019. La storia non resiste più del suo tempo per volta Perché a uno

Transcript

019. La storia non resiste più del suo tempo per volta Perché a uno
019. La storia non resiste più del suo tempo per volta
Perché a uno gli bastava la nebbia di questo posto, l’arsura, le
zanzare come tacchini, il freddo che gela le palle, la siccità, la merda
a mucchi che gli manca solo lo skilift, a vasche che gli manca solo il
bagnino… il dialetto in ghingheri… Tutte robe messe in conto a suo
tempo. Scocciature a pelo lungo ma tinteggiate fino in fondo allo
stomaco, soppesate con perizia e presenza di spirito. Il brodo di pollo
poi, la cicoria in umido, i passatelli… il finocchio bollito nel latte. Col
formaggio grattuggiato sui bordi a montare colore… ma non è che un
po’ di forno migliori tanto le aspettative. Sei come la zia Melania. Tale
e quale il nonno Angelico. Ma non era Gidolfo? Ma no che quello era
zio. L’importante alla fine è restare sempre al passo dei tempi. Ed è
tutta la vita che cerco d’immaginarmeli a passeggio questi tempi,
come camminano a coppie, dove appoggiano i sottobicchieri, cosa
guardano di bello su nel cielo, cosa si bevono al bar dei poveri… le
noccioline al tavolo… Uno è un artista e si dice da sé. L’altro voleva
fare l’artista ma s’è iscritto in campagna, ed è proprio dei suoi tempi
trascorsi che cercherò di parlare oggi. Per quanto corrano via in ogni
canale, appunto, in ogni solco che svolta, che sfibra, in ogni fiato che
canta. Che uno ne avrebbe già abbastanza della nebbia. E la merda.
E constatata la ruvidità solitamente attribuita a certi termini dal
tratto bastardo, che salgono subito a bruma più o meno convenuti
dall’opinione torpida, più o meno smentiti da una natura sordida, o il
grande fastidio che suscita in genere un soggetto così apertamente
elastico nel suo partorire storie per i campi, quante litanie in faccia ai
santi, cercherò di rifinirmi già sul nascere. Per dare adito alle menti
pregiate di trovare conferma della propria eccellenza, per stendere
pergole al riparo dai piccioni romiti, o solo per tirarsi indietro dal fatto
versato. Non si può mai dire. Vediamo insomma di fare in fretta, mani
alzate sopra una testa, prima che qualche benpensante ci metta una
buona preghiera delle sue, o non arrivino le malelingue in forza al
paese ad innaffiare i tulipani. Nel qual caso tutto sarebbe con buona
probabilità perduto in fondo a una fila di caffè bui, senza zucchero.
189
E se torna un po’ troppo abusata come prospettiva di scorcio,
addirittura due sarebbero le file a processione questa volta. Talmente
parallele che qualora una retta nullatenente decidesse d’intersecarle
sottovuoto come un razzo ammattito sul cucchiaio, perché la scienza
non s’arresta mai davanti al nulla, diciamo secondo un’inclinazione
astrale in fuga che le desse pure una discreta soddisfazione spinta a
prendersela tutta di spalle… per quanto abbastanza perpendicolare
d’intermittenza sopra e sotto, o che faccia lei come le pare, tanto è
sempre bello ciò che tace… il mattino dopo scapperebbe al lago con
quanti punti le restano in corpo. O sulla tessera del Famila, quella
colorata. Dal lato in cui gli angoli svicolati riuscissero a prodigarsi ben
oltre i novanta giorni canonici, è certamente preferibile. Ma anche
dall’altro lato va bene, con la crema giusta si fanno prodigi. Lo diceva
anche lo zio Ferretti e aveva ragioni da vendere, lui che al banco
faceva il pasticcere e c’era solo da fidarsi con tutta quella glassa.
Purché finisca la nenia che le sta di base, quel benvenuto a risucchio
d’angora, quella voce stanca. Qui da oggi si fanno pensieri ignoti, e
la macchina è già fuori dal garage che zampa. 1
Era il lungo inverno dell’Ottantasei, o dell’Ottantacinque credo,
quando nevicò come non s’era mai visto da queste parti, se non sul
piccolo schermo a cristalli liquidi, e comunque soltanto nei salotti dei
cittadini al passo con il progresso tecnologico a quei tempi corrente.
L’acqua la portava Floriano ed erano le uniche bolle che ci piaceva
scoppiare in un bicchiere alto della Nutella. Quelli con sopra le palle
azzurre? Quelli. E il tempo correva già da allora, bisogna pur tenerlo
in conto, anche se era indimenticabile. Mentre io guardavo il film in
un Phonola bianco e nero a quattro canali come le stagioni del mio
1
N.d.c. Tipico passo avanti del maestro, un passo da slacciare le scarpe ai piedi e spesso
infatti s’inciampa basiti. Si parla d’Arte e di Scienza, che non si direbbe mai, il Bello e il
Vero che se ne escono a cena come due culattoni. Magari sono solo esteti e io mi preoccupo
per niente. Euclide è sempre dietro l’angolo, un po’ come la giovinezza baldracca che si
scalda le mani a bidone, mentre il Famila l’hanno trasferito nel capannone nuovo. Ma è lì di
fianco. In mezzo c’è anche tanto sesso da crema, come ogni buon mezzo dovrebbe sempre
essere in grado di trasportare. Il significato infatti va a puttane meglio del solito ed io non
posso che seguirlo con fiducia. Uno slittino giù dai monti del Tirolo. Mi sembra infine di
cogliere un accento equidistante, sopra e sotto, prima e dopo, all’antica consuetudine della
sagra paesana, o era la Pasqua entrante… con le Palme, i somari… dove tutte le signore del
paese avvolte in maliziosi foulard di pizzo nero, che poi a uno gliela fanno venire per forza
una voglia media, tutte che strillano insieme così per la strada, sfilano in grancassa alle
spalle della Madonna bruna. Che secondo me hanno pure su le autoreggenti. E un pelo così.
Il proposito battagliero infine si ripete identico ad ogni genuflessione penitente, lo giuro
signor Curato, lo giuro, non lo faccio più, salvo poi rinnovarsi alla prossima sfilata. Lo zio
Ferretti invece non l’ho mai conosciuto davvero bene, preferiva le ragazzine. È quello di
Porta Pia, brizzolato? Quello che, permesso, s’infilava sempre dentro per primo? Quello.
190
telecomando immaginario, ma non ero preoccupato. Il bianco è
sempre bianco. Il nero è sempre nero. E per gli altri colori bastava un
po’ di fantasia sulla poltrona. Quel grigio lì secondo me è di Brindisi e
sta al verde. Quell’altro di sopra invece è una mezza via tra l’ombra
sciocca e un domani ricco di speranze, e lo si deve quindi stornare
sul sanguigno come i tramonti stillati per arrivarci. La neve scendeva
senza più risalire indietro, mai una sola volta che improvvisi qualcosa
di carino s’una scala, una commedia autosufficiente, né peraltro
sciogliersi al sole. E questo invece contro la propria natura viziosa.
Come se qualche pretesto glielo avesse impedito in fondo alla guida
bordeaux della panca, sotto il paltò di stelle che si tirava dietro come
balocchi da retrobottega. Guarda che più ti piace tirarla quella cosa lì
e più diventi cieca. Scendi pura dalle stelle che sfilano sul tuo paltò
misto avorio, ma proprio quando meno se lo aspettano li biasimi di
brutto. Rovinarono infatti alcuni tetti importanti in paese, ed io mi
ruppi un dito del piede mentre palleggiavo in mansarda, inciampando
in una poltrona di bambù importata dalla misteriosa Cina.
L’avevo messa io lì, e il mistero infittiva le trame. L’avevo pure
guardata bene dietro la grata del confessionale. Ma sia maledetta in
eterno la stirpe veneta dei Polo, vili precursori di buchi da scarto e
viandanti arrogati su vagoni medio popolari… che spero buchino una
gomma il primo di maggio… una gomma di scorta… una gomma in
garage… Troppo catechismo non può che spegnerlo il bambino.
La mattina seguente invece d’andare a scuola ero comunque
sul tetto a spalare la sbroda, nonostante potessi appoggiare un piede
soltanto e per giunta il sinistro, quando tutti già conoscevano a palmi
dettagliati l’intrinseca destrezza della mia personalità avanguardista.
L’edicola vendeva addirittura mappe autenticate con la X. Sei come
la zia Mirta, sempre gli stessi auguri di Natale, la stessa sintassi a
puntate, gli stessi idioti che ti girano in borsa. Compresi subito che se
per qualche motivo la neve smorza il suo delizioso carillon natalizio,
la molla s’accorcia di scatto, il vino caldo le manca di sotto, si riduce
in definitiva a un’enorme rottura di palle. Pure sporca che non la puoi
nemmeno succhiare. Un supplizio perfido quasi quanto può esserlo
una brioche di Tellini in Quaresima che solletica i nasi digiuni di certi
bambini messi a stecchetto… la crema... io per esempio, anche sotto
Carnevale. Una banderuola bianca che sventola senza mai stare con
nessuno di buono, con nessuno di condivisibile in mezzo alle gonne.
Di qua, di là… Ed io che ci facevo l’igloo… Tanto valeva arrendersi e
spalare merda di marca, almeno in seguito avrei saputo di cosa
vivere. Un’etichetta seria non smette mai di mentire.
191
La storia non resiste, forse non è mai esistita se non sui libri di
storia, o nei deliri di qualche luminare universitario rimasto un po’ a
corto di fiamme sulla lista. Il quale avrebbe fatto meglio ad ascoltare
più spesso sua madre quando dal piano di sopra gli chiedeva se
avesse pagato la bolletta di casa, la rata, la colletta di chiesa, la Visa.
Anziché dar retta solo al senno di Poi, il vecchio saggio che vive al
fiume peggio d’uno studioso di proverbi dal sentore democratico. E si
munge un Cynar pitagorico come un palombaro sprofondato in un
bicchiere dalla doppia cannuccia… i geni… dicono... Ma a noi tocca
seguirla comunque una storia, oppure inventarla se non la si trova
per strada col boccaglio palmato. Noi che mettiamo sempre l’acqua
nei vasi dei gerani spogliati al sole, noi che stentiamo a credere ogni
giorno di meno e ciò nonostante godiamo d’una discreta stima
artistica. Il barista annuisce rapito. Noi che alle diciotto e trenta
molliamo tutto per cucinare qualcosa di buono in fondo al cuore,
qualcosa di nuovo, solo per il piacere d’ascoltare la sua voce bianca,
credimi, solo per godere della sua inestimabile pazienza.
E vennero infatti i tempi della ritenzione obbligatoria, quelli
delle gite nei boschi fitti e bui, e quelli infine delle stanze chiuse a
chiave. Smisi allora di fare il dilettante di professione. Con un piede
così potevano anche darmi tre mesi in condotta senza alcun futuro di
condizionale. Ancora oggi, quando cambia il tempo sui binari, sono
tormentato da infinite punture di spillo che sembrano infierire sul dito
fratturato in quel pomeriggio così prodigo di bestemmie cautamente
avventate. Solo per una questione di congiuntivi stremati poi, participi
e geronimi, i soliti passatelli in ginocchio. Per fortuna l’ammanco si
saldò in autonomia stagna, ed io potei scappare a vergognarmi in val
Dimarca. E dato il marcio accertato in quelle gole da piuma, come
avverte anche il don la domenica dal podio, nessuno viene mai ad
arrampicarsi per vedere se è vero che tu sia finito lì di malga brulla,
oppure abbia soltanto azzardato una finta di corpo ben riuscita tra i
pioppi. Buono a sapersi per la prossima piena. 2
Dopo aver palleggiato diversi anni tra le panchine del parco
senza nessun incidente, ma neppure uno spettatore come testimone
a carico, decisi di rientrare in casa. Proprio in quel frangente stava
per mettersi a piovere, ed io non potei trattenermi dal rubare un’Alfa
Settecinquanta per un quarto d’ora, il mio quarto d’ora di razionalità
incondizionata. La macchina filava via come un treno. Anzi ero quasi
certamente in treno perché mi appisolai per qualche mese e sognai
d’un tesoro nascosto sotto una quercia di campo. Il tramestio concilia
2
Cfr. accidente n. 007, Un paese di maniaci.
192
il sonno dei torti. Un tesoro con la X marchiata sulla mappa di pecora
data ancora per monaca dall’edicolante implicato. Ma era talmente
prezioso come tesoro che dovevo mettermi a spalare per trovarlo, e
spalavo e spalavo… E spalavo.
Ricevetti al mio risveglio un attestato di cavalierato onorifico
per meriti sportivi, con implicazioni commendatoriali di stima. E allora
vista tutta la coccarda esposta, com’era inevitabile provai ad entrare
in politica. Ben presto però, anche in questo caso adottando per
intero la perspicacia che non mi stancherò mai di sopportare ad
oltranza sotto la giacca, mi resi conto di non calzare le scarpe adatte.
Questione di periodi arruffati quest’altra volta, di terreni punteggiati,
di vecchi apostrofi straccivendoli. E nemmeno un seno sgravato dai
gomiti, ad essere sincero, un briciolo di culo d’appoggio, un naso in
assaggio. Il negozio aveva stretto d’anticipo… il passaggio a livello
s’era destato di colpo… la zona era morta da un metro… La politica
è sempre meglio sia cavalcata dagli sportivi più autentici, a partire
dagli amatori fino ai professionisti del massimo campionato, quelli coi
doposci nell’armadio. Tutti perfettamente allineati per affrontare ogni
tipologia di campo, quello nomadi, quello santificato, la camporella di
cortesia, il tackle scivolato con remissioni a seguire… Tutti attrezzati
con una vasta gamma di tacchetti sotto le suole di qualunque credo e
figura, di qualunque taglia e misura. Anche per il fuorigioco. Anche
per le rotonde agli incroci. Altroché cetrioli ed acciughe, diceva la zia
Cornelia sotto la doccia tutta insaponata. Quella pulita di Trivellano,
che quell’altra è da basso. Vedi? gli stessi discorsi da mercantile, le
stesse frasi accidentate che ripeti identiche come un canovaccio da
chiesa, un piccione da presa. Sempre e solo uguale a te stesso.
Io conosco poco in materia e gioco a calcetto solo un paio di
volte l’anno. Sarà perché non trovo i compagni che sappiano giocare
anche per divertirsi, oltre che per sudare nelle maglie, venire sulle
paglie o svenire per le doglie. La moglie del vicino del resto è sempre
più al verde di quanto possa sembrare in mezzo alle gambe ad una
prima occhiata sul bordo. Sono i versi che discostano dal grigio. E
poi non sono un fuoriclasse clamoroso, quantunque possieda una
discreta visione del gioco e un bel tocco morbido. Il barista applaude.
Eppure se mi esercitassi con più continuità e giocassi senza i soliti
fondotinta alle spalle, che regolarmente mi comandano di fare quanto
loro ritengono vitale allorché ho la palla tra i piedi, e si badi bene i
miei di piedi, potrei persino migliorare giocando negli spazi più stretti,
come dietro le tende, o schivando l’uomo sulla fascia per infilarmi
dritto nel deserto dell’area. Facendo peraltro a meno delle debilitanti
diete estive per mantenere un pezzo d’arbitro dal fischietto passabile.
193
Solo doppiopasso e veronica, mattino e sera. Il primo avrà pure l’oro
in bocca, ma se quella di stasera è veramente rossa, vi consiglio di
scusarmi per un paio di giorni perché butterò di sicuro il telefono.
O questo almeno dicevo allora che non conoscevo veroniche
ed avevo ancora un telefono in bianco e nero sul comò della pasta.
Oggi invece sto col bel tempo e devo ammettere che in fondo lo
preferisco. Il mio dramma è di essere sopraggiunto al bivio sprovvisto
dei più comuni sensi d’orientamento, delle frecce maiuscole che di
solito si trovano piantate nei cuori lasciati a cielo aperto, e in queste
occasioni non so mai cosa poter gustare d’interessante. Tic-tic. Non
so mai cosa poter leggere sui menù. Tic-tic. Se poi vado a destra
rischio di perdere ulteriori possibilità conoscitive con la piega sbalza
che ha preso il tovagliolo, non solo la bussola cromata, il campanello
d’alpaca. D’altronde se scelgo anche la sinistra non so proprio dove
potrei finire a dormire stasera, domani, quell’altro. E a me bastava di
conoscerne una di fate moniche, di scoprirne una di pie veroniche,
che poi non sono mai esistite davvero. Sono state ipotesi nel grigio
del fiume e non hanno resistito che un tempo, il loro tempo per volta.
Ho appena scoperto come il flusso storico che mi capita di
vivere oggi sembri uno skilift perpetuo che s’arrampica sferragliando
su mucchi di merda, mucchi infiniti ed inesorabili di merda. E sarei
tentato di spalarne le certezze seduto dalla seggiola strozza, magari
scrivendoci sopra una storia in giornata, copiata e calcata. La solita
struttura di pensiero che gira, mi dico, il solito periodo freddino, quasi
gli stessi aggettivi di stampa. Ma ancora una volta devo confessare
di non essere più arredato d’una sbronza all’altezza delle circostanze
fruibili, delle certezze fattibili. Un tempo credevo bisognasse studiare
a lungo per arrivare poi a scrivere le cose, mettersi il rimmel, infilare
una rima tra i pali. E leggevo tutti i cartelli da brodo, ci condivo la
ciotola. Poi quando ho capito che dovevo attraversarle prima io le
corde tese sul fiume, le pozze piene di sangue, portare fuori il rusco
in mutande, che dovevo essere io a scappare fuori in calzamaglia
come un ladro di gemiti… non so… il gioco ha smesso di piacermi. O
diciamo almeno che ho rinfoltito il centrocampo.
Perché la prima colazione per diventare un inventore di storie,
mi dicevo davanti a un cappuccino, la condizione essenziale per fare
il funambolo su nel cielo stellato non è il talento. Il genio mi ricorda il
barista in ascolto. Che tipo. E sembra incredibile ma non è nemmeno
il senso di quanto viene scritto in nero sul banco. Di solito in questi
casi aggiungo che va bene anche il blu, figuriamoci, al massimo un
seppia molto scuro perché sono gentile. A, bi, ci, di… a matita, a
carbone… fa quasi lo stesso dolore, proprio uguale.
194
È invece l’aspettativa di vendemmia che può incollarsi a quel
foglio di carta come uno scontrino fantasma, un coniglio con l’asma,
quanto un proverbio da cantina pigiato nel succo del giorno che uno
prova anche ad ascoltarlo. E la statistica viaggia e ripaga poi per
rotoli. E fin qui, capito il trucco, scartato il pacco, malvolentieri se
occorre farlo, ma uno si mette di buona volontà e spala, e spala... E
spala. Due Campari corretti e passa tutta la malinconia, ritorna la
voglia di mare, la voglia di sale sui baffi. Solo che in secondo luogo
serve una buona dose d’atteggiamento specifico, e questo invece
l’ho capito molto dopo. Bisogna atteggiarsi a qualcosa nella vita,
altrimenti non puoi diventare mai nulla di distinguibile. Uno specchio
che non riflette abbastanza i colori, uno spicchio che se ne sta pure
in un angolo, ma non si spreme a dovere. Un piccione che scaglia
sentenze da un ramo nemmeno troppo in alto, quasi fossero rose…
Ro-ber-to.. Ro-ber-to... L’ho già detto quando era ora di dirlo e a chi
dovevo dirlo. Non me lo infilo un borsello su per la tracolla.
Infine, malgrado le apparenze e sebbene non da ultimo per
importanza e peso, serve una quantità incommensurabile d’allenato
fondoschiena. Doveroso in qualunque stagione e sempre all’ultima
moda del momento in aula, con qualsiasi capo s’abbini e in grado di
sottomettersi ad ogni fondale, irsuto, glabro, senza troppe storie da
far nitrire a cavallo, niente da dire più dell’acqua che scorre a sifone
in santità. Altrimenti stai a comporre gli auguri, che le occasioni non
mancano. Non bisogna mai scordare inoltre qualche praticissimo
gadget da allegare alla confezione da posa. Se funzionano con le
riviste più vendute al mondo, non vedo perché dovrebbero fallire con
formati semplicemente privati della sezione fotografica in eccesso.
Anche il bidello delle elementari, il mio amico Manuel, potrebbe allora
a tutti gli effetti pubblicare una storia di grande successo, purché
raccontasse di mamme affrancate, di mummie scollate... Qui però
qualche foto ricordo non guasterebbe al concetto esistenziale, mi
ricorda il barista. Sottigliezze della sera che cala. Io non ho niente
contro i bordelli delle elementari, o contro i bidelli se questi riescono
a rendere in pubblico il proprio talento zebrato. Nemmeno contro le
zebre. Mi si lasci solo dissentire dagli zoccoli ai piedi. Il mattone
crudo, il cemento, la terra, il fieno d’estate… ho provato di tutto nella
vita e ho sudato parecchio. Ma gli zoccoli no. E nemmeno il borsello.
Sei come la nonna Peppa… at zé cumpàgnn al sìu Viturìnu…
Ma quante nonne ci sono in una vita sola? Ma si dai, quella di Parigi
che sgranava i pomodori Merinda… quella che dopo ce ne mancava
sempre uno, quello buono… e sarà stato l’inquilino della soffitta… e
sarà stato un piccione di merda… Quella.
195
Forse non mi ritengo ancora all’altezza della competizione che
circola in pista, anche se in effetti ho ormai passato l’età giusta per
diventare uno sportivo mondiale. Che disdetta… Una volta ritirato mi
sarei fatto scrivere un saggio ricco di storie da qualche notaio. Io ci
avrei messo la faccia in copertina, che essendo già nota per le mie
imprese di gara sarebbe andata bene comunque. Avrei arricchito il
fagotto allegando gli autografi da cerimonia stampati sotto al titolo.
Se chiudo gli occhi un istante riesco persino a vederli… belli lucidi…
tutti uguali e così precisi che sembrano tedeschi sul Garda… svizzeri
risorti dal sottosuolo di Ginevra come da un festino alle catacombe
romane. Vuoi mettere l’Emmenthal? Sono convinto che i buchi si
sarebbero riempiti tutti. E invece eccomi di nuovo qui, in compiuta
apparenza di vita, senza prospettive in qualche modo predominanti
nel mucchio infinito delle profondità plausibili, a dover di nuovo
scegliere una direzione. Che saranno pure infinite come visuali in cui
perdersi, ma a me sembrano tutte troie. L’ha già detto qualcuno?
L’ha già scritto altrove? L’ha gridato dall’autobus? Meglio.
Il buonsenso mi suggerirebbe allora con prudenza di stabilirmi
sull’Himalaia, anche se di poltrone ottime per dormire potrei trovarne
addirittura in casa, se solo le cercassi con maggiore prudenza. Una
casa mia però. Solo che poi mi verrebbe voglia di scrivere una storia
su questa esperienza così intima e dai risvolti per me ancora così
drammatici, che non potrei evitare di ricadere nell’imbuto dei circoli
domenicani a gettone, delle domande e delle riposte, delle gite a
Lourdes, della fortuna di stanza. Quella che contava i pomodori una
volta al mese e se ne mancava uno mi chiudeva il gas in faccia e poi
chiamava i Carabinieri con la retina da polli… Por-to-bello… Por-tobello… Quelli là in fondo con le calze a righe? Quelli.
E pensare che avrei potuto fare il comico. Una storia qui, una
spremuta là. La faccia non mi manca più, pensavo giocondo, un paio
d’argomenti ribaditi senza respiro come un salumiere mistico, un
pasticcere che affetta baciamani al banco… qualche arguta stoccata
di critica storica o di costume a due pezzi e il gioco è fatto. Tira come
la marmellata d’albicocche nel pane e burro quando sei in gita. E
funziona davvero, basta guardarsi in giro mentre ci si fa la barba in
settimana. Non avevo però considerato l’arte dei tempi teatrali, la
promozione che assassina anche gli spuntini innocenti, il pieghevole
in omaggio… bello il pieghevole… e se poi è in omaggio… le violente
gradinate estive, le magliette bagnate… la cassetta d’arance… Il
compact disc dei Pink Floyd, se uno è fortunato. Poi la noia del
pubblico al tavolo, l’odore di merda che sembra un muro di nebbia
del cazzo che non ti lascia nemmeno pensare quando più ne hai
196
bisogno, l’insofferenza che si prende il borsello al mercato… il fritto
misto in curva… e cose di questo genere.
Il contrattempo più grave però cui ancora non sono in grado di
rassegnarmi, riguarda piuttosto il mio rapporto con l’istituito bancario.
Come dottrina, più che come luogo specifico dove accasarsi. Dovrei
forse prestare meno interessi a quest’associazione fondata a scopo
pedagogico dalla sua brava nonna Maria. Grande carico da novanta,
angolata come tutte le donne che sanno sempre cosa fare al loro
posto, nonne o zie, tanto non sono le mie. Neanche i soldi sono i
miei, forse. È tutta buona socializzazione in fondo, e c’è anche il
climatizzatore d’estate che mi vien quasi voglia d’un cappuccino. E
magari intanto che ci sono ne approfitto per cambiare aria ai pulcini,
per svitare gli orli ai calzini, sorvolando allo stesso tempo con piglio
virile sulla tendenza all’isolamento boschivo, animale dice il barista
fin troppo sensibile, che tuttora importuna i miei trasporti privati di
miraggi alla coque. Struzzi che danzano senza mani sul fiume,
spumeggianti come americani a Las Vegas. Anatroccoli implumi che
fanno il morto in balera, brutti in tavola, ma con un’idea da distendere
davanti a sé inarrestabile quanto un treno che scalcia. E quella non
può che mettersi a fischiare quando è carica.
La verità è che sono stanco di girare a vuoto, stanco dei soliti
giocattoli ecocompatibili solo nei fine settimana, e dei loro amici più
addomesticati. Simpatici senza dubbio in merito, per quanto anche
loro troppo impegnati nella coltivazione esoterica a scopo di lucro da
venirmene quasi a noia. E poi remano in barca il lunedì mattina.
Sono prostrato dai mezzi indizi mai portati a compimento per carenza
d’un appoggio stabile e fiduciario, così, anche senza tacchi troppo
vistosi. Sono veramente estenuato dalle parole private d’un senso
apparentemente concreto o facilmente intuibile a tutti, e per tutti. E
devo aggiungere sul medesimo piano dai preludi andante poco chiari
in fa minore di settima inversa, calze da rete fina. Appunto, bisogna
dirle certe cose ogni tanto per scuotere gli animi. Un po’ come con la
ricrescita accordata ai parenti cocomeri, la rivincita dei geometri. Un
po’ anche come pisciare sull’insalata dei Barozzi. Sei come la nonna
Gilda… la zia Pasquina… non si capisce un cazzo quando parli... Sai
quella di San Prospero? Quella là. Ma non stava a Parigi? Ma no,
quella è la Brigilda... Quell’altra. Perché poi chi sono tutti questi tutti?
Che cosa vogliono da me? E tutti così insieme poi…
Quindi che fare? Perché a uno gli bastava la nebbia di questo
posto, le piene del Po, la paura dei ladri, la paura del buio, la paura
del dubbio, la pesa cattolica, la paura delle Poste. L’odore di merda,
197
quello anche da solo. Le nutrie nei fossi, le ponghe da marito, i sorci
nel grano… i sandali che cigolano sott’olio, le ruote che brucano…
Dicono che la merda faccia molto bene alla salute dell’orzo
perlato, il quale poi sembra ricambiare con piacere, vai tu a capirli i
geni, garantendo una vita sana a chiunque si avvalga con regolarità
della sua collaborazione. Preziosa, non preziosa, è sempre soltanto
l’occhio che vuole la sua mezza parte. Due piselli… un po’ di burro…
Dicono che non esistono voci fuori dal coro nell’universo unico. Ogni
elemento possiede un luogo ideale da raggiungere e solo lì avrà
termine il suo percorso. Così che il ciclo inestinguibile delle storie
possa rinnovarsi ancora e a sempre nuove apparenze sia concesso
d’esprimersi. Armonia, non armonia, è soltanto il cocchio che scopre
le sue carte. Come uno skilift che gira sferragliando senza una fine
precisa, senza una staffa, una predella cui attaccarsi. Dicono anche
d’andare a ‘fanculo però, quando volteggiano forte i coglioni… come
le rondini che tornano a casa la sera, quando tornano. Non so. 3
Ma ditemi, se a uno gli bastava la nebbia di questo posto, l’afa
montata, le zanzare coi tacchi rigati, il freddo che raggela le palle, la
siccità comunista, la merda a mucchi che gli manca solo la pista, il
dialetto a fame e cioè, tutte robe messe in conto al bagnino, il brodo
di pollo, la cicoria pubica, i passatelli inflitti nel latte, le alluvioni del
povero zio, le mestruazioni da forno, Ferretti, la macchina stesa al
sole, il letto di marmo, i sandali al burro… ma cosa cazzo continua a
guardare le nuvole? …i geni… E se il vespro mi ha tolto il sogno…
conclude il barista stregato… il letto mi ha tolto il sonno, il desco mi
ha tolto l’appetito… e finisco… un gesto solo mi ha disseppellito.
Il momento decisivo allora è infine giunto, ma ancora non so
proprio cosa devo scegliere. Potrei continuare a scrivere altre due o
tre pagine, a fischiettare altre due o tre arie per sentirmi a posto con
la coscienza di tutti. Oppure ribadire che la storia non resiste più d’un
tempo solo per volta, il suo tempo, a modo mio, e ‘fanculo ‘sti tutti.
Il primo, il secondo, di solito lo decide solo al sabato sera. Né
mai forse è nata davvero una storia credibile. Per darmi una discreta
importanza da presentare in pubblico, all’editore implicito, e conferire
un’apparente struttura di circolarità almeno a questa breve storia, a
dimostrazione sonante della teoria appuntata in partenza. Spillo, non
spillo, ma chi se ne frega del dito. E bravo il rango battista. E bravo il
bonzo podista. E mettermi insomma il cuore in pace. Tanto l’odore di
merda ristagna comunque anche sotto i gazebo innevati di fresco, la
3
Cfr. G. I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi 1977.
198
pasta è ricotta e bisunta, la macchina è tutta nera anche sotto le
ascelle, il tempo s’è fatto colonnello… e adesso anche il terremoto.
Ro-ber-to… Ro-ber-to… attacca il piccione inochito, la sera, la
notte, la mattina dopo… Non-c’è-Ro-ber-to… coglione… Ro-ber-to…
Ro-ber-to… Non-c’è-più-Ro-berto… risponde al tempo d’orchestra
l’Artista gemello… Roberto sta a Bologna da una vita.
Perché uno non se lo aspetta mai che le cose possano andare
così diversamente da come aveva pensato, così tanto dico, non se lo
aspetta proprio. Neanche le prigioni, i grigi dorati. E quando invece le
calzette arrivano che sembrano rose, arrotolate sul comodino in finta
noce, o a volo radente per la strada come discese in dono giù dal
cielo… 4 miracolo… non può che prendersele in faccia così come
sono e andare a letto presto. Lui e la sua ora esatta. Perché domani,
e quell’altro domani, e quell’altro ancora, sono tutti barbagianni in fila
che lo reclamano per beccarlo di prove. Per amarlo anche meglio. E
bisogna essere riposati per viverli come si meritano.
E poi oggi è sabato, domani… chissà. 5
4
Cfr. accidente 002. Le mutevoli prospettive della pesca.
N.d.c. Non per dire, ma c’era rimasto spazio bianco e il maestro mi fa… armando…
quando io facevo tutt’altro. Non è che me lo colori un poco? C’ho il badminton. Dipende.
Perché uno bravo prima dovrebbe chiedersi… ma in quanti siete lì dentro? Alti, bassi…
Tutti. A chi si deve prestare ascolto di questi Tutti per mettersi a norma? Perché un lettore
medio iracondo potrebbe anche cercare di seguirvi mantenendo la calma un giorno o l’altro,
e poi potrebbe anche telefonarmi per avere informazioni più specifiche sui passaggi zebrati,
sulla fisarmonica. E l’accostamento di denari e merda, la pulsione precoce, il pelo alto una
spanna, indicherebbero una direzione eloquente, cfr. S. Freud, Un ricordo d'infanzia di
Leonardo da Vinci, Skira 2010. I piccioni invece sembrerebbero stare in tutt’altra postura,
su rami incantati. Anche Ferretti dal banco. È vero che la fantasia fa l’uomo glabro, ma qui
mi sfugge il messaggio che bisogna pur supporre. Quello che truccava le cassette delle
Poste? Quello. E se uno racconta, in nero, in blu, in turchino, qualche cosa la vorrà dire. Il
seppia non è che un marrone e non lo considero. Il tempo arrestato in un eterno presente di
nebbia e di merda la fa dunque da padrone, e sembra starsene fermo lì come un piccione sul
suo ramo, ma si muove. L’utente rimane sconvolto da montagne immense che gli tocca
salire appeso a una croce di ferro, ma sono soprattutto i passatelli a non lasciarlo dormire. E
la metafora del letto di marmo non può che rimandare alla disgrazia di quando uno vuole
riposarsi in spiaggia, ma... cazzo, ci hanno messo gli scogli. I ricordi si sovrappongono
allora sulla battigia in un pic-nic di maiuscole dal sapore adamantino. La Nebbia, la Merda,
la Rima, la Brina, la Neve fanno merenda in campagna e si raccontano storie d’amore
strafogate di pistacchi. O forse sono giù in strada a tirarsi i balocchi mentre intorno si
costruisce una Storia, che loro stesse alla fine creano girando la giostra. Solo che pensano
sia una questione di culo. Ed è così che ci si rompono le dita dei piedi, altra palese metafora
che sta al posto dei coglioni. I loro grossi coglioni di femmine mai dome allora, o loro
stesse date per coglioni di mestiere, non saprei dire. Lo zio Ferretti poteva ma non gli parlo
da allora. Sono scelte difficili da portare in giro, come i parenti.
5
199