIZIONI DI ALDO MANUZIO
NELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI BOLOGNA
30 OTTOBRE 2015 - 16 GENNAIO 2016
MATERIALI INTEGRATIVI
L’OFFICINA TIPOGRAFICA
Con il termine tipografia si intende l'arte di comporre e stampare libri o altri lavori per mezzo di
tipi, cioè di caratteri mobili e, allo stesso tempo, si indica anche l'officina nella quale si compone, si
stampa e si fa l'allestimento dei testi.
Prima di Johann Gutenberg (1400-1468 circa), esisteva già un procedimento di stampa a matrici
metalliche e lignee a caratteri fissi, ma l’intuizione del tipografo di Magonza – che, non a caso, era
orafo di professione – fu quella di separare le lettere dell’alfabeto e i segni speciali, per poterle
scomporre e ricomporre a formare le pagine. Gutenberg inventò, insomma, il sistema dei caratteri
mobili, che furono l’autentica rivoluzione della scrittura che gli umanisti chiamavano «artificialis».
In realtà, in Cina il procedimento era già noto, e si hanno notizie di libri impressi con caratteri mobili
in Corea già dal secolo XII, ma la distanza e la mancanza di comunicazioni dovrebbero fare escludere
che esso possa essere stato conosciuto e imitato oltre i confini asiatici.
Opera di Gutenberg e primo capolavoro della neonata arte tipografica è la celebre Bibbia delle 42
linee (nota anche col nome di Bibbia Mazarina), su due colonne di 40 o 42 linee ciascuna stampate
con grossi caratteri gotici in rosso e nero, terminata verso il 1454-55.
La prima macchina da stampa è il torchio creato dal Gutenberg. L'idea di questa macchina gli venne
suggerita vedendo uno strettoio da uva, in campagna. Palesò questa idea a un suo amico, lavorante
in legno, tale Conrad Saspach, il quale tradusse in atto la geniale idea del Gutenberg. Il torchio di
legno, successivamente modificato e migliorato, fu adoperato dai più grandi maestri tipografi italiani,
e per oltre tre secoli uscirono da esso migliaia di edizioni meravigliose, che formano anche oggi
l'orgoglio della prima epoca della stampa.
Alla base di questa produttività, sta una efficiente organizzazione del lavoro all’interno dell’officina
tipografica, con una chiara suddivisione dei compiti. Due tipi di addetti, punzonisti e fonditori, si
occupano della preparazione dei caratteri. I primi – spesso provenienti dal mondo dell’oreficeria,
come lo stesso Gutenberg, per la precisione richiesta nel mestiere – incidono le matrici dei caratteri; i
secondi le fondono per creare i tipi di metallo, costituiti da una lega metallica di piombo,
antimonio e stagno, in proporzioni differenti a seconda che si voglia ottenere una lega più dura o
più tenera. Ogni tipo ha la forma di un parallelepipedo a sei facce, e ogni carattere di testo ha il
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tondo e il corsivo. Il carattere tondo comprende il maiuscolo, il maiuscoletto e il minuscolo; il
carattere corsivo comprende solo il maiuscolo e il minuscolo.
I caratteri, poi, divisi per tipo e per lettera, vengono riposti nella cassa tipografica, divisa in due
parti: una per l'alfabeto minuscolo, le interpunzioni, e i bianchi tipografici, che si chiama bassa
cassa; l'altra per l'alfabeto maiuscolo e maiuscoletto, le lettere accentate maiuscole e minuscole e
qualche altro segno, si chiama alta cassa.
Da qui, i caratteri vengono selezionati dai compositori che, utilizzando una base detta compositoio,
costruiscono l'ordinata formazione delle parole e delle linee: ovviamente la composizione delle
parole deve essere speculare, da destra verso sinistra, per poi essere impressa sulla pagina dal
giusto lato.
Dopo che le forme delle pagine sono state composte, il blocco relativo viene legato con spago, onde
evitare che la composizione si sfasci. A questo punto entra in scena chi si occupa dell’impressione
fisica: i battitori, ovvero gli addetti all’inchiostratura delle forme, con appositi mazzi (il modo di
dire farsi il mazzo per indicare un’attività molto faticosa deriva proprio da questo mestiere, che
richiedeva uno sforzo fisico notevole), e i torcolieri, i veri addetti all’utilizzo del torchio, che
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assestano il colpo attraverso la pressione del quale si produce l’impressione della forma inchiostrata
sul foglio, lasciato umido per assorbire meglio l’inchiostro.
Si sa che tra Quattro e Cinquecento la struttura della bottega di Aldo Manuzio, situata in Campo San
Patermian a Venezia, annoverava all’incirca una ventina di operai tra compositori e torcolieri, senza
contare i collaboratori a livello editoriale, tra cui figuravano nomi illustri per l’epoca quali Pietro
Bembo, Costantino Lascaris, Erasmo da Rotterdam, Marco Musuro. Le spese vive di gestione
dell’impresa ammontavano all’incirca a cento ducati al mese, una somma considerevole per l’epoca
se si considera che Aldo poteva già contare sui torchi e le serie di caratteri che il socio – e suocero –
Andrea Torresani aveva precedentemente rilevato da Nicolas Jenson.
E la tipografia di Manuzio non era nemmeno una delle più grandi, per l’epoca. Anton Koberger,
tipografo di Norimberga, a fine Quattrocento disponeva di 24 torchi e almeno un centinaio tra
compositori, torcolieri, correttori, miniatori e legatori.
STAMPA SÌ, STAMPA NO
Non tutti sono a favore della stampa, ovviamente, nel momento in cui compare sulla scena.
Molti predicatori si scagliano contro questa “nuova invenzione” con poemetti aspri e canzonatori:
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Filippo da Strada, ad esempio, predicatore domenicano, scrive un poemetto – Lection de l’asinello –
con protagonista un ignorantone che peggiora il suo stato leggendo le versioni a stampa delle
scritture.
“Asino fu’ prima, nanci che leggesse
Libri istampati, e asino tenuto
Sempre serò come se rugesse.
Stampe scoprendo me hanno fatto brutto
Ben che nel vero sia asino da natura.”
E, alla fine, il predicatore consiglia di “Non lassa la via veggia per la nuova.”
Vespasiano da Bisticci (biografo di papa Niccolò V), riferendosi alla biblioteca di Federico da
Montefeltro, signore di Urbino e uno dei massimi collezionisti dell’epoca, la elogia così:
“In quella libraria, i libri sono tutti belli in superlativo grado, tutti iscritti
a penna, e non ve n’è ignuno a stampa, che se ne sarebbe vergognato.”
Ma molti altri ne colgono, invece, fin da subito la portata rivoluzionaria.
Bettino da Trezzo, rimatore (1487), descrive così il nuovo mestiere:
“Li stampatori de la nuova forma
Trovata per far libri in abondantia
Mertan per tutt’el mondo nominancia
Et gloria et fructo com notabel norma,
perciò che pel su mezo se pon fare
letrate et docte tutte le persone
ch’an intelecto, cum le mette prone
al studio, et tamen io li tomare.”
Addirittura l’umanista Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, già nel 1454, presenziando alla
dieta imperiale di Francoforte ebbe modo di vedere con i propri occhi alcuni fogli stampati della
Bibbia di Gutenberg e ne rimase entusiasta: in una lettera indirizzata al cardinale spagnolo Juan de
Carvajal del 12 marzo 1454 l’umanista scrive che pochi mesi prima a Francoforte un “vir mirabilis”
gli aveva mostrato alcuni fogli di una Bibbia in latino “realizzati con una scrittura nitidissima e
corretta” tanto da poterli leggere “senza occhiali”.
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ALDO MANUZIO E IL TASCABILE
Il libro dal formato in ottavo piccolo (enchiridion, dal greco, libro che sta nel palmo di una mano), è il
vero veicolo della rivoluzione culturale che segue all’invenzione della stampa. Il libro, inizialmente
prodotto ingombrante e destinato soltanto al pulpito e ai plutei o agli scaffali degli studioli di
religiosi, professori, medici, giuristi e altri letterati, cambia veste e si trasforma in compagno, che può
seguire il lettore ovunque, fuori dai luoghi del sapere e dell’erudizione.
Manuzio è pienamente consapevole della rivoluzione che stava suscitando. Scrivendo a Marin Sanudo
per dedicargli l’Orazio, nel 1501, gli faceva notare che un libro portatile consentiva la lettura nei
momenti liberi dalle occupazioni politiche o di studio, mentre al condottiero Bartolomeo d'Alviano
suggeriva di tenere con sé i libri di piccolo formato nelle campagne militari.
Questo nuovo approccio con l’oggetto libro, diretto e personale, si diffonde velocemente in tutta
Europa, così come i libri portatili di Aldo.
L’idea della lettura come esperienza quotidiana, che si inserisce nei vari aspetti della vita di ciascuno,
colpisce a tal punto l’immaginario da entrare sia nella letteratura che nell’iconografia del tempo,
come dimostra la storia dell’arte del XVI secolo.
Nel dipinto di sinistra, il ritratto del Giovane con il libro verde di Giorgione (1503), il vero
protagonista è il piccolo volume, richiamo alle Aldine. Esso diventa subito un pregiato oggetto alla
moda, un must have per l’epoca, a tal punto che questo giovane taglia il suo guanto per poter girare
meglio i fogli.
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Il Ritratto d'uomo col petrarchino del Correggio (1522 circa), a destra, mostra invece l’abitudine di
passeggiare nel boschi e nei giardini con il libro in mano, pratica oggi del tutto ordinaria ma
assolutamente rivoluzionaria per l'epoca, di cui ci resta anche una illustre testimonianza letteraria di
Niccolò Machiavelli, nella sua celebre Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513:
“Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio
uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti
minori, come Tibullo, Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose
passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in
questo pensiero.”
Si noti che Dante, Petrarca e anche Tibullo, Ovidio [Properzio], sono proprio tre titoli appartenenti al
catalogo editoriale di Manuzio, tutti in ottavo piccolo, quindi è verosimile pensare che il libriccino che
Machiavelli si era portato nel bosco fosse proprio una delle edizioni aldine.
Perfino il termine di petrarchino è un neologismo dell’epoca di Manuzio, che si riferisce all’edizione
in formato portatile delle opere di Francesco Petrarca, che ebbe una tale fortuna e diffusione nel XVI
secolo da meritare addirittura un appellativo ad hoc. Una delle prime e più eleganti tra queste
edizioni, Le cose volgari, è proprio quella curata da Pietro Bembo e pubblicata nel 1501 da Manuzio,
anch’essa estremamente ricercata e acquistata da uomini e donne di cultura del tempo, come
dimostrano altri due dipinti dell’epoca: la Dama col Petrarchino di Andrea del Sarto (a sinistra), il
Ritratto di giovane con petrarchino di Lorenzo Lotto (1524-1526), oppure il Ritratto di Laura
Battiferri del Bronzino (a destra).
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