LA BACHICOLTURA

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LA BACHICOLTURA
LA BACHICOLTURA:
DAL PASSATO AD OGGI
Di Beatrice Bernasconi
Seconda A Agri
ETIMOLOGIA Il termine bachicoltura, sta per "coltura del baco". Sericoltura invece, deriva dal latino "sericus", seta, dal quale poi deriverà il termine italiano sericite, minerale molto diffuso in oriente, di lucentezza pari a quella della seta. STORIA La bachicoltura comincia ad essere praticata in Cina, probabilmente già nel VII millennio a.C. La leggenda dice che la sua nascita si deve all'imperatore Xi Ling Shi. Per millenni fu un procedimento tenuto segreto, in modo da poter mantenere il monopolio cinese della produzione della seta. Nonostante ciò, in epoche successive, si sono verificate fughe dell'arte della produzione della seta verso Il Giappone, la Corea e l'India. Secondo un'altra tradizione, invece, questo segreto venne svelato da una principessa, andata in sposa ad un re del Tibet, la quale nascose fra i capelli le uova del baco, iniziando così lo sviluppo della tecnica anche al di fuori della Cina. EUROPA In Europa, sebbene l'Impero romano conoscesse e apprezzasse la seta, la conoscenza della sericoltura è giunta solo intorno al 550, attraverso l'Impero bizantino; la leggenda dice che monaci agli ordini dell'imperatore Giustiniano furono i primi a portare a Costantinopoli alcune uova di baco da seta nascoste nel cavo di alcune canne. IL XII SECOLO: LA SETA ARRIVA IN ITALIA Dal XII secolo l'Italia fu la maggior produttrice europea di seta, primato che le venne conteso dalla zona di Lione in Francia nel XVII secolo. L'allevamento dei bachi fu un importante reddito di supporto all'economia agricola e la produzione e commercio di tessuti, assieme a quella della lana, un'industria molto redditizia, che diede ricchezza e potere alle corporazioni che praticavano l'Arte della Seta a Firenze. Con la rivoluzione industriale la bachicoltura ebbe un grande sviluppo, soprattutto nel nord Italia, per fornire le nascenti filande industriali di materia prima. La sua diffusione in Italia , e più precisamente in Sicilia, sarebbe avvenuta attorno all'anno mille durante il regno di Ruggero II e da quel momento si sarebbe sviluppata in tutta la penisola l'attività di produzione serica. La bachicoltura, quindi, in Italia, nacque circa 1000 anni fa e in breve all’attività di allevamento e produzione di bozzoli si associarono altre attività correlate, quali la produzione dei semi bachi, l’industria della filatura e quella della tessitura. Lo sviluppo della bachicultura nelle principali città del centro‐nord, in particolare nelle zone della Lomellina, e l’invenzione dei primi meccanismi di torcitura e filatura della seta, originano nel XIV secolo, per opera di Lodovico il Moro (soprannominato così dal nome scientifico dei gelsi, bombix mori), a partire dalla zona di Vigevano, allevamenti di bachi e semenzai di gelsi diffusi poi nel suo ducato. L’attività di gelsibachicoltura comunque raggiunse il suo primato in Lomellina, dove la bachicoltura subisce un elevato sviluppo grazie alla successiva lavorazione della seta e alla specializzazione acquisita dagli operatori nella selezione qualitativa del seme‐bachi e nella gestione degli allevamenti; qui si realizzarono i primi allevamenti costituiti da ambienti controllati per la crescita degli insetti e si adottarono essiccatori ad aria calda per l’essicazione delle crisalidi. IL LAVORO NELLA FILANDA Sorsero, quindi, le filande, opifici importanti per l’economia, in cui i bozzoli venivano trasformati in matassa di seta. Le filande rappresentavano l'unica possibile realtà occupazionale per molte donne che cominciavano ad essere avviate all’attività già all’età di 12 anni circa. Le operaie di una filanda dette filandaie avevano compiti diversi ed erano, pertanto, suddivise in tre categorie: batusèti, tacarèni, filèri. Le prime erano le bambine inesperte alle quali era affidato il compito di immergere i bozzoli nell’acqua bollente e spazzolarli per trovare il filo iniziale da passare alle filèri. Queste dovevano inserire i numerosi fili di seta nelle filiere, ma il compito più arduo era quello delle tacarèni, che dovevano , in fretta e con mani esperte, riannodare i capi quando i fili si rompevano. Il lavoro era molto duro, e il salario variava con l’abilità e l’anzianità della lavorante: 45 a 90 centesimi al giorno, per le bambine con meno di 12 anni 20 centesimi e veniva loro concesso di lavorare solo una mezza giornata, per le aiutanti invece, era di 40‐45 centesimi. Inoltre, se il risultato non era soddisfacente veniva imposta la sospensione dell’attività per un numero di giornate variabili con l’entità del danno, punizione, questa, molto dura per le povere operaie, che generalmente avevano una famiglia da mantenere. Poiché il lavoro in filanda non prevedeva particolare preparazione, e per la disponibilità di manodopera, la sostituzione di un operaio poteva avvenire senza problemi di sorta. Questa situazione costituiva un implicito ricatto per le addette, per il pericolo di perdere il posto e il già misero salario. Anche l’igiene del lavoro era scadente: estenuanti gli orari di lavoro per gli addetti alla torcitura del filato, che andavano dalle 11 alle 14 ore e mezza al giorno; mentre le filandaie erano costrette a lavorare in un ambiente afoso, a circa 50°C di temperatura, a respirare un’aria nauseabonda, in ambienti le cui finestre dovevano rimanere chiuse, per evitare che spostamenti d’aria potessero agire negativamente sugli aspi e per mantenere un’umidità costante, necessaria a filare la seta. L’ambiente malsano, la durezza del lavoro, l’assenza di precauzioni igieniche, i contatti tra individui debilitati e spesso ammalati favorivano il contagio e la diffusione di malattie quali la tubercolosi. IL DECLINO ITALIANO La produzione di bozzoli in Italia cominciò a declinare nel periodo tra le due guerre mondiali fino a scomparire dopo l'ultima, a causa di due fattori: la produzione di fibre sintetiche e il cambiamento dell'organizzazione agricola, dove l'allevamento dei bachi era affidato ai singoli contadini e mezzadri soprattutto alle donne e ai bambini. Con l'inurbamento e l'industrializzazione la concorrenza estera divenne insostenibile. Anche nei paesi dove era più presente questa attività, all'inizio del XX secolo, il progressivo sviluppo della risicoltura, provocò la diminuzione dei gelsi e inevitabili effetti sulla produzione della seta tanto da indurre, nel 1911, la Cattedra ambulante dell'Agricoltura a schierarsi contro l'espansione di questa pratica agricola. Tuttavia un duro colpo viene inferto alla sericoltura anche dall'industrializzazione progressiva del paese, dalla scoperta (anni '30) della seta artificiale e dalla meccanizzazione dei lavori agricoli che ha costretto nel tempo all'eradicazione delle piante di gelso per maggior agio al passaggio dei mezzi agricoli motorizzati. La produzione di seta, quindi, diminuisce progressivamente in Lomellina fino a che, intorno alla Seconda Guerra mondiale, si avrà la sua totale scomparsa. Dati statistici in merito alla produttività dei bozzoli, su territorio nazionale, sono relativamente recenti (1980) e indicano una crescita di questa fino all’avvento della prima guerra mondiale, un comprensibile flesso della produzione durante il periodo bellico e una successiva ripresa nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale, dopo la quale tende a scomparire quasi ovunque. Marche, Veneto e Lombardia furono le regioni italiane ove si concentrò l’attività produttiva del seme bachi. Peculiare osservare che, mentre nella seconda metà del ‘900 l’attività nazionale generalmente scemava, alcune regioni italiane mai coinvolte in questa produzione provarono a lanciarla. Ciò accadde ad esempio in Trentino, nel Friuli Venezia Giulia, in Calabria, Puglia e Campania, ma alla fine del secolo scorso solo Friuli Venezia Giulia e Calabria mantennero una blanda attività produttiva di bozzoli. Oggi la bachicoltura in Italia è praticamente scomparsa, poche aziende allevano bachi per una piccola produzione artigianale di nicchia o come esempio didattico. Degna di segnalazione è la Sezione specializzata per la bachicoltura di Padova. Attualmente anche l’attività di filatura si è estinta ma resiste quella di tessitura con livelli quantitativi e qualitativi tali da rappresentare ancora un riferimento mondiale, seppure basata sull’importazione della materia prima. L'ALLEVAMENTO DEL BACO Il baco (bigat, burdocc, cavalier in dialetto) si nutre esclusivamente delle foglie dei gelsi, piante del genere Morus (famiglia Moraceae). Esistono due varietà di gelso: ‐ il gelso bianco proveniente dalla Cina, dove era già coltivato in tempi antichi: pianta secolare di notevole altezza, dalla chioma globosa. Possiede foglie cuoriformi, dentate e di colore verde chiaro;(Morus alba) ‐ il gelso nero, originario della Persia. È più robusto, ma di dimensioni più ridotte rispetto alla precedente varietà, dalla quale si distingue altresì per le foglie ruvide, verde scuro e dalla superficie inferiore pelosa. Meno adatta nell'alimentazione del baco da seta.(Morusnigra) La gelsicoltura non richiede un elevato carico di lavoro, ad eccezione della potatura annuale. Le uova (dette semenza) si schiudono tra la fine di aprile e l'inizio di maggio, quando le foglie sugli alberi si sono completamente formate. Si sviluppa attraverso quattro mute (cambi di pelle) fino alla costruzione del bozzolo: La prima età larvale (una settimana circa) La seconda età larvale (una settimana circa) La terza età larvale (cinque giorni circa) La quarta età larvale (cinque giorni circa) La quinta età larvale (quattro giorni circa) Salita al bosco al completamento del bozzolo serico L'allevamento veniva curato nelle case dei contadini e le stanze adibite a questo scopo avevano, oltre alle finestre, aperture supplementari sopra le porte o sotto le finestre stesse per garantire l'aerazione. Per contenere i bachi si costruivano graticci o intelaiature in legno con fondo in canne o tela, sovrapponibili per risparmiare spazio. I piccoli bachi nati dalle uova venivano messi sui graticci e alimentati con foglia fresca finemente trinciata, i letti periodicamente ripuliti per evitare malattie al baco. Alla terza età la foglia veniva somministrata più volte al giorno, intera, ed alla quarta, con tutto il ramo. In 27/28 giorni, passando attraverso quattro dormite, i bachi crescevano fino a diventare lunghi 7/8 centimetri ed insieme a loro cresceva la quantità di cibo necessaria e lo spazio occupato. LA FILATURA DEL BOZZOLO Le fasi, grazie alle quali si ricavava la seta, si svolgevano alla filanda. La prima operazione constava nella pulitura che, realizzata a mano, liberava dai filamenti i bozzoli meno consistenti. Seguiva, poi, la stufatura, un'attività che con appositi essiccatoi consentiva di uccidere le crisalidi. Si procedeva, quindi, alla cernita, mediante la quale erano eliminati i bozzoli incompleti, e alla trattura. Questa avveniva immergendo inizialmente il bozzolo in acqua bollente, una tecnica con cui era possibile sciogliere il capo del filo di seta che, avvolto su un aspo in rotazione, veniva così completamente dipanato. I singoli filamenti venivano in seguito uniti in gruppi di 3, 4 o 5 e fatti passare attraverso un foro (filera). Ciò avrebbe permesso la completa produzione del filato. Per ottenere tessuti più fini, si procedeva alla torcitura, detta impropriamente filatura: la seta, disposta sugli aspi in matasse, era attorcigliata più volte su una serie di rocchetti (incannatura e stroncatura). LA BACHICOLTURA NELLE NOSTE ZONE: A BRINZIO… Tale attività riveste un ruolo marginale in molte località delle Prealpi lombarde, essendo questa un'area a carattere prevalentemente agropastorale. Tuttavia, nel corso dell'Ottocento e ancora nella prima metà del secolo successivo, l'allevamento del baco da seta e la corrispondente gelsicoltura, potevano essere annoverate tra le principali attività produttive lombarde, come nel caso di Como; città che, specialmente in passato, si distinse nella produzione di ricchi tessuti in seta. In molti paesi della provincia di Varese esistono documentazioni e tracce della lavorazione della seta. A Brinzio , per esempio, sono presenti le filande Ranchet nei pressi dell’abitato, esempio di archeologia industriale, oggi in completo stato di abbandono. …E A MALGESSO Una località nota per la bachicoltura è Malgesso. Ma a MALGESSO, come si allevavano i bachi e dove ? Li allevavano tutti, chi più chi meno, secondo la produzione di foglie di gelso. Si tenevano nelle stalle, ma più facilmente in cucina poiché il baco è delicato e si ammala facilmente (pebrina, calcina, atrofia, giallume…). In una cucina dove viveva sempre una famiglia numerosa, dai nonni ai nipotini, stavano anche i tavul, i graticci di canne per stendere “i cavaler”. E si riscaldava la cucina a volte più per i bachi che per le persone! Qualcuno, più fortunato, disponeva di una vera bigatèra, locali adibiti all’allevamento del baco, ma che dovevano essere assolutamente riscaldati (di solito c’era un camino) perché il baco ha bisogno di caldo. Anche le foglie del gelso devono essere asciutte e non si davano da mangiare ai bachi i rami che già portavano i frutti (non maturi). Asciugavano le foglie anche su la “loebia” (loggiato), dove nella giornate più calde si portavano fuori i tavul , perché nel corso delle mute successive i cavaler ingrossavano e occupavano tanto spazio. Tenute al caldo, le uova si schiudevano e ne uscivano dei piccoli bachi. Si sceglievano i migliori e iniziava la crescita: il baco alternava periodo di “letargo” e periodo di “mangiata” di foglie che divorava in quantità sempre maggiore ad ogni nuova muta. Infatti l'epidermide della larva è chitinosa e quindi non elastica per cui il bruco ha necessità di abbandonare il vecchio involucro indurito, dopo essersene formato uno nuovo sottostante. Le quattro “dormite” erano dette “de la prima”, “de la segunda”, “de la terza” e “de la quarta”. Dopo 30‐40 giorni il baco saliva al “bosch”; si mettevano dei mazzetti di ramoscelli secchi di “bruch”, ossia di erica che si andava a cogliere nel bosco e il bruco vi si arrampicava per formare i “galet”, cioè i bozzoli. Il momento adatto per raccogliere i bozzoli era tra l'ottavo e il decimo giorno dopo la salita al bosco. Si toglievano i bozzoli dal bosch (era "la sbozzolatura") e si doveva anche pulirli uno a uno dalla peluria che li circondava: la “spelaia". Questo lavoro veniva fatto anche dai bambini che venivano poi ricompensati con un bel bicchiere di latte, vino e zucchero oppure, cosa molto rara ed eccezionale, dal buon gelato fatto in casa: erano gli anni prima della seconda guerra mondiale. Poi si separavano i bozzoli ben formati dagli incompleti, dai macchiati, forati e guasti, c’erano i nerun , i marsciun, i schiscett: tutti bozzoli andati a male, a causa soprattutto della pebrina, malattia che colpiva i bachi. Dove i malgessesi portavano il raccolto? Si caricavano i galett nella gerla e si andava a piedi alla filanda : a Comerio soprattutto. Oppure passava un signore a ritirarli. Un altro luogo molto importante era il setificio di Ispra, del fabbricon di Besozzo dove tante ragazze e donne del nostro paese andavano a lavorare. Erano una mano d’opera soprattutto femminile, perché come scriveva il medico Serafino Bonomi, mandato nel 1873 a controllare le condizioni igieniche delle operaie della seta nella zona di Como, : “ la mitezza del carattere le rende più docili alla disciplina e più pronte ad adattarsi alle molteplici esigenze del lavoro” ! Venivano soprattutto pagate di meno! Le condizioni erano durissime perché l’ambiente era molto caldo e umido : “in alcuni opifici l’evaporazione delle caldajuole ove si lavorano i filugelli è tale e tanta da rimanere le vesti inzuppate continuamente dal vapore ….”. Si lavorava dalle 12 alle 15‐16 ore al giorno. Per non parlare del lavoro minorile: nell’800 anche bambini sotto i 9 anni sono stati mandati al lavoro. Ancora nel ‘900 le bambine di 10 – 12 anni lavorano nelle filande. La "filera" veniva affiancata da una addetta alla scopinatura dei bozzoli, la "scuinera" (scopinatrice), generalmente una bambina che, trovati i capofila nella bacinella d’acqua caldissima, li passava alla filera, o filandera, per la torcitura. E i gelsi ? E i gelsi, numerosi un tempo, sono stati strappati per permettere la lavorazione dei campi con i mezzi agricoli. Pochi rimangono per soddisfare gli amanti della medicina naturale poiché pare che sia le foglie sia i frutti abbiano virtù curative di vario genere. IL CANTO Le filandiere accompagnavano le differenti fasi lavorative col canto, un comportamento senza dubbio efficace per garantire rendimenti maggiori. Oltre a rappresentare un importante strumento di socializzazione, il canto era di indispensabile conforto e sollievo all'estenuante fatica e monotonia lavorativa. Posso concludere su delle note un po’ tristi: le parole di due canzoni della filanda che descrivono le dure condizioni di lavoro delle filere: O mamma mia tegnìm a cà che mi 'n filanda mi 'n filanda mi vöi pü 'nà Me dör i pé me dör i man e la filanda l'è di vilàn L'è di vilàn per laurà e mi 'n filanda mi vöi pü 'nà O mamma mia tegnìm a cà El mesté de la filanda l'è el mesté degli assassini; poverette quelle figlie che son dentro a lavorar. Siam trattati come cani, come cani alla catena; non è questa la maniera o di farci lavorar. Tucc me disen che sun nera, e l'è el fumm de la caldera el mio amor me lo diceva di non far quel brutt mesté Tùcc me disen che sun gialda, l'è olfilur de la filanda, quando poi sarò in campagna miei color ritornerà