stéphan mallarmé

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stéphan mallarmé
STÉPHAN MALLARMÉ
scena
da “Le nozze di Erodiade”
«Il poeta appare a Mallarmé non soltanto in sembianza
di bellissima e intangibile vergine, ma nei panni di
un proletario intellettuale costretto a un assurdo e sterile sciopero»
FAUSTO CURI
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Tutta l’opera di Mallarmé è tesa ad un’unica ricerca: sperimentare «arrangiamenti nuovi»,
sfruttando per intero la fisionomia delle parole, gli accostamenti sintattici, le sonorità della frase.
E questa ricerca tocca un punto massimo nell’opera incompiuta Les Noces d’Herodiade, in cui
Mallarmé spinge la poesia verso «risonanze inaudite». Mallarmé comincia appena ventiduenne
a scrivere «una tragedia da rappresentare a teatro», cui darà il titolo di Les Noces d'Hérodiade.
Col tempo, il testo assume sempre di più l’aspetto di un poema, testimonianza atroce d’un
isolamento cui Mallarmé si costringe per evitare di mischiarsi con un’epoca di declino. Nel suo
studio, in lunghe notti passate davanti alle pagine bianche, Mallarmé scava il verso
accumulando ritmi e incastri di suoni, ma, sfinito da un lavoro che «fa male e a tratti ferisce
come il ferro», desiste dall’impresa e mette da parte il suo progetto sulla figura di Erodiade. Lo
riprenderà alcuni mesi prima della morte, lasciandolo comunque incompiuto. Al lettore odierno
resta un’opera frammentaria, non conclusa.
Sullo sfondo di un'epoca di declino, si muove la giovane principessa Erodiade. Parla del
travaglio che ha dentro, stretta tra il bisogno di stare nel chiuso della sua torre e «il sogno di un
contatto con il mondo e con l'uomo». Il travaglio è dirompente, e non c'è pace per la coscienza
di Erodiade: buttarsi tra le braccia del mondo è smarrirsi nel non conosciuto, esponendosi al
rischio dell'infamia; restare nell'isolamento, d'altra parte, impedisce alla sua unica e riconosciuta
bellezza di realizzarsi, visto che in Erodiade è viva la consapevolezza che soltanto concedendosi
all'altro da sé potrà verificare se stessa. Insomma, in Erodiade una coscienza che si cerca
«nell'abisso di una stanza» confligge con una coscienza che vuole aprirsi «al marcio del
presente», e la sintesi di questo scontro non può che essere il naufragio della coscienza.
La parte centrale del poema, denominata Scène, è qui data in una versione che fa tesoro delle
diverse traduzioni pubblicate in Italia, e in particolare di quella curata da Luca Bevilacqua per le
Edizioni Novecento (Palermo, 1997). In un certo senso, ho recuperato la sua dimensione di
pièce teatrale, adeguando le parole al mio corpo d’attore. Come ogni traduzione, anche la
riscrittura vocale presuppone una certa dose di tradimento del testo: e allora questa non è
nient’altro che la mia lettura personale di questo grandioso «autoritratto travestito».
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NUTRICE
Tu vivi! O qui l’ombra di una principessa vedo?
Alle mie labbra le tue dita e gli anelli, e smetti
Di camminare in un’età ignorata …
ERODIADE
Indietro!
Il biondo torrente dei capelli immacolati
Se mi bagna il corpo solitario lo ghiaccia
D’orrore, e i miei capelli intrecciati dalla luce
Sono immortali. O donna, un bacio potrebbe uccidermi
Se la bellezza non fosse la morte …
Da qual malìa
Guidata, e qual mattino dai profeti dimenticato
Versa, sui morenti orizzonti, le sue feste tristi,
Lo so io? Tu m’hai vista, o nutrice d’inverno,
Nella prigione pesante di pietre e di ferro
Dove languono dei miei vecchi leoni i secoli fulvi,
Entrare, e avanzavo, fatale, le mani libere,
Nel profumo deserto di quegli antichi re:
Ma vedesti pure quali furono i miei terrori?
Mi fermo, meditando l'esilio, e come fossi
Presso una vasca dall'accogliente zampillo,
Sfoglio i pallidi gigli che sono in me, mentre i leoni,
Affascinati, con lo sguardo seguono
Queste languide rovine che in silenzio
Per il mio sogno discendono,
E discostando l'indolenza della mia veste
I piedi mi guardano che placherebbero il mare.
E tu, calma i fremiti della tua carne senile,
Vieni e la chioma che imita le selvagge onde
Di criniere che v'incutono spavento,
Poiché tu non osi più guardarmi, aiuta
A pettinarmi con noncuranza davanti ad uno specchio.
N.
Se non la gaia mirra chiusa nei suoi flaconi,
Dell’essenza rapita all’invecchiare di rose,
Volete, bambina mia, provare la funebre virtù?
E.
Lascia questi profumi! Non sai
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Che li odio, nutrice, e vuoi che io senta
La mia testa languente inondarsi della loro ebbrezza?
Voglio che i miei capelli, che non sono fiori
Fatti per spandere l'oblio sugli umani dolori,
Ma oro, intatto per sempre da aromi,
Che nei loro lampi crudeli e nei loro spenti pallori
Conservino la freddezza sterile del metallo,
Per continuare a specchiarvi gioielli,
Vasi, trofei, come facevo nella mia infanzia solitaria.
N.
Perdono! L’età cancellava, regina, il vostro divieto
Dalla mia mente sbiadita come un vecchio libro o nero …
E.
Basta! Reggi davanti a me lo specchio!
O specchio!
Fredda acqua dalla noia del tuo riquadro gelata
Quante volte e per ore, desolata
Dai sogni e cercando i miei ricordi che sono
Foglie rinserrate nel tuo profondo abisso di cristallo,
In te mi apparvi come un’ombra lontana,
Ma, orrore!, di sera talvolta, nella tua fonte severa,
Ho conosciuto la nudità del mio sogno confuso!
Nutrice, sono bella?
N.
Un astro, in verità
Ma ti cade una treccia …
E.
Fermati, non compiere
Un delitto che mi gela il sangue alla fonte,
Sarebbe un gesto d’empietà tremenda: Ah! dimmi
Qual demone ti getta in questa funesta agitazione,
Il bacio, i profumi offerti e infine, devo dirlo?,
O cuore, questa mano ancora sacrilega,
Ché tu forse stavi per toccarmi, sono segni di un giorno
Che non si compirà senza sventura sulla torre ...
O giorno a cui Erodiade guarda con terrore!
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N.
Strano tempo, infatti, da cui vi guardi il cielo!
Voi errate, ombra solitaria e strano furore,
Scrutandovi dentro con precoce terrore;
E pur sempre adorabile al pari di una dea,
O bambina mia, e atrocemente bella e tale
Che …
E.
Ma non stavi per toccarmi?
N.
Vorrei
Essere chi solo è destinato ai vostri segreti.
E.
Oh, taci!
N.
Verrà egli un giorno?
E.
O stelle pure,
Non ascoltate!
N.
Come
Immaginare, se non tra oscuri spaventi, implacabile
Eppure supplicante, il dio che è atteso
Dal dono prezioso della vostra grazia! E per chi dunque, divorata
D'angosce, conservate lo splendore ignorato
E il vano mistero della vostra persona?
E.
Per me.
N.
Triste fiore che cresce solo e d'altro non si turba
Tranne che della sua ombra nell'acqua vista con atonia!
E.
Va, serba per te la pietà e l'ironia.
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N.
Dimmi tuttavia: o ingenua bambina,
Non smetterà, un giorno, questo sdegno trionfale …
E.
Ma chi mi toccherebbe, rispettata come sono dai leoni?
Nulla d'umano voglio e se mi vedi, fissa come pietra,
Gli occhi perduti al paradiso, è quando mi ricordo
Del latte che ho bevuto da te.
N.
Vittima che si offre
Al suo destino!
E.
Sì, è per me, per me, che fiorisco, deserta!
Voi lo sapete, giardini d'ametista, sepolti
Senza fine in sapienti abissi abbagliati,
Ori ignorati che la vostra antica luce serbate
Sotto il cupo sonno d'una terra primigenia,
E voi, pietre cui i miei occhi come puri gioielli
Attingono la limpidezza melodiosa, e voi,
Metalli, che donate a questa chioma giovane
Lo splendore fatale della sua massiccia cadenza!
Quanto a te, donna cresciuta in secoli maligni
Per la malvagità degli antri sibillini,
Come puoi parlare d'un mortale! E pensi che dai calici
Della mia veste, aroma di aspre delizie,
Sboccerebbe in un brivido bianco la mia nudità,
Profetizzi che se il tiepido azzurro
D'estate, verso cui naturalmente donna mi svelo,
Mi vede nel mio pudore di stella in cui tremo,
Io muoio!
Amo l'orrore d'essere vergine, e voglio
Vivere nel terrore che mi danno i miei capelli,
Per sentire, la sera, raccolta nel mio letto,
Come rettile inviolato nella mia carne inutile
Il freddo scintillio del tuo pallido chiarore,
O tu che muori, tu che bruci di castità, o notte
Bianca di ghiacci e di neve crudele!
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E tua sorella solitaria, o mia sorella eterna,
Verso di te il mio sogno salirà: tale ormai,
Rara limpidezza di un cuore che lo pensò,
Sola mi credo in questa patria monotona
E tutto intorno a me vive nell'adorazione
Di uno specchio che riflette nell'immobile calma
Erodiade dal chiaro sguardo di diamante...
O estremo incanto, sì! ecco lo sento!
Io sono sola.
N.
State dunque per morire?
E.
No, mia povera vecchia,
Calmati, e adesso vai, vai e perdona questo duro cuore,
Ma prima, ti prego, chiudi le imposte, ché l'azzurro
Serafico sorride nei vetri profondi,
E lo detesto, io, il bell'azzurro!
Onde
Si cullano e dimmi, nutrice, non conosci
Laggiù un paese dove a sera il cielo
Sinistro abbia gli sguardi odiati
Di Venere che arde, la sera, tra le foglie:
Li vorrei andare.
Accendi ancora, infantile capriccio
Tu dirai, le torce ove la cera dal leggero fuoco
Piange tra l'oro vano un pianto straniero,
E ...
N.
Adesso?
E.
Addio.
Voi mentite, o fiore nudo
Delle mie labbra.
Attendo una cosa sconosciuta, o forse,
Ignorando il mistero e le vostre stesse grida,
Da voi si levano i singhiozzi supremi e martoriati
Di un'infanzia che sente tra i sogni
Schiudersi alfine le sue gelide gemme.