019. La storia non resiste più del suo tempo per volta Perché a uno
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019. La storia non resiste più del suo tempo per volta Perché a uno
019. La storia non resiste più del suo tempo per volta Perché a uno gli bastava la nebbia di questo posto, l’arsura, le zanzare come tacchini, il freddo che gela le palle, la siccità, la merda a mucchi che gli manca solo lo skilift, a vasche che gli manca solo il bagnino… il dialetto in ghingheri… Tutte robe messe in conto a suo tempo. Scocciature a pelo lungo ma tinteggiate fino in fondo allo stomaco, soppesate con perizia e presenza di spirito. Il brodo di pollo poi, la cicoria in umido, i passatelli… il finocchio bollito nel latte. Col formaggio grattuggiato sui bordi a montare colore… ma non è che un po’ di forno migliori tanto le aspettative. Sei come la zia Melania. Tale e quale il nonno Angelico. Ma non era Gidolfo? Ma no che quello era zio. L’importante alla fine è restare sempre al passo dei tempi. Ed è tutta la vita che cerco d’immaginarmeli a passeggio questi tempi, come camminano a coppie, dove appoggiano i sottobicchieri, cosa guardano di bello su nel cielo, cosa si bevono al bar dei poveri… le noccioline al tavolo… Uno è un artista e si dice da sé. L’altro voleva fare l’artista ma s’è iscritto in campagna, ed è proprio dei suoi tempi trascorsi che cercherò di parlare oggi. Per quanto corrano via in ogni canale, appunto, in ogni solco che svolta, che sfibra, in ogni fiato che canta. Che uno ne avrebbe già abbastanza della nebbia. E la merda. E constatata la ruvidità solitamente attribuita a certi termini dal tratto bastardo, che salgono subito a bruma più o meno convenuti dall’opinione torpida, più o meno smentiti da una natura sordida, o il grande fastidio che suscita in genere un soggetto così apertamente elastico nel suo partorire storie per i campi, quante litanie in faccia ai santi, cercherò di rifinirmi già sul nascere. Per dare adito alle menti pregiate di trovare conferma della propria eccellenza, per stendere pergole al riparo dai piccioni romiti, o solo per tirarsi indietro dal fatto versato. Non si può mai dire. Vediamo insomma di fare in fretta, mani alzate sopra una testa, prima che qualche benpensante ci metta una buona preghiera delle sue, o non arrivino le malelingue in forza al paese ad innaffiare i tulipani. Nel qual caso tutto sarebbe con buona probabilità perduto in fondo a una fila di caffè bui, senza zucchero. 189 E se torna un po’ troppo abusata come prospettiva di scorcio, addirittura due sarebbero le file a processione questa volta. Talmente parallele che qualora una retta nullatenente decidesse d’intersecarle sottovuoto come un razzo ammattito sul cucchiaio, perché la scienza non s’arresta mai davanti al nulla, diciamo secondo un’inclinazione astrale in fuga che le desse pure una discreta soddisfazione spinta a prendersela tutta di spalle… per quanto abbastanza perpendicolare d’intermittenza sopra e sotto, o che faccia lei come le pare, tanto è sempre bello ciò che tace… il mattino dopo scapperebbe al lago con quanti punti le restano in corpo. O sulla tessera del Famila, quella colorata. Dal lato in cui gli angoli svicolati riuscissero a prodigarsi ben oltre i novanta giorni canonici, è certamente preferibile. Ma anche dall’altro lato va bene, con la crema giusta si fanno prodigi. Lo diceva anche lo zio Ferretti e aveva ragioni da vendere, lui che al banco faceva il pasticcere e c’era solo da fidarsi con tutta quella glassa. Purché finisca la nenia che le sta di base, quel benvenuto a risucchio d’angora, quella voce stanca. Qui da oggi si fanno pensieri ignoti, e la macchina è già fuori dal garage che zampa. 1 Era il lungo inverno dell’Ottantasei, o dell’Ottantacinque credo, quando nevicò come non s’era mai visto da queste parti, se non sul piccolo schermo a cristalli liquidi, e comunque soltanto nei salotti dei cittadini al passo con il progresso tecnologico a quei tempi corrente. L’acqua la portava Floriano ed erano le uniche bolle che ci piaceva scoppiare in un bicchiere alto della Nutella. Quelli con sopra le palle azzurre? Quelli. E il tempo correva già da allora, bisogna pur tenerlo in conto, anche se era indimenticabile. Mentre io guardavo il film in un Phonola bianco e nero a quattro canali come le stagioni del mio 1 N.d.c. Tipico passo avanti del maestro, un passo da slacciare le scarpe ai piedi e spesso infatti s’inciampa basiti. Si parla d’Arte e di Scienza, che non si direbbe mai, il Bello e il Vero che se ne escono a cena come due culattoni. Magari sono solo esteti e io mi preoccupo per niente. Euclide è sempre dietro l’angolo, un po’ come la giovinezza baldracca che si scalda le mani a bidone, mentre il Famila l’hanno trasferito nel capannone nuovo. Ma è lì di fianco. In mezzo c’è anche tanto sesso da crema, come ogni buon mezzo dovrebbe sempre essere in grado di trasportare. Il significato infatti va a puttane meglio del solito ed io non posso che seguirlo con fiducia. Uno slittino giù dai monti del Tirolo. Mi sembra infine di cogliere un accento equidistante, sopra e sotto, prima e dopo, all’antica consuetudine della sagra paesana, o era la Pasqua entrante… con le Palme, i somari… dove tutte le signore del paese avvolte in maliziosi foulard di pizzo nero, che poi a uno gliela fanno venire per forza una voglia media, tutte che strillano insieme così per la strada, sfilano in grancassa alle spalle della Madonna bruna. Che secondo me hanno pure su le autoreggenti. E un pelo così. Il proposito battagliero infine si ripete identico ad ogni genuflessione penitente, lo giuro signor Curato, lo giuro, non lo faccio più, salvo poi rinnovarsi alla prossima sfilata. Lo zio Ferretti invece non l’ho mai conosciuto davvero bene, preferiva le ragazzine. È quello di Porta Pia, brizzolato? Quello che, permesso, s’infilava sempre dentro per primo? Quello. 190 telecomando immaginario, ma non ero preoccupato. Il bianco è sempre bianco. Il nero è sempre nero. E per gli altri colori bastava un po’ di fantasia sulla poltrona. Quel grigio lì secondo me è di Brindisi e sta al verde. Quell’altro di sopra invece è una mezza via tra l’ombra sciocca e un domani ricco di speranze, e lo si deve quindi stornare sul sanguigno come i tramonti stillati per arrivarci. La neve scendeva senza più risalire indietro, mai una sola volta che improvvisi qualcosa di carino s’una scala, una commedia autosufficiente, né peraltro sciogliersi al sole. E questo invece contro la propria natura viziosa. Come se qualche pretesto glielo avesse impedito in fondo alla guida bordeaux della panca, sotto il paltò di stelle che si tirava dietro come balocchi da retrobottega. Guarda che più ti piace tirarla quella cosa lì e più diventi cieca. Scendi pura dalle stelle che sfilano sul tuo paltò misto avorio, ma proprio quando meno se lo aspettano li biasimi di brutto. Rovinarono infatti alcuni tetti importanti in paese, ed io mi ruppi un dito del piede mentre palleggiavo in mansarda, inciampando in una poltrona di bambù importata dalla misteriosa Cina. L’avevo messa io lì, e il mistero infittiva le trame. L’avevo pure guardata bene dietro la grata del confessionale. Ma sia maledetta in eterno la stirpe veneta dei Polo, vili precursori di buchi da scarto e viandanti arrogati su vagoni medio popolari… che spero buchino una gomma il primo di maggio… una gomma di scorta… una gomma in garage… Troppo catechismo non può che spegnerlo il bambino. La mattina seguente invece d’andare a scuola ero comunque sul tetto a spalare la sbroda, nonostante potessi appoggiare un piede soltanto e per giunta il sinistro, quando tutti già conoscevano a palmi dettagliati l’intrinseca destrezza della mia personalità avanguardista. L’edicola vendeva addirittura mappe autenticate con la X. Sei come la zia Mirta, sempre gli stessi auguri di Natale, la stessa sintassi a puntate, gli stessi idioti che ti girano in borsa. Compresi subito che se per qualche motivo la neve smorza il suo delizioso carillon natalizio, la molla s’accorcia di scatto, il vino caldo le manca di sotto, si riduce in definitiva a un’enorme rottura di palle. Pure sporca che non la puoi nemmeno succhiare. Un supplizio perfido quasi quanto può esserlo una brioche di Tellini in Quaresima che solletica i nasi digiuni di certi bambini messi a stecchetto… la crema... io per esempio, anche sotto Carnevale. Una banderuola bianca che sventola senza mai stare con nessuno di buono, con nessuno di condivisibile in mezzo alle gonne. Di qua, di là… Ed io che ci facevo l’igloo… Tanto valeva arrendersi e spalare merda di marca, almeno in seguito avrei saputo di cosa vivere. Un’etichetta seria non smette mai di mentire. 191 La storia non resiste, forse non è mai esistita se non sui libri di storia, o nei deliri di qualche luminare universitario rimasto un po’ a corto di fiamme sulla lista. Il quale avrebbe fatto meglio ad ascoltare più spesso sua madre quando dal piano di sopra gli chiedeva se avesse pagato la bolletta di casa, la rata, la colletta di chiesa, la Visa. Anziché dar retta solo al senno di Poi, il vecchio saggio che vive al fiume peggio d’uno studioso di proverbi dal sentore democratico. E si munge un Cynar pitagorico come un palombaro sprofondato in un bicchiere dalla doppia cannuccia… i geni… dicono... Ma a noi tocca seguirla comunque una storia, oppure inventarla se non la si trova per strada col boccaglio palmato. Noi che mettiamo sempre l’acqua nei vasi dei gerani spogliati al sole, noi che stentiamo a credere ogni giorno di meno e ciò nonostante godiamo d’una discreta stima artistica. Il barista annuisce rapito. Noi che alle diciotto e trenta molliamo tutto per cucinare qualcosa di buono in fondo al cuore, qualcosa di nuovo, solo per il piacere d’ascoltare la sua voce bianca, credimi, solo per godere della sua inestimabile pazienza. E vennero infatti i tempi della ritenzione obbligatoria, quelli delle gite nei boschi fitti e bui, e quelli infine delle stanze chiuse a chiave. Smisi allora di fare il dilettante di professione. Con un piede così potevano anche darmi tre mesi in condotta senza alcun futuro di condizionale. Ancora oggi, quando cambia il tempo sui binari, sono tormentato da infinite punture di spillo che sembrano infierire sul dito fratturato in quel pomeriggio così prodigo di bestemmie cautamente avventate. Solo per una questione di congiuntivi stremati poi, participi e geronimi, i soliti passatelli in ginocchio. Per fortuna l’ammanco si saldò in autonomia stagna, ed io potei scappare a vergognarmi in val Dimarca. E dato il marcio accertato in quelle gole da piuma, come avverte anche il don la domenica dal podio, nessuno viene mai ad arrampicarsi per vedere se è vero che tu sia finito lì di malga brulla, oppure abbia soltanto azzardato una finta di corpo ben riuscita tra i pioppi. Buono a sapersi per la prossima piena. 2 Dopo aver palleggiato diversi anni tra le panchine del parco senza nessun incidente, ma neppure uno spettatore come testimone a carico, decisi di rientrare in casa. Proprio in quel frangente stava per mettersi a piovere, ed io non potei trattenermi dal rubare un’Alfa Settecinquanta per un quarto d’ora, il mio quarto d’ora di razionalità incondizionata. La macchina filava via come un treno. Anzi ero quasi certamente in treno perché mi appisolai per qualche mese e sognai d’un tesoro nascosto sotto una quercia di campo. Il tramestio concilia 2 Cfr. accidente n. 007, Un paese di maniaci. 192 il sonno dei torti. Un tesoro con la X marchiata sulla mappa di pecora data ancora per monaca dall’edicolante implicato. Ma era talmente prezioso come tesoro che dovevo mettermi a spalare per trovarlo, e spalavo e spalavo… E spalavo. Ricevetti al mio risveglio un attestato di cavalierato onorifico per meriti sportivi, con implicazioni commendatoriali di stima. E allora vista tutta la coccarda esposta, com’era inevitabile provai ad entrare in politica. Ben presto però, anche in questo caso adottando per intero la perspicacia che non mi stancherò mai di sopportare ad oltranza sotto la giacca, mi resi conto di non calzare le scarpe adatte. Questione di periodi arruffati quest’altra volta, di terreni punteggiati, di vecchi apostrofi straccivendoli. E nemmeno un seno sgravato dai gomiti, ad essere sincero, un briciolo di culo d’appoggio, un naso in assaggio. Il negozio aveva stretto d’anticipo… il passaggio a livello s’era destato di colpo… la zona era morta da un metro… La politica è sempre meglio sia cavalcata dagli sportivi più autentici, a partire dagli amatori fino ai professionisti del massimo campionato, quelli coi doposci nell’armadio. Tutti perfettamente allineati per affrontare ogni tipologia di campo, quello nomadi, quello santificato, la camporella di cortesia, il tackle scivolato con remissioni a seguire… Tutti attrezzati con una vasta gamma di tacchetti sotto le suole di qualunque credo e figura, di qualunque taglia e misura. Anche per il fuorigioco. Anche per le rotonde agli incroci. Altroché cetrioli ed acciughe, diceva la zia Cornelia sotto la doccia tutta insaponata. Quella pulita di Trivellano, che quell’altra è da basso. Vedi? gli stessi discorsi da mercantile, le stesse frasi accidentate che ripeti identiche come un canovaccio da chiesa, un piccione da presa. Sempre e solo uguale a te stesso. Io conosco poco in materia e gioco a calcetto solo un paio di volte l’anno. Sarà perché non trovo i compagni che sappiano giocare anche per divertirsi, oltre che per sudare nelle maglie, venire sulle paglie o svenire per le doglie. La moglie del vicino del resto è sempre più al verde di quanto possa sembrare in mezzo alle gambe ad una prima occhiata sul bordo. Sono i versi che discostano dal grigio. E poi non sono un fuoriclasse clamoroso, quantunque possieda una discreta visione del gioco e un bel tocco morbido. Il barista applaude. Eppure se mi esercitassi con più continuità e giocassi senza i soliti fondotinta alle spalle, che regolarmente mi comandano di fare quanto loro ritengono vitale allorché ho la palla tra i piedi, e si badi bene i miei di piedi, potrei persino migliorare giocando negli spazi più stretti, come dietro le tende, o schivando l’uomo sulla fascia per infilarmi dritto nel deserto dell’area. Facendo peraltro a meno delle debilitanti diete estive per mantenere un pezzo d’arbitro dal fischietto passabile. 193 Solo doppiopasso e veronica, mattino e sera. Il primo avrà pure l’oro in bocca, ma se quella di stasera è veramente rossa, vi consiglio di scusarmi per un paio di giorni perché butterò di sicuro il telefono. O questo almeno dicevo allora che non conoscevo veroniche ed avevo ancora un telefono in bianco e nero sul comò della pasta. Oggi invece sto col bel tempo e devo ammettere che in fondo lo preferisco. Il mio dramma è di essere sopraggiunto al bivio sprovvisto dei più comuni sensi d’orientamento, delle frecce maiuscole che di solito si trovano piantate nei cuori lasciati a cielo aperto, e in queste occasioni non so mai cosa poter gustare d’interessante. Tic-tic. Non so mai cosa poter leggere sui menù. Tic-tic. Se poi vado a destra rischio di perdere ulteriori possibilità conoscitive con la piega sbalza che ha preso il tovagliolo, non solo la bussola cromata, il campanello d’alpaca. D’altronde se scelgo anche la sinistra non so proprio dove potrei finire a dormire stasera, domani, quell’altro. E a me bastava di conoscerne una di fate moniche, di scoprirne una di pie veroniche, che poi non sono mai esistite davvero. Sono state ipotesi nel grigio del fiume e non hanno resistito che un tempo, il loro tempo per volta. Ho appena scoperto come il flusso storico che mi capita di vivere oggi sembri uno skilift perpetuo che s’arrampica sferragliando su mucchi di merda, mucchi infiniti ed inesorabili di merda. E sarei tentato di spalarne le certezze seduto dalla seggiola strozza, magari scrivendoci sopra una storia in giornata, copiata e calcata. La solita struttura di pensiero che gira, mi dico, il solito periodo freddino, quasi gli stessi aggettivi di stampa. Ma ancora una volta devo confessare di non essere più arredato d’una sbronza all’altezza delle circostanze fruibili, delle certezze fattibili. Un tempo credevo bisognasse studiare a lungo per arrivare poi a scrivere le cose, mettersi il rimmel, infilare una rima tra i pali. E leggevo tutti i cartelli da brodo, ci condivo la ciotola. Poi quando ho capito che dovevo attraversarle prima io le corde tese sul fiume, le pozze piene di sangue, portare fuori il rusco in mutande, che dovevo essere io a scappare fuori in calzamaglia come un ladro di gemiti… non so… il gioco ha smesso di piacermi. O diciamo almeno che ho rinfoltito il centrocampo. Perché la prima colazione per diventare un inventore di storie, mi dicevo davanti a un cappuccino, la condizione essenziale per fare il funambolo su nel cielo stellato non è il talento. Il genio mi ricorda il barista in ascolto. Che tipo. E sembra incredibile ma non è nemmeno il senso di quanto viene scritto in nero sul banco. Di solito in questi casi aggiungo che va bene anche il blu, figuriamoci, al massimo un seppia molto scuro perché sono gentile. A, bi, ci, di… a matita, a carbone… fa quasi lo stesso dolore, proprio uguale. 194 È invece l’aspettativa di vendemmia che può incollarsi a quel foglio di carta come uno scontrino fantasma, un coniglio con l’asma, quanto un proverbio da cantina pigiato nel succo del giorno che uno prova anche ad ascoltarlo. E la statistica viaggia e ripaga poi per rotoli. E fin qui, capito il trucco, scartato il pacco, malvolentieri se occorre farlo, ma uno si mette di buona volontà e spala, e spala... E spala. Due Campari corretti e passa tutta la malinconia, ritorna la voglia di mare, la voglia di sale sui baffi. Solo che in secondo luogo serve una buona dose d’atteggiamento specifico, e questo invece l’ho capito molto dopo. Bisogna atteggiarsi a qualcosa nella vita, altrimenti non puoi diventare mai nulla di distinguibile. Uno specchio che non riflette abbastanza i colori, uno spicchio che se ne sta pure in un angolo, ma non si spreme a dovere. Un piccione che scaglia sentenze da un ramo nemmeno troppo in alto, quasi fossero rose… Ro-ber-to.. Ro-ber-to... L’ho già detto quando era ora di dirlo e a chi dovevo dirlo. Non me lo infilo un borsello su per la tracolla. Infine, malgrado le apparenze e sebbene non da ultimo per importanza e peso, serve una quantità incommensurabile d’allenato fondoschiena. Doveroso in qualunque stagione e sempre all’ultima moda del momento in aula, con qualsiasi capo s’abbini e in grado di sottomettersi ad ogni fondale, irsuto, glabro, senza troppe storie da far nitrire a cavallo, niente da dire più dell’acqua che scorre a sifone in santità. Altrimenti stai a comporre gli auguri, che le occasioni non mancano. Non bisogna mai scordare inoltre qualche praticissimo gadget da allegare alla confezione da posa. Se funzionano con le riviste più vendute al mondo, non vedo perché dovrebbero fallire con formati semplicemente privati della sezione fotografica in eccesso. Anche il bidello delle elementari, il mio amico Manuel, potrebbe allora a tutti gli effetti pubblicare una storia di grande successo, purché raccontasse di mamme affrancate, di mummie scollate... Qui però qualche foto ricordo non guasterebbe al concetto esistenziale, mi ricorda il barista. Sottigliezze della sera che cala. Io non ho niente contro i bordelli delle elementari, o contro i bidelli se questi riescono a rendere in pubblico il proprio talento zebrato. Nemmeno contro le zebre. Mi si lasci solo dissentire dagli zoccoli ai piedi. Il mattone crudo, il cemento, la terra, il fieno d’estate… ho provato di tutto nella vita e ho sudato parecchio. Ma gli zoccoli no. E nemmeno il borsello. Sei come la nonna Peppa… at zé cumpàgnn al sìu Viturìnu… Ma quante nonne ci sono in una vita sola? Ma si dai, quella di Parigi che sgranava i pomodori Merinda… quella che dopo ce ne mancava sempre uno, quello buono… e sarà stato l’inquilino della soffitta… e sarà stato un piccione di merda… Quella. 195 Forse non mi ritengo ancora all’altezza della competizione che circola in pista, anche se in effetti ho ormai passato l’età giusta per diventare uno sportivo mondiale. Che disdetta… Una volta ritirato mi sarei fatto scrivere un saggio ricco di storie da qualche notaio. Io ci avrei messo la faccia in copertina, che essendo già nota per le mie imprese di gara sarebbe andata bene comunque. Avrei arricchito il fagotto allegando gli autografi da cerimonia stampati sotto al titolo. Se chiudo gli occhi un istante riesco persino a vederli… belli lucidi… tutti uguali e così precisi che sembrano tedeschi sul Garda… svizzeri risorti dal sottosuolo di Ginevra come da un festino alle catacombe romane. Vuoi mettere l’Emmenthal? Sono convinto che i buchi si sarebbero riempiti tutti. E invece eccomi di nuovo qui, in compiuta apparenza di vita, senza prospettive in qualche modo predominanti nel mucchio infinito delle profondità plausibili, a dover di nuovo scegliere una direzione. Che saranno pure infinite come visuali in cui perdersi, ma a me sembrano tutte troie. L’ha già detto qualcuno? L’ha già scritto altrove? L’ha gridato dall’autobus? Meglio. Il buonsenso mi suggerirebbe allora con prudenza di stabilirmi sull’Himalaia, anche se di poltrone ottime per dormire potrei trovarne addirittura in casa, se solo le cercassi con maggiore prudenza. Una casa mia però. Solo che poi mi verrebbe voglia di scrivere una storia su questa esperienza così intima e dai risvolti per me ancora così drammatici, che non potrei evitare di ricadere nell’imbuto dei circoli domenicani a gettone, delle domande e delle riposte, delle gite a Lourdes, della fortuna di stanza. Quella che contava i pomodori una volta al mese e se ne mancava uno mi chiudeva il gas in faccia e poi chiamava i Carabinieri con la retina da polli… Por-to-bello… Por-tobello… Quelli là in fondo con le calze a righe? Quelli. E pensare che avrei potuto fare il comico. Una storia qui, una spremuta là. La faccia non mi manca più, pensavo giocondo, un paio d’argomenti ribaditi senza respiro come un salumiere mistico, un pasticcere che affetta baciamani al banco… qualche arguta stoccata di critica storica o di costume a due pezzi e il gioco è fatto. Tira come la marmellata d’albicocche nel pane e burro quando sei in gita. E funziona davvero, basta guardarsi in giro mentre ci si fa la barba in settimana. Non avevo però considerato l’arte dei tempi teatrali, la promozione che assassina anche gli spuntini innocenti, il pieghevole in omaggio… bello il pieghevole… e se poi è in omaggio… le violente gradinate estive, le magliette bagnate… la cassetta d’arance… Il compact disc dei Pink Floyd, se uno è fortunato. Poi la noia del pubblico al tavolo, l’odore di merda che sembra un muro di nebbia del cazzo che non ti lascia nemmeno pensare quando più ne hai 196 bisogno, l’insofferenza che si prende il borsello al mercato… il fritto misto in curva… e cose di questo genere. Il contrattempo più grave però cui ancora non sono in grado di rassegnarmi, riguarda piuttosto il mio rapporto con l’istituito bancario. Come dottrina, più che come luogo specifico dove accasarsi. Dovrei forse prestare meno interessi a quest’associazione fondata a scopo pedagogico dalla sua brava nonna Maria. Grande carico da novanta, angolata come tutte le donne che sanno sempre cosa fare al loro posto, nonne o zie, tanto non sono le mie. Neanche i soldi sono i miei, forse. È tutta buona socializzazione in fondo, e c’è anche il climatizzatore d’estate che mi vien quasi voglia d’un cappuccino. E magari intanto che ci sono ne approfitto per cambiare aria ai pulcini, per svitare gli orli ai calzini, sorvolando allo stesso tempo con piglio virile sulla tendenza all’isolamento boschivo, animale dice il barista fin troppo sensibile, che tuttora importuna i miei trasporti privati di miraggi alla coque. Struzzi che danzano senza mani sul fiume, spumeggianti come americani a Las Vegas. Anatroccoli implumi che fanno il morto in balera, brutti in tavola, ma con un’idea da distendere davanti a sé inarrestabile quanto un treno che scalcia. E quella non può che mettersi a fischiare quando è carica. La verità è che sono stanco di girare a vuoto, stanco dei soliti giocattoli ecocompatibili solo nei fine settimana, e dei loro amici più addomesticati. Simpatici senza dubbio in merito, per quanto anche loro troppo impegnati nella coltivazione esoterica a scopo di lucro da venirmene quasi a noia. E poi remano in barca il lunedì mattina. Sono prostrato dai mezzi indizi mai portati a compimento per carenza d’un appoggio stabile e fiduciario, così, anche senza tacchi troppo vistosi. Sono veramente estenuato dalle parole private d’un senso apparentemente concreto o facilmente intuibile a tutti, e per tutti. E devo aggiungere sul medesimo piano dai preludi andante poco chiari in fa minore di settima inversa, calze da rete fina. Appunto, bisogna dirle certe cose ogni tanto per scuotere gli animi. Un po’ come con la ricrescita accordata ai parenti cocomeri, la rivincita dei geometri. Un po’ anche come pisciare sull’insalata dei Barozzi. Sei come la nonna Gilda… la zia Pasquina… non si capisce un cazzo quando parli... Sai quella di San Prospero? Quella là. Ma non stava a Parigi? Ma no, quella è la Brigilda... Quell’altra. Perché poi chi sono tutti questi tutti? Che cosa vogliono da me? E tutti così insieme poi… Quindi che fare? Perché a uno gli bastava la nebbia di questo posto, le piene del Po, la paura dei ladri, la paura del buio, la paura del dubbio, la pesa cattolica, la paura delle Poste. L’odore di merda, 197 quello anche da solo. Le nutrie nei fossi, le ponghe da marito, i sorci nel grano… i sandali che cigolano sott’olio, le ruote che brucano… Dicono che la merda faccia molto bene alla salute dell’orzo perlato, il quale poi sembra ricambiare con piacere, vai tu a capirli i geni, garantendo una vita sana a chiunque si avvalga con regolarità della sua collaborazione. Preziosa, non preziosa, è sempre soltanto l’occhio che vuole la sua mezza parte. Due piselli… un po’ di burro… Dicono che non esistono voci fuori dal coro nell’universo unico. Ogni elemento possiede un luogo ideale da raggiungere e solo lì avrà termine il suo percorso. Così che il ciclo inestinguibile delle storie possa rinnovarsi ancora e a sempre nuove apparenze sia concesso d’esprimersi. Armonia, non armonia, è soltanto il cocchio che scopre le sue carte. Come uno skilift che gira sferragliando senza una fine precisa, senza una staffa, una predella cui attaccarsi. Dicono anche d’andare a ‘fanculo però, quando volteggiano forte i coglioni… come le rondini che tornano a casa la sera, quando tornano. Non so. 3 Ma ditemi, se a uno gli bastava la nebbia di questo posto, l’afa montata, le zanzare coi tacchi rigati, il freddo che raggela le palle, la siccità comunista, la merda a mucchi che gli manca solo la pista, il dialetto a fame e cioè, tutte robe messe in conto al bagnino, il brodo di pollo, la cicoria pubica, i passatelli inflitti nel latte, le alluvioni del povero zio, le mestruazioni da forno, Ferretti, la macchina stesa al sole, il letto di marmo, i sandali al burro… ma cosa cazzo continua a guardare le nuvole? …i geni… E se il vespro mi ha tolto il sogno… conclude il barista stregato… il letto mi ha tolto il sonno, il desco mi ha tolto l’appetito… e finisco… un gesto solo mi ha disseppellito. Il momento decisivo allora è infine giunto, ma ancora non so proprio cosa devo scegliere. Potrei continuare a scrivere altre due o tre pagine, a fischiettare altre due o tre arie per sentirmi a posto con la coscienza di tutti. Oppure ribadire che la storia non resiste più d’un tempo solo per volta, il suo tempo, a modo mio, e ‘fanculo ‘sti tutti. Il primo, il secondo, di solito lo decide solo al sabato sera. Né mai forse è nata davvero una storia credibile. Per darmi una discreta importanza da presentare in pubblico, all’editore implicito, e conferire un’apparente struttura di circolarità almeno a questa breve storia, a dimostrazione sonante della teoria appuntata in partenza. Spillo, non spillo, ma chi se ne frega del dito. E bravo il rango battista. E bravo il bonzo podista. E mettermi insomma il cuore in pace. Tanto l’odore di merda ristagna comunque anche sotto i gazebo innevati di fresco, la 3 Cfr. G. I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi 1977. 198 pasta è ricotta e bisunta, la macchina è tutta nera anche sotto le ascelle, il tempo s’è fatto colonnello… e adesso anche il terremoto. Ro-ber-to… Ro-ber-to… attacca il piccione inochito, la sera, la notte, la mattina dopo… Non-c’è-Ro-ber-to… coglione… Ro-ber-to… Ro-ber-to… Non-c’è-più-Ro-berto… risponde al tempo d’orchestra l’Artista gemello… Roberto sta a Bologna da una vita. Perché uno non se lo aspetta mai che le cose possano andare così diversamente da come aveva pensato, così tanto dico, non se lo aspetta proprio. Neanche le prigioni, i grigi dorati. E quando invece le calzette arrivano che sembrano rose, arrotolate sul comodino in finta noce, o a volo radente per la strada come discese in dono giù dal cielo… 4 miracolo… non può che prendersele in faccia così come sono e andare a letto presto. Lui e la sua ora esatta. Perché domani, e quell’altro domani, e quell’altro ancora, sono tutti barbagianni in fila che lo reclamano per beccarlo di prove. Per amarlo anche meglio. E bisogna essere riposati per viverli come si meritano. E poi oggi è sabato, domani… chissà. 5 4 Cfr. accidente 002. Le mutevoli prospettive della pesca. N.d.c. Non per dire, ma c’era rimasto spazio bianco e il maestro mi fa… armando… quando io facevo tutt’altro. Non è che me lo colori un poco? C’ho il badminton. Dipende. Perché uno bravo prima dovrebbe chiedersi… ma in quanti siete lì dentro? Alti, bassi… Tutti. A chi si deve prestare ascolto di questi Tutti per mettersi a norma? Perché un lettore medio iracondo potrebbe anche cercare di seguirvi mantenendo la calma un giorno o l’altro, e poi potrebbe anche telefonarmi per avere informazioni più specifiche sui passaggi zebrati, sulla fisarmonica. E l’accostamento di denari e merda, la pulsione precoce, il pelo alto una spanna, indicherebbero una direzione eloquente, cfr. S. Freud, Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, Skira 2010. I piccioni invece sembrerebbero stare in tutt’altra postura, su rami incantati. Anche Ferretti dal banco. È vero che la fantasia fa l’uomo glabro, ma qui mi sfugge il messaggio che bisogna pur supporre. Quello che truccava le cassette delle Poste? Quello. E se uno racconta, in nero, in blu, in turchino, qualche cosa la vorrà dire. Il seppia non è che un marrone e non lo considero. Il tempo arrestato in un eterno presente di nebbia e di merda la fa dunque da padrone, e sembra starsene fermo lì come un piccione sul suo ramo, ma si muove. L’utente rimane sconvolto da montagne immense che gli tocca salire appeso a una croce di ferro, ma sono soprattutto i passatelli a non lasciarlo dormire. E la metafora del letto di marmo non può che rimandare alla disgrazia di quando uno vuole riposarsi in spiaggia, ma... cazzo, ci hanno messo gli scogli. I ricordi si sovrappongono allora sulla battigia in un pic-nic di maiuscole dal sapore adamantino. La Nebbia, la Merda, la Rima, la Brina, la Neve fanno merenda in campagna e si raccontano storie d’amore strafogate di pistacchi. O forse sono giù in strada a tirarsi i balocchi mentre intorno si costruisce una Storia, che loro stesse alla fine creano girando la giostra. Solo che pensano sia una questione di culo. Ed è così che ci si rompono le dita dei piedi, altra palese metafora che sta al posto dei coglioni. I loro grossi coglioni di femmine mai dome allora, o loro stesse date per coglioni di mestiere, non saprei dire. Lo zio Ferretti poteva ma non gli parlo da allora. Sono scelte difficili da portare in giro, come i parenti. 5 199