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AVARIZIA
una religione alternativa che
sostituisce il culto al vero Dio
con l’idolatria al denaro.
“Come è difficile per un ricco (avaro) entrare nel regno dei
cieli” (Vangelo)
L’avarizia, come l’impurità, è un vizio difficile da guarire perché
penetra nelle fibre più profonde dell’essere umano.
Parrocchia di Isolalta, domenica 8 agosto 2010
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BENEDETTO XVI
ANGELUS
Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Domenica, 1° agosto 2010
Cari fratelli e sorelle,
in questi giorni ricorre la memoria liturgica di alcuni Santi. Ieri abbiamo ricordato sant’Ignazio
di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. Vissuto nel XVI secolo, si convertì leggendo la
vita di Gesù e di Santi durante una lunga degenza causata da una ferita subita in battaglia.
Rimase talmente impressionato da quelle pagine, che decise di seguire il Signore. Oggi
ricordiamo sant’Alfonso Maria de’ Liguori, fondatore dei Redentoristi, vissuto nel XVIII secolo
e proclamato patrono dei confessori dal Venerabile Pio XII. Ebbe la consapevolezza che Dio
vuole tutti santi, ciascuno secondo il proprio stato, naturalmente. In questa settimana la liturgia
ci propone, poi, sant’Eusebio, primo Vescovo del Piemonte, strenuo difensore della divinità di
Cristo, e, infine, la figura di san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, che ha guidato con il
suo esempio l’Anno Sacerdotale appena concluso, e alla cui intercessione nuovamente affido
tutti i Pastori della Chiesa. Impegno comune di questi Santi è stato quello di salvare le anime e
di servire la Chiesa con i rispettivi carismi, contribuendo a rinnovarla e ad arricchirla. Questi
uomini hanno acquistato “un cuore saggio” (Sal 89,12), accumulando ciò che non si corrompe e
scartando quanto è irrimediabilmente mutevole nel tempo: il potere, la ricchezza e gli effimeri
piaceri. Scegliendo Dio hanno posseduto ogni cosa necessaria, pregustando fin dalla vita
terrena l’eternità (cfr Qo, 1-5).
Nel Vangelo dell’odierna domenica, l’insegnamento di Gesù riguarda proprio la vera saggezza
ed è introdotto dalla domanda di uno della folla: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me
l’eredità» (Lc 12,13). Gesù, rispondendo, mette in guardia gli ascoltatori dalla brama dei beni
terreni con la parabola del ricco stolto, il quale, avendo accumulato per sé un abbondante
raccolto, smette di lavorare, consuma i suoi beni divertendosi e s’illude persino di poter
allontanare la morte. «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E
quello che hai preparato, di chi sarà?”» (Lc 13,20). L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non
vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto
passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la
propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza. L’uomo che confida nel
Signore, invece, non teme le avversità della vita, neppure la realtà ineludibile della morte:
è l’uomo che ha acquistato “un cuore saggio”, come i Santi.
Nel rivolgere la nostra preghiera a Maria Santissima, desidero ricordare altre ricorrenze
significative: domani si potrà lucrare l’indulgenza detta della Porziuncola o “il Perdono di Assisi”,
che san Francesco ottenne, nel 1216, dal Papa Onorio III; giovedì 5 agosto, commemorando la
Dedicazione della Basilica di S. Maria Maggiore, onoreremo la Madre di Dio acclamata con questo
titolo nel concilio di Efeso del 431, e venerdì prossimo, anniversario della morte di Papa Paolo VI,
celebreremo la festa della Trasfigurazione del Signore. La data del 6 agosto, considerata il culmine
della luce estiva, fu scelta per significare che lo splendore del Volto di Cristo illumina il mondo
intero.
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“Dio al di sopra di tutto”
Siamo chiamati a possedere il Regno di Dio e dobbiamo vigilare per non lasciarci
sottomettere dalla cupidigia e dall’egoismo – volgendo il nostro cuore verso ciò
che conta davanti a Dio, “arricchire davanti a Dio”.
La ricerca affannosa delle cose terrene, e l’avidità insaziabile dell’accumulo dei
beni materiali è somma stoltezza, vanità della vanità.
Lo sguardo dell’uomo saggio è rivolto alle cose di lassù, alle cose spirituali, a
Cristo che ci accompagna e ci accoglie alla fine del percorso terreno. Il vero
credente che fa della vita una sequela di Cristo, e non una corsa sfrenata al
maggior guadagno, fa morire in se stesso – cioè combatte senza tregua contro
l’impurità, l’immoralità, le passioni disordinate e la cupidigia insaziabile.
In una parola, non concede spazio nella sua mente e nel suo cuore a nessuna
idolatria: “Dio al di sopra di tutto!” E’ un uomo puro, trasparente che
aborrisce ogni falsità e ingiustizia.
Il vero credente non fa dipendere la sua importanza da ciò che possiede,
ma da ciò che ha dentro. La vera grandezza di un uomo sta nella sua
rettitudine, nella sua trasparenza, nella capacità di farsi dono gratuito per gli
altri…. Tutto il resto è solo copertura superficiale, è solo maschera di
carnevale… è solo finzione! Uno vale per quello che è, per le virtù che possiede,
non per quello che ha e quello che appare all’esterno.
Lo stolto gode di ciò che è effimero, che è precario, che esalta la vanità…. Ma è
un godimento illusorio, da stolto. Il vero godimento nasce da una coscienza pura,
da un animo retto, da chi sa amare anche chi viene trattato ingiustamente…
L’amore e la verità alla fine vinceranno sempre anche passando in mezzo alle vie
più tortuose e perverse.
Il Crocifisso del Venerdì Santo è il vero uomo realizzato perché in Lui risplende
solo la verità e l’amore. Chi si rifugia in Lui, trova la vera pace e la vera gioia – è
la somma sapienza.
Omelia di D. Mario – 1 agosto 2010
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Civiltà Cattolica – luglio 2010 - AVARIZIA
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L’AVARIZIA,
IL TENTATIVO ILLUSORIO DI POSSEDERE LA VITA
GIOVANNI CUCCI S.I.
Una verità «chiara e distinta»
La riflessione di tutti i tempi ha riconosciuto il fascino che il denaro esercita su chi lo possiede e
ancora di più su chi non lo possiede, dando origine al vizio noto come avarizia. Aristotele
raccomanda di essere liberali circa i beni materiali, cioè di vivere a giusto mezzo, badando a che
essi rimangano strumenti che consentono di vivere, mentre attaccarsi ad essi è segno di ingiustizia:
«Poiché l'uomo ingiusto è un uomo che desidera avere di più, egli avrà a che fare con i beni: non
con tutti, ma con quelli cui sono relativi la buona sorte e la cattiva, i quali sono sempre beni in senso
assoluto, ma non sempre per qualcuno. Gli uomini li chiedono nelle loro preghiere e li perseguono;
ma si deve pregare che quelli che sono beni in senso assoluto lo siano anche per noi, e scegliere
quelli che sono beni per noi» .
Il pericolo dell'attaccamento alle cose è un tema molto presente nella Bibbia: «Il denaro risponde a
ogni esigenza» (Qo 10,19): «Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su
di esse volano i tuoi occhi ma già non ci sono più: perché mettono ali come aquila e volano verso il
cielo» (Prv 23,45); «Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: «Basto a me stesso"» (Sir 5,1);
«L’insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno» (Sir 3 1, 1).
Per san Tommaso si tratta di una deriva presente anche negli altri vizi capitali, perché mostra
l'elemento comune della brama, «l'appetito disordinato», proteso verso ogni possibile bene, senza
che sia presente una reale necessità. La ragione «formale» che fa dell'avarizia un vizio non è tanto
mostrare un interesse speciale per il denaro e le cose in genere, ma che esse assumano un valore
simbolico spropositato, divenendo sinonimo di stima, pace, sicurezza, potere.
Non si può certamente sostenere che l'avarizia sia un vizio attualmente biasimato, anzi una società
che cerca di trasformare ogni tipo di avvenimento in valutazione monetaria (tale è in sostanza
l'andamento della borsa) difficilmente potrebbe stigmatizzare l'avarizia. O. Wilde lo aveva
riconosciuto più di un secolo fa con IL solito tagliente humour: «Al giorno d'oggi i giovani credono
che il denaro sia tutto. E’ solo quando diventano più vecchi che sanno che è cosi». Questo generale
consenso nei confronti di «sua maestà il denaro» si nota anche dallo spazio che i media dedicano a
coloro che vengono impropriamente chiamati vip, posti al vertice di imprese, banche, istituti: essi
sembrano diventati i nuovi sacerdoti del tempio in cui si celebra il culto dell'uomo moderno.
Al prestigio economico e sociale raramente però sembra accompagnarsi un'altrettanto evidente
ricchezza a livello etico, spirituale e umano, come aveva già riconosciuto Aristotele. Quando queste
persone vengono intervistate o descritte in qualche articolo, raramente è mostrata «l'altra faccia
della medaglia», cioè il prezzo pagato per tutto questo, non solo in termini di compromessi, ma
soprattutto circa le persone, spesso i più deboli, che hanno fatto le spese di questa vittoriosa ascesa,
trovandosi economicamente rovinati. Anche lo sviluppo storico della società europea ha
indubbiamente contribuito al formarsi di questa mentalità, nient'affatto ovvia e scontata: si ricordi,
ad esempio, la sorpresa degli esploratori dei secoli scorsi nel notare l'assenza di avidità e la totale
ignoranza a proposito di qualcosa di vagamente simile al termine «denaro» presso molti popoli,
ingiustamente definiti «primitivi». Tale confronto tuttavia non ha minimamente messo in
discussione le convinzioni dell'uomo europeo in proposito: se, a partire da Cartesio, egli ha
cominciato a dubitare di tutto, il denaro non ha mai conosciuto questa rivisitazione critica propria
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della modernità, esso non è mai stato attraversato da perplessità di alcun genere. Riprendendo
Cartesio, la moneta potrebbe anzi essere qualificata come una delle poche «idee chiare e distinte»
che si impongono con la loro evidenza.
Come nota con acume Péguy: «Per la prima volta nella storia del mondo il denaro è solo
davanti a Dio. Ha raccolto in sé tutto quanto c'era di velenoso nel temporale e adesso è fatta. Per
non si sa quale aberrazione di meccanismo, per uno svisamento, per un disordine, per un mostruoso
impazzimento della meccanica, quello che doveva servire soltanto allo scambio ha completamente
invaso il valore da scambiare. Non bisogna, dunque, dire solamente che nel mondo moderno la
scala dei valori è stata capovolta. Bisogna dire che è stata annientata dacché l'apparato di misura, di
scambio e di valutazione ha invaso tutto il valore che esso doveva servire a misurare, scambiare,
valutare. Lo strumento è diventato la materia, l'oggetto e il modo».
Questa mentalità, che di fatto ammira chi si arricchisce a qualunque costo anche se in apparenza lo
condanna (ma forse alla base di ciò si trova un altro vizio, l'invidia), può trovare una conferma nelle
difficoltà giuridiche di valutare la gravità di tali azioni. Si nota infatti una certa macchinosa fatica a
riconoscere e, di conseguenza, a punire in modo appropriato chi si impossessa del denaro altrui in
modo sofisticato, tramite computer, compiendo operazioni illecite, calpestando con la massima
tranquillità la fiducia di ignari clienti e risparmiatori pur di ricavarne vantaggi, con conseguenze
disastrose su scala planetaria, come si può notare dall'attuale crisi economica.
Fenomenologia dell'avarizia
Anche se con il termine «avarizia» si intende propriamente l'attaccamento alle cose in genere, di
fatto essa è stata considerata dalla riflessione letteraria, filosofica e spirituale per lo più nella sua
accezione specifica di philargyria, «amore per l'argento», riconoscendo nel denaro l'elemento
rappresentativo di tutto quello che può essere utile e servire in ogni circostanza.
Chi ha riflettuto su questo vizio nota che non è il bisogno a muovere l'avaro ma il potere;
egli spera che con l'accumulo potrà disporre come vuole della propria vita, scacciando l'ansia
dell'insicurezza e della dipendenza dagli altri, mettendosi al riparo dai capricci della fortuna, dalle
possibili calamità stagionali e, in ultima analisi, anche da Dio. E con il tempo tale vizio acceca e
rende capaci delle cose più orribili pur di aumentare la propria ricchezza. L'avarizia risulta perciò
estremamente difficile da estirpare, perché penetra con soavità nel profondo del cuore umano,
generando altre cattive disposizioni. E’ questa sua dinamica ramificata a renderla un vizio capitale.
Questa è una delle ragioni per cui, secondo san Tommaso, l'avarizia è un male molto difficile da
guarire, «a causa della condizione del soggetto, poiché la vita umana è continuamente esposta alla
mancanza; ma ogni mancanza spinge all'avarizia: per questo, infatti, si ricercano i beni temporali,
affinché sia portato rimedio alla mancanza della vita presente».
Bosch raffigura l'avarizia nelle vesti di un giudice corrotto che sembra ascoltare un contadino che
gli chiede giustizia, ma tutta l'attenzione è concentrata nella sua mano sinistra che si appresta a
ricevere una pesante borsa di monete per emettere una sentenza addomesticata. Il denaro si mostra
capace di compiere miracoli al contrario: rende cieco chi vede, sordo chi ascolta e muto chi parla.
L’avarizia, vizio dello spirito
Le considerazioni fin qui svolte mostrano come l'avarizia non consista essenzialmente nel fatto di
possedere molti beni e nemmeno di per sé è sinonimo di ricchezza; è piuttosto la brama e l'avidità di
possesso che indurisce il cuore e conduce alla presunzione di autosufficienza, di bastare a se stessi e
di non aver bisogno di nulla. Questa è la ragione per cui è stata strettamente associata alla superbia,
all'invidia (perché vorrebbe possedere i beni degli altri), all'ira (qualora si perdano gli agognati beni
o non risulti possibile conseguirli). La radice di tali vizi è comune: la bramosìa e l'attaccamento alle
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cose, come ricorda san Paolo (cfr 1 Tm 6, 10; Ef 5,5; Col 3,5). Si tratta dunque di un vizio
essenzialmente affettivo e spirituale: «Rivolto al superfluo, il desiderio dell'avaro non può che
essere infinito, ma, nella misura in cui è infinito, è anche necessariamente frustrato, poiché le
ricchezze, quali e quante che siano, sono sempre comunque finite» .
Da qui l'aspetto religioso dell’avarizia, perché il denaro fornisce l'illusione di essere onnipotenti: il
denaro per sua natura consente un'autosufficienza che nessun altro oggetto potrebbe fornire. Per
Péguy esso è l'unica alternativa veramente atea a Dio, perché dà l'illusione di poter ottenere tutto,
poiché ogni realtà può essere trasformata in denaro, che a sua volta consente di entrare in possesso
di ogni cosa. Marx, analizzando la mentalità capitalista, frutto della rivoluzione industriale, ha
notato con acume e incisività il suo carattere essenzialmente religioso, cioè di consacrazione di tutto
il proprio essere a una realtà considerata come assoluta, superiore a ogni altra. Il denaro è il nuovo
dio, il centro dell'universo capace di far girare attorno a sé ogni cosa, con esso ci si può sentire
onnipotenti: «Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono
brutto, in quanto l'effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono,
come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo
malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo
possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono: il denaro mi
dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, considerato onesto; io sono stupido,ma il
denaro è la vera intelligenza di ogni cosa: come potrebbe essere stupido il suo possessore? Inoltre
questo può comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è egli più
intelligente dell'uomo intelligente? [ ... ] Poiché il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del
valore, confonde e scambia tutte le cose, esso costituisce la generale confusione e inversione di
ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e
umane».
Questa pagina ritrae la storia di sempre dell'avidità dell'uomo occidentale. La considerazione del
denaro come una sorta di bacchetta magica capace di risolvere ogni problema, di trasformare ogni
cosa nel suo contrario, è molto presente anche nella poesia e nella letteratura, come si può vedere da
questo carme del sec. XII, molto simile alle considerazioni di Marx: «Se un ladro o un bandito
viene arrestato, / si dà del denaro ai giudici, e subito / quello diventa il giusto Catone; / se uno è
stupido e non è in grado di studiare / le sacre arti, studi allora i denari: / diventerà Aristotele. / Da
una bella signora giunge un amante piacente, / se non ha portato niente, viene scacciato dal talamo;
/ si fa avanti uno brutto ma pieno di soldi, / trova ogni cosa a sua disposizione. / Il denaro regna,
governa, impera e vince ogni cosa. / Comanda insieme a Giove; / entrambi, assunti a divinità, sono
venerati in tutto il mondo, / ma vale di più il denaro, che come dio conta per due. / Infatti quello che
né i tuoni né i fulmini possono piegare / il denaro lo piega e lo fa proprio. / Giove offeso non
vendica tutti gli insulti, innumerevoli sono invece le offese che il denaro punisce».
L’avarizia, poiché non riguarda un bisogno del corpo, né tende a un piacere ad esso proprio, ricerca
una soddisfazione di tipo affettivo ma insieme impalpabile, legata all'immaginazione. Questo
carattere spirituale dell'avarizia è ben mostrato dal suo oggetto basilare, il denaro, che ha in sé una
componente essenzialmente simbolica, di rimando ad altro: è un semplice pezzo di carta, ma
consente l'accesso ad altre cose, fornendo in tal modo onori e considerazioni. Il denaro sembra in
grado di aprire ogni porta, di trasformare ogni difetto, come aveva notato Marx: «Il denaro non è
solo in grado di rappresentare tutte le ricchezze in quanto misura del loro valore; c'è in esso, nel
materiale che lo costituisce e nell'uso che gli uomini ne fanno, anche una straordinaria forza
simbolica che, attraverso l'evocazione dello spettro dell'idolatria, è capace di connotare eticamente
le ricchezze in senso negativo aumentando così il peso specifico della colpa di quanti le amano
troppo».
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L’avarizia appare così come una forma mondana di consacrazione a un idolo, qualcosa cui si è
disposti a offrire tutta la propria vita, sacrificando per esso anzitutto la propria libertà e dignità:
«Proprio come il cane viene condizionato a emettere la saliva non più alla vista del cibo ma al
suono della campana che lo annuncia senza più in realtà vederlo, così l'avaro è attirato dal denaro
anche se esso si accumula inutilizzato» In questo vizio si nota una situazione capovolta anche a
proposito della pratica di mortificazione e penitenza; l'avaro si impone un'ascesi in vista del futuro,
centellinando il presente invece di viverlo. E l'ansia, a sua volta, gli impedisce di godere di ciò che
possiede, pur avendolo conseguito con successo.
Sant'Ignazio di Loyola aveva riconosciuto nella bramosìa delle cose il primo laccio che il demonio
mette al piede di chi vorrebbe camminare nella vita spirituale, da cui segue ogni altro tipo di vizio e
male possibile. Il denaro, infatti, ben lungi dal rassicurare, quando diventa fine a se stesso aumenta
le paure: quella di perdere ciò che si è guadagnato, la paura che un rivale si aggiudichi quell'affare
bramato, che si venga superati nella scala sociale, rendendo vana la fatica di una vita.
Per un curioso meccanismo psicologico, quando si cerca una eccessiva sicurezza, che il denaro
dovrebbe assicurare, si ottiene il risultato esattamente contrario, l'ansia e l'insicurezza si diffondono
e prosperano con sempre maggiore intensità. Questo è esattamente lo stato d'animo caratteristico
degli avari: «Essi sono sempre nell'agitazione, e la loro anima non ha riposo. La premura di
possedere ciò che ancora non hanno fa si che considerino nulla quello che hanno già. Da un lato,
tramano nell'apprensione di perdere ciò che hanno già accumulato e, dall'altro, lavorano per
possedere altre cose, a che vuol dire nuovi motivi di paura». I Padri della Chiesa sottolineano spesso
l'angoscia mortale che assilla l’avaro, considerata come una serpe che si morde la coda; più
possiede e più viene posseduto da ciò che lo spinge ad accumulare, cioè l'ansia e la paura.
Un altro sentimento tipico dell'avaro è la tristezza, legata alla delusione di non poter mai trovare
pienamente quello che brama, ma di sentirsi sempre più indigente: «Come il mare non è mai senza
flutti e senza onde, allo stesso modo l'avaro non è mai senza tristezza». La sua tribolazione ricorda
il castigo terribile al quale fu sottoposto il re Mida, un castigo che consiste proprio nell'esaudimento
della sua brama vorace. C'è una sorta di strano masochismo in questo vizio, in quanto ciò che si
ritiene essere l'unica fonte di felicità, rende in realtà angosciati, fino a rovinarsi la vita: «Non solo
gli avari si privano della gioia di ciò che hanno e di ciò che non osano usare a loro piacimento, ma
anche di quello di cui non sono mai sazi e hanno sempre sete: vi può essere qualcosa di più
penoso?».
Dante mostra il carattere peculiare dell'avaro mediante uno schizzo folgorante; nel canto VII
dell'Inferno sottolinea che gli avari risorgeranno con il pugno chiuso, a simboleggiare la loro
maniera di approccio alla vita, agli altri e ai beni, che si è ormai cristallizzata per sempre. L'avaro è
scolpito per l'eternità nell'atteggiamento di chi vorrebbe stringere tutto a sé, ma finisce per stringere
il vuoto, soffocando e uccidendo quanto lo circonda, a cominciare da se stesso. Per Dante essi sono
il gruppo più numeroso che si trova all'inferno, al punto che si dovrebbe apporre all'ingresso il
fatidico cartello: «Siamo al completo, non c'è più posto»: «Qui vidi gente più che altrove troppa»,
nota con sarcasmo. Gli appartenenti a questo vizio sono talmente tanti e diversificati da dover essere
collocati in differenti gironi dell'inferno: ci sono gli usurai e i simoniaci, rispettivamente nel settimo
e ottavo cerchio; gli avari e i prodighi («la corta buffa») che hanno basato la loro vita sulla vana
fortuna, e per l'eternità si rinfacciano i rispettivi vizi, anche se inutilmente, poiché gli uni sono
incapaci di comprendere l'atteggiamento degli altri.
L’avaro, un uomo solo
L’avarizia, essendo animata dalla grettezza, manifesta la povertà d'animo di chi ne è affetto:
egli è incapace di gesti generosi, di coinvolgersi in qualcosa senza aver prima calcolato quanto ci
potrà guadagnare. C'è un legame stretto tra avarizia e solitudine: l'avaro si trova a suo agio soltanto
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in compagnia delle cose, l'unica realtà di cui può fidarsi: «L’immagine è quella di un personaggio
triste, solitario, abbandonato dagli amici, poco loquace, sempre sospettoso, spesso brusco e
arrogante, nel migliore dei casi maleducato», perché l'avarizia abbruttisce l'animo, rende grossolani,
superficiali, infelici, in una parola disumani. L’avaro si è fossilizzato, diventando una cosa sola con
le ricchezze che ha accumulato, assumendo la medesima fissità impersonale delle cose, il che è
come dire che egli è già morto.
Infatti è proprio al momento della morte che la solitudine dell'avaro mostra tutta la sua evidenza,
poiché nulla di ciò che lo circonda e a cui si è affezionato lo può davvero sostenere e confortare;
egli, barattando le persone con le cose, non ha mai potuto amare nessuno. Come un faraone sepolto
nella sua piramide, egli ha suo malgrado realizzato il sogno che lo accompagnava da sempre:
diventare una cosa sola con le sue ricchezze; ma chi osserva le cose dal di fuori nota uno spettacolo
ben diverso: «Coloro che hanno scoperto il tesoro di Tutankhamen devono aver provato qualcosa di
spettrale. Immaginiamo il corpo del faraone sigillato insieme alle sue ricchezze per tutti questi
secoli in una camera buia e senz'aria. Quando è stata aperta, il suo corpo si era decomposto, ma l'oro
e gli alabastri avevano conservato la loro forma e sostanza, e scintillavano e brillavano come
sempre. Ciò che risultava assente da tutto questo era il faraone stesso. I gioielli dicevano della sua
maestà - cioè del suo status - ma non dicevano nulla dell'uomo [ ... ], un oggetto seppellito tra altri
oggetti [ ... ], in mezzo ai quali quell'uomo è diventato l'oggetto più spento e senza vita. Se
guardiamo con franchezza alle nostre attuali società, come possiamo negare che questa sia anche la
nostra immagine?».
Rimedi all'avarizia
Per Aristotele la virtù contrapposta all'avarizia non è la prodigalità, che è piuttosto un vizio opposto
nelle sue manifestazioni ma molto simile nella sua dinamica affettiva, come aveva ben visto Dante.
L’atteggiamento contrario alla grettezza è piuttosto la liberalità, analizzata nel libro IV dell'Etica
Nicomacbea, intesa come la capacità di donare secondo le proprie possibilità. Usare di ciò che si è
ricevuto perché altri possano vivere bene è la migliore cura per il vizio dell'avarizia, perché va
a toccare l'affetto, consentendo di sperimentare, in chi dona, sentimenti nuovi, che lo rendono
capace di gesti finora impensati. Questa mutata sensibilità affettiva verso le cose è in grado di
contrastare efficacemente l'avarizia, come aveva ben riconosciuto Cassiano: «Non servirà a nulla
privarsi del denaro, se sussisterà in noi la brama di possederne» . Tale predisposizione fa infatti
scattare qualcosa nel cuore di chi lo attua, il desiderio di spendere bene la propria vita, e rende la
persona capace di sacrifici anche notevoli, perché il cuore è diventato sensibile alle sofferenze e ai
bisogni altrui.
Questa è d'altronde la verità stessa delle cose; esse esistono in vista dell'altro, sono, come ricorda
Winnicott, «oggetti transizionali», una possibilità di uscire dalla solitudine autistica del sé per
incontrare l'altro (trans-ire). E’ nell'incontro con l'altro, nella relazione, che l'uomo ritrova la verità
di se stesso. La condivisione dei beni è la condizione basilare perché la vita si diffonda e sviluppi
sempre più: l'atteggiamento dell'avaro fa violenza alla stessa natura; la sua tendenza all'accumulo è
un autentico progetto di anticreazione: «II Creatore vuole trasmettere e comunicare se stesso e ciò
che gli appartiene. Allo stesso modo si comportano le sue creature: il sole trasmette la luce, il fuoco
il calore, gli alberi i frutti [ ...] L’avaro invece non vuole condividere con nessuno ciò che possiede
se non quando è costretto dalla morte».
Forse al fondo dell'avarizia c'è questo sforzo sovrumano di volersi guadagnare l'esistenza, meritarsi
di vivere, una forma malata di stima di sé. Al contrario, senza la gratuità nulla sarebbe possibile, e a
maggior ragione non sarebbe possibile alcun guadagno, alcuna ricchezza; d'altra parte nessuno potrà
mai pareggiare i conti, ma deve piuttosto spendersi per impiegare a sua volta ciò che ha ricevuto
gratuitamente.
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Indubbiamente, anche a proposito di questo vizio, un percorso spirituale risulta di grande aiuto per
coltivare la gratuità e gustare la vita, mostrando l'importanza di mettersi di fronte al Signore in uno
spazio che è per definizione «sacro» (= separato) e non «produttivo». Una tale predisposizione
d'animo aperta alla relazione di accoglienza gratuita dell'amore di Dio aiuta a introdurre sentimenti
nuovi che danno sapore alla vita. Questa è una delle molte verità racchiuse nell'insegnamento
biblico del sabato, inteso come giorno consacrato al Signore: «L’ebraismo cerca di tramutare il
nostro desiderio per le cose dello spazio in desiderio per le cose del tempo, insegnando all'uomo a
desiderare il settimo giorno durante tutta la settimana [ ...]. E’ come se al comando: “Non
desiderare le cose dello spazio", corrispondesse: "Tu desidererai le cose del tempo». Quando si
dimentica di santificare quel giorno ci si aliena, smarrendosi nelle cose.
Al fondo delle prescrizioni date al popolo di Israele in vista dell'ingresso nella terra promessa c'è la
convinzione che ciò che conta maggiormente, più dei beni ricevuti, è il bene che con essi si può
compiere nei confronti dei più poveri. Questo prezioso insegnamento è ricordato dalla Bibbia
mediante l'invito a offrire la decima al Signore (cfr Dt 14,22-29) in favore del bisognoso e del
forestiero. La decima da offrire ricorda due cose fondamentali al credente: che tutto ciò che ha ed
è, esiste nella forma del dono e non del merito; inoltre che tramite essa l'uomo restituisce in
piccola parte ciò che in fondo non gli appartiene veramente, creando quegli spazi di comunione che
possono essere considerati, come il sabato, un anticipo della beatitudine eterna.
Nel racconto di K. Blixen, Il pranzo di Babette, diventato celebre anche grazie a un'eccellente resa
cinematografica, si ritrova in forma letteraria quanto si notava in sede spirituale; quale potere abbia
cioè il dono per ristrutturare una situazione, a livello individuale e sociale. Nel racconto, ambientato
in un piccolo villaggio della Danimarca di fine Ottocento, questa trasformazione si nota anzitutto a
proposito della donatrice, Babette, capitata come profuga in quel villaggio, con alle spalle una storia
di fallimenti, sofferenze, lutti; l'unica cosa che ha ancora con sé è un biglietto della lotteria che,
dopo qualche anno, le frutterà il primo premio, 10.000 franchi, un'autentica fortuna. A questo punto,
tutti si aspettano che Babette lasci il villaggio e si goda il denaro; ella invece decide di impiegarlo
unicamente per preparare un pranzo di ringraziamento per la comunità, un pranzo ricco di ogni ben
di Dio. E al termine del racconto si viene a sapere che la persona maggiormente beneficiata è stata
proprio Babette. All'obiezione che non avrebbe dovuto sperperare tutto questo per loro, ella
risponde con inattesa semplicità: «Per voi? No. Per me [ ...] . Io sono una grande artista [ ... ] Un
grande artista, mesdames, non è mai povero. Abbiamo qualcosa, mesdames, di cui gli altri non
sanno nulla».
Babette infatti, preparando quel pranzo, ha potuto anch'essa riconciliarsi con coloro che le avevano
fatto del male, le persone che le avevano ucciso i familiari, costringendola a fuggire sola e indigente
da Parigi. Ella non prova più risentimento nei loro con fronti, perché anche verso di loro ha saputo
mettere a disposizione le sue capacità di cuoca: anche ai suoi nemici aveva fatto conoscere il suo
talento ed è questa, alla fine, la sola cosa che per lei ora conta, la cosa che ha reso bella la sua vita:
«Perché, mesdames, - disse, alla fine - questa gente mi apparteneva, era mia [... ]. Potevo renderla
felice. Quando facevo del mio meglio riuscivo a renderla perfettamente felice» .
Questo racconto può essere considerato un bel commento narrativo all'Eucaristia, il pasto in cui il
Signore Gesù chiama a raccolta i suoi, amici e nemici, spendendo tutto se stesso, la sua stessa vita
per tutti, perché tutti siano in comunione con Lui e tra di loro. La vera ricchezza, che realmente ci
appartiene, è quella che si riceve offrendo il meglio che si ha, divenendo partecipi della generosità
sovrabbondante di Dio. Soltanto donando è possibile uscire dalla solitudine infernale in cui si è
rinchiuso l'avaro.
da Civiltà Cattolica – 3 luglio 2010
Editoriale: AVARIZIA
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Riassumendo:
1. AVARIZIA: fascino che esercita il denaro su chi lo possiede, e ancor più su chi non lo
possiede. Non affannatevi per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinunzia. Su di esse
volano i tuoi occhi ma già non ci sono più, perché mettono ali come aquila e volano verso il
cielo” (Prov. 23,4-5).
“Non confidare nelle tue ricchezze e non dire “basto a me stesso” (Sir. 5,1).
“L’insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno” (Sir. 31,1).
2. Non è propriamente il bisogno che spinge l’avaro a bramare il denaro, ma è in quanto il
denaro compensa l’illusione di un potere – di bastare a se stesso, di non aver bisogno di
nessuno, quindi di avere la massima sicurezza.
3. Lo stolto del Vangelo gode per l’illusione di avere col denaro la massima tranquillità,
sicurezza, stima, potere. Col denaro può permettersi tutto perché il denaro è tutto… “Stolto,
questa notte morirai”…a quella curva di strada perirai… con un infarto tutto è finito… sei
un povero illuso.
4. L’avarizia non è un vizio biasimato, tutto è ridotto a valutazione monetaria. Il
denaro è il sommo dei valori verso cui tendono i più. E’ il vero “dio” verso cui si prostrano
tanti.
5. Soldi e amicizia soffocano la giustizia. Ma possiamo dire che sulla scena restano solo i
soldi. Quando l’amicizia è in perdita si affievolisce o si spezza. Lo vediamo nelle famiglie
quando si tratta di assistenza agli anziani e ai disabili. Quando non c’è un interesse – tutto
finisce nel dimenticatoio e nella trascuratezza.
6. Solo i facoltosi - al vertice delle imprese, di banche, di istituti di credito – godono di
prestigio universale e sono considerati i nuovi sacerdoti del tempio in cui si celebra il culto
dell’uomo moderno. Al prestigio economico e sociale raramente si accompagna
un’altrettanta ed evidente ricchezza a livello etico, spirituale e umana, come aveva
riconosciuto Aristotele.
Di queste persone, di rado si mostra l’altra faccia della medaglia – a prezzo di quali
compromessi hanno raggiunto certi livelli, spesso a spese dei deboli, degli ingenui, degli
indifesi…Su tutto si può dubitare ma non sul valore del denaro…Il denaro compendia e
riassume tutti i valori.
Il denaro che doveva servire allo scambio ha completamente inverso il valore da
scambiare.
La scala dei valori non è stata capovolta, ma semplicemente annientata, dacchè
l’apparato di misura, di scambio e di valutazione ha invaso tutto il valore che esso doveva
servire a misurare, scambiare, valutare. Lo strumento è diventato la materia, l’oggetto e il
modo.
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7. Si ammira e si invidia chi arricchisce… E’ quasi impossibile – nella mentalità odierna
riconoscere e punire chi si impossessa del denaro altrui in modo indebito e furbesco,
calpestando con la massima tranquillità la fiducia di ignari e sprovveduti clienti e
risparmiatori.
8. L’avaro è spinto ad accumulare, più che dal bisogno, dal potere: egli è convinto che
accumulando denaro potrà disporre della propria vita come vuole, scacciando l’ansia
dell’insicurezza e della dipendenza dagli altri, mettendosi al riparo dai capricci della
fortuna, dalle possibili calamità stagionali e, in ultima analisi, anche da Dio. E con il tempo
tale vizio acceca e rende capaci delle cose più orribili pur di aumentare la propria ricchezza.
L’avarizia risulta perciò estremamente difficile da estirpare, perché penetra nel profondo del
cuore umano, generando una cascata di cattive inclinazioni.
9. Secondo S. Tommaso, l’avarizia è un male difficile da guarire… perché produce nel
cuore la convinzione che tutto è possibile col denaro. Il denaro rende cieco chi vede, sordo
chi ascolta, e muto chi parla. E’ una vera catastrofe antropologica delle relazioni umane, è la
causa di tutti i conflitti e di tutte le guerre.
Lo stolto della parabola evangelica ragiona così: “anima mia, hai a disposizione molti beni,
per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!” (Lc. 12, 13-21). La sicurezza, peraltro
illusoria, è tutta nel denaro, nei beni materiali.
10. L’avarizia è soprattutto brama e avidità di possesso che indurisce il cuore e conduce
alla presunzione di autosufficienza, di bastare a se stessi, di non aver bisogno di nulla.
L’avarizia è un vizio affettivo e spirituale, e consiste in un attaccamento morboso, dando
caratteristiche di infinito e assoluto, a ciò che è effimero e precario. “Stolto, questa notte ,
morirai” – e in mano di chi finiranno le tue agognate e assolutizzate ricchezze?
11. Il denaro introduce l’uomo in un delirio di onnipotenza, in quanto consente
un’autosufficienza che nessun altro oggetto potrebbe fornire. E’ l’alternativa a Dio.
Col denaro ci si illude di ottenere tutto. L’idolatria del denaro è una religione
alternativa. Tutto è subordinato al denaro.
Povera Europa, se è fondata sull’euro ( €) come valore supremo! Il denaro è il nuovo
“dio”, il centro dell’universo capace di far girare attorno a sé ogni cosa, con esso ci si illude
di essere onnipotenti.
12. Il denaro ha un valore simbolico, è un semplice pezzo di carta, ma consente l’accesso
ad altre cose – sembra in grado di aprire ogni porta. Il denaro soffoca anche i sentimenti
più nobili, quale l’amicizia, gli affetti familiari.
13. L’avarizia è la forma mondana di consacrazione a un idolo, è qualcosa a cui si è
disposti a sacrificare la propria vita. Quanti sacrifici, quanti rischi affrontati in nome del
“dio denaro!”.
L’avaro, spesso, è soddisfatto solo dell’accumulo del denaro… anche se tale accumulo resta
inutilizzato. “Raccogliere i prodotti abbondanti nel granaio” è già una soddisfazione.
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14. L’avaro si sottopone a sacrifici inauditi in vista del futuro, che sempre lo preoccupa.
L’avarizia è il più potente laccio che satana mette ai piedi per impedire un autentico
cammino spirituale.
15. Il denaro, in realtà , produce tutto il contrario di quello che si vorrebbe ricavare
dall’accumulo della ricchezza: aumenta le paure, l’ansietà di perdere quello che si è
guadagnato, che un altro lo sorpassi.
L’eccessiva sicurezza del denaro acquisito si trasforma nella massima insicurezza di perdere
tutto da un momento all’altro. L’impero economico può diventare un disastro economico.
L’angoscia mortale dell’avaro è come una serpe che si morde la coda; più possiede e
più viene posseduto da ciò che lo spinge ad accumulare, cioè l’ansia e la paura.
16. L’avaro è un uomo triste – perché vive del complesso di non aver mai tutto quello che
brama avidamente di avere. Il denaro – considerato l’unica fonte di felicità - è per l’avaro
causa di angoscia e di inquietudine. L’avaro è scolpito per l’eternità nell’atteggiamento di
chi non è mai contento; vorrebbe stringere tutto a sé, ma finisce per stringere il vuoto,
soffocando e uccidendo quanto lo circonda, a cominciare da se stesso. Per Dante, nella
Divina Commedia, gli avari sono il gruppo più numeroso che si trova all’inferno.
17. L’avaro è un uomo solo – perché incapace di autentici atti d’amore disinteressato.
L’avaro è un calcolatore – sospettoso – brusco – arrogante. L’avarizia abbruttisce l’animo,
lo disumanizza, rende grossolani, superficiali, infelici.
L’avaro ha il cuore di pietra – tutto calpesta, anche i sentimenti più intimi , per
rivendicare la sua ingordigia, - pensa sempre di essere defraudato dagli altri. L’avaro è una
persona morta dentro.
18. Al momento della morte scopre la sua solitudine profonda, piomba nella disperazione,
perché il suo “dio denaro”, ora, non lo può più sostenere e confortare. L’avaro muore
“disperato” nella più terribile solitudine che ora si manifesta nella sua spietata realtà.
19. Il contrario dell’avarizia è la liberalità. Usare di ciò che si è ricevuto perché altri
possano vivere bene. “Non servirà a nulla privarsi del denaro, se sussisterà in noi la brama
di possedere”.
La liberalità suscita il desiderio di spendere bene la propria vita e rende la persona capace di
sacrifici anche notevoli, perché sensibile alle sofferenze e ai bisogni altrui. Nel dono di sé
all’altro, l’uomo ritrova la verità di se stesso.
20. Secondo la Bibbia, ciò che maggiormente conta, più dei beni ricevuti, è il bene che con
essi si può compiere nei confronti dei più poveri. Soltanto donando è possibile uscire
dalla solitudine infernale in cui si è rinchiuso l’avaro.
a cura di D. Mario
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