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CAPITOLO PRIMO
Una giornata singolare
Vado (Bologna), 1982
Nell’alba di quel fine giugno, il sole era appena sorto e
già illuminava le colline dell’Appennino tosco-emiliano.
Il gallo aveva cantato anche quella mattina e nei poderi
dei contadini la giornata di lavoro era già iniziata.
Qualche ora più tardi, quando il campanile del paese
aveva appena battuto otto rintocchi, nel tinello di un
appartamento poco distante dal fiume, un aroma misto di
caffè e di inchiostro di giornale stava prendendo il
sopravvento sul profumo del pavimento lucidato a cera.
Un rumore di stoviglie che si urtavano le une contro le
altre turbava le note della canzone trasmessa alla radio.
Uno schizzo d’acqua mista a detersivo cadde sul
pavimento: Gina afferrò la spugna e si chinò, cercando di
individuare velocemente il punto esatto da asciugare.
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“Povera la mia schiena!” disse stringendo i denti.
Asciugò l’alone verdastro che profumava di limone e si
alzò da terra, fermandosi a scrutare per qualche istante la
distesa di mattonelle di cotto rosso che copriva l’intera
stanza.
Poi si girò indietro, nell’intento di incrociare lo sguardo
del marito seduto in poltrona, ma Ettore era troppo assorto
nella lettura per accorgersi di lei.
Una serie di piccoli colpi alla porta, vicini tra loro, tanto
prolungati quanto inattesi.
“Aspettavi qualcuno? Non sono che le otto” chiese la
donna al marito.
“Hai detto qualcosa, cara?” disse lui ad alta voce, senza
distogliere lo sguardo dal giornale.
Gina alzò gli occhi al cielo, dirigendosi verso la porta.
Pensò che, aprendola, avrebbe trovato una persona
educata, forse anche un po’ timida: lo aveva intuito da
come la sua mano aveva battuto sull’uscio. Qualcuno che
non aveva voluto disturbare troppo suonando il campanello;
qualcuno che, probabilmente, stava cercando proprio loro,
dal momento che non aveva esitato a salire le quattro
rampe di scalini che portavano all’ultimo piano.
Gina girò la chiave e abbassò la maniglia della porta, fino
ad aprirla.
“Buongiorno, signora! Mi scuso con lei per l’orario” disse
un uomo di mezza età il cui corpo poco agile era
imprigionato in una divisa blu scura rigata di rosso.
“Si accomodi, la prego” ribatté Gina con lo sguardo
preoccupato.
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“È successo qualcosa?” domandò Ettore avvicinandosi
alla porta.
Quei battiti, questa volta, li aveva uditi; uno a uno. Lo
incuriosiva il fatto che un medesimo rumore, ripetuto in
diverse situazioni, talvolta sfuggisse alle sue orecchie e
talvolta no. L’uomo aveva come la sensazione che il suo
apparato uditivo si chiudesse a riccio per evitargli inutili
sprechi di tempo e di energia e tornasse a funzionare
soltanto quando era strettamente necessario. E pensò che i
presupposti che stavano trasformando quella visita in un
momento che non avrebbe più dimenticato, c’erano tutti.
“Niente di personale che vi riguardi. Da ieri, una
ragazzina di un paese qui vicino è scomparsa. Sto
passando per tutte le case a mostrare la sua foto. Chiunque
la veda o abbia anche solo il sospetto che si tratti di lei,
deve contattare il Comando dei carabinieri. È necessario
ritrovarla al più presto, sembra che abbia bisogno di
costanti cure mediche” spiegò l’uomo, porgendo la foto ai
coniugi.
Gina la prese in mano e scrutò a lungo il volto di quella
ragazzina.
Ettore le girò intorno fermandosi dietro le sue spalle e
puntando con gli occhi l’immagine in bianco e nero.
La donna distolse improvvisamente lo sguardo da quel
viso.
“Noi non l’abbiamo vista” disse restituendo la foto
all’agente e appoggiando la mano sulla maniglia della porta
di entrata.
“Ne ho qualche copia in più: questa ve la posso lasciare”.
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“Non serve: ho memorizzato il volto in ogni particolare,
stia tranquillo”.
Ettore annuì con lo sguardo.
“Vi ringrazio e scusatemi ancora per il disturbo”.
“È dovere di tutti riportare quanto prima quella ragazzina
dai suoi cari” disse Gina.
Richiusasi la porta, i due coniugi si lasciarono cadere
sulle poltrone situate l’una di fronte all’altra.
I loro sguardi si incrociarono a lungo, in silenzio.
La radio trasmetteva il notiziario, ma loro non lo stavano
udendo.
“Se penso che al posto di quella ragazzina ci potrebbe
essere nostra nipote, mi vengono i brividi” disse Ettore
guardando il pavimento.
E proprio i brividi Gina sentiva in quel momento scorrere
nelle proprie membra: gli stessi che aveva avuto un giorno
di tanti anni prima, dopo il più lungo e serio colloquio avuto
con la figlia, al termine del quale aveva potuto soltanto
sperare che il tempo sarebbe stato un ottimo consigliere.
Mentre questa volta no, non ce l’avrebbe fatta; ne era
sicura.
“Mi si sta gelando il sangue e tu sai perché!” disse quindi
rompendo il silenzio, a occhi chiusi.
“Bianca rimane sempre dello stesso avviso?”.
“Il coperchio di una pentola a pressione è chiuso meno
ermeticamente di lei”.
“Speriamo che non scoppi”.
“Prima o poi lo farà! Si tratta di sua figlia… di nostra
nipote… A proposito, nostra nipote!” esclamò la donna
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scattando in piedi.
Si allontanò dalla stanza, girandosi verso il marito.
“Non dobbiamo spaventarla, quindi stai attento a non
lasciarti sfuggire alcuna parola su questa scomparsa”.
“Meno saprà di questa storia e meglio sarà… per tutti”
disse l’uomo.
La voce di Gina irruppe nel silenzio della camera da letto
come un altoparlante in una piazza deserta.
“Sveglia, Costy! Cosa ti preparo per colazione?”.
“Nonna... che ore sono? Vorrei dormire ancora un po’...”.
Nemmeno quella mattina Costanza accettò di buon
grado che i suoi sogni venissero interrotti così
improvvisamente.
“Sveglia, è una bellissima giornata! Chiara e Francesca
verranno a prenderti fra poco”.
“Chiara... è vero... me ne ero dimenticata!” pensò la
fanciulla balzando giù dal letto.
“Buongiorno, nonno!” esclamò poi piombando nel tinello.
Si sedette a tavola, strofinandosi gli occhi.
“Bella giornata oggi, nipotina! C’è un sole che spacca le
pietre” rispose Ettore dirigendo per un attimo i propri
penetranti occhi blu verso la nipote e riabbassando poi lo
sguardo verso il giornale che teneva sulle ginocchia.
Costanza si soffermò a osservarlo per qualche istante
sorridendo, mentre il proprio viso veniva avvolto in una
nuvola che profumava di latte e orzo.
“Ti sei incantata?” le chiese Gina ponendole accanto una
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colorata scatola di biscotti profumatissimi.
Ne addentò uno, tenendo lo sguardo sull’uomo,
socchiudendo intanto gli occhi.
“Questi sono i Petit Beurre che avevo comprato per la
festa dell’ultimo giorno di scuola!” pensò, estasiata dal
sapore che aveva invaso il suo palato.
Masticava, Costanza, mentre sentiva sprigionarsi in
bocca l’essenza della tradizione francese, il piacere di
trovarsi seduta in compagnia a un tavolo apparecchiato con
cura indicibile in una stanza già satura del profumo di
croissant.
Stava pensando che la sua professoressa di Francese
non avrebbe potuto avere un’idea migliore per salutare,
insieme ai suoi studenti, il primo anno scolastico. Quanta
cura aveva messo, lei stessa come i suoi compagni, nel
trovare in città un negozio, forse l’unico, che vendesse
prodotti alimentari francesi, e quanta passione aveva
impiegato a spiegare loro gli ingredienti contenuti in ogni
diversa confezione. E che buffo era apparso il compagno
che si era improvvisato cameriere e aveva preso le
ordinazioni per tutti facendosi sfuggire alcune parole che
assomigliavano più al dialetto bolognese che alla lingua
francese.
“Costy? Sei tra noi? Oppure stai cercando di leggere gli
articoli del giornale al contrario?” disse Gina.
“Stavo pensando che ho proprio un bel nonno! Da
piccola ero convinta che con il suo fisico imponente mi
avrebbe salvata dai mostri cattivi che si sarebbero avvicinati
a me”.
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“Di che colore aveva i capelli da giovane?” aggiunse
dopo qualche istante a bassa voce, osservando quella
specie di montagna innevata sopra la fronte di Ettore.
“Biondi come l’oro proprio come te, piccola mia! Sono
vent’anni che ha perso quel colore. Quando eri bambina e
lui ti prendeva in braccio, affondavi le manine sulla “panna
montata del nonno” come la chiamavi tu”.
L’uomo, che non aveva mai distolto lo sguardo dalla sua
lettura, nascose a stento l’ombra di un sorriso.
“Che cosa esplorerete oggi tu e le tue amiche?”
domandò quindi.
“Ho sentito dire che c’è un maneggio nuovo dietro la
stazione, lo vogliamo andare a vedere”.
“Bene, ma prestate la solita attenzione e cercate di non
fare imbizzarrire i cavalli!” intervenne Gina.
“Io e Chiara non avremo problemi. Ma non posso dire lo
stesso per Francesca!” rispose incupendo lo sguardo.
“Proprio non ti va giù quella ragazzina!”.
“È antipatica, va bene? Anzi, no, è odiosa!”.
“Diciamo che in questi giorni vive in simbiosi con
Chiara...”.
“Che parolona, nonna! Semplicemente è sua ospite per
una settimana. I loro genitori sono amici: come potrebbe
allontanarsi da lei? Francesca qui non conosce nessuno e
poi ha la nostra età, è normale che sia così”.
“Per te Chiara è una sorella: per questo sei gelosa di
chiunque si intrometta tra voi, sia Francesca o siano altre
persone”.
“Dove vuoi arrivare, nonna? Ti conosco, le tue parole
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portano sempre a una conclusione”.
“Goditi la gita, anche se c’è Francesca! Non vale la pena
rovinarsi questa giornata per lei! Hai l’amicizia di Chiara,
questa è l’unica cosa che conta, non dubitarne mai!”.
“Vado a vestirmi”.
La fanciulla uscì dalla stanza.
“Costy?”.
“Sì, nonna?”.
“Allungami la tua tazza, sto giusto lavando i piatti”.
“Ai tuoi ordini!”.
Poi sparì definitivamente dalla stanza.
Quando suonò il campanello, la ragazza scese le scale
saltando due gradini alla volta.
“Che bella età, la nostra Costy, eh, Gina? Magari
avessimo avuto noi, a dodici anni, il problema dell’amica
antipatica!”.
“A pensarci bene, non farei cambio con la mia infanzia!”.
La mente dell’uomo arretrò di decine di anni che a lui
parvero un’infinità, fino ad arrivare al tempo in cui era
bambino, rivedendo alcune immagini in modo distinto.
Come avrebbe potuto dimenticare il calore dell’abbraccio di
suo padre che, dritto davanti a lui, rinchiuso in quella divisa
militare, si congedava da tutto ciò che aveva per ripartire
verso un viaggio di cui conosceva solo l’andata? Da tutto
ciò che aveva: sua moglie e il frutto del loro amore.
E come avrebbe potuto cancellare dalla mente lo strazio
del pianto di sua madre che abbracciava lui, il suo futuro,
mentre stava perdendo il proprio presente?
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“Io niente affatto! E mi meraviglio che tu abbia
dimenticato tutto!” esclamò l’uomo.
“Ma che cosa vuol dire? Non parlo di ricchezza o di
povertà! Mi riferisco agli ideali: i ragazzi di oggi non sanno
ancora cosa vogliono dalla vita”.
“Ne avranno di tempo per pensarci!”.
“Il fatto è che Costanza, tanto per fare un esempio, non
ha nemmeno iniziato a immaginarlo”.
“Cosa?”.
“Quello che le piace o meno: l’hai mai sentita fare
discorsi del tipo “da grande mi piacerebbe fare…”?”.
Ettore scosse la testa.
“Oppure: “adoro una certa cosa e ne detesto un’altra”?
Da piccola, almeno, diceva che avrebbe fatto la
cartolaia…”.
L’uomo mise una biro in mezzo a due pagine e chiuse il
giornale.
“Non mettiamoci dei falsi problemi; piuttosto guardiamo
quanto abbiamo di concreto. Ho ascoltato ogni parola che
prima ti ha detto su di me, ma non ho avuto il coraggio di
guardarla negli occhi, né tanto meno di risponderle che
anch’io le voglio un gran bene. Quanta pena provo se
penso che un giorno la sua gioia si annienterà... già, chissà
quando... se dipendesse da te e da me, Costanza saprebbe
la verità già da un pezzo... ma noi non siamo che i nonni e
dobbiamo lasciar fare a nostra figlia e a suo marito” disse
rattristandosi.
“Allora sei sordo soltanto quando ti fa comodo!
Comunque… prima le ho detto una parola di cui potrei
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pentirmi”.
“Credo di aver capito quale”.
“Che cosa ci posso fare se da giovane eri biondo anche
tu? Non le ho certo detto una bugia!”.
“Torna a lavare i piatti, Gina mia!”.
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“Buongiorno, ragazze, avete visto che bella giornata?”
esclamò Costanza, con i piedi sull’asfalto e le spalle
appoggiate al portone appena richiusosi.
“Hello, girl!” rispose Chiara.
“Non cambierai mai!” esclamò Costanza sorridendo.
Francesca fece un sorriso forzato.
“Sarà il caso che lo faccia tu! La Grande Mela ci attende,
è il nostro futuro” rispose Chiara.
“Allora andiamo a comprarla al grande supermercato”
intervenne Francesca.
Si accorse che stava ridendo solo lei.
“Da quando, poi, hai sentito cantare quella bambina
americana…” esclamò Costanza.
“Chi?” intervenne Francesca.
“Nikka Costa! Ha nove anni e una voce deliziosa! Quella
sera sembrava una bambolina piccola piccola accanto al
padre grande e grosso che la accompagnava con la
chitarra” esclamò Chiara.
“Io preferisco Lio” ribatté Costanza.
“No, il vestito che indossava non era poi questo
granché… E poi, sembra che canti a velocità raddoppiata!”.
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“Tu non apprezzi la musicalità della lingua francese!”.
“Insomma, di quale sera state parlando?” chiese
Francesca con tono infastidito.
“Vota la voce!” esclamarono Costanza e Chiara
all’unisono.
“Beate voi che abitate a Bologna e in Piazza Maggiore ci
arrivate in un attimo!”.
“C’era anche Claudio?” chiese poi dopo una breve pausa
riflessiva.
“Che domanda! È stato lui il miglior cantante maschile
del 1981!”.
“Quanto vi invidio!”.
Costanza lesse negli occhi di Francesca un sentimento
che non le piaceva e decise di chiudere il discorso.
“Confermato il maneggio?” chiese quindi.
“Of course! Let’s go!” rispose Chiara.
La stazione ferroviaria del paese si trovava su una
collina: per giungervi, le ragazze decisero di passare
dapprima per la piazza seguendo poi una strada a tornanti.
Arrivate di fianco alla chiesa, il campanile batté dieci
rintocchi: il sole illuminava le colline e le ragazze erano felici
per la gita di quel giorno, tanto che vedevano i prati ancora
più verdi di quanto lo fossero realmente.
Nella piazza, un immenso vivace striscione ricordava agli
abitanti la festa paesana di quel 20 giugno 1982.
“Non ricordavo che fosse proprio oggi, mi piacerebbe
andarci” propose Costanza.
“Io credevo che fosse tomorrow. Comunque, mancano
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ancora più di due ore all’inizio, avvertiamo a casa” disse
Chiara.
Poco dopo si trovarono a schiacciare, una alla volta, il
pavimento scivoloso della cabina telefonica di fianco alla
fioraia e infilarono un gettone in quelle specie di labbra
ferrose che inghiottivano le monete assottigliate al centro.
Proseguirono poi per la strada stabilita.
Tra un tornante e l’altro, le ragazze gareggiarono tra loro
a chi avrebbe battuto il tempo, deviando per scorciatoie
improvvisate qua e là. L’aria era satura di una fragranza
mista di rosmarino e viole. Costanza ne raccolse qualcuna
facendone un mazzo colorato e ne respirò il profumo.
“Che voglia di patate arrosto!” esclamò Francesca.
“Sbaglio o… ha parlato?” chiese sottovoce Costanza,
incrociando lo sguardo ironico di Chiara, mentre entrambe
stavano attraversando il prato, in una zona dove l’erba
arrivava loro quasi alle ginocchia.
“Attente alle vipere!” esclamò improvvisamente
Costanza.
“Ma che vipere, paurosa che non sei altro!” ribatté
Francesca, ridendo a squarciagola.
Costanza percepì nettamente, dentro di sé, un desiderio
crescente di tirarle l’intera chioma, un capello dopo l’altro.
“Dico davvero, qui l’erba è incolta: tra l’altro, le ho viste io
stessa, più volte, sulla strada, schiacchiate dalle auto”.
Un fruscio, in mezzo alle sterpaglie e dopo, un altro
ancora: rumori velocissimi, quasi impercettibili.
“Cos’è?” chiese Francesca incuriosita.
“Le rispondi tu, per piacere?” disse Costanza spazientita
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guardando Chiara.
“Cos’è che suona?” chiese ancora Francesca.
“Non ci sei mai andata alla stazione?” disse Costanza
stranita, mentre ripensava alle volte che, in passato, era
stata proprio là, con Chiara, la sua Chiara. Alle risate che si
erano fatte le due nonne nel sentire le nipotine improvvisare
comiche scenette, in piedi sulle panche di muratura della
sala d’aspetto, sempre vuota. Alla eco delle loro vocine
cantanti che rimbombavano sui muri. E di quando, udendo
uno scampanellio flebile ma prolungato, correvano giù da
quei freddi sedili per avvicinarsi ai binari, su cui, poco dopo,
passava fischiando, un treno Settebello.
Il loro preferito.
La fanciulla alzò gli occhi e si trovò dinnanzi,
inaspettatamente, quelle stesse rotaie color ruggine.
Un paio di treni passarono davanti alle loro pupille, ma
del Settebello, questa volta, nemmeno l’ombra.
Proseguirono così il cammino fino a giungere al
maneggio.
Un recinto di legno segnava il confine fra la libertà e la
prigionia di cinque splendidi cavalli, due bianchi e tre neri,
che trottavano in senso orario, senza mai fermarsi, in un
moto continuo.
“Chiara, guarda quel cavallo bianco... quanto è bello!
Soffro nel vedere queste bestie lì dentro: qui intorno
avrebbero tanto posto per correre in libertà!” disse
Costanza con sguardo malinconico.
Fece un giro intorno a se stessa accorgendosi di essere
rimasta sola.
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Raggiunse poi le compagne di gita alla fontana poco
distante, dove bevve dell’acqua fresca.
Trascorsero circa un’ora parlando tra loro e offrendo agli
animali un po’ di erba raccolta dal prato.
“Vedi, Costy, se non hai ancora deciso cosa vorrai fare
da grande, ti vedrei bene come veterinaria!” improvvisò
Chiara con il sorriso sulle labbra.
“Certo, come si fa a non voler bene a queste bestie? Ma
ciò non significa che da grande mi prenderò cura di loro”.
“Io ci ho provato… comunque, a ripensarci, non hai il
fisico abbastanza robusto!” rispose Chiara.
“Se continuo così, lo avrò presto! Da qualche settimana
ho messo su un paio di chili di troppo”.
“Sentite, voi due, se vogliamo goderci la festa del paese,
è meglio tornare indietro” intervenne Francesca.
Costanza pensò che quell’intrusa aveva la capacità di
diventare sempre più odiosa al passare di ogni minuto, ma
anche che il concetto che aveva tentato di esprimere, in
fondo, non era tanto sbagliato.
“Ciao, cavalli, alla prossima!” esclamò quindi.
Improvvisando le parole musicate di Un’estate al mare, le
fanciulle imboccarono la strada del ritorno.
Dopo circa una ventina di minuti, scendendo tra un
tornante e l’altro, avvistarono in lontananza una figura
dirigersi verso di loro. Costanza pensò dapprima che si
trattasse di una persona che si era perduta in un paesaggio
che, agli occhi di un forestiero, poteva assumere le
sembianze di un labirinto.
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Come quella volta che a smarrirsi era stata proprio lei, su
per quella infinita gradinata che portava alle case più alte di
quel paesino di montagna, di cui non ricordava più il nome.
Improvvisamente, si era ritrovata sola su quella cima,
senza sapere dove si trovasse, lei come i nonni che
l’avevano accompagnata in quella gita. Con il cuore in gola,
aveva iniziato la discesa di quegli scalini di pietra,
saltandone due alla volta e guardandosi attorno nella
speranza di incontrare un essere vivente della sua stessa
specie a cui poter chiedere aiuto.
Quanta gioia aveva provato nel riconoscere da lontano la
voce di Gina, tanto da rincorrerla fino a sbatterle contro. Ma
che delusione aveva al contempo provato nell’udire la
preoccupazione della donna trasformarsi in ira.
Pensò che, probabilmente, qualcuno stava attendendo
quella persona come sua nonna aveva atteso lei quel
giorno. Anche se non sapeva chi fosse, poiché da quella
distanza non riusciva a distinguerne il sesso né l’età.
Eppure percepiva quella presenza avanzare sempre più
verso di loro, in un pigro ma costante cammino.
“Guarda Costy, sta seguendo il ritmo di una marcia
lentissima. Sembra che sappia bene dove andare, che non
abbia paura di nessuno” disse Chiara.
“Sembra un automa comandato a distanza che deve
raggiungere una meta, lentamente ma a qualsiasi costo”.
Le ragazze arrestarono simultaneamente il loro cammino
e si presero per mano.
All’improvviso, una tempesta di vento si scatenò su
quelle colline: i fiori più delicati furono sradicati dal prato
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come cuccioli sottratti violentemente all’abbraccio materno
e i rami degli alberi scossi al punto tale che pareva ci fosse
un terremoto. La terra si alzò e creò un polverone che rese
impossibile il cammino.
Nulla appariva più visibile, se non attraverso una fitta rete
di granelli di terra che sembravano essersi impossessati
dell’atmosfera.
Nulla fu più riconoscibile.
Il silenzio che poco prima regnava sulle colline fu
interrotto dal fischio del vento, un fischio lunghissimo, quasi
infinito.
Le tre fanciulle restarono immobili: non muovevano che
gli occhi, in uno sguardo impaurito che si scambiavano
vicendevolmente.
D’improvviso, non furono più in grado di scorgere la
figura che pochi istanti prima stava iniziando a inquietarle.
Una parola, una sola parola ripetuta tre volte si confuse
con il fischio del vento: “Aiuto!!! Aiuto!!! Aiuto!!!”.
Era una voce inusuale, diversa da tutte le altre, artefatta
dal rumore di quella tempesta.
Quella voce sembrava a tratti avvicinarsi a loro, a tratti
allontanarsi, a seconda della direzione del vento.
“Non riesco a capire da dove arriva. Ho paura!” disse
Costanza abbracciando Chiara.
“Anch’io, ma dobbiamo aiutare quella persona, chiunque
sia: è evidente che non riesce più a ritrovare la strada del
ritorno”.
Avvertirono allora un rumore di spari in rapida
successione, che calavano di intensità, poi aumentavano
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sempre più fino a sembrare sferrati da una mitragliatrice.
Poi calavano nuovamente.
Improvvisamente non udirono più quella voce.
A Costanza vennero in mente i film western che tanto
piacevano a suo padre: quelli nei quali il protagonista,
sceso dal cavallo, cerca di eliminare l’avversario a suon di
calci e pugni e, temendo di essere ammazzato, tenta
l’estremo gesto di difesa premendo il grilletto della pistola
che tiene in cintura.
E la fa sempre franca.
Ripensò alle parole di suo padre mentre la rassicurava
sul fatto che il sangue che vedeva colare su quei corpi altro
non era che salsa di pomodoro. E che chi cadeva da
cavallo e giaceva a occhi chiusi, sdraiato sul terriccio
polveroso, altro non era che un attore, il quale
probabilmente doveva concentrarsi nel rimanere immobile
per tanto tempo.
Si rese conto che la scena che aveva davanti agli occhi,
in quel momento, non era un film. Era realtà.
Il vento si calmò e, all’improvviso, il paesaggio tornò
riconoscibile.
Le fanciulle si scrutarono a vicenda, quasi a voler trovare
nei loro occhi la risposta a quel mistero.
Gli spari proseguirono mentre, pian piano, il cielo si stava
rischiarando.
Alzarono gli occhi verso la direzione da cui tali botti
provenivano e presto i loro sguardi impauriti si placarono:
nel cielo, poco lontano da lì, si stavano susseguendo lampi
coloratissimi, giochi d’artificio meravigliosi, fiamme blu
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come la notte, rosse come l’amaranto, verdi come lo
smeraldo, che si intrecciavano e si dividevano fra loro,
disegnando nel cielo splendide forme geometriche.
Chiara guardò l’orologio al polso: era appena iniziata la
festa in paese.
Quel cielo variopinto non le distrasse abbastanza da non
permettere loro di percepire nuovamente qualcuno
avvicinarsi: osservarono quella figura da lontano.
Compresero che si trattava di una fanciulla.
Che stava piangendo disperatamente.
Di lei non poterono scorgere che i dritti capelli rossicci
legati in una lunga treccia spettinata dal vento; una gonna
lunga fino alle caviglie; il viso annerito dalla polvere e rigato
dalle lacrime.
La sconosciuta corse incontro a loro.
“Che cosa è successo?” chiese ella quando fu innanzi a
loro.
“È iniziata la festa in paese, erano soltanto fuochi
d’artificio!” rispose Chiara.
La ragazza si rese immediatamente conto che,
probabilmente, il suo tono era stato troppo ovvio, tanto da
apparire forse maleducato, poiché si era rivolta a lei con la
stessa spontaneità con cui si sarebbe rapportata con
Costanza e, perché no, anche con Francesca. Constatò
con stupore che quella fanciulla non le faceva paura, ma
soltanto molta tenerezza. Le parve che avesse un qualcosa
di familiare, che tanto la ispirava. La osservò mentre teneva
lo sguardo fisso su Costanza, per un tempo che le sembrò
infinito.
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“Questo posto mi parla di me anche se non lo conosco”
disse la sconosciuta arrestando il suo pianto.
Poi guardò nuovamente Costanza negli occhi.
“La piazza: ci sono passata prima di perdermi tra questi
campi... quella meravigliosa casa color pesca vicino
all’oratorio... non posso credere che proprio qui avrei
trovato ciò che vedo avanti a me, ora”.
Costanza cercò la complicità nello sguardo delle amiche.
Rimasero tutte immobili, mano nella mano.
“Non posso credere ai miei occhi! She’s not real!”
sussurrò Chiara.
Costanza spalancò gli occhi sul viso di colei che non
aveva mai conosciuto prima di allora. Ma che già tanto le
diceva.
Il suo respiro si fece affannato. Sempre più, fino a che la
bimba perse i sensi e cadde a terra.
“Non posso credere ai miei occhi, è davvero incredibile!”
continuava a ripetere Chiara, non accorgendosi del malore
dell’amica.
La sconosciuta si precipitò ai piedi di quel corpo sdraiato
a terra: percepiva ancora, nel suo petto, i battiti altalenanti e
scoordinati che erano seguiti a quel tuffo al cuore; si sentiva
ogni singolo muscolo tremare e si stava fortemente
impegnando a non soccombere lei stessa.
Chiara intervenne energicamente, tentando di far
rinvenire l’amica a suon di schiaffetti sul viso.
“Non abbiamo tempo da perdere” gridò guardando
Francesca.
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“Corri in piazza a cercare i suoi nonni: devi dire loro che
Costanza è svenuta, devono venire qui subito!”.
In paese, intanto, la sagra proseguiva allegramente nella
piazza profumata di dolci e frittelle.
Seduti a tavolino gli uomini, separati dalle donne,
bevevano generosi bicchieri di vino e se la raccontavano,
ridendo rumorosamente; alcuni di loro, divisi in gruppi di
quattro, giocavano a carte, scommettendo talvolta più
denaro di quel che potevano permettersi di perdere.
Altri ballavano, chi con la consorte e chi con amici, sulle
note che stavano colmando il vuoto del silenzio a cui il
paese era abituato da troppo tempo.
Un bambino nei suoi primi anni di vita, dallo sguardo
dolcissimo, con i suoi occhi azzurri come il cielo e i capelli
biondi come l’oro, si era infilato in mezzo alla banda ed
esibiva con orgoglio la sua trombetta di plastica, che
suonava con grande entusiasmo insieme ai musicisti.
Nel bel mezzo della folla danzante, Gina ballava con
Ettore.
Francesca scese dalla stazione verso la piazza correndo
come forse mai aveva fatto prima di allora: riuscì a
distinguere immediatamente chi stava cercando e quasi vi
si avventò contro.
“Francesca... perché sei così affannata, cos’è accaduto,
cara?” si affrettò a chiederle Gina, cercando di mantenere
la calma.
“Eravamo vicino alla stazione: improvvisamente, ci è
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corsa incontro una bambina... non crediamo ancora ai
nostri occhi... sembra disegnata!”.
“Continua” la supplicò Gina.
“Ha detto una frase che non abbiamo capito... poi
Costanza è svenuta!”.
La donna liberò la sua fantasia dalle catene della
ovvietà. Si sforzò di trovare un motivo valido, uno solo, per
cui le ragazze non avrebbero dovuto capire la frase di
quella bambina. Era forse straniera? Eppure sua nipote e
Chiara avevano studiato un po’ di Francese, a scuola. I casi
erano due: o non lo avevano studiato abbastanza, oppure
la ragazzina era inglese, o tedesca, o chissà cosa? Ricordò
quando Costanza, a quattro anni, aveva giocato un intero
mese con una bambina olandese, intendendosi con lei fin
dal primo momento. Allora non era stato necessario parlare:
era stata sufficiente l’intesa nei gesti. Che il gioco fosse
qualcosa di universale, lo avevano dimostrato chiaramente.
Ma questa volta, doveva essere diverso. Quella bambina
non era lì per giocare con loro; ma per comunicare loro
qualcosa. E se invece fosse stata italiana? Come aveva
fatto, quindi, a pronunciare una frase incomprensibile? E
perché Costanza era svenuta? Perché lei e lei soltanto? E
cosa voleva dire “sembra disegnata”?
Gina prese per un braccio il marito che stava ascoltando
il dialogo fissando il vuoto e lo trascinò frettolosamente
verso casa. Salirono sull’automobile, caricarono Francesca
e si fecero guidare da lei fino al punto preciso dove si
trovavano le ragazze.
Arrivati là, Gina ed Ettore si lanciarono letteralmente
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sulla nipote abbracciandola, nel momento in cui ella stava
riprendendo i sensi.
La donna diede allora un fugace sguardo alla
sconosciuta, salutandola con un cenno di testa, poi cercò
invano di scacciarla dai suoi pensieri. Almeno così avrebbe
voluto, una volta per tutte: ma non era ancora, quello, il
momento giusto per farlo.
Lasciò Costanza nelle braccia di Ettore e risalì verso la
stazione, dove ricordava esserci la più vicina cabina
telefonica.
Inserì a fatica un gettone, quindi il suo indice destro girò
la rotella dei numeri, fino a comporne uno a memoria.
“Pronto... Bianca... ciao, sono io. Ascoltami attentamente
e non interrompermi! Devi assolutamente venire qui prima
possibile... tu non ci crederai, ma probabilmente è successo
quello che temevamo!”.
Il suo orecchio appoggiato alla cornetta non udì alcuna
voce.
Quindi proseguì: “So bene che tu e tuo marito avevate
deciso di parlargliene molto presto, ma il destino vi ha
preceduto. Coraggio, figlia mia, sapevi che sarebbe potuto
accadere. Ti aspetto qui, adesso!”.
Riagganciò la cornetta.
Aggiunse un altro gettone e con il suo indice girò la
rotella su tre sole cifre.
“Pronto, carabinieri: ho trovato la ragazzina scomparsa”.
Una pausa di qualche istante, in cui la donna aggrottò la
fronte.
“Come dice? Ho sbagliato numero? Mi scusi!”.
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