Luciano e l`invenzione della fantastoria
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Luciano e l`invenzione della fantastoria
LUCIANO E L’INVENZIONE DELLA FANTASTORIA Introduzione Luciano nacque a Samosata sull'Eufrate, ultimo avamposto orientale dell'Impero, attorno al 120 d.C. La sua famiglia era di modeste condizioni: il padre faceva lo scultore e aveva in animo di avviare il figlio allo stesso mestiere. Ma Luciano ottenne di allontanarsi dalla sua città fuori mano per frequentare una scuola di retorica in una città della Ionia; successivamente iniziò una fortunata carriera di sofista che lo portò a viaggiare per ogni terra dell'Impero. A Roma fu presentato alla famiglia imperiale (nell'opuscolo Immagini si legge un elogio niente affatto disinteressato di Pantea, amante del coimperatore Lucio Vero). I suoi ottimi rapporti con la dinastia dominante gli valsero attorno al 170 d.C. una carica importante nell'amministrazione imperiale in Egitto, posto che gli fu revocato alcuni anni più tardi in seguito a un tentativo di ribellione che aveva coinvolto il prefetto d'Egitto. Morì dopo il 180 d.C. Di Luciano si possiede un corpus comprendente circa ottanta opere (una decina delle quali di dubbia autenticità), che consente di verificare quanto ampio fosse l'arco d'interessi attorno al quale si muoveva l’attività di un sofista: delazioni riservate alle tourné oratorie, dialoghi nello stile della diatriba cinica (di cui Luciano fu uno specialista), opere epistolari, libelli parodistici e satirici, romanzi e novelle, tutti redatti in una perfetta lingua attica che riproduce a tavolino - secondo l'indirizzo atticheggiante dell'epoca - il dialetto parlato ad Atene nei secoli V-IV a.C, cosicché Luciano in età successiva venne considerato un modello di purismo. Benché fosse essenzialmente un sofista dedito all'intrattenimento leggero e brillante, le sue opere non si risolvono solo in un puro esercizio letterario. Egli infatti esprime coerentemente l'adesione a una visione laica e razionalistica della realtà, e pertanto fortemente contraria a certe tendenze misticheggianti e irrazionali che andavano diffondendosi. Questo emerge tipicamente negli scritti dedicati a denigrare profeti, santoni e in generale le superstizioni popolari, come l’Alessandro o la Morte di Peregrino; contemporaneamente, Luciano è critico verso il mito e le forme tradizionali di religiosità, delle quali si fa beffe con toni che richiamano quelli della commedia attica. Uomo non privo di interessi filosofici, Luciano manifesta una certa simpatia sia per il cinismo da cui trae spunti e modelli per la sua opera di scrittore satirico, sia per l’ epicureismo, che gli offre il sottofondo dottrinale per la sua polemica antireligiosa - una polemica a cui non sfuggì il cristianesimo e che gli valse l’anatema di alcuni pii lettori dell'epoca successiva. Altre opere sono dedicate a una satira di costume o a una generica polemica culturale (Contro un ignorante che comprava libri, Come si debba scrivere la storia). A Luciano manca peraltro la tempra del moralista, poiché la sua è una satira leggera, seppure graffiante, diretta a fenomeni di costume che egli si limita, sostanzialmente, a registrare con la verve e l'eleganza formale che costituiscono la qualità maggiore della sua produzione letteraria. La Storia vera si può considerare il prototipo del romanzo fantastico. E’ la storia di un viaggio impossibile, narrato in prima persona: una nave parte verso l'ignoto, varca le colonne d'Ercole e si trova proiettata in un mondo che non c'è; spinta da un vento impetuoso si trasforma in astronave e approda sulla Luna dove i marinai sono coinvolti in una «guerra stellare» tra Lunari e Solari. I due libri della Storia vera proseguono inanellando una serie di avventure mirabolanti: la nave viene inghiottita da una balena grande come un'isola, nel cui interno pullula un microcosmo di creature fantastiche. Dopo uno sbarco sull'isola dei sogni (simbolo di quest'escursione fantastica), la nave giunge all'isola dei Beati dove i viaggiatori s'intrattengono con gli eroi e assistono alle loro diatribe. Nel corso di questo viaggio sono descritti i paesaggi più incredibili: fiumi di vino in cui nuotano pesci ubriachi, pericolose donneviticci, esseri che si nutrono solo di fumo, altri che hanno occhi estraibili. In sostanza, un campionario di mirabilia, che fa di quest'opera una specie di antologia degli esseri immaginari. Il libro finisce con la promessa (fìttizia) di un seguito che non ci sarà. Scopo di Luciano è certamente quello di parodiare un certo tipo di letteratura in voga alla sua epoca, in particolare le narrazioni geografiche che, a partire dagli storici di Alessandro, avevano delineato un universo fantastico collocato ai confini del mondo; e nello stesso tempo è presa di mira la letteratura di consumo romanzesca e novellistica con le sue inverosimili peripezie. Ma l'intento metaletterario cede il posto a una libera escursione in questo mondo che sembra prodotto da una fantasia onirica: il gusto per il paradosso s'accompagna a quello per l'invenzione di mirabolanti trovate, e fornisce un modello a lettori illustri successivi tra cui Jonathan Swift, il creatore di un altro universo fantastico, quello visitato da Gulliver. La narrazione del falso La Storia vera inizia con una presa di posizione polemica, che si riallaccia alla deontologia del De conscribenda historia, prendendo di mira i narratori d'invenzione che si professano storici e tradiscono così il basilare valore di verità della storia. Non a caso Ctesia, medico e storico di Artaserse che nel De conscribenda historia veniva bollato come adulatore, nella Storia vera è il prototipo di quanti esercitano quella che Luciano chiama sapidamente la libertà di fantasticare pretendendo solennemente di testimoniare la verità, attraverso la professione di autopsia o altri tradizionali avalli delle tradizioni veridiche. Ed è appunto con un proemio che rifà il verso, con parodia antifrastica, a questi proemi avvaloranti, che inizia il pazzo racconto di avventure non avvenute, «che non esistono assolutamente e neppure possono esistere». È il racconto di un viaggio compiuto in omaggio alla «curiosità della mente»: in questo senso si specializza già la tradizione del mito odissiaco che arriverà fino a Dante, e qui anticipa Dante anche nel percorso, che prende a punto di partenza le colonne d'Eracle «verso l'Oceano occidentale». Un'enorme tempesta fa perdere ai naviganti, se non il senso del tempo, minuziosamente custodito a misurare per la tempesta stessa l'iperbolica durata di ottanta giorni, il senso dello spazio, ed eccoli sbarcati in una no man's land, dove le gigantesche orme di Eracle e Dioniso marcano il confine tra il mito (satireggiato nelle sue pretese di farsi storia) e l'utopia. Quest'ultimo si presenta subito con dei tratti ispirati al paese di Bengodi: un fiume di vino, un paesaggio in cui la flora e la fauna sono completamente invase dal dionisiaco. Oltre al trionfo del piacere alimentare, però, il vino induce un'oscurazione onirica delle facoltà conoscitive, un blando delirio allucinatorio. In questo contesto si sviluppa l'avventura con le donne-albero: anche qui è un dato mitico (il ricordo della metamorfosi in alloro di Dafne insidiata da Apollo) a mediare una scena fantastica e grottesca, incentrata sull'accentuazione dei motivi della fisicità: vegetale (i frutti tolti ai rami suscitano reazioni di dolore) e animale (il rapporto amoroso incatena dolorosamente gli uomini a un intreccio di corpi). I 4-8 4. Imbattendomi in questi autori, io non li biasimavo per le loro menzogne, vedendo che mentire è abituale anche per chi professa la filosofia; quello che mi meravigliava era che pensassero di scrivere menzogne e passarla liscia. Perciò anch'io, che per mia vanità desideravo lasciare qualcosa ai posteri e non essere il solo escluso dalla libertà di fantasticare, siccome non avevo da raccontare niente di vero, perché non mi era capitato niente di significativo mi diedi anch'io alla menzogna, ma in modo più onesto degli altri, perche dirò almeno una cosa vera, cioè che sto mentendo. E confessando io stesso che non dico niente di vero, penso di poter sfuggire al biasimo degli altri. Io scrivo dunque di cose che non ho visto, che non mi sono accadute, che non ho neppure appreso da altri, cose che non esistono assolutamente e neppure possono esistere. Perciò bisogna che i miei lettori non vi prestino nessuna fede. 5. Una volta ero partito dalle colonne d'Eracle e navigavo con vento propizio verso l'Oceano occidentale. La causa e la base del mio viaggio era la curiosità della mia mente, il desiderio di esperienze nuove, la volontà di sapere qual è il limite dell'Oceano e chi sono gli uomini che abitano oltre. Cosi imbarcai molte provviste e acqua sufficiente e raccolsi cinquanta miei coetanei che avevano le stesse intenzioni; inoltre mi procurai molte armi, ingaggiai, pagandolo bene, il miglior pilota, ed equipaggiai la nave (che era un battello leggero) per un viaggio lungo e difficile. 6. Navigammo un giorno e una notte con vento favorevole, ma non ci spingemmo molto al largo: la terra si vedeva ancora, il giorno successivo, al sorgere del sole, il vento crebbe, le onde si ingrossarono, venne buio e non fu più possibile ammainare la vela. Affidandoci al vento, ci lasciammo andare per settantanove giorni nella tempesta, l'ottantesimo giorno uscì improvvisamente il sole e vedemmo non lontano un'isola alta e selvosa, battuta da ondate non più violente: il grosso della tempesta, infatti, si stava acquetando. Approdati e sbarcati, giacemmo lungo tempo per terra, sfiniti dai lunghi disagi; poi ci alzammo, lasciammo trenta uomini di guardia alla nave, mentre altri venti si inoltrarono con me nel retroterra per esplorare l'isola. 7. Avanzati fino a tre stadi di distanza dal mare nella foresta, trovammo una stele di bronzo con un'iscrizione in caratteri greci erasi ed evanescenti che diceva- «fino a qui sono arrivati Eracle e Dioniso». C'erano anche là vicino due impronte sulla roccia, l'una di un plettro, l'altra più piccola: penso che la più piccola fosse di Dioniso e l'altra di Eracle. Rendemmo loro omaggio e procedemmo, e dopo poco ci trovammo su un fiume di vino, che era molto simile a quello di Chio. La corrente era vasta e abbondante, al punto che in qualche tratto era perfino navigabile. Di conseguenza fummo portati a prestare più fede all'iscrizione della stele, vedendo i segni del passaggio di Dioniso. Decisi di esplorare le sorgenti del fiume e di risalire il suo corso, però non trovai nessuna sorgente, bensì molte e grandi viti piene di grappoli; accanto a ciascuna radice c'era una polla limpida di vino, dalla quale si formava il fiume. Si vedevano molti pesci, simili al vino per colore e per sapore. Infatti, noi che ne pescammo e ne mangiammo alcuni, ci ubriacammo, e tagliatili a pezzi li trovammo pieni di feccia. Più tardi pensammo di mescolarli con pesci d'acqua, smorzando così l'effetto di quel cibo alcoolico. 8. Attraversato il fiume dove si poteva guadare, venimmo a contatto con delle viti straordinarie: la parte che usciva da terra erano tronchi solidi, la parte superiore erano come donne, perfettamente formate dai fianchi in su, come si è soliti rappresentare Dafne trasformata in alloro quando sta per essere raggiunta da Apollo. Dalla punta delle dita crescevano i tralci, che erano pieni di grappoli. E avevano in testa, per capelli, viticci, fronde e grappoli. Quando fummo vicini ci salutarono con cordialità, esprimendosi chi in lingua lidia, chi in lingua indiana, ma la maggior parte in greco. Ci baciavano sulla bocca e chi veniva baciato si ubriacava. Non ci permettevano invece di cogliere i frutti e gridavano con dolore quando li coglievamo. Alcune desideravano fare l'amore con noi, e due nostri compagni che si accostarono ad esse non poterono più liberarsene: avevano i genitali incatenati e mettevano radici. Le loro dita divennero tralci e in viluppo inaudito stavano per dare frutto. I Seleniti I naufraghi della Storia vera arrivano sulla Luna, benevolmente accolti dal re Endimione, che il mito faceva amante della dea Selene. Con piglio di etnologo, facendo il verso alla tradizione erodotea e ai suoi più recenti epigoni, Luciano descrive le peculiarità dei Seleniti, insistendo particolarmente sullo spostamento delle funzioni fisiologiche e sessuali. L'insistenza sulla genitalità e sugli aspetti più crudi della fisicità è anche qui straniata nel grottesco, e anche qui rispunta la fantasia dell'ibrido uomovegetale. Ma ci sono anche indicazioni sul regime di vita, sulla dieta, sui valori («non possono soffrire i capelli lunghi», mentre sulle comete è tutto il contrario, dice Luciano risemantizzando il nome cometa dalla coda che ha l'aspetto di una lunga chioma, e parodiando argutamente la dimensione comparatistica che contraddistingue l'etnologo). E ancora sulla distinzione in classi, che ha per i Seleniti immediato riscontro sull'aspetto somatico: i ricchi hanno genitali d'avorio, i poveri in legno, i ricchi hanno abbondanza di occhi, che presso di loro sono un organo mobile, adoperato soltanto al bisogno. Luciano insiste molto su questa straordinaria peculiarità, che tuttavia dimostra come in lui la fantasia sia saldamente ancorata ai binari tradizionali del mito: esso conosceva infatti le tre Grazie («vecchie») figlie di Forci e Ceto, legate alla saga di Perseo, che in tre avevano soltanto un occhio e un dente e se li scambiavano all'occorrenza. Il passo riportato si chiude con la grande fantasia dello specchio della luna, in cui si vede riflesso tutto il mondo terrestre. E su quest'ultima meraviglia, Luciano ripropone con uno sberleffo il mito storiografico dell'utopia: chi non ci crede venga a vedere. I, 22-26 22. Nel frattempo, stando sulla Luna, ho osservato fenomeni nuovi e strani, di cui voglio parlare. Prima di tutto i Seleniti non nascono dalle femmine, ma dai maschi, si sposano con i maschi e della donna ignorano perfino il nome. Fino ai venticinque anni un individuo esercita il ruolo di moglie, poi quello di marito; ingravidano non nel ventre ma nel polpaccio, e infatti quando un bambino viene concepito si gonfia la gamba: dopo un certo periodo praticano un taglio e portano alla luce il bambino senza vita: la vita gliela infondono esponendolo al vento con la bocca aperta. Penso che il termine usato per indicare il polpaccio, che equivale a «ventre della gamba» derivi di qui, perché da loro è la gamba e non il ventre che porta il feto. Voglio raccontare anche un altro fenomeno, ancora più strano. Da loro c'è una razza di uomini, detti «arborei», che nascono in questo modo: si taglia il testicolo destro di un uomo e lo si pianta in terra: ne nasce un grande albero di carne simile a un fallo con rami e foglie e frutti simili a ghiande, della grandezza di un cubito. Quando sono maturi vengono colti e ne tirano fuori gli uomini. Hanno genitali artificiali, chi d'avorio e i poveri di legno, e se ne servono per consumare il rapporto sessuale. 23.Quando un uomo è invecchiato non muore, ma si dissolve come fumo diventa aria, il cibo è lo stesso per tutti: arrostiscono al fuoco sulla brace delle rane che da loro sono in grande abbondanza e volano, e mentre cuociono stanno tutti seduti intorno e si nutrono del fumo. Questo è dunque il cibo, la bevanda è aria compressa in un bicchiere, che distilla un liquido simile alla rugiada Non orinano e non defecano perché non hanno gli orifizi negli stessi nostri posti, e il rapporto pederotico non avviene nelle parti posteriori ma nei ginocchi, al di sopra del polpaccio, dove sono forati. Da loro un uomo è considerato bello se è calvo, non possono soffrire i capelli lunghi. Viceversa sulle comete apprezzano, come dice il nome, le lunghe chiome: ce l'hanno detto alcuni che c'erano stati. La barba invece se la fanno crescere fino a un po' sopra il ginocchio, non hanno unghie ai piedi ma un dito solo Sulle natiche hanno una specie di ortaggio che assomiglia a una coda, è sempreverde e non si spezza neanche se l'uomo cade all’ indietro. 24. Quando si soffiano il naso, ne esce un miele di odore acre; quando si affaticano o si esercitano sudano latte da tutto il corpo, al punto che, stillandovi sopra un po' di quel miele, si ottiene formaggio. Fanno l’olio con le cipolle, ed è molto limpido e profumato. Hanno molte viti che producono acqua, i chicchi dei loro grappoli sono come grandine e credo che quando il vento le scuote la grandine cade in seguito alla rottura dei grappoli. Usano il ventre come bisaccia, mettendovi dentro quello di cui hanno bisogno, perché possono aprirlo e poi richiuderlo; non c'è dentro l'intestino ma è tutto peloso, e vi riparano i bambini quando fa freddo. 25. Il vestito dei ricchi è fatto di vetro flessibile, quello dei poveri è una maglia di rame: là infatti il rame abbonda e lo lavorano ammorbidendolo con l'acqua come la lana. Come hanno gli occhi io esito a dirvelo, per paura che qualcuno mi sospetti di menzogna, tanto la cosa è incredibile. Hanno occhi che si possono togliere, e chi vuole se li toglie e li mette da parte finché non ha bisogno di vedere: allora se li rimette e guarda. Molti che hanno perso i propri occhi li prendono a prestito da altri e così possono vedere; i ricchi ne hanno tutta una provvista. Le loro orecchie sono foglie di platano, tranne per gli uomini nati dalle ghiande, che li hanno di legno. 26. Un'altra meraviglia ho potuto vedere nel palazzo reale: c'è un enorme specchio, sistemato sopra un pozzo non molto profondo: chi scende nel pozzo sente tutto quello che viene detto da noi sulla terra, e se si guarda nello specchio si vedono tutte le città e le nazioni, come se vi ci si trovasse. In questo modo io ho visto la mia famiglia e tutta la mia patria, ma non sono in grado di dire con sicurezza se anche loro vedevano me. Chi non crede che le cose stiano così, saprà che dico la verità, se solo viene in questo posto. Nel ventre della balena 30. Al contatto con l'acqua, eravamo contentissimi da non credere, pazzi di gioia, e buttatici in acqua sguazzavamo: si dava il caso, infatti, che ci fosse bonaccia, e il mare era un olio. Pare comunque che un cambiamento in meglio sia spesso l'inizio di guai anche maggiori: noi, infatti, dopo soli due giorni di navigazione tranquilla, all'alba del terzo, verso est, scorgemmo d'improvviso bestie e cetacei in gran numero e di varia specie, e tra questi uno in particolare, il più grande di tutti, grande, facciamo, 250 chilometri. Ci veniva addosso a bocca aperta, sconvolgendo il mare già da lontano e ricoprendolo di schiuma: metteva in mostra denti molto più lunghi dei falli che ci sono dalle nostre parti, tutti acuti come lance e d'un bianco... come d'avorio. Noi, beh, ci dicemmo addio e, stando abbracciati, aspettavamo: e quello già era lì, e col risucchio s'ingollò noi e tutta la nave! Non fece in tempo, però, a triturarci coi denti, perché lo scafo ci passò in mezzo e sgusciò verso l'interno. 31. Una volta dentro, sulle prime - buio com'era! - non si distingueva nulla; in seguito, quando la bestia riapri la bocca, vedemmo una vasta caverna, profonda in ogni direzione e altissima: ci sarebbe potuta stare una città di 10.000 abitanti! Giacevano nel mezzo piccoli pesci e molte altre bestie ridotte a pezzettini, vele di navi, ancore, ossa umane e cianfrusaglie, e in centro c'erano un'isola e delle collinette, formate, a mio parere, dalla sedimentazione di ciò che il mostro trangugiava. Vi erano lì sopra una piantagione fitta di alberi d'ogni tipo, e un gran rigoglio di verdure, il tutto con un aspetto ben lavorato; il perimetro dell'isola era di 42 chilometri. Si potevano osservare persino degli uccelli marini - gabbiani e alcioni - mentre, sistemati sugli alberi, accudivano ai loro pulcini. 32. In quel frangente, beh, si pianse, e non poco; in seguito, però, confortammo i compagni e tirammo in secco la nave, e cosi, dopo esserci accesi da soli il fuoco sfregando i legnetti, con quel che c'era ci cucinammo un pranzo. C'erano a disposizione, infatti, pesci d'ogni genere e in quantità illimitata, e poi avevamo ancora l'acqua presa sulla Stella del Mattino. Il giorno dopo, eravamo in piedi; e le volte che la balena spalancava la bocca, si vedevano di quando in quando delle montagne, altrimenti solo cielo, spesso anche delle isole: si percepiva, infatti, che essa nuotava rapida qua e là sulla superficie marina. Dopo che ormai ci si era adattati alla situazione, con sette compagni mi diressi verso la foresta, perché volevo fare un giro completo d'ispezione. Non avevo percorso per intero nemmeno un chilometro, quand'ecco che trovai un tempio dedicato a Posidone, come dichiarava l'epigrafe. Dopo non molta strada, un gran numero di tombe sovrastate da una stele e lì vicino una fonte di acqua limpidissima! Per di più, sentimmo latrare un cane e di lontano apparve del fumo: ci venne in mente che si doveva trattare di qualche fattoria. 33. Camminando dunque di buona lena c'imbattemmo in un vecchio e in un giovanotto che lavoravano con impegno un loro orticello e cercavano di deviare su di esso l'acqua della sorgente. Pieni di gioia, ma anche di paura, ci fermammo: anche loro, però, emozionati come noi - era ovvio - si bloccarono, senza fiatare; dopo un pezzetto, il vecchio parlò: «Chi siete, o stranieri? Forse demoni del mare, oppure uomini sfortunati, simili a noi? Anche noi, infatti, che siamo uomini, cresciuti sulla terraferma, ora siamo diventati creature marine e galleggiamo insieme con questa bestia che ci tiene prigionieri, senza neppure saper bene che cosa ci sta succedendo: perché ci sembra di essere morti, ma crediamo di vivere ancora». A queste parole io replicai cosi: «Anche noialtri, uomini siamo, giunti da poco, o padre, bevuti stamane con tutta la nave; qui ora arrivammo, volendo vedere nella foresta che c'è: grande, in effetti, e fitta, sembrava! Un demone, pare, da te ci ha guidato, perché ti vedessimo, perché sapessimo che non siamo soli, qui dentro la bestia costretti: ma orsù, racconta i tuoi casi, chi sei, e come giungesti fin qui». Lui, però, rispose che non avrebbe parlato, né ci avrebbe chiesto nulla, prima di aver scambiato i doni ospitali che aveva sottomano, e ci prese e ci condusse a casa sua, che era concepita per essere autosufficiente: vi aveva costruito dentro dei letti, e aveva provveduto per tutto il resto. Mise in tavola ortaggi, castagne e pesci, e ci versò pure del vino: quando fummo abbastanza sazi, chiese che cosa ci fosse capitato: e io gli raccontai tutto con ordine, la tempesta, ciò che era successo nell'isola, la navigazione aerea, la guerra, e tutto il resto, fino all'intrappolamento dentro la balena. 34. Il vecchio, anche lui meravigliatissimo, a sua volta ci raccontava la sua storia, dicendo: «Stranieri, sono cipriota di nascita; per fare il mercante salpai dal mio paese col figliolo che qui vedete, e con molti altri della mia casa, e navigai diretto verso l'Italia, portando con me un carico misto su di una grande nave, che forse avete già osservato, sfasciata sulla bocca della balena. Dicevo fino in Sicilia navigammo felicemente; ma da lì in poi, fummo rapiti da un vento tortissimo, che dopo tre giorni ci portò nell'Oceano, dove incontrammo la balena: tutto l'equipaggio fu trangugiato, e solo noi due ci salvammo; tutti gli altri, invece, morti! Sepolti i compagni, edificammo un tempio a Posidone, e da allora tiriamo avanti in questo modo qui: coltiviamo ortaggi, e mangiamo pesce e castagne. Di vegetazione, come vedete, ce n'è in abbondanza, e ci sono molte viti, da cui si ricava un vino dolcissimo; e forse avete visto anche la sorgente, che è di acqua ottima e freschissima. Ci prepariamo un letto con le foglie, e facciamo ardere il fuoco senza risparmio: catturiamo gli uccelli che entrano volando, e andiamo a caccia di pesci vivi uscendo fin sulle branchie della bestia, dove ci laviamo anche, se ne abbiamo voglia. Per di più, non lontano da qui, c'è uno stagno, tre chilometri di circonferenza, pieno di pesci d'ogni genere, dove nuotiamo e andiamo a spasso con una piccola barchetta, che ho costruito con le mie mani. 35. «Sono passati ventisette anni, ormai, da quando siamo stati inghiottiti. Ma tutto forse potremmo sopportare, se non fosse che abbiamo dei vicini e confinanti veramente antipatici, e sgradevoli. Non ci si può aver rapporti; sono selvatici!». «Ah, ma...!» dissi io «allora c'è altra gente dentro la balena?» «Tanti, sì!» rispose «inospitali e strampalati a vedersi; la zona occidentale della foresta, quella dov'è la coda, è abitata dai Sottosale, gente che ha occhi d'anguilla e muso di scarafaggio bellicosi, insolenti e cannibali; la zona invece che sta dall’altra parte lungo la parete di destra, è abitata dai Tritonobecchi, simili agli uomini nella metà superiore del corpo, in quella di sotto ai pescispada, ma sono meno prepotenti degli altri; a sinistra stanno i Cheledigranchio e i Testaditonno, che hanno stretto un patto di alleanza e amicizia reciproca; all'interno stanno i Paguridi e i Piedidirombo. gente attaccabrighe e forti corridori; a est, infine, proprio nelle vicinanze della bocca è per lo più disabitato, visto che è zona battuta dal mare; io comunque possiedo questi terreni pagando ai Piedidirombo ogni anno un tributo di 500 conchiglie. 36. «Questo è il paese. Voi ora dovete vedere come si possa combattere contro tanti popoli e come ci si possa vivere». E io: «Ma quanti sono questi qui?». «Più di 1000» mi rispose. «Che armi possiedono» «Nessuna» disse lui «se non lische di pesce.» «Ma allora» obbiettai, «si potrebbe benissimo vincerli in battaglia, dal momento che loro sono disarmati e noi, invece, abbiamo le armi! Se li battiamo, possiamo vivere per il resto dei nostri giorni senza paura.» Fu deciso così e tornati alla nave ci preparammo. Pretesto per la guerra sarebbe stato il mancato pagamento del tributo, perché si stava già avvicinando il giorno della scadenza. Quelli là, infatti, mandarono dei messi per riscuotere, ma il vecchio rispose picche, guardandoli dall'alto in basso, e li cacciò via. Per primi dunque il Piedidirombo e i Paguridi, adirati con Scintaro (il vecchio infatti si chiamava cosi), attaccarono facendo un grande schiamazzo. 37. Noi, però, prevedevamo l'attacco, e aspettavamo in armi, dopo aver disposto davanti a noi 25 uomini per fare un agguato; questi avevano l'ordine di saltare addosso ai nemici, non appena li avessero visti passare oltre: e cosi fecero. Piombati alle loro spalle li massacravano, e anche noi, che eravamo in 25 - con noi infatti combattevano anche Scintaro e suo figlio - facevamo fronte, e nella mischia mettevamo a repentaglio la nostra vita con coraggio ed energia. Alla fine, li facemmo scappare e li inseguimmo fino alle loro caverne. Tra i nemici ci furono 170 caduti; dei nostri, morì uno soltanto, il timoniere, bucato nella schiena da una lisca di triglia. Per concludere: la Storia vera è un’opera di notevole interesse: racconti assurdi in cui si è visto il precorrimento di Verne, Swift e dell’attuale letteratura fantascientifica. La dichiarata falsità delle vicende narrate rende più libero e audace il volo dell’immaginazione, dal ventre della balena alla luna, alle isole dei beati si evince una larvata ironia delle aretalogie e dei mirabilia, che però non tocca punte satiriche ed è come ‘sommersa’ dal gusto del meraviglioso e dal fluido abbandono narrativo ove la discorsività è di continuo ravvivata da notazioni ‘visive’. Insomma, si può ben parlare di una vera sperimentazione letteraria, nella quale l’imprevedibile Luciano mette alla prova, senza alcuna remora retorica, le sue straordinarie risorse intellettuali e scritturali.