Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
Un film delicato, Maledimiele racconta con garbo, attraverso il potere delle immagini, la discesa agli inferi di
un’adolescente che inizia ad avere problemi con l’azione del cibarsi. Senza didascalie, senza giudizi e senza
soluzioni, un film che rompe un pericoloso silenzio e permette di condividere emozioni assai diffuse tra i giovani
italiani (soprattutto le ragazze) e che raramente trovano espressione.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
costumi:
musiche:
distribuzione:
interpreti:
97 MINUTI
ITALIA
2010
MARCO POZZI
PAOLA ROTA
ALESSIO VIOLA
CLAUDIO BONAFEDE
VALENTINA PAVAN
SABINA MAGLIA
CLAUDIO PELISSERO ("L'altra parte di me" è cantata da Chiara Iezzi)
MOVIMENTOCINEMA E LO SCRITTOIO
BENEDETTA GARGARI (Sara), SONIA BERGAMASCO (Anna), GIANMARCO TOGNAZZI
(Enrico), ISA BARZIZZA (la nonna).
premi:
Festival del Cinema Italiano di Annecy 2011, Premio miglior attrice a Benedetta Gargari
Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2010, primo premio Fiuggi Family Festival
Filmspray di Firenze 2011 - primo premio
Marco Pozzi
Marco Pozzi, nato a Venegono Superiore (Va), ha studiato Lettere a Milano, muovendosi in ambito accademico
tra le scienze sociali e la storia del cinema. Ha poi effettuato il suo tirocinio in campo cinematografico presso
"Ipotesi Cinema", il laboratorio fondato da Ermanno Olmi e Paolo Valmarana nel 1982 a Bassano del Grappa.
Dal 1996 lavora come regista di spot pubblicitari e documentari industriali, oltre a occuparsi di corsi e laboratori
sulla regia e il linguaggio cinematografico, per scuole d’arte e università di Milano e Torino.
Dopo aver realizzato alcuni cortometraggi, tra cui Assolo (1995), Doom (1996) e Cra-cra (1997) ha realizzato il
film 20-Venti (2000), un'originale commedia che narra l'incontro e il viaggio pieno di imprevisti di due donne
apparentemente molto diverse. La pellicola ha partecipato alla Berlinale nella sezione Forum, al Williamsburg
Film Festival di New York (premiata come miglior film e miglior colonna sonora), al Festival di Annecy (premio
CICAE della giuria dei critici internazionali) e a numerosi altri festival e rassegne. Il film ha anche vinto il premio
Duel come miglior film italiano della stagione 2000/2001. Per la televisione, Pozzi ha diretto Bradipo, una sit-com
metalinguistica in dodici puntate di 30' prodotta da MTV Europe (2002).
Ha inoltre curato la realizzazione della videoinstallazione Zobeide, libero adattamento cinematografico di una
delle città invisibili di Italo Calvino, opera presentata nel corso della mostra collettiva Città In/visibili allestita
presso la Triennale di Milano (2003).
Una parte importante del suo lavoro è dedicata al documentario: tra i titoli si segnala Senza tregua (2003),
presentato alla 60 Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Il film è incentrato sulla vicenda
d'amore e di resistenza di Nori e Giovanni Pesce, recentemente scomparsi. Sempre sul tema della resistenza ha
poi realizzato Il primo giorno (2005), in cui uomini e donne che furono giovanissimi protagonisti di quei momenti
raccontano le ultime ore prima della liberazione e le emozioni miste di felicità e dolore che seguirono, tra la
libertà finalmente ritrovata e il lutto per la perdita di tanti parenti e amici. Prima di Maledimiele, Pozzi si è
avvicinato all’adolescenza nel documentario Dimmi qual è il colore del cielo (2007) in cui quattro ragazze di sedici
anni si raccontano e svelano il loro rapporto con il mondo. Maledimiele è il suo secondo film di finzione.
La parola ai protagonisti
Intervista a Marco Pozzi
Nel tuo film sei riuscito a rendere molto bene ciò che succede ad un’adolescente che si ammala di anoressia.
Come ti sei documentato sull’argomento? E come mai hai scelto di trattarlo?
Innanzi tutto vorrei dire che Maledimiele non è un film sull’anoressia. Racconta la storia di una ragazza, Sara,
affetta da questo tipo di disturbo. Si tratta di un viaggio dentro la dimensione psichica di tale patologia e la mia
protagonista ne è un simbolo forte. Ho scelto di trattarlo semplicemente perché è un fenomeno negativo
importante nelle realtà adolescenziali. È anche lo specchio di un disagio sociale la cui minaccia si fa sempre più
pressante; anoressia e bulimia sono la prima causa di morte negli adolescenti occidentali. Non è un caso che la
crisi economica abbia colpito maggiormente proprio i paesi dell’Occidente. Non sono certo coincidenze. I genitori
poi, sono un altro fattore destabilizzante nella felicità dei giovani e sono i primi a risentire della crisi.
Maledimiele, tutto attaccato. Cosa significa?
Riprende il nome della prima fase dell'anoressia, detta “Luna di miele” perché è un momento in cui l’ammalata si
sente bene. Più dimagrisce e più si sente forte. E’ in quel momento che si ribalta la verità e che si insinua
nell’adolescente la convinzione che “sono gli altri a sbagliare”. Poi, inizia il declino fisico e psichico. Il film si ferma
qui, quando la malattia è conclamata. Non arriva all’ultima fase, allo scheletro e al rischio di vita.
Come si può portare sullo schermo un silenzioso rifiuto del cibo?
Non ho mai mostrato lo scheletro. Non mi interessava la scarnificazione del corpo ma la dimensione mentale
della malattia. L’obiettivo del film è far vedere allo spettatore il mondo con gli occhi di Sara, un’adolescente di 15
anni che si ammala di anoressia.
Dunque non c’è la sua magrezza in primo piano?
Per parlare del corpo ho utilizzato un elemento simbolico: un lenzuolo, una sorta di “sudario”, su cui Sara si
stende disegnando il suo profilo. Man mano che perde peso diventa sempre più stretto finché non scrive su quel
lenzuolo “38 peso perfetto”. Questo termine non è un’invenzione dello sceneggiatore. È il nickname che abbiamo
trovato su un blog pro-ana.
L’anoressia dilaga in rete, con più favorevoli che contrari…
Oggi, rispetto a quattro o cinque anni fa, la presenza dei numerosissimi siti pro-ana consente a chi si ammala di
“socializzare la malattia”. Solo in Italia si parla di circa 300 mila blog e forum che inneggiano all’anoressia dove le
ragazze creano un immaginario che va assolutamente contrastato. Sono frequentissime, ad esempio, le foto di
modelle professioniste ritoccate dalle adolescenti che soffrono di anoressia: attraverso Photoshop le rendono
ancora più strette, allungate e smagrite, come le statue di Giacometti.
Sembra conoscere molto bene quel che accade su internet
Per realizzare il film io e la sceneggiatrice Paola Rota abbiamo fatto un lungo lavoro di preparazione proprio in
rete, oltre a frequentare per un anno e mezzo i centri più importanti per la cura dei disturbi alimentari. E anche
con Benedetta Gargari, la protagonista del film, ho lavorato molto sul web.
E’ stato difficile trovarla?
Il casting per l’attrice che interpreta Sara si è chiuso ad aprile dello scorso anno a la Rinascente di Milano (dove
siamo stati anche noi di Sky.it, ndr) ma ho trovato la protagonista solo a luglio. Benedetta mi ha convinto subito.
Magra ma niente affatto anoressica. Perché l’avete scelta?
E’ vera. Riesce ad entrare subito nella testa dello spettatore per condurlo nella dimensione della malattia. A soli
15 anni è già una grande attrice. Mentre recita trova sempre una parte di se stessa, raschiando nella sua anima.
Accanto a lei ho voluto due grandi professionisti come Gianmarco Tognazzi e Sonia Bergamasco, che interpretano
i genitori.
Per una ragazza di 15 anni, sia pure un’attrice professionista, calarsi nel ruolo di una anoressica può forse essere
pericoloso. Come l’avete aiutata?
Il film è stato seguito dal punto di vista medico sia per l’aspetto psicologico sia per quello chimico e nutrizionale.
Benedetta ha voluto perdere 5 chili per entrare di più nel personaggio, ma non le era stato richiesto. E li ha
ripresi subito. Le scene più difficili sono state quelle in cui doveva fingere gli attacchi bulimici, in cui doveva
ingurgitare grandi quantità di biscotti. Alla fine della giornata era stremata fisicamente. Ma Benedetta è una
ragazza forte, con un grande rigore e una grande maturità.
Il film è girato a Milano. Un segnale al mondo della moda?
Ho scelto Milano perché la moda impone delle immagini che diventano un immaginario. Ma è sbagliato e
dannoso legare l’anoressia solo alla moda. E’ una malattia che ci interroga da vicino. Tutti. E’ una sorta di
protesta, il non volersi uniformare a ciò che il contesto sociale propone e impone. Alle difficoltà di comunicazione
all’interno della famiglia borghese. Per questo è così difficile avvicinarsi all’anoressia, perché ci chiama in causa.
Come mai ci sono voluti circa due anni per trovare una distribuzione?
Il problema della distribuzione è finalmente stato risolto grazie a Movimento Film ma la faccenda è quantomeno
sospetta. Il problema dell’anoressia è imponente al giorno d’oggi ed è impensabile che a nessuno interessi
mostrare un film che potrebbe informare ed interrogare giovani e adulti. Forse però non c’è da stupirsi. Del resto,
questa tendenza a girare lo sguardo ai problemi più gravi (guardiamo il caso produttivo e distributivo di Diaz)
sembra essere piuttosto radicata nel nostro Paese. E non lo dico per polemizzare, ma con grande amarezza.
Parallelamente all’uscita in sala, il film verrà mostrato anche nelle scuole...
Il progetto distributivo viaggia infatti su due strade parallele: visione nelle sale tradizionali e road show di 30
incontri nelle scuole di tutta Italia. Il progetto di distribuzione nelle scuole prevede la visione del film alla quale
seguiranno dei dibattiti a cui parteciperò io stesso insieme a degli specialisti pronti a rispondere alle domande
degli studenti e, magari, ad accogliere qualche outing (come per altro è già accaduto).
Qualche informazione sull’anoressia
dal sito del sisdca, Società Italiana per lo Studio dei disturbi del comportamento alimentare
L’anoressia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da una restrizione
dell’alimentazione dovuta ad un’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee che si esprime in una
continua e ossessiva paura di ingrassare e nella ricerca della magrezza. I pensieri nei riguardi del cibo e del suo
controllo divengono così “pervasivi”, così fortemente presenti nella nostra mente, da assumere la forma di una
sorta di rimuginio instancabile che non lascia spazio ad altro.
L’anoressia nervosa è presente in uguale misura in tutte le classi sociali e coinvolge prevalentemente nel nostro
paese il sesso femminile: solo 1 caso su 10 o meno riguarda i soggetti maschi. L’età di insorgenza del disturbo è
compresa fra i 12 e i 25 anni, con la frequenza maggiore fra i 13 e i 16 anni.
La storia tipica nell’anoressia nervosa è quella di una dieta intrapresa con lo scopo di perdere qualche
chilogrammo superfluo, di migliorare il proprio aspetto fisico ritenuto in qualche modo inadeguato e di
correggere le proprie abitudini alimentari ritenute sbagliate e dannose. Con questo obiettivo, in principio spesso
condiviso dai familiari, si inizia a ridurre le quantità di cibo e/o ad eliminare alcuni cibi ritenuti dannosi e troppo
calorici. Altre volte la dieta viene intrapresa per combattere una modesta acne o per altri piccoli problemi per i
quali viene ritenuto utile eliminare alcuni cibi giudicati nocivi. A questo si accompagna frequentemente anche un
aumento dell’attività fisica sempre con lo scopo di dimagrire. A poco a poco la sorveglianza sul cibo tende a farsi
sempre più rigida e allo stesso tempo cresce la paura di perdere il controllo; il desiderio di controllarsi diventa
ancora più forte sino al punto di eliminare gran parte degli alimenti che prima venivano assunti (...). Le ragazze (o
i ragazzi) spesso sono consapevoli che la dieta ha preso loro la mano e non sono più in grado di controllare la
situazione. (...)
La maggior parte delle persone anoressiche sperimenta una fame intensa e investe sempre più energie per
riuscire a mantenere il controllo. (...) In questo senso il termine “anoressia” (dal greco “an” – prefisso negativo –
e “orekteo” – ho appetito) può apparire fuorviante poiché la sensazione di fame è in realtà forte. La restrizione
alimentare induce nell’organismo meccanismi biologici di protezione per la sopravvivenza, che consistono in un
aumento della fame, dell’appetito e dei pensieri e preoccupazioni riguardo all’alimentazione. La fame sempre più
potente può generare nel tempo una spinta compulsiva verso il cibo. (...) Di fondo c’è sempre il costante timore
che, se si allenta il controllo, il peso inizierà e continuerà a crescere in modo inarrestabile fino all’obesità (...).
La fase iniziale della anoressia nervosa è quasi sempre caratterizzata dalla negazione della malattia, con l’assenza
di consapevolezza dei propri comportamenti disturbati e delle proprie difficoltà. Le ragazze anoressiche non
ritengono di avere problemi e anzi considerano il proprio comportamento logico e coerente. Sostengono di stare
bene e di non avere nulla di cui preoccuparsi. (...) L’idea di fare una dieta è oggi così diffusa e “normale” che
viene spesso incoraggiata dalla famiglia e dagli amici ogniqualvolta vi sia una seppur minima tendenza ad avere
un peso superiore ai canoni stereotipati di bellezza che la nostra società propone in modo forte e categorico.
Recensioni
Roberto Nepoti. La Repubblica
Chiamando il causa Santa Teresa, il filosofo Giorgio Agamben afferma che l'anoressia non è disprezzo, ma una
forma di valorizzazione di sé. Dolorosa, naturalmente, come dimostra anche questa piccola opera severa e
sincera di Marco Pozzi, già studente dell'olmiana Ipotesi Cinema. La liceale Sara è ossessionata dal cibo e dal
peso: ogni giorno ne perde un po’, come annota scrupolosamente su post-it, etto dopo etto. (...) Sara è una
ragazza 'normale', con famiglia 'normale' e amiche 'normali'; però nessuno, intorno a lei, si avvede di quel che sta
accadendo. Pozzi non lo spiega a parole, ma con le immagini: basta guardare gli ambienti freddi, impersonali,
silenziosi di ogni luogo (casa inclusa) frequentato dalla ragazzina, per avvertire una totale mancanza di calore, un
deficit di affetti sufficiente a rendere quella vita così normale un inferno quotidiano. Brava la giovanissima
protagonista; limitati dai ruoli i genitori Sonia Bergamasco e Gianmarco Tognazzi. Alla grande Isa Barzizza tocca la
parte della nonna moribonda.
Roberto Silvestri. Il Manifesto
Sembra un film francese ambientato a Milano con lsa Barzizza. Perché 'francese'? Perché rende vivi pensieri
astratti. Come ci riesce? Visivamente. Intaglia i dettagli, che contano più dei piani di insieme, dei primi piani, dei
contropiani. Mani, piedi, bocca sporca di vomito, fessure delle porte, pennarello che traccia strani segni sul
lenzuolo, mani si poggiano sul muro nervose, occhi verdi spauriti, stivali... Sono gli sguardi a fare la narrazione, a
permetterci di collegare condotte istintive, fantasie e gesti funzionali a un campo di coscienza emozionale colto
impressionisticamente. E non le parole che spiegano l'ovvio, i contorti sentieri della pubertà, e affogano i nostri
copioni di frasi fatte e gesti meccanici. I migliori film francesi tolgono, asciugano, non sovraccaricano mai.
Pensiamo a Bresson. Via tutto. Eppure che insostenibile pienezza di dramma. I registi all’Idhec li svezzano in
teoria delle emozioni più che di messa in scena. Ed ecco che questo ritratto di Sonia, 15 anni, che si avvia
implacabile verso l’anoressia, (da 52 kg a 38 kg) come rifiuto di un piano di vita assegnatole, tra amiche
stupefatte e genitori, di media borghesia e sensibilità, disperati (…), non viene utilizzato strumentalmente per
stigmatizzare, educare, colpevolizzare nessuno. Marco Pozzi e la sceneggiatrice Paola Rota, concentrati su
Truffaut, riempiono di carezze di luce (Alessio Viola ha il compito di cromatizzarle) il doppio viso di Sonia: ragazza
studiosa, anche di shopping, e sensibile, da una parte. Inesorabile masochista che nel chiuso della cantinalaboratorio da scienziata pazza sottopone il corpo al decalogo material-spirituale di autorestringimento,
dall'altra. Finché quando alla fine si sentirà 'sua', grazie al dolore, non avrà più bisogno di flirt, nonna, cani, party,
voti, gin, eros. Tardi, per prendere la parola. Sviene, sparisce...
Filiberto Molossi. Gazzetta di Parma
Questo film è un grido, ma silenzioso: è l’atto non scritto di una guerra mai dichiarata, è una rivolta privata e
taciuta. Ed è un film, soprattutto, su quei momenti: «quei momenti in cui non ci accorgiamo di perdere
qualcosa». Frazioni di secondo tra le pagine del caso, frequenze emozionali troppo basse con cui sintonizzarsi.
Attimi che danno il peso esatto di un cinema capace - laddove è più difficile (e meno conveniente) - di raffreddare
i toni, di togliere più che di sottolineare, nel gusto autoriale e antitelevisivo di chi sa raccontare oltre alla
presenza anche l’assenza, i vuoti oltre che i pieni, il margine insieme al foglio. Non lo diresti, ma è uno che va in
cerca di guai, Marco Pozzi, eppure non se ne dà pena: e gira un film non conciliato e sincero sull'anoressia - che è
tema che scotta, bomba a orologeria a rischio banalizzazione - con un taglio severo e geometrico, astratto e
rigoroso. Chiudendo la porta all’effetto, nella conta dei chili perduti e ripresi, tra le pieghe invisibili di un’età
sempre inquieta in cui dimagrire è solo un altro modo per sparire, annullarsi, fondersi con quello che non c'è. La
storia di Sara, adolescente «regolare», famiglia immobile e «serena», a scuola bene grazie: un burattino in carne
e ossa, «un burattino come tutti». Ragazza «perfetta» che si sente «sbagliata»: e nasconde il cibo, assimila
rassegnazione, cerca, anche se non lo sa, un punto di rottura. In un universo di sfiorati dove ognuno è prigioniero
della bolla di vetro in cui si è rinchiuso, simulazione poco convinta della felicità, «Maledimiele» elegge anoressia
e bulimia a reazione e risposta (in)visibile a un disagio sottile e nascosto, là dove la malattia è più sociale che
individuale, il problema collettivo prima che personale. Nel bianco che annulla e prevale su tutto, tra ambienti
che «parlano» e case specchio di un malessere a cui non riusciamo a dare un nome, il film di Pozzi (...) si insinua,
con stile sobrio e minimale, tra le crepe del non detto cogliendo l’implosione dei sentimenti della solitudine
borghese. Traducendo per immagini l’inadeguatezza, la mancanza di senso, quel lasciarsi scivolare il mondo
addosso tipico degli adolescenti ma anche dei loro genitori: per arrivare a una scarnificazione che è immateriale,
che non riguarda il corpo: ma la verità, che sta nel fondo delle cose, vicino all’osso, dove l’anima è più nuda e
indifesa. E il vuoto (perché è di questo che parla questo film) fa più paura.
Marco Minniti. Movieplayer
Sara è apparentemente un'adolescente modello. Figlia della media borghesia milanese, ottimi voti a scuola,
popolare tra le amiche, nessun problema rilevante con i genitori. Eppure, Sara ha un doloroso segreto: un
segreto fatto di privazioni, rinunce, di cibo freneticamente ingurgitato e poi vomitato, di un fisico che si
assottiglia giorno per giorno, i cui contorni vengono compulsivamente tracciati da un pennarello, silenzioso
testimone della sua consunzione. Sotto gli occhi ciechi delle persone che le stanno intorno, la ragazza continua a
dimagrire con costanza, nella testa i precetti dell'assurdo "decalogo" trovato in Rete, il mantra "38 peso perfetto"
come guida e un'immagine di forma fisica idealizzata, mortalmente pericolosa quando si cerca di tradurla nella
realtà. Con impegno e dedizione quasi religiosi, Sara continua a vivere la sua doppia vita, finché un malore
improvviso non rivela a tutti la realtà della sua condizione. Ma aiutarla, a questo punto, non sarà facile, vista la
gabbia in cui la ragazza si è ormai rinchiusa. Non viene mai pronunciata la parola "anoressia" per tutti i 97 minuti
di MalediMiele, nuova opera del regista milanese Marco Pozzi. Non c'è bisogno di esplicitare verbalmente un
concetto che è ben presente nelle immagini del film, e nell'esistenza tormentata della giovane protagonista; così
come non c'è bisogno di dare enfasi al racconto, di mostrare in modo ricattatorio la sofferenza, di abbozzare
riflessioni sociologiche. Per sua esplicita ammissione, il regista non voleva fare un film sull'anoressia, ma
piuttosto raccontare la storia di un'adolescente anoressica, mostrare la sua vita senza dare giudizi e lasciando che
fossero le immagini a parlare. Nessun voyeurismo dello sguardo, quindi, nessuna sottolineatura visiva della
consunzione fisica della protagonista (la protagonista Benedetta Gargari ha perso giusto qualche chilo per
interpretare il ruolo) e nessun tentativo di spiegare le motivazioni che possano condurre un'adolescente su quel
sentiero. La regia di Pozzi, con un minimalismo che non manca di eleganza, ci fa piuttosto tallonare la sua
protagonista, mostrandocela da vicino in ogni istante della giornata, da quelli della sua vita palese e "solare" a
quelli più cupi e nascosti; con i cartelli che ossessivamente, giorno per giorno, segnano il suo peso, il lenzuolo su
cui viene tracciata la sua forma che si assottiglia sempre più, le confessioni notturne alla webcam sotto un
pesante trucco, sogni lucidi di una meta ferocemente auto-imposta. Il digitale pulito e quasi asettico della
fotografia ci mostra le strade di una Milano indifferente, neutra, spersonalizzata e priva dei suoi tratti distintivi;
mentre è sottilmente inquietante il bianco degli interni della casa di Sara, che esprime un senso di soffocamento
quasi subdolo, impercettibile ma sempre presente. Il teatro ideale per una storia di sofferenza muta, in cui chi
potrebbe vedere (i genitori, tra cui spicca un raggelato Gianmarco Tognazzi) si rivela incapace di farlo, salvo poi
sfogare la propria frustrazione con rimproveri misti a bugie ("credevi che non ci fossimo accorti di niente?"). Solo
qualche momento onirico, raffigurazione di sogni dalle simbologie comunque abbastanza leggibili, va a spezzare
il sostanziale realismo della messa in scena; oltre a un paio di effetti di straniamento, in cui la protagonista
guarda in camera e si rivolge direttamente allo spettatore. Sono proprio i momenti in cui il tono diventa
maggiormente esplicito a convincere meno, sia nella tenuta della narrazione, sia nella recitazione della giovane
Gargari, assolutamente apprezzabile quando si mantiene invece sottotraccia. Una prova, quella della
protagonista, comunque complessivamente positiva, considerata anche la difficoltà intrinseca del ruolo e il fatto
che il peso del film ricadesse di fatto interamente su di lei. Più in generale, di una pellicola come MalediMiele va
sottolineata l'importanza per il tema trattato, per l'esperimento educativo/informativo che viene affiancato al
film (a breve partirà infatti una distribuzione parallela nelle scuole) oltre che per il coraggio nel proporre un
argomento del genere senza cedimenti al patetismo, asciugandolo da qualsiasi contaminazione
emotivo/spettacolare. Una scelta che rischia sovente di trasmettere un senso di freddezza anche allo spettatore
(e in alcuni momenti capita) e che finirà probabilmente per rendere il prodotto ancor più "di nicchia", poco
appetibile per un grande pubblico già tenuto fuori dalla limitata distribuzione. Ma l'aver affrontato un tema così
scomodo e rimosso (specie dal cinema) e l'averlo fatto senza indulgere in pietismi o moralismi di sorta, è
sicuramente un merito da ascrivere a Marco Pozzi e al suo lavoro, in gran parte interessante anche dal punto di
vista estetico.
Arianna Prevedello. Settimana
(…) Un male invisibile, come d’altronde vorrebbe diventare, è ciò che ha dentro Sara. All’esterno tutto lascerebbe
pensare invece ad una perfetta forma: ragazza impegnata, ottimi voti, esperienze all’estero, un buon rapporto
con tutti (genitori, professori e coetanei), nessuna ribellione adolescenziale. La figlia “tranquilla” che tutti
vorrebbero avere, ma che in realtà dentro di sé nasconde un’inquietudine davvero problematica. In pochi minuti
riesce a mangiare un sacchetto di biscotti con un litro di latte ma, allo stesso tempo, può torturare per giorni lo
stomaco senza mangiare. Si profila un rapporto scorretto con il cibo che, in realtà, racconta altre solitudini e
difficoltà. Il cibo va eliminato e, per riuscirci, ci sono delle regole che, se osservate con cura quotidianamente,
possono portare ad ottimi risultati.
Per il regime di vita atletico di Sara arrivare a pesare 46-47 chili la rende fragile, quel tanto da farla svenire in gita
scolastica. Da lì le sue amiche capiscono che quel “non ho fame” è qualcosa di più serio. C’è chi farà finta di
niente e chi le dirà affrontandola: «Sei una sfigata. Ti credevo più intelligente ». Sulle cause di una personalità
così indebolita il regista si sofferma lievemente. Intravediamo, infatti, due genitori della Milano “bene” convinti di
essere presenti, ma in realtà un po’ distratti e in primis poco convinti della loro relazione di coppia. Viene
evidenziata nella trama la madre impegnata con la sua galleria a sostenere un progetto per i bambini malnutriti
dell’India, inconsapevole però di avere una figlia in Occidente che vuol lasciarsi morire di fame a poco a poco.
Detto così, potrebbe apparire più un tentativo filmico di spiegare l’anoressia da un punto di vista sociologico,
invece il film rifugge da questo rischio con scelte estetiche minimaliste che prediligono l’immagine alla parola e il
simbolico alla spiegazione didascalica. Il regista sceglie di raccontare la storia dal punto di vista di Sara e così lo
spettatore diventa il cuore, le orecchie, la pancia e la testa di un’anoressica che sa tenere in piedi due vite. Una
ragazza flessibile come il suo peso che oscilla su e giù sempre alla ricerca di quel chilo in meno che la porti verso
il baratro più cupo come la cartellina scura in cui attacca giorno per giorno i post-it con il peso esatto (chili ed
etti). Cifre che, nello scendere sotto i cinquanta, incutono un senso quasi thriller al film. (…) L’obiettivo del regista
Pozzi è raccontare l’universo parallelo in cui vive una brava ragazza che non lascia mai trasparire l’ambiguità in cui
è soffocata. Sara rimane al centro della sceneggiatura e della messa in scena dall’inizio alla fine. Con questa
fedeltà il regista, che ha scritto anche la storia assieme a Paola Rota, raggiunge il risultato non irrisorio di stilare
un prontuario non della malattia quanto piuttosto del soggetto che la vive. (...)
Le soluzioni rimangono fuori dallo schermo. La madre accompagna Sara dalla psicologa che inizia subito a
scavare nel suo rapporto “ammalato” con il cibo. Rifiutando l’evidenza di questo problema, Sara mette in luce un
aspetto fondamentale delle persone che soffrono questo disagio.
Con loro non vi è lo spazio per prediche o rassicurazioni sulla grandezza e sulla bellezza della vita perché l’ombra
della morte vive in loro spesso da molto tempo. Sara non ha parlato con nessuno del suo istinto di morte se non
in un blog che sta predisponendo con i suoi video e racconti. Un romanzo on line per tutti e per nessuno che è lì
in attesa di essere raccolto, ascoltato e compreso.
Il film riesce a suggerire lo sforzo che gli adulti sono chiamati a vivere: provare a fare i conti con il senso di morte
che abita dentro le giovani generazioni. Ascoltarli prima di tutto in questo istinto negativo e funereo, senza avere
la pretesa di parlare subito della vita. Proprio per questo è apprezzabile che il film si concluda nella totale
apertura lasciando di conseguenza anche irrisolto il tema delle soluzioni della malattia ma, al contempo,
consegnando un’opera capace di scoperchiare con un linguaggio artistico un vaso contenente un profumo acido
poco piacevole da annusare.
La canzone dei titoli di coda, scritta appositamente per il film, fa riflettere su quanta complessità emotiva rivelino
le persone che si trovano a vivere e a convivere con questo dramma. «Ritroveremo i nostri sogni quando il buio
passerà./ Nella notte degli angeli ci riscopriremo fragili./ Un sorriso inespressivo nel riflesso di quest’anima non
mia./ Sarai bellissima. Sarà bellissima… l’altra parte di me anche senza di me./ Chiudi gli occhi e mi vedrai qui
disegnandomi./ Tra la polvere e le stanze io trascinandomi. / Come anime gemelle per sopravvivere alla nuda
verità./ Sarai bellissima. Sarà bellissima… l’altra parte di me anche senza di me».
(…) Nessuna soluzione, quindi, a buon mercato sullo schermo da parte dell’opera, che si sofferma piuttosto
sull’avanzare della malattia con i suoi sintomi e ricorrenze.
Quantomeno il film invita a guardare con occhi ben aperti chi ci sta accanto (non è poco) e ad affrontare il velo
oscuro che abita gli occhi di chi viene avvolto dal “maledimiele”. Scrive Pozzi:
«Chi si ammala di anoressia è schiavo di un tiranno senza volto che esige sottomissione incondizionata. Mentre si
scarnifica, un’anoressica si fa bella corteggiando la morte. I sintomi dell’anoressia costituiscono un linguaggio del
corpo che reclama ascolto, ma nella fretta del quotidiano non c’è tempo per vedere il dolore dell’altro. Nella
società dell’abbondanza un’anoressica si lascia morire di fame: forse il troppo di tutto si sta trasformando in
troppo di niente».
Federico Pontiggia. Il Fatto Quotidiano
Il focus è sul progressivo, ineluttabile cadere in questo male: alla luce del sole, Sara è una ragazza diligente e
spensierata, ma il suo dark side ha le regole ferree dell'irraggiungibile peso ideale. Né i genitori (Sonia
Bergamasco e Gianmarco Tognazzi), né le amiche sembrano accorgersi dei digiuni forzati, i bagni ghiacciati, i pasti
che finiscono nell'immondizia, e non è finita: Sara ha una camera dei segreti e un lenzuolo, dove segue con un
pennarello il suo corpo che scompare. È dunque il racconto di una schiavitù decisa e protetta a proprie spese,
retto sulle giovani spalle di Benedetta (brava, e coraggiosa) e inframmezzato da inserti onirici con l'eco della
nonna, dell'infanzia e dell'affetto che non c'è stato. Pozzi giudica (su tutti, la madre) e non giudica, mettendo la
macchina da presa (2k) sulla bilancia: ci sono eccessi enfatici, qualche incursione simbolica di troppo, ma questa
esemplarità ha il merito di essere terapeutica.
Fabiola Fortuna. Film4life
(…) Marco Pozzi e Paola Rota scrivono la sceneggiatura di Maledimiele con il chiaro intento di raccontare una
storia personale che si lega poi a quella di migliaia di ragazze e ragazzi; per farlo, il regista adotta la cifra stilistica
delle inquadrature strette, campi medi, primi piani e dettagli che mantengono la telecamera sempre vicina ai
personaggi. L’occhio dell’autore (e anche il nostro di spettatori) non li lascia mai soli, li osserva e al tempo stesso
li accompagna; dopo tutto, i disturbi alimentari attaccano l’interiorità delle persone e lo sguardo ravvicinato è il
mezzo migliore che il cinema possa offrire per “entrare” nella mente e nel cuore dei personaggi.
Sara, interpretata da Benedetta Gargari, scrive ogni giorno il suo peso su dei post-it che poi appende in una
stanza segreta sotto lo studio del padre. Tiene visivamente il conto dei chili che perde per averne meglio la
consapevolezza, come le consigliano i siti pro-anoressia che frequenta abitualmente e sui quali posta video in cui
racconta la sua esperienza. La giovane protagonista ha anche un altro modo per vedere i frutti dei suoi sforzi:
disegna periodicamente la sagoma del suo corpo su un lenzuolo; la sagoma, ovviamente, si fa sempre più piccola
ad ogni verifica. Si tratta di un espediente narrativo molto interessante: l’anoressia è innanzi tutto una patologia
psicologica e la sagoma sul tessuto è la rappresentazione visiva di quello che accade dentro Sara. Ce lo fa vedere
direttamente, ce lo mette di fronte agli occhi con forza perché non venga ignorato. (...)