La difficile strada che passa per Parigi

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La difficile strada che passa per Parigi
La difficile strada che passa per Parigi
di Carlo Carraro e Marinella Davide
L’
attenzione e le aspettative rivolte alla
Conferenza di Parigi sui cambiamenti
climatici sono numerose e, al contempo, difficili da realizzare. Da un lato ci si attende
dai paesi che emettono o hanno emesso enormi
quantità di gas a effetto serra la firma di un accordo che li vincoli a ridurle in modo progressivo fino ad azzerarle nella seconda metà di questo secolo. Dall’altro, che i paesi industrializzati
mettano a disposizione importanti risorse non
solo per ridurre le proprie emissioni, ma anche
per aiutare i paesi meno sviluppati a diminuire le
proprie e soprattutto a far fronte agli impatti dei
cambiamenti climatici con adeguate misure di
adattamento dei propri sistemi economici e sociali. L’accordo di Parigi dovrebbe essere quindi
ampio, in grado di controllare almeno l’80% delle emissioni globali, efficace, per ridurre in modo
significativo le emissioni, e al contempo equo, distribuendo i costi di quest’enorme sforzo secondo criteri di giustizia.
Si tratta di obiettivi difficili da conciliare. Eppure i principali paesi che si riuniranno dal 30
novembre all’11 dicembre per partecipare alla
ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico
(UNFCCC), la cosiddetta COP21, sono oggi impegnati in intense negoziazioni per far sì che il
meeting di Parigi raggiunga tutti o gran parte degli obiettivi sopra descritti. Ciononostante, al di
là dell’esito, su cui sarebbe un errore porre eccessive aspettative, è importante sottolineare come
la Conferenza di Parigi non possa essere che un
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altro passo, si spera rilevante, all’interno di un processo che inevitabilmente richiederà ulteriori negoziazioni e accordi. Vediamo perché.
Dove eravamo rimasti?
Il percorso negoziale che porta alla Conferenza di Parigi nasce principalmente dal parziale insuccesso nel 2009 della Conferenza di Copenaghen,
che non ha prodotto il tanto atteso accordo globale, ma solo una serie
di impegni volontari da parte di alcuni (ma non tutti) dei più importanti
paesi. Nelle successive conferenze annuali, da Cancún nel 2010 a Lima nel
2014, i paesi hanno tentato di uscire dall’impasse e gettare le basi per una
futura azione coordinata. Passo dopo passo, nuove regole e nuovi impegni
sono stati presi, seppur ancora insufficienti per contenere le concentrazioni
di gas a effetto serra in atmosfera entro limiti accettabili.
Rispetto al processo che aveva caratterizzato la definizione del Protocollo di Kyoto e che, attraverso un approccio top-down aveva ripartito tra
le nazioni industrializzate una percentuale di riduzione delle emissioni, la
Conferenza di Copenaghen ha lanciato le basi per un approccio dal basso, bottom-up appunto, in cui sono i paesi a proporre obiettivi nazionali di
riduzione, in accordo con il proprio contesto economico e le priorità di
sviluppo.
La transizione verso un approccio bottom-up non è stata affatto facile. Il
mondo è cambiato molto dal 1997, anno del Protocollo di Kyoto, e con
esso anche le dinamiche economiche tra paesi. Per esempio la Cina, che
registra le emissioni più alte al mondo, l’India, il Sud Africa e il Brasile oggi
non possono essere esclusi dal partecipare a un accordo per la limitazione
delle emissioni che voglia dirsi equo ed efficace. La struttura del Protocollo
di Kyoto, nettamente ancorata alla distinzione tra paesi allora definiti industrializzati (o i cosiddetti paesi dell’Annex 1), con precisi impegni di mitigazione e quelli in via di sviluppo (non-Annex 1), senza vincoli di riduzione
delle emissioni, non è riuscita, di fatto, ad adeguarsi ai rapidi cambiamenti
che hanno caratterizzato le economie emergenti.
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Il secondo periodo d’impegni all’interno del Protocollo di Kyoto, deciso
in extremis alla Conferenza di Durban nel 2011, manca quindi della partecipazione di larga parte degli attuali maggiori emettitori: se da un lato paesi
come Giappone, Russia, Canada e Australia si sono chiamati fuori, insieme
agli Stati Uniti, che al Protocollo di Kyoto non hanno mai aderito, dall’altro
molti paesi in via di sviluppo, come la Cina, ne fanno parte senza tuttavia
avere impegni vincolanti per il periodo 2013-20201. È evidente come una
tale situazione si riveli iniqua per chi, come l’Unione Europea, sta facendo
molto per ridurre le proprie emissioni e, allo stesso tempo, sia inefficace
perché i principali paesi emettitori non hanno assunto impegni di riduzione
delle loro emissioni all’interno della piattaforma approvata a Durban.
Nel frattempo, un percorso parallelo, avviato anch’esso alla COP di
Durban nel 2011, si è dato l’obiettivo di definire «un protocollo, un altro
strumento giuridico oppure una conclusione condivisa con forza giuridica»
che coinvolga tutte le parti, da adottarsi entro il 2015 alla COP21 di Parigi
e da attuarsi presumibilmente a partire dal 2020.
Alla fine dell’ultima Conferenza delle Parti, tenutasi a Lima, in Perù, nel
dicembre 2014, i paesi hanno pubblicato una prima bozza del testo negoziale contenente gli elementi base di questo «protocollo o altro strumento
giuridico». Tale testo è stato ulteriormente rivisto in due incontri preparatori nel corso del 2015, a Ginevra e a Bonn, e sarà auspicabilmente approvato a Parigi a dicembre. Ma quali sono gli elementi principali in discussione? Che cosa rende difficile convergere su un testo condiviso?
Contributi nazionali e impegni collettivi
Elemento cruciale per il successo della Conferenza di Parigi, e ancor di
più del futuro accordo, sono i cosiddetti INDCs, vale a dire Intended Nationally Determined Contributions. Questi «contributi nazionali program Maggiori informazioni si trovano sul sito UNFCCC all’indirizzo http://unfccc.int/kyoto_protocol/doha_amendment/items/7362.php.
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mati» sono i piani d’azione per la lotta al cambiamento climatico che tutti i
pae­si, sia quelli sviluppati sia quelli in via di sviluppo, si impegnano ad adottare a partire dal 2020. Tutti i paesi sono dunque chiamati a contribuire.
Una prima scadenza, non obbligatoria, per la comunicazione dei contributi individuali era prevista per la fine di marzo 2015. Solo sei paesi, o
gruppi di paesi, l’hanno rispettata. Tra questi troviamo: l’Unione Europea
(UE), che propone di ridurre le proprie emissioni del 40% rispetto al 1990
entro il 2030; gli Stati Uniti, che si impegnano a una riduzione delle emissioni nel 2025 pari al 26-28% rispetto al 2005; la Russia, la Svizzera, la Norvegia e il Messico, primo paese in via di sviluppo a comunicare il proprio
contributo (per maggiori dettagli si veda la tab. 1).
Nelle settimane successive altre nazioni si sono gradualmente aggiunte:
all’inizio di giugno se ne contavano dieci, agli inizi di luglio erano diciotto (inclusa l’Unione Europea), e si prevede che altre ancora se ne aggiungeranno
entro la fine di ottobre. Tra queste la Cina che, come già annunciato nell’ambito dell’accordo bilaterale con gli Stati Uniti stipulato nel 2014, ha comunicato ufficialmente a fine giugno di voler raggiungere il proprio picco di
emissioni di CO2 intorno al 20302, oltre che ridurre del 60-65% l’intensità di
carbonio della propria economia e portare al 20% la quota di combustibili
di origine non fossile nel consumo di energia primaria entro il 2030. Oppure
il Giappone, che sta ancora lavorando al proprio target, ma attraverso la
stampa nazionale è già trapelato un obiettivo di riduzione delle emissioni di
circa il 20% rispetto al 2013 entro il 2030 (Nikkei 2015).
È probabile che una buona parte dei contributi mancanti verrà comunicata alla fine di settembre, poco prima della scadenza che l’UNFCCC si è
data per preparare un’analisi aggregata dei diversi INDCs. Un punto fondamentale emerso durante i precedenti incontri negoziali è
la disomogeneità tra i diversi contributi comunicati. I paesi avevano infatti
Per maggiori informazioni si veda Climate Policy Observer (12 novembre 2014).
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Tabella 1. Sintesi degli Intended Nationally Determined Contributions comunicati all’UNFCCC (ultimo aggiornamento giugno 2015)
Paese
Andorra
Canada
Cina
Corea del Sud
Etiopia
EU
Gabon
Islanda
Liechtenstein
Marocco
Messico
Norvegia
Russia
Serbia
Svizzera
USA
Obiettivo di riduzione
delle emissioni (%)
37
30
Picco delle emissioni nel 2030;
60-65% CO2 per unità di PIL
37
64
≥ 40
≥ 50
Una quota «equa» del target
europeo
40
13-32
22-36
≥ 40
25-30
9,8
50
26-28
Anno di riferimento
Periodo d’implementazione
BAU
2005
2005
2016-2030
Entro il 2030
Entro il 2030
BAU
BAU
1990
2000
1990
Entro il 2030
Entro il 2030
2021-2030
2010-2025
2021-2030
1990
BAU
BAU (dal 2013)
1990
1990
1990
1990
2005
2021-2030
2020-2030
2020-2030
2021-2030
2020-2030
2021-2030
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2020-2025
tentato di darsi delle linee guida precise su che cosa gli INDCs dovessero
contenere per essere comparabili e trasparenti. Tuttavia, i diversi punti di
vista hanno impedito di raggiungere una visione condivisa dei contenuti
degli INDCs. Da un lato, infatti, i paesi in via di sviluppo premevano per
l’inclusione, al pari delle azioni di mitigazione, anche di altre misure, come
adattamento, supporto finanziario e trasferimento tecnologico, dall’altro i
paesi sviluppati hanno fortemente contrastato quest’opzione, chiedendo a
loro volta che fossero considerati esclusivamente contributi di mitigazione
trasparenti e verificabili (Davide 2015). È per questa ragione che tra gli
INDCs comunicati o annunciati troviamo dettagli molto diversi. Questa
mancanza di armonizzazione non solo renderà arduo il lavoro di aggregazione dell’UNFCCC, previsto entro il 1o novembre 2015, ma potrebbe rendere difficile anche capire il livello di ambizione ed efficacia dell’accordo.
Comunque vada, gli INDCs possono essere considerati un passo in avanti verso il superamento della storica dicotomia Annex 1-non Annex 1. Alcuni paesi in via di sviluppo stanno già adottando misure di riduzione delle
proprie emissioni e altri se ne aggiungeranno. Resta tuttavia ancora aperEQUILIBRI 2/2015
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ta la discussione sull’inclusione del «principio delle responsabilità comuni
ma differenziate e delle rispettive capacità» nel nuovo accordo (Pauw et al.
2014). Richiamato spesso per ricordare alle nazioni industrializzate le loro
responsabilità storiche in termini di emissione, attraverso questo principio
i paesi in via di sviluppo, e la Cina in particolare, cercheranno d’imporre le
proprie condizioni su questioni cruciali, in primis sui trasferimenti finanziari
verso i paesi in via di sviluppo, in cambio dei loro impegni di riduzione.
L’altra questione chiave è, appunto, la finanza. I paesi più poveri chiedono che il mondo industrializzato fornisca loro l’aiuto finanziario necessario
per ridurre le emissioni di gas serra, investire in tecnologie pulite e sviluppare strategie di adattamento agli impatti del cambiamento climatico che
saranno chiamati ad affrontare. La questione tuttavia è, da sempre, molto
controversa. A pochi mesi dalla Conferenza di Parigi, i paesi in via di sviluppo chiedono, innanzitutto, che gli impegni precedentemente presi nell’ambito della Conferenza di Copenaghen, e che promettevano flussi finanziari
di almeno 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, vengano rispettati3.
Nonostante gli sforzi fatti dal Green Climate Fund, il fondo che raccoglie
e distribuisce una parte di questi aiuti, al momento sono stati sottoscritti
impegni per 10,2 miliardi di dollari, di cui meno del 60% è stato effettivamente versato (Green Climate Fund 2015).
I paesi in via di sviluppo chiedono, inoltre, che una disposizione analoga sia inclusa nell’accordo di Parigi per il periodo successivo al 2020, ma
il profondo disaccordo su come questo debba essere fatto rimane. Come
già visto in passato, la discussione continua a focalizzarsi sulle richieste
dei paesi più poveri di finanziamenti addizionali da parte delle nazioni più
ricche, la cui visione, al contrario, include uno sforzo condiviso tra governi
nazionali, banche di sviluppo internazionali e settore privato. Viene inoltre
richiesta trasparenza e certezza nell’uso di questi fondi.
Dichiarazione di apertura del Sud Africa per conto del G77+Cina alla plenaria di apertura
della sessione ADP di Bonn, 1o giugno 2015. Disponibile in inglese all’indirizzo http://unfccc.int/
documentation/submissions_from_parties/items/5900.php.
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L’accordo di Parigi, se raggiunto, sarà quindi più ampio di quello di
Kyoto o Copenaghen, perché un maggior numero di paesi si impegnerà a ridurre le proprie emissioni. Sarà anche più efficace, visto che paesi o gruppi
di paesi come Unione Europea, Stati Uniti e Cina hanno proposto impegni
importanti. Ma non sarà forse ancora sufficiente a contenere l’aumento
della temperatura entro i 2oC a fine secolo. Rischia inoltre di non essere
dotato di quelle risorse finanziarie che permettono di realizzare davvero gli
impegni presi.
Oltre alle due fondamentali questioni appena affrontate, molte altre
richiederanno attenzione e pazienti negoziazioni durante e dopo la Conferenza di Parigi. L’adattamento è una di queste. Nonostante all’interno
dell’UNFCCC sia notevolmente cresciuta la consapevolezza dell’inevitabilità di dover far fronte agli impatti del cambiamento climatico, il dibattito su
come affermare una maggiore parità tra il tema dell’adattamento e quello
della mitigazione resta ancora aperto.
Il problema è stato in particolare sollevato dai paesi in via di sviluppo, i
quali chiedono la definizione di obiettivi anche sul tema dell’adattamento,
così come il trasferimento di fondi e la creazione d’istituzioni specifiche.
Collegato a questo tema c’è quello del loss&damage, non gradito ai pae­si
sviluppati ma molto caro agli stati delle piccole isole, preoccupati dei danni
dei cambiamenti climatici, in particolare dell’innalzamento del livello del
mare, che le strategie di mitigazione e adattamento non riusciranno a evitare4. La richiesta di questi ultimi è che i paesi responsabili del cambiamento
climatico, quelli che storicamente hanno emesso di più, intervengano, anche con compensazioni economiche, a supporto dei paesi più danneggiati;
una richiesta che evidentemente è molto costosa e trova la netta opposizione da parte dei paesi più sviluppati.
Per una panoramica sul tema si veda: I nuovi termini del negoziato sul clima – Parte 1: «Loss and damage», all’indirizzo http://climalteranti.it/2013/01/14/i-nuovi-termini-del-negoziato-sul-clima-parte-1-loss-and-damage.
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Altri temi controversi entreranno certamente in gioco, come la forma
legale dell’accordo, l’equità dello stesso in termini di distribuzione dei costi
della riduzione delle emissioni tra i vari paesi, il trasferimento tecnologico
necessario per dotare i paesi in via di sviluppo di adeguate tecnologie, il
capacity building e il monitoraggio degli impegni presi in un delicato sistema
di pesi e contrappesi.
Che cosa aspettarsi dalla Conferenza di Parigi?
Innanzitutto occorre evitare aspettative eccessive. La Conferenza di Parigi non introduce sul tavolo grandi novità, non almeno in termini di decisioni a livello di governi. Prosegue il processo iniziato a Copenaghen sei
anni fa, ampliando il numero di paesi che aderiscono e aumentando lo
sforzo di riduzione delle emissioni. La novità più importante è, forse, il
forte coinvolgimento del settore privato. Singole imprese e associazioni di
settore stanno finalmente prendendo impegni rilevanti di riduzione delle
emissioni. E ciò anche in campo finanziario, non solo in termini di risorse
ma nell’adozione di nuovi strumenti che riguardano sia il piano dei prestiti
(come i «green bonds») sia quello delle assicurazioni (sistemi che tutelino
chi investe in rinnovabili, per esempio).
Le delegazioni nazionali hanno lasciato Bonn lo scorso giugno con un
documento di 85 pagine che costituirà il punto di partenza del futuro testo
negoziale. Gli INDCs sembrano aver vinto la riluttanza dei paesi in via di
sviluppo e delle economie emergenti d’impegnarsi accanto a quelli industrializzati per ridurre le emissioni globali di gas serra. Sono tuttavia ancora
molti i nodi che i governi sono chiamati a sciogliere per arrivare a un accordo globale, davvero efficace, sostanzialmente equo, e che penalizzi coloro
che non vorranno aderire.
Quanto all’efficacia, possiamo già dire che l’accordo di Parigi ci avvicinerà alla traiettoria che permetterà di stabilizzare la crescita della temperatura a 2oC o poco più. Non sarà certamente ancora sufficiente, ma sarà
un passo importante e ci sarà il tempo, in future negoziazioni e mano a
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Tabella 2. Confronto tra gli INDCs di Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Cina usando metriche diverse
Stati Uniti (2025):
–26-28% rispetto
al 2005
Emissioni di GHG
[MtCO2eq/annui]
Riduzione rispetto al 1990
[%]
Riduzione rispetto al 2005
[%]
Rapporto GHG/popolazione
[tCO2eq/pro capite]
Rapporto GHG/GDP
[kgCO2eq/US$]
5.204-5.349
EU (2030):
–40% rispetto
al 1990
3.380
Russia (2030):
Cina (2030):
–25-30% rispetto
picco delle emissioni
al 1990
nel 2030 (valori stimati)
2.354-2.523
14.496-15.552
Da –16 a –14
–40
Da –30 a –25
Da +265 a +291
Da –28 a –26
–35
Da +10 a +18
Da +76 a +89
14,5-15,0
6,6
17,9-19,1
9,8-10,5
0,30-0,31
0,27
1,98-2,12
1,11-1,19
–2,8
–2,9
Da –3,7 a –3,5
Da –4,5 a –4,2
Da –4,7 a –4,5
Da –5,0 a –4,7
Variazione del Rapporto GHG/GDP
Rispetto al 1990 [%/anno]
Da –3,0 a –2,9
Rispetto al 2005 [%/anno]
Da –3,6 a -3,5
mano che le tecnologie evolveranno, di aumentare le ambizioni e lo sforzo.
Quanto all’equità, questa è più difficile da valutare. Conteranno solo le
emissioni future o anche quelle passate? E quale sarà la base di riferimento? È possibile farsi un’idea di quali sono i paesi che si stanno impegnando
di più a ridurre le emissioni a partire dalla tabella 2 e che sarà, in maniera
simile, prodotta dall’UNFCCC per tutti i paesi che adotteranno il proprio
INDC agli inizi di novembre.
Come si può vedere confrontando i livelli assoluti di variazione delle emissioni, è l’Unione Europea a fare lo sforzo maggiore, seguita dagli Sati Uniti.
In termini relativi, invece, usando una metrica per unità di prodotto (ma
sarebbe lo stesso in termini di emissioni pro capite), sono Cina e Russia a
fare lo sforzo più rilevante.
Rimane un’ultima considerazione da sottolineare. Non sono importanti
solo gli impegni che saranno presi a Parigi, ma anche il processo che verrà
messo in moto e le regole che i paesi si daranno. Gli impegni, infatti, in molti
casi dovranno essere ratificati dai governi o dai parlamenti nazionali e implementati con adeguate leggi, norme e incentivi. Un processo lungo e a volte incerto (si pensi, per esempio, al caso in cui le prossime elezioni negli Stati
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Uniti saranno vinte dal Partito repubblicano). Gli impegni dovranno quindi
essere verificati, e servono regole e istituzioni per la loro verifica. Dovranno
poi essere rivisti periodicamente, sia per aumentare il livello di riduzione
delle emissioni sia per correggere distorsioni in termini di equità. Servono
quindi princìpi e meccanismi per confrontare i diversi impegni e chiedere ai
governi che, per esempio, riducono troppo poco le loro emissioni di modificare strategia. E servono regole e istituzioni per incentivare e monitorare il
coinvolgimento del settore privato, sia in termini di riduzione delle emissioni sia in termini di supporto finanziario. Servirà il coinvolgimento di nuovi
soggetti pubblici e privati: le città, per esempio, che ospiteranno gran parte
della popolazione e quindi della produzione di emissioni.
Quello sopra descritto è evidentemente un processo lungo e complesso,
che non può concludersi a Parigi. Parigi è solo un altro passo. Se gettasse le
basi per regole e istituzioni efficaci in grado di avviare tutti i paesi, o almeno
i principali, verso una progressiva riduzione delle loro emissioni, sarebbe
già un ottimo risultato.
Riferimenti bibliografici
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Pauw P., Bauer S., Richerzhagen C., Brandi C. e Schmole H. (2014), Different Perspectives on Differentiated Responsibilities, Bonn, Deutsches Institut für Entwicklungspolitik.
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