“NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO”

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“NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO”
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Verona, 15 settembre 2012 - Incontro con Rinnovamento nello Spirito Santo
“NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO”
Intervento di mons. Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia
Per una buona comunicazione è fondamentale l’uso delle parole. Già in se stessa, una parola
può risultare gradita o sgradita, provocare accoglienza o rifiuto. Ogni parola, poi, ha il suo
significato, acquisito lungo il tempo, che la connota positivamente o negativamente, e di cui
bisogna tenere conto. La scelta delle parole, quindi, è determinante; ciò è vero anche per la parola
“comandamenti”.
Per l’opinione comune “comandamenti” è sinonimo d’imposizione e costrizione; il rimando,
infatti, è a un contesto di obblighi, doveri e vincoli; così anche la persona docile e accondiscendente
di fronte alla parola “comandamento” avverte un senso di timore, disagio, avversione.
Fin qui si è detto quanto la parola “comandamenti” provoca presso la pubblica opinione, ma
le cose stanno diversamente per la rivelazione cristiana. Il libro dell’Esodo, prima d’enumerare i
dieci comandamenti, premette: “Dio allora pronunciò tutte queste parole” (Es 20,1).
Ora, le Dieci Parole rivelate a Mosè sul monte Sinai, e che Gesù compirà nel Nuovo
Testamento, elevandole ad un piano più alto, chiedono d’esser intese secondo la logica di Dio. E nel
progetto salvifico di Dio il Decalogo non è imposizione che viene dall’esterno, costrizione indebita;
piuttosto è, a livello antropologico, strumento di reale crescita per l’uomo, mentre sul piano
teologico è possibilità di una concreta comunione con Dio.
Tutto questo è percepito da alcuni come limitativo o coercitivo ma, in realtà, per il sapiente
progetto di Dio, è l’inizio di un percorso di liberazione verso la piena e reale libertà che, proprio
perché tale, non è solo libertà “da” ma anche e sempre libertà “per”. In estrema sintesi più l’uomo è
“prossimo” a Dio più l’uomo è “prossimo” all’uomo.
Il salmo 119 è il più lungo fra i testi del salterio; consta di 176 versetti, ordinati in 8 strofe; è
un canto in onore della Legge del Signore, in esso ricorrono diversi termini che tratteggiano l’ampio
concetto di Legge o Parola di Dio. Tra questi troviamo anche i termini “precetti” (piqqudin) e
“comandi” (miswah). Quindi, secondo la prospettiva divina, i precetti (piqqudin) e i comandi
(miswah) - al di là della comune sensibilità e percezione - sono dati per la realizzazione dell’uomo e
per costruire la comunione con Dio, anzi per realizzare l’uomo, costruendo la comunione con Dio.
Così, il dono della Legge o Parola di Dio - costituita anche da precetti (piqqudin) e comandi
(miswah) - offre la certezza che il Signore abita in mezzo al suo popolo, non soltanto in forza della
sua onnipresenza ma per la modalità specifica di Colui che al Sinai, per la prima volta, si è
manifestato in maniera inusitata, personale, storica.
Le Dieci Parole o Decalogo rivestono per la legislazione ebraica un valore particolarissimo.
Già l’Antico Testamento si sforzava di leggere il Decalogo in maniera più esistenziale, spirituale e
personale, correggendone una lettura unicamente negativa e legalistica.
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Le Dieci Parole sono riportate sia nel libro dell’Esodo (20,1-17) - come detto sopra - sia nel
Deuteronomio (5, 1-22); esse, lo ribadiamo, hanno uno scopo preciso: sono la via maestra per
vivere l’Alleanza e far in modo che l’uomo possa far comunione con Dio dentro la sua vita, non al
di fuori di essa; poiché ogni presa di distanza dal vivere quotidiano concreto è inaccettabile fuga da
se stessi. Non si tratta di vincoli, di costrizioni, di divieti ma di una proposta di vita, un cammino
verso una libertà più grande che deve affrancarsi da legami piccoli e grandi, da fragilità e debolezze
pubbliche e personali.
Il secondo comandamento o, meglio, la seconda parola di libertà che è l’oggetto del nostro
discorrere viene così presentata nel libro del Deuteronomio: “Non pronuncerai invano il nome del
Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano” (v.11).
I comandamenti o parole del Decalogo costituiscono un momento decisivo nell’Alleanza fra
Dio e l’umanità; attraverso di essi, infatti, l’uomo è chiamato, nella sua vita personale e
comunitaria, a rapportarsi in modo concreto e reale con Dio. Dobbiamo, innanzitutto, riflettere sulle
conseguenze negative a cui gli uomini andrebbero incontro se, nella loro vita, negassero la Signoria
di Dio, contraddicendo l’Alleanza. Dopo i profeti sarà Gesù - in modo nuovo e pieno - ad affermare
che la salvezza, che sgorga dall’Alleanza, esige d’esser testimoniata con la vita.
L’Alleanza, così, non può prescindere dalle Dieci Parole donate da Dio a un uomo che è
peccatore e che, allontanatosi da Lui con la tragica esperienza del male, è rimasto profondamente
ferito nella sua umanità. Certo l’umanità peccatrice - Paolo e Agostino l’affermano con forza - non
possederà mai le risorse sufficienti perché i comandamenti o parole di libertà si realizzino grazie
alle risorse che gli uomini portano in se stessi.
Le Dieci Parole più che comandi da eseguire, da parte di un’umanità impotente, sono
sentieri ancora interrotti, in attesa che la Storia della Salvezza si compia, quando giungerà la
pienezza del tempo (cfr. Gal 4,4).
Così, alla Pentecoste del Sinai, con tuoni e fulmini spaventosi, seguirà la Pentecoste del
Cenacolo a Gerusalemme, con le piccole fiammelle che scenderanno dall’alto e, delicatamente, si
poseranno su Maria, gli apostoli e i discepoli, ossia la Chiesa nascente. Alle Dieci Parole scolpite
sulla pietra seguirà il dono dello Spirito Santo e all’antico popolo succederà il nuovo popolo di Dio.
Oggi, più che mai, immersi come siamo nella società della tecno-scienza, il Catechismo
della Chiesa Cattolica (CCC) ci ammonisce con più forza: “Non pronuncerai invano il nome del
Signore” (cfr. CCC 2150-2155). Questo richiede, innanzitutto, di ricordarci - e ricordare a quanti ci
sono affidati - come il nome del Signore sia Santo e per l’uomo sia grave danno abusare di tale
nome.
Ritengo che il CCC, durante l’Anno della Fede, dovrà scandire di più i momenti formativi
delle parrocchie, delle unità pastorali, delle associazioni, dei movimenti e delle aggregazioni laicali.
Ed è proprio il CCC a sottolineare innanzitutto come il nome del Signore sia grande (cfr. Sal. 8,2) e,
nella sua santità, debba esser rispettato.
Contro la grandezza e la santità di questo nome si oppone il suo uso ingiurioso, la
bestemmia, il falso giuramento, lo spergiuro (non mantenere il giuramento fatto) e, ancora, l’uso
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"magico” del nome del Signore; pensiamo a quanto oggi - ad esempio attraverso i media - ha a che
fare con la magia, l’esoterismo e il mondo dell’occulto.
Il primo modo di onorare il nome di Dio consiste nel pronunciarlo con rispetto, non
tirandolo “in mezzo” ai nostri discorsi, in modo superficiale, improprio o sconveniente. E’
auspicabile, invece, che il nome del Signore entri nelle nostre conversazioni in maniera consona a
un credente che fa di Dio il centro della sua vita; il rispetto, infatti, non è formalismo ma vero
amore. Troppo spesso si dimentica che il vero amore si nutre di rispetto; anzi, il rispetto è il primo
nome dell’amore.
Come ci è richiesto dai libri dell’Esodo e del Deuteronomio, non pronunziamo invano il
nome del Signore. Lasciamoci piuttosto guidare da una preghiera più vera, più consapevole, più
intensa e più attenta quando ci rivolgiamo a Lui chiamandolo per nome.
Un’ultima considerazione sul nome del Signore riguarda il modo con cui, abitualmente,
facciamo il segno della croce. Per il cristiano si tratta di un gesto decisivo che, talvolta, viene però
svilito, deprezzato, screditato e che tutti dobbiamo, di nuovo, ripensare nel suo significato.
Con questo gesto, infatti, l’invocazione del Nome Santo di Dio - Padre, Figlio e Spirito
Santo - viene “drammatizzato”, ossia tradotto in azione, attraverso il segno della croce che assurge a
vera “invocazione corporea”. Santificare il nome del Signore, allora, vuol dire anche segnarsi con
più consapevolezza, con più fede, con più amore. La croce è il gesto che, inequivocabilmente, dice
la nostra appartenenza battesimale a Gesù Cristo, l’Unigenito del Padre che dona lo Spirito Santo.
Il segno della croce fatto bene, con gesto ampio, non di nascosto o con timidezza o di fretta,
diventa reale e concreta testimonianza in ordine alla nuova evangelizzazione, nella prospettiva
dell’Anno della Fede. Il segnarsi con una fede e un amore più grandi viene così manifestato nel
tracciare l’umile, solenne e santo gesto della croce senza timori e reticenze. Un segno di croce posto
con malcelata timidezza dice invece una fede fragile, non in grado di comunicare al mondo la gioia
e la fierezza d’essere e sentirsi cristiani.
Infine chi - come discepolo del Signore, con cuore libero e animo aperto, proclama con tutta
la sua vita: “Sia santificato il tuo nome” -compie l’atto fondamentale della nuova evangelizzazione.
Infatti, tale atteggiamento del cuore - ossia della persona - dispone tutto nell’oggettività di un ordine
vero e reale; ordine che si fa strada nella vita partendo - lo ripetiamo - da Dio e dal suo Santo Nome.
Nell’esortazione post-sinodale Verbum Domini, Benedetto XVI ci ricorda che “non si può
usare violenza in nome di Dio!” (n.102). Farlo - come talvolta succede anche oggi - vuol dire
mancare gravemente contro Dio, nominare invano il nome di Dio.
Concludo citando uno dei massimi teologi del ‘900 - Romano Guardini - che nacque proprio
qui a Verona, nel 1885. Egli, a proposito della santificazione del nome del Signore, ha questo
pensiero che lascio alla considerazione dei credenti e di quanti sono alla sincera ricerca di Dio:
“Non dimentichiamo mai - dice Romano Guardini - che l’uomo si salva solo nella santificazione del
nome di Dio. Tutte le volte che, nel corso della storia, il nome di Dio è stato oltraggiato,
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maltrattato o dimenticato, è stato dimenticato anche il nome dell’uomo...” (R. Guardini, Preghiera e
verità, Morcelliana, pag.66).
Oggi, nella cultura delle tecno-scienze, nella società detta liquida e nel bel mezzo di una
crisi che non riusciamo ad affrontare in maniera adeguata, il pensiero di Romano Guardini ci
interpella e ci stimola ad andare oltre l’uomo considerato come semplice animale “più evoluto” o
mera relazione sociale o, ancora, puro soggetto economico-finanziario.