Pagine autobiografiche

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Pagine autobiografiche
Renzo Baldo
Pagine autobiografiche
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Attribuzione: Non commerciale - Non opere derivate
INDICE
Da Matteotti alle leggi razziali................................ 4
L’Università........................................................... 25
La laurea con Mario Apollonio.............................28
Al corso allievi ufficiali.......................................... 29
Sul Maroccaro con don Antonioli.........................45
Il percorso politico................................................ 49
Memorie de musica............................................... 54
RENZO BALDO
Da Matteotti alle leggi razziali*
Mia madre (quinta elementare) era istintivamente,
popolarescamente, antifascista: Mussolini? un prepotente,
che aveva tolto il potere al re, al quale soltanto spettava di
comandare. Diceva queste cose di rado, ma in modo deciso,
con efficaci battute in dialetto. Il ricordo di queste battute
risale agli anni dell’infanzia.
Non avevo ancora cinque anni quando massacrarono
Matteotti. Per qualche tempo continuai a sentir risuonare
questo nome nelle conversazioni degli adulti. E sentii mia
madre dire a una conoscente che mia nonna Imelde aveva
pianto, anche perché, mi par vagamente di ricordare, riteneva
di avere una lontanissima parentela, che la legava non so se a
lui o a sua moglie. All’asilo, dove di solito non dicevo una
parola, avendo sentito due maestre che a bassa voce
parlavano della vicenda, esclamai: “Matteotti è mio parente”.
Una di loro mi disse: ”cosa dici, stupidino!” E aggiunse: “E poi
i bambini di queste cose non devono parlare”.
Confusamente collegavo il nome di Matteotti a quello del
signor Bagni, anche lui, così dicevano, socialista - e il termine
“socialista”
veniva
pronunciato
con
circospezione,
abbassando il tono della voce - che abitava nelle stesse nostre
case, un portone più in là; anche lui, dunque, socialista, e che
per questo aveva dovuto scappare da Brescia, ma che anche a
Genova, dove si era trasferito (non so che mestiere facesse,
forse il giornalista), l’avevano aspettato al suo arrivo alla
stazione - così raccontavano - per aggredirlo e bastonarlo.
*
Mi è stato chiesto di “documentare” come, tra gli anni ’20 e gli anni
’30, ho ”vissuto” il fascismo. Sono nato nel 1920; quindi: gli anni tra le
prime “percezioni” e “intuizioni” della fanciullezza e gli anni della
formazione adolescenziale.
Ho cercato di registrare i “fatti” con scrupolosa esattezza e di
recuperare i ricordi, per quanto possibile, nella autenticità dei pensieri e
delle emozioni che li accompagnarono.
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
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Non riuscivo a capire perché i socialisti fossero uccisi o
bastonati. In seconda elementare - scuola elementare Regina
Elena, via Diaz - avevo un compagno di classe di 12 anni (un
“anziano”!), un tipo grande e grosso, bonaccione e tracotante
(abitava in una cascina di via Berardo Maggi, parlava solo in
un dialetto aggressivo e pittoresco): naturalmente sovrastava
noi sette-ottenni, incutendoci un inquieto rispetto per le cose
mirabolanti di cui parlava, tra le quali, abbastanza frequente:
“Anche iér séra so stat coi fascisti. Sèmper col coltèl”. Non so
se inventasse o, più probabilmente, si attribuisse cose sentite
in famiglia o nei luoghi che frequentava. Una volta aggiunse:
“Iér séra gh’éra i socialisti”. (E un giorno ce lo fece anche
vedere il coltello, effettivamente un coltellaccio, che mi
impressionò, e che mi venne spontaneo collegare con la
faccenda dei socialisti da bastonare).
Spesso sotto le finestre di casa nostra (in via Diaz, allora di
scarsissimo traffico) si radunavano manipoli in divisa,
probabilmente per prepararsi a qualche sfilata. Una delle
battute di mia madre: “a mèter la zènt én divisa, sé
guadagna poc”. E quando arrivai alla terza o quarta
elementare, quando ormai la divisa era un obbligo per tutti gli
alunni, resistette a lungo, sottraendoci alle convocazioni, o
mandandoci alle riunioni e adunate dove occorreva la divisa
facendoci dire che la divisa era rotta o era a lavare. Mio padre
dovette intervenire, e obbligarla a prepararci camicia nera e
calzoncini grigio-verdi, ma si vendicò a modo suo,
confezionando dei calzoncini brutti e malfatti (istintivamente
mi vergognavo della divisa, ma ancor di più mi vergognavo di
averla anche brutta). E si rifiutò sempre di comperare il fez,
che detestava senza scampo.
Nell’ambito della scuola c’era una sorta di dicotomia:
imperversava l’obbligo di sentirsi protagonisti dell’Italia
fascista, con frequenti convocazioni a presentarsi in divisa,
per adunate e parate, ma nelle ore di lezione io non ricordo
che pochissimi episodi di “persuasione” al fascismo.
Terza elementare: una maestra, supplente, ci chiede se
sappiamo chi sono le persone che compaiono, sotto il
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crocifisso, in grandi immagini fotografiche: il re, il duce.
“Sapete cosa fanno?”. “Comandano”. Domanda imbarazzante,
dai banchi: “Chi comanda di più?”. Risposte incerte: il re… il
duce…La maestra non sa come cavarsela, e mentre si
arrovella per spiegare che comandano tutti e due, una voce,
dai banchi, la folgora: ma il duce è cattivo, ha la faccia cattiva.
Coro quasi unanime: “Sì, sì, è vero!”. Imbarazzo della
maestra, che si affanna a spiegare che invece è così buono, che
vuole bene ai bambini, che ha salvato l’Italia, e che suona il
violino (questo ingrediente biografico faceva anch’esso parte
del repertorio di notizie agiografiche ufficialmente diffuso).
***
Se ripenso, analiticamente, a tutti gli insegnanti che ho
avuto, dalle elementari al liceo, credo di poter affermare che
obbedivano tutti alla regola del silenzio, tutti probabilmente
convinti che a scuola si fa scuola, e basta.
In quarta elementare, dopo poche settimane, il maestro fu
sostituito: ben presto corse la voce che aveva avuto dei guai,
perché accusato di aver dileggiato, durante una cena con
amici, il distintivo del fascio. Era obbligatorio, non ricordo da
quando, portarlo all’occhiello: lo chiamavano “la cimice”.
Questo termine, insieme alle barzellette che circolavano, mi
dava la sensazione che tra il fascismo e la gente (gli italiani) ci
fosse qualche incomprensione o addirittura antagonismo.
Nel corso delle lezioni qualche sfumatura di convinto
nazionalismo era frequente, ma era, appunto, culto della
patria, amore per l’Italia, cosa di cui tutti, più o meno, erano
convinti senza esitazioni.
Ma fu nel ginnasio superiore che avvertii per la prima volta
in modo netto che l’amor patrio poteva farsi chiacchiera e
retorica. L’insegnante di lettere, del quale si diceva che fosse
parente o addirittura fratello di un caduto fascista, praticava
una sua onesta pedagogia dell’apprendimento, con lezioni
della più tradizionale routine, talvolta, di passaggio,
condendole con i luoghi comuni più tipici, quali l’Italia madre
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di santi, di eroi, etc., l’Italia che - tranne Wagner - aveva dato i
più grandi musicisti, l’Italia che era la prima al mondo
nell’arte e nella scienza, e via dicendo. Ma erano passaggi rari
e occasionali, e che mai si traducevano in politicizzazioni di
attualità.
Ero anche stato fortunato: mio padre aveva acquistato,
pagandola a rate, la Enciclopedia dei ragazzi edita da
Mondadori in sei volumi. A parte il fatto che era una fonte
straordinaria di cultura divulgata in modo intelligente e di
facile assimilazione, era stata elaborata prima dell’invadenza
del fascismo, sicché era costruita su fondamenti seri, di
cultura responsabilmente filtrata, in una chiave che
potremmo definire laico-liberale. Me ne accorsi pochissimi
anni dopo, quando alla successiva edizione fu data una
marcata impronta ideologica fascista, che ne investiva
pesantemente tutti i settori che a questo rifacimento si
prestavano. La cosa era di tale evidenza, che trovandola in
casa di conoscenti, lo avvertii immediatamente, con un misto
di stupore, di perplessità e di disagio.
Mancando di altre fonti di informazione e di riflessione,
piccoli fatti come questo finivano con l’assumere un rilievo
non trascurabile. Ne cito un altro: quando seppi che la
Rivoluzione francese aveva tentato una nuova numerazione
degli anni, trovai senza senso, una banale imitazione, la
consuetudine, obbligatoria, di segnare le date con
l’indicazione dell’Era Fascista (tra le battute umoristiche che
circolavano - non erano un gran che, come comicità, ma,
diffusissime, contribuivano certamente a screditare il regime c’era anche quella che suggeriva di scrivere “era” con la
minuscola, per far capire (così mi spiegò un mio compagno di
classe) che, sì, l’Italia “era “ fascista, lo era stata, ma non
voleva più saperne.
L’unico intervento di pedagogia fascista a cui ho assistito in
classe nel corso degli anni, oltre a quello della ingenua
maestra della terza elementare, è stato, nell’ultimo anno del
liceo, il resoconto, fattoci da un insegnante di filosofia, che
era stato a una settimana di aggiornamento culturale sul
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fascismo. Ci spiegò che il fascismo, erede del Risorgimento e
della sostanza più autentica del liberalismo, aveva profondo
rispetto per la cultura, era aperto alla discussione e al dialogo,
era tollerante, ma che, se qualcuno, ottuso, proprio non
voleva capire, c’era il manganello, che riesce a convincere
anche le teste dure, che si ostinano a non capire. (Fu, gli va
riconosciuto, l’unica occasione, almeno a quel che io ricordo,
in cui fece emergere queste sue convinzioni).
A proposito di tolleranza: in quella classe c’era anche un
compagno, Sandro Molinari, che, per essere stato
sistematicamente assente alle adunate del sabato fascista,
dovette presentarsi dal Segretario Federale, che dopo avergli
fatto una bella predica, lo congedò schiaffeggiandolo. Quando
la notizia circolò, ci fu qualche mormorio, e ognuno in cuor
suo probabilmente pensò che era meglio non farsi
schiaffeggiare.
La tesi del fascismo come attuazione delle migliori istanze
nazionali e liberali, quali avevano animato il Risorgimento,
era allora abbastanza diffusa. Uno dei teorici ne era Balbino
Giuliano, del quale lessi un libro, che annotai sui margini con
frequenti punti esclamativi e osservazioni o ironiche o in
chiave interrogativa. È stato, quello, un momento decisivo per
l’uscita consapevole dal fascismo. Ma avevo incominciato a
leggere qualche pagina di Luigi Salvatorelli, Guido De
Ruggero, Luigi Russo, Alfredo Omodeo, nei cui scritti, anche
quando si occupavano di tutt’altro, trapelavano sempre
suggerimenti concettuali e riferimenti facilmente traducibili
in termini di attualità e di opposizione. Ricordo, per esempio,
uno scritto, illuminante, di L. Russo sull’antropolatria. Così
come ricordo la notizia, che circolava con un misto di stupore
e di ammirazione, di un insegnante di liceo che leggeva e
commentava il Della tirannide di Vittorio Alfieri.
In seconda liceo ebbimo come insegnante di filosofia un
sacerdote, don Caporali. Faceva delle lezioni a flash, di tipo
giornalistico. Un giorno ci lesse alcuni brani della celebre
intervista che Mussolini aveva rilasciato (nel 1932) a Emil
Ludwig, scrittore e giornalista tedesco - ebreo - che godeva
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allora di larghissima notorietà. Non so cosa esattamente
pensasse quell’insegnante in fatto di fascismo. Ma mi dava
l’impressione che la sua lettura, quel giorno, fosse corredata
da un mezzo sorriso, che forse era ironico, e da qualche
battutina di sottile ambiguità. E terminò con la citazione del
verso dantesco “dei remi facemmo ala al folle volo”, che
Mussolini aveva indicato come il verso di Dante da lui
preferito, che aveva sentito come “suo”. “E… sì - concluse,
dando risalto al finale - folle volo”. (Questa sfumatura me la
sarò immaginata io o era davvero implicita?).
Ma ci fu un altro flash più importante: ci parlò brevemente
del “Modernismo”, e concluse raccontandoci della clausola
del Concordato, che aveva direttamente colpito Buonaiuti. Mi
sembrò una cosa ignobile. E il Concordato rimase la mia
bestia nera.
Il professore reduce dal corso di aggiornamento professava
anche molto cattolicesimo, e non mancò, sempre
nell’occasione di cui ho detto sopra, di osservare che religione
e fascismo collimavano nei fini, come in particolare il
Concordato dimostrava.
Se sulla questione della tolleranza e dell’attuazione del vero
liberalismo ero già in grado, se non proprio di obiettare, certo
di dubitare, quest’altra questione, del rapporto fra il fascismo,
la religione e la chiesa, mi intrigava e mi metteva in difficoltà.
Frequentavo i Padri Filippini della Pace, e non mi sembrava
proprio che, nonostante l’estrema misura con cui sfioravano
l’argomento, avessero le stesse opinioni del professore.
Ricordavo che alcuni anni prima un curato della mia
parrocchia, don Bianchi - diventato poi parroco credo a
Chiari: ne ricordo il volto, che denotava intelligenza, e al
tempo stesso dolcezza e severità - godeva fama di antifascista.
L’avevo sentito dire da mia madre, che chissà come e dove
captava queste notizie (forse in qualche negozio). Così come
anche, non molto dopo, ebbi l’impressione che il parroco don
Giuberti, pur non pronunciandosi mai apertamente, fosse
orientato ad un giudizio negativo sul fascismo. Ma c’era anche
chi scriveva libri - io ebbi per le mani quelli di un bresciano -
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che intendevano dimostrare affinità e concomitanza fra
fascismo e cattolicesimo. Non mi era facile raccapezzarmi.
Anche perché dal mondo dei preti venivano messaggi
contrastanti, o per lo meno non facilmente interpretabili.
Dicevano che padre Gemelli fosse un fascista convinto (e
alcune sue scritture sembravano confermarlo). Un
seminarista che nella parrocchia di Sant’Afra faceva dottrina
la domenica pomeriggio agli studenti delle scuole superiori,
don Cesare (era un giovane serio e intelligente), insisteva nel
presentarci l’Italia risorgimentale e liberale come una iattura.
Io, nutrito di letture, per quanto elementari, di stampo
fortemente risorgimentale, gli tenevo testa, tra l’ingenuo e il
facinoroso. Una volta mi prese in disparte (avevamo
sicuramente una reciproca simpatia) e mi disse: “Guarda che
io lo so che voi giovani siete tutti fascisti…etc. etc…. ma non
pertanto la verità storica è importante”. Allibii. Gli dissi,
credo un po’ disordinatamente, che, secondo me, era la chiesa
che aveva preparato il fascismo rifiutando l’Italia liberale.
Sicuramente disponevamo, entrambi, di informazioni
schematiche e approssimative. Ma questo episodio può avere
forse valore di sintomo e di testimonianza dello stato
confusionale e un po’ underground in cui si muoveva la nostra
formazione.
Forse l’episodio più decisivo sul piano della formazione
concettuale fu quello della lettura della voce “Fascismo” sulla
Enciclopedia Italiana Treccani. Firmata da Mussolini, ma,
dicevano, notoriamente scritta da Giovanni Gentile. Ne avevo
una copia a stampa. Un giorno mi venne a trovare Umberto
Pecorini, due anni più di me, ma mio compagno di classe. La
intravide sul tavolo, la prese in mano e mi disse: leggiamola
insieme. Non so da dove o da chi avesse attinto convinzioni
che gli consentivano così notevole capacità di valutazione
critica. Certo mi diede spunti di riflessione decisivi, di quelli
che fermentano dentro e con il passar del tempo sempre più si
illuminano. Metteva in evidenza l’enfasi del linguaggio, con
quelle abusate parole di “fede”, “vita spirituale” e simili. Fece
un’osservazione della cui portata mi resi ben conto soltanto
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dopo molto tempo: che impostura, mi disse, affermare che
“gli interessi si conciliano nell’unità dello stato”; ma,
soprattutto, sottolineò il passaggio nel quale si afferma che “il
fascismo è la forma più schietta di democrazia” (capito? mi
diceva, che spudorati…giocare con le parole, per fargli dire il
contrario di quello che significano), che “nel popolo si attua
quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno”. Capito?
continuò; “Uno”, con la maiuscola, che, aggiunse, in realtà è
“uno” con la minuscola.
Ma torniamo ad anni precedenti. Sentii mio padre, in
conversazione con amici o parenti che frequentavano la casa,
deplorare che si pretendesse che per essere un buon italiano
si dovesse anche essere fascisti Ma in breve divenne sempre
più prudente, e assunse un comportamento che potrebbe
definirsi di nicodemismo, (che così facilmente viene
scambiato per consenso). Prudenza, naturalmente; anzi,
anche paura.
Ricordo che in occasione del plebiscito del ‘29 (si doveva
votare sì o no) aveva cercato di evitare di andare a votare (lo
sentii dire: “Mah! Forse è meglio non votare”. Nel tardo
pomeriggio lo vennero a prendere, in macchina, e lo
portarono, con molta deferenza, al seggio (presso il quale
c’era dunque chi aveva l’incarico di segnalare coloro che
ancora non avevano votato: andavano a prenderli facendo
loro l’onore di scortarli con la lussuosa offerta di una gita in
macchina). Tornato a casa, commentò: ho votato sì,
naturalmente. Poi, quando credeva che io non sentissi, a
bassa voce disse alla moglie: mi hanno detto che hanno preso
a schiaffi, all’uscita, uno che pensavano avesse votato no.
(N.B. Si è poi saputo che la scheda elettorale era congegnata
in modo che chi votava no era subito individuato, segnalato ai
custodi dell’ortodossia che stazionavano fuori, i quali
immediatamente provvedevano a dargli la giusta lezione.
Dunque, non “pensavano”, ma “sapevano” chi aveva votato
no).
Col passare degli anni al nicodemismo di mio padre
sempre più si accompagnava il rallentarsi delle battute
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“politiche” di mia madre. Evidentemente consigliata di essere
prudente e di star zitta. L’ho sentita però più di una volta
esprimersi con sdegno (èmpostùr) facendo nome e cognome,
nei confronti di coloro che - conoscenti o colleghi - erano
entrati in organismi fascisti, addirittura vestendone le
uniformi, nella profluvie dei gradi di cui si fregiavano (seniori,
centurioni, etc. etc.),dopo aver fatto per qualche tempo
dichiarazioni di antifascismo o addirittura provenendo da
partiti o associazioni perseguitate dai fascisti.
Nel 1932, in occasione del decennale della marcia su
Roma, agli italiani fu concesso l’onore di poter iscriversi al
Fascio, con retrodatazione, se mal non ricordo, al 3 Gennaio
1925. Venivano chiamati ad uno ad uno, presso i circoli
rionali. Chi non firmava (è cosa nota) perdeva il posto e anche
se praticava un lavoro autonomo subiva angherie di ogni tipo
(ai sostenitori della tesi del consenso di massa forse sfugge la
differenza fra accettazione “forzata” e consenso).
In un breve giro di tempo tutti in divisa, soprattutto nelle
grandi adunate di massa, obbligatorie. Mi facevan veramente
pena coloro di cui si sapeva che certamente fascisti in cuor
loro non erano, e che erano costretti a vestirsi d’orbace, a
sfilare compatti per testimoniare che l’Italia era tutta fascista.
Li vedevo tornare a casa con l’aria di cani bastonati. Ricordo
un maestro, che abitava nelle mie scale, sicché spesso mi
capitava di incontrarlo: notoriamente si sapeva che era stato
un attivo socialista, gli si leggeva in faccia il suo disappunto e
la sua rabbia. E mi domandavo che bisogno ci fosse di questa
ritualità obbligatoria, senza scampo. Mi sembrava una
sopraffazione senza senso. Sapevo che la coscrizione
obbligatoria, in nome della patria, era un’invenzione della
Rivoluzione Francese, e per quanto dura da accettare
(evidentemente non avevo spiriti militari), pur mi sembrava
una cosa giusta. Ma che bisogno c’era di mettere in divisa e
portare in piazza tutta quella gente?
Tra quelli con l’aria sofferente di cani bastonati c’era anche
il ragionier Amleto Paoletti, il padre del mio coetaneo e amico
Elio. Impiegato comunale, in uffici vari. Curvo e dinoccolato,
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statura medio-bassa, andatura da umiliato e offeso; con un
sorriso affettuosamente e dolorosamente d’attesa: attesa del
venir meno della realtà entro la quale era costretto a vivere.
Socialista? comunista? anarchico? Non saprei. Forse tutte
queste cose insieme, come spesso era di coloro che si
sentivano in “opposizione”. Estimatore di Dante, di Victor
Hugo, di Tolstoi, di Olindo Guerrini, denigratore del Manzoni
(i Promessi Sposi? Un romanzo per serve e per sartine).
Spesso la sera leggeva ai suoi figli pagine dei suoi autori. Più
volte, soprattutto quando ero un ragazzetto fra i 12 e i 15 anni,
assistetti anch’io a queste letture. Nelle scelte, nel modi di
leggere e, soprattutto, di buttar lì, quasi in sordina, qualche
rapida annotazione di commento, emergeva qualcosa che
allora percepivo molto vagamente, ma di cui col passar del
tempo, sia pur per lampi e per frammenti, cominciai ad
avvertire la portata. Per esempio: la celebrazione della
“natura”, con poche parole, ma con un calore e un significato
“politico”, ( che in seguito mi accorsi che erano alla Courbet:
la spontaneità degli affetti, la naturalezza dell’amore),
proiettate verso l’idea di una comunità “comunista”,
vagheggiata con animo utopicamente ingenuo e puro; la
sottolineatura del precipitare degli egoismi verso la violenza e
la guerra; la inaccettabile offesa della povertà, spesso
trasformata in miseria. E fu tra i pochissimi che al tempo
dell’Etiopia continuarono sicuri nel loro dissenso. Quando su
questo argomento gli dicevamo qualcosa in contrario, spesso
si limitava a scuotere la testa, in fermo diniego.
***
A differenza degli adulti, i ragazzi erano già tutti “fascisti”
senza bisogno di essere convocati dalle sezioni rionali per
esserne persuasi, iscritti d’ufficio alle organizzazioni fasciste,
e obbligati a frequentarle, nelle adunate e nelle esercitazioni
paramilitari, che poi in sostanza erano soprattutto
esercitazioni preparatorie per sfilare in parata. Si marciava in
su e in giù per cortili o per strade di periferia, per poi
finalmente sfilare nelle, frequenti, occasioni di pubbliche
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cerimonie. E francamente questa cosa mi infastidiva e, con il
passar degli anni, quasi mi inviperiva: la sensazione di
perdere ore e ore, mezze giornate in un ridicolo e faticoso
ozio. Con giovanile moralismo pensavo, quasi con dispiacere
oltre che con rabbia, che già che si facevano questi sabato
fascisti, servissero almeno a qualcosa, a insegnarci qualcosa.
Invece, niente: una miscela di ambizioni militaresche e di
caos organizzativo, in vista dello spettacolo. Sfilare in parata
sfoggiando divise era l’unico fine e l’unica ambizione. Veniva
naturale pensare: facciamo spettacolo.
Le sensazioni provocate dall’imperversare dello spettacolo
e dall’esserne parti costitutive erano varie, aggrovigliate e
confuse. Ricordo un mio amico esclamare: la mia rabbia è che
quando si sfila, soprattutto quando si è accompagnati dalla
musica, sei costretto ad immedesimarti in quella sciocca cosa
che stai facendo; anzi, aggiungeva, siamo tutti preoccupati
che la cosa riesca. Un po’ come le comparse sulle scene
teatrali, che non ci credono a quello che fanno, ma devono
pur farlo, e si vergognerebbero a dare segni di sbandamento o
di inettitudine.
Comunque sia, credo che i “sabato fascisti” abbiano molto
contribuito a dare la sensazione del fascismo come
spettacolare inutilità, sfoggio di divise, clangorosa retorica,
impalcatura di cartapesta. La reazione frequente e diffusa era
il turpiloquio, la battuta mordace, lo scatenarsi delle
barzellette.
Le barzellette antifasciste dilagavano. Dette con qualche
prudenza, ma ovunque. Non so se ne esista qualche raccolta o
documentazione. Per banale o insipida che la cosa di per sé
appaia, si tratta pur sempre di un dato di cui tener conto. Ne
ricordo alcune: gli italiani son come i fichi maturi: neri fuori,
rossi dentro; in un pick-nick al quale partecipano
rappresentanti di tutti gli Stati, uno dei convenuti toglie di
tasca un giornale, lo stende sull’erba e dice: “io mangio su Le
Figaro”; un altro fa lo stesso gesto e dice:” io mangio sul
“Times”, etc. etc., il gerarca fascista inviato da Mussolini in
rappresentanza dell'Italia si toglie di tasca Il popolo d’Italia
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(il giornale fondato da Mussolini e voce ufficiale del regime)
ed esclama: “Noi mangiamo sul popolo”; Starace, il segretario
del Partito fascista, che nelle grandi adunate aveva il compito
di presentare il duce alle folle, ha sempre in tasca un biglietto,
che ripassa tutti i giorni, dove c’è scritto : “Salutate nel duce il
fondatore dell’impero”; per verificare la solidità di un ponte
basta radunarci sopra il Gran Consiglio del Fascismo: se
resiste, bene, se crolla, meglio; si propone che alle vie
intitolate ad Arnaldo Mussolini si ponga sotto una scritta. “via
anche suo fratello”; Donna Rachele è stata multata: non aveva
denunciato il porco che aveva in casa.
Sciocchezzuole, tutto sommato, ma mi facevano
impressione, non tanto per la loro eventuale carica di
“spiritosità” quanto per il loro dilagare. Come mai, mi
domandavo, tutta questa gente, giovani e adulti, magari
proprio mentre stanno celebrando i riti del regime, impettiti
nelle loro divise, si divertono tanto per ciò che lo ridicolizza?
***
Alla mia quotidiana frequentazione degli ambienti piccoloborghesi dove vivevo e degli ambienti “colti” delle scuole, si
affiancavano anche, sia pur sporadicamente, le ore dei
pomeriggi di giorni festivi trascorse presso i nostri parenti di
Borgo Milano. Ambiente operaio. Vi si respirava,
tangibilmente, un’aria diversa. Anche qui, se si toccavano
argomenti politici o che avessero in qualche modo una
possibile implicazione politica, diffidenti silenzi, battute
tronche, discorsi sospesi. Ma quando, magari di straforo, si
presentasse un’occasione di esporre opinioni, di rompere il
silenzio, non si sentivano discorsi in calibrate dosature di
agganci “colti” e nemmeno barzellette, che di quei discorsi
calibrati sembrava fossero l’inevitabile accompagnamento,
ma parole dure, quasi sempre con un linguaggio, che
sorprendeva noi ragazzini timorati. Mio padre, che in vita sua
non ho mai sentito una sola volta pronunciare una parolaccia,
era a disagio, e interveniva cercando di ottenere linguaggio
più castigato, e, soprattutto, mettendo in opera il suo
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nicodemismo, adoperato come arma di mediazione, forse si
potrebbe anche dire di opportuno strumento per dare un
colpo al cerchio e un colpo alla botte. (Nella mente di tanti
italiani del tempo - ma, credo, anche negli italiani di dopo alla sostanziale inaccettabilità del fascismo si accompagnava come, poi, le due cose, nella loro contraddittorietà, riuscissero
e riescano a convivere, è questione complessa - non mancava
certo la convinzione che qualcosa di buono il fascismo avesse
fatto per l’Italia. Per esempio: i treni andavano in orario, non
c’erano più scioperi, aveva prosciugato le Paludi Pontine, e via
di seguito gli ingredienti della propaganda fascista. E non era
facile sottrarvisi).
Spiccava fra tutti, in quegli incontri di Borgo Milano, per
popolaresco gusto di un linguaggio di pittoresca aggressività,
mio zio Alessandro, detto, sempre, Sandro. Per capire il
personaggio, basti ricordare che il Primo Maggio (festa
abolita dal fascismo) si rifiutava di andare a lavorare.
Lavorava alla O.M., dove credo si distinguesse per grande
bravura di mestiere, e dove mai nessuno, bisogna dirlo, mosse
un dito per contestargli certi suoi umori o certe sue scelte,
come quella della Festa dei Lavoratori, e come quella,
pericolosa, di rifiutare l’iscrizione a qualunque organizzazione
fascista e, di conseguenza, di non partecipare a riunioni o
adunate. Come ci sia riuscito, non l’ho mai ben capito. E non
si faceva certo riguardo, quando sia pur con bruschi
frammenti verbali, prendeva la parola, anche in luogo
pubblico, come le osterie. Quanto a me, ne ho tratto molta
materia di riflessione, soprattutto quando insisteva nel dire
che l’Italia era governata da puttane. Non è poco, per un
ragazzetto, ascoltare la dissacrazione del potere.
***
C’è stato un momento, nel quale l’identificazione di “patria
italiana” e di fascismo giocò il massimo ruolo per accrescere il
consenso: l’impresa d’Etiopia. Il successo militare diede
l’impressione che il fascismo non fosse solo cartapesta e
sopraffazione; e le “sanzioni” sancite a Ginevra, con
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quell’immagine continuamente ripetuta delle 52 nazioni che
ci assediavano, contribuirono sicuramente a rinforzare
l’adesione “patriottica” al regime. Ma fu un momento di breve
durata. Le perplessità rimontarono, e si accrebbero.
***
Credo che poco si sia si sia parlato e documentato sul
fenomeno della mendicità negli anni trenta. Nel cortile della
casa dove abitavamo, tutti i giorni transitavano almeno due o
tre suonatori e cantanti ambulanti, che non erano di
estrazione popolare e quindi, in certo qual modo,
“professionisti”, ma, palesemente, persone che si adattavano
a raggranellare in quel modo qualche soldo per sopravvivere.
Suonavano, cantavano, e raccoglievano da terra le monetine
che gli gettavano dalle finestre. Ricordo, oltre a suonatori di
mandolini e di chitarre, alcune esibizioni ben insolite: un
violinista con un cantante; perfino un violoncellista; un
giovane dal portamento distinto, che suonava splendidamente
l’ocarina, biondo, dal volto intensamente espressivo (lo
chiamavano “Corradino di Svevia”: erano tempi nei quali si
leggeva nelle scuole l’Aleardi: “era biondo, era bello, era
beato…”). Mi facevano impressione, mi davano la sensazione
di miseria diffusa.
L’opinione che il fascismo creasse condizioni di vita
economicamente depresse rispetto agli altri paesi era
largamente diffusa: borbottata, detta fra i denti. Episodio
sintomatico di questa realtà e di queste convinzioni sono
state, una mattina, le voci concitate che venivano dalla sala
dei professori, che commentavano il provvedimento,
piombato all’improvviso e comparso sui giornali, di un taglio,
non ricordo di quale aliquota percentuale, su tutti gli stipendi
(primi anni trenta: io frequentavo il ginnasio inferiore; il
titolo del giornale, a piena pagina, l’avevo già visto a casa mia
prima di uscire di casa, e ricordo l’esclamazione e il
commento amaro di mio padre). Lo sdegno era tale, che
lasciata da parte ogni preoccupazione sentivo frasi come
quelle che in simili occasioni si sentono sotto qualunque
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
regime, ma che in un’Italia di ferreo controllo dittatoriale
suonavano veramente sintomatiche. Ne ricordo una: “E’ così
che si va incontro al popolo!”. Non occorre ricordare che era
uno degli slogan più sfruttati dalla propaganda, e come tale
facilmente sfruttabile, con battute ironico-sarcastiche, da chi,
almeno a livello umorale, con il fascismo non si identificava
Che la miseria fosse diffusa era confermato dalla ressa dei
mendicanti, che venivano a bussare alla porta ogni giorno.
Mia madre teneva una ciotola coi 5 e i 10 centesimi, pronti da
distribuire (raramente i 20 centesimi). Aveva l’istinto della
statistica, la sera ci diceva il numero: ne transitavano sempre
dai dodici ai venti al giorno. Del resto, tutti sapevano e
potevano vedere le distribuzioni di minestra ai conventi, per
esempio quello dei francescani di via Callegari, che
percorrevo tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Ce n’erano in
file numerose, non meno di settanta-ottanta, con i loro
recipienti di latta e il cucchiaio in mano o alla cintola. Ma la
cosa che più mi impressionò fu che un giorno davanti alla
Sezione Rionale vidi alcuni giovani in divisa, col fazzoletto
giallo-rosso al collo (i colori di Roma). Erano i volontari che
partivano per la Spagna. Tra essi c’era anche il suonatore
dell’ocarina. Corradino di Svevia - così raccontava,
commovendoci, l’Aleardi - era finito “sotto l’arco d’un
tempio”. Quest’altro, chissà.
A proposito di sala professori: ero in quarta o quinta
ginnasio quando arrivò da Roma un ispettore, che, si diceva,
era stato chiamato per sottoporre a controllo il prof. Morandi,
che insegnava al ginnasio inferiore. Il prof. Morandi godeva
fama di ottimo insegnante e di uomo di notevole cultura.
Capitano in congedo, mutilato di una gamba nelle guerra del
‘15. Si sussurrava che prima del 3 Gennaio 1925 avesse
assunto posizione politica in opposizione al fascismo; ritengo
nel Partito Popolare. La supposizione dell’ispezione ad
personam non doveva essere senza fondamento: l’ispettore si
fermava in ogni classe non più di un’ora o due, al prof.
Morandi dedicò due giornate. Ed esaminò, li vidi accumularsi
su di un tavolo, tutti i compiti in classe. Non so come sia
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
andata a finire, probabilmente in niente, visto che il prof. in
questione continuò nel suo insegnamento. Ma l’episodio non
passò certo inosservato.
***
Dalla fine del ‘36 nelle sale cinematografiche vennero a
mancare film e documentari provenienti dalle nazioni che
avevano aderito alle sanzioni. Lo spazio rimasto vuoto fu
occupato soprattutto dalla produzione tedesca. Il film della
Riefenstahl sulle Olimpiadi di Berlino del ‘36 mi destò
sensazioni contrastanti, di ammirazione e di preoccupazione,
direi quasi di angoscia, quasi si avesse a che fare con un
umanesimo pervertito, con una “grecità” svuotata di anima.
Ma soprattutto mi colpivano i documentari, con quella
formidabile presenza di coreografia militaresca, che tutti
conosciamo, destinata a diventare perfino uno stereotipo, ma
che allora ovviamente aveva la potente carica dell’attualità.
Avevo la sensazione di essere di fronte ad immagini di
celebrazione della forza e della guerra, sensazione che
cresceva in modo inequivocabile, senza incertezze, di fronte
alle immagini dei saggi ginnici della gioventù tedesca.
Eravamo abituati anche noi ai saggi negli stadi, specie a
conclusione dell’anno scolastico, ma le figurazioni e i gesti
erano nella tradizione del movimento ginnico come equilibrio
tra forza e bellezza. I saggi ginnici dei giovani tedeschi erano
affidati a movimenti violenti, aggressivi, che davano ai volti
tratti di ferocia e di ferinità. “Li educano ad uccidere” fu un
commento che sentii; e che condividevo, quasi con sgomento.
Questo della violenza era un tema che mi crucciava. Come
in un confuso pulviscolare mi arrivavano abbozzi di opinioni,
citazioni mal connesse: la violenza che fa la storia etc. etc. ;
Sorel, (che, si diceva, era stata la lettura preferita di
Mussolini),
Nietzsche,
Marx,
Lenin…e
Mussolini,
naturalmente.
Era facile annaspare. Nel frattempo, ogni tanto, mi
toccava vedere la scena di un gagliardetto portato con passo
vigoroso in giro per la città da cinque o sei fanatici, che
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
schiaffeggiavano i passanti che non si affrettassero a togliersi
il cappello e ad alzare il braccio nel saluto romano. Mi veniva
in mente Guglielmo Tell, che non aveva salutato il cappello
dell’imperatore appeso nella piazza. Lo dissi anche, a uno di
quei fanatici, col quale avevo qualche confidenza, e mi
rispose che era tutta un’altra cosa, ma che comunque il
fascismo non aveva bisogno di riferimenti storici, perché era
lui che faceva la storia.
***
Primi mesi del 1938: ero in terza liceo. Una mattina
dedicata allo svolgimento di un tema inviato dal Ministero,
per l’ultima classe dei licei. Non ne ricordo l’esatta
formulazione, ma sostanzialmente chiedeva di esaminare le
possibilità di sviluppo economico dell’Africa Orientale. Che ne
sapevamo! Anzi, le notizie che circolavano, fondate o no che
fossero, erano in proposito tutt’altro che incoraggianti. Era un
classico episodio di invito alla chiacchiera. Tutti si misero a
scribacchiare qualcosa. Un mio compagno, Renzo Barboglio,
incrociò le braccia e consegnò il foglio in bianco. Io ebbi
improvvisamente l’estro di scrivere un dialogo, immaginando
la conversazione di due alunni che uscendo di scuola
discutevano dell’assurdità di ciò che era stato loro richiesto e
deploravano non solo il non senso dell’iniziativa, ma la
testimonianza ch’essa dava di abitudine alla chiacchiera. E
terminavo dicendo: se qualcuno mi dimostrerà che ho torto,
dirò anch’io, come il Falstaff di Boito (l’avevo letto da poco):
“incomincio a capire / di esser stato un somaro”. Con
richiesta di reciprocità per coloro che non fossero riusciti a
dimostrare la mia somarità.
Alcuni giorni dopo arriva in classe il preside. Era una
persona a suo modo degna e umana. Nazionalista e
irredentista in terra asburgica, con condanna a morte in
contumacia, fascista convinto (uno dei, credo numerosi,
fascisti che del fascismo vedevano l’“italianità”, la
celebrazione della patria). Deplorò, come segno di scarso
senso del dovere, il foglio bianco del compagno, si soffermò a
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
lungo sulla qualità “sovversiva” del mio dialogo, passibile,
diceva, di denuncia al Tribunale di Bologna (se mal non
ricordo, era un tribunale a cui erano rinviati coloro che
commettevano gravi infrazioni contro lo Stato fascista)., mi
incitò a capire l’importanza di partecipare a un’iniziativa
indirizzata a stimolare la conoscenza della realtà dell’Italia
fascista. Ebbi la viltà di dire che l’avevo scritto per scherzo,
senza intenzione di consegnarlo e lasciato distrattamente sul
banco (non fui denunciato, anche perché credo che quel
brav’uomo non l’avrebbe mai fatto per nessuno).
***
Un ricordo indelebile: Mussolini pronuncia il celebre
discorso che terminava con il motto “libro e moschetto,
fascista perfetto”; alle sue spalle sbuca Giovanni Gentile, che
con un sorriso compiaciuto gli porge un libro e un moschetto,
che il duce sveltamente afferra proponendoli a braccia alzate
alla ovazione della folla.
Sapevo di Gentile, più per sentito dire che per adeguate
letture, che era un insigne filosofo, ma quella partecipazione a
un rituale palesemente demagogico mi mise in crisi,
soprattutto per quel sorriso, che mi sembrò segno di un
dualismo
inaccettabile:
di
qua
il
paternalismo
dell'intellettuale, di là la massa. “Ci portano in piazza per fare
massa” mi diceva un amico, al quale devo molto, Elio Paoletti.
Cercai di incrementare la lettura di libri di Gentile, scegliendo
quelli più abbordabili per il loro contenuto. Quanto più mi
ingolfavo in questo approccio tanto più non riuscivo a capire
perché mai dalle coordinate che, con fatica, riuscivo a ricavare
dalle sue pagine, si potesse arrivare alla teorizzazione del
fascismo. Giunsi alla conclusione, sempre con Elio Paoletti,
che Gentile continuasse a fare il fascista per coerenza con le
posizioni assunte fin dall’inizio (non potevamo prevedere che
questa nostra supposizione forse alquanto avventata avrebbe
forse potuto essere più probabile, tragicamente, qualche anno
dopo) oppure per l’ambizione di essere, per l’Italia del
fascismo, quel che Hegel era stato per la Prussia di un secolo
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
prima. Il mio amico Elio sosteneva che secondo lui il pensiero
di Gentile poteva portare al comunismo. Io su questo non
riuscivo a seguirlo, anzi a capirlo.
A proposito di incontri e di agganci in grado di dare
qualche orientamento o aiutare a risolvere dubbi. Devo a
Isidoro Capitanio, mio maestro presso l’Istituto Venturi, ma
che talora frequentavo sulle cantorie delle chiese dove era
organista, un succinto ma illuminante intervento
chiarificatore. Dopo aver eseguito, non ricordo se
all’Elevazione o al Communio, un brano, da lui trascritto per
l’organo, dal Parsifal di Wagner (credo fossero i primi mesi
del 1938) mi disse: “l’ho eseguito apposta in chiesa, perché
spero che si capisca che Wagner non è quello che qualcuno
pensa”. (Erano anni nei quali aveva credito l’idea che Wagner
avesse scritto musica prenazista). E aggiunse: “Qualche strillo
di troppo di Sigfrido non è sufficiente per fare di Wagner un
hitleriano”. Non tornò più sull’argomento. Forse pensava di
aver osato troppo.
Raccontai il tutto al mio amico Umberto Pecorini.
Decidemmo di far passare tutto il Parsifal sulla partitura
Ricordi per pianoforte. Ne eravamo affascinati. Direi anche:
infatuati. Ma almeno ci serviva per negare credito a chi voleva
fare di Wagner un nazista. Sapevamo vagamente (non
avevamo letto niente in proposito) che Nietzsche aveva
fieramente stroncato il Parsifal, ma gli davamo torto.
Eravamo convinti che lui sì, Nietzsche, fosse un precursore
del nazismo, e ci era antipatico anche perché aveva inventato
il Superuomo. Quel Superuomo che non riuscivamo a
sopportare in quel tanto di D’Annunzio, che, sia pur a
pressappoco, conoscevamo. Annaspavamo. Erano tempi nei
quali, su queste cose, per dei poveri liceali, non era facile
barcamenarsi.
***
Un evento inquietante, e decisivo, fu la promulgazione
delle leggi razziali. Non si riusciva a capirne le motivazioni.
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
Mio padre frequentava il Caffè Piccinelli, in Corso
Palestro, dove faceva qualche partita a scacchi. Vi aveva
conosciuto una persona - credo un medico, ricordo che
abitava a Gussago - medaglia d’argento al valor militare nella
guerra 15-18. Ci raccontò, con circospezione, a bassa voce, che
l’aveva trovato depresso, distrutto, buttato fuori dalla sua
professione e dal suo lavoro perché ebreo. La cosa gli (e ci)
sembrava disumana e senza spiegazione.
Un insegnante del liceo, assai noto in città, e che godeva
fama di grande bravura - a me era antipatico, perché quando
era in divisa assumeva toni burbanzosi, con piglio
“mussoliniano” - ebreo, fu naturalmente estromesso dalla
scuola. Sentii una persona, che aveva qualche incombenza nel
liceo - (correva voce che fosse un “confidente” della questura,
e sicuramente esercitava una qualche mansione del genere:
un giorno, con iniziativa credo del tutto di allegria goliardica e
senza alcuna intenzione “politica”, gli studenti di una classe si
erano presentati a scuola tutti con la cravatta rossa;
arrivarono due questurini, evidentemente subito informati
con una telefonata) - esclamare in tono trionfante: a quello lì,
adesso, gli possiamo anche sputare in faccia.
Piccoli episodi marginali, ma certo sufficienti per
contribuire a far nascere dubbi e la sensazione di qualcosa di
oscuramente inaccettabile.
A proposito di leggi razziali: una potenziale spinta a
incrementare la diffidenza nei confronti del fascismo
certamente l’ha avuta la rivista “La difesa della razza”. Non
eravamo certo in grado di darne una valutazione sul piano
“scientifico” (come tale essa si presentava), ma colpivano
sgradevolmente i toni polemici, taluni contenuti di evidente
volgarità o di goffa retorica. E soprattutto lasciavano
interdetti le illustrazioni, che abbondantemente la
corredavano. Il sistematico accostamento di immagini
“ariane” - belle, nobili, solenni, armoniose - con quelle di altre
razze - brutte, goffe, deformi, rozze, adipose - sprigionava una
irresistibile sensazione di falsità. Ne avevamo pur vedute in
abbondanza, almeno sui giornali e al cinema, bellezze di
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
colore, maschili e femminili! Ci guardavamo in giro, e
vedevamo, in gran numero, tra i nostri concittadini o
compaesani “ariani”, figure non propriamente sempre di
anatomica perfezione o da ritenersi esemplari di una razza
superiore. Ricordo i ridacchiamenti che si facevano, con
giovanile petulanza (i giovani, si sa, hanno facile inclinazione
al ridere e alla sottolineatura del grottesco) anche e
soprattutto in riferimento a gerarchi e gerarchetti, pure essi
non propriamente modelli di armoniosa bellezza. Li
chiamavamo “le bellezze ariane”. Ma, al di là di queste
impressioni o sensazioni, significative certamente, ma forse
un po’ futili, una cosa soprattutto mi colpì, e cioè, nel primo
numero, l’editoriale che si faceva in quattro per dimostrare
che le dichiarazioni sostanzialmente antirazziste fatte da
Mussolini nel 1932 nella intervista a Ludwig non erano in
contrasto con le leggi razziali. Mi sembrava proprio
un’incredibile falsità. (L’attenzione a quell’editoriale e a
quelle affermazioni di Mussolini mi era stata suggerita anche
dal fatto che proprio su quelle dichiarazioni e per quella
intervista avevo sentito parlare - o letto chissà dove - di un
“umanesimo” di Mussolini e quindi del fascismo. Quando ho
steso questi appunti, sono andato a rileggere per verificare se
non avessi allora preso giovanilmente un granchio: no,
quell’editoriale è proprio un bell’esempio di sofisticate
falsità).
Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali
RENZO BALDO
L’Università
Avevo (avevamo) informazioni imprecise, frammentarie,
contraddittorie. La maggior parte dei miei coetanei che
sceglievano facoltà umanistiche optavano per la Cattolica.
Nel non sempre chiaro barlume delle idee e della
coscienza, stavo uscendo da quella “adesione” al cattolicesimo
entro la quale quasi tutti navigavamo, per tradizione
familiare, per condizionamenti ambientali. Ma nella decisione
di iscrivermi alla Cattolica ebbe certamente peso il
convincimento che forse sarebbe stato bene frequentare una
roccaforte della cultura cattolica, per compiere una verifica
“sul campo”. Ma non senza una non trascurabile inclinazione
a dare la preferenza ad una realtà, che pensavo diversa,
estranea, contrapposta alla “istituzione statale”, sospettata di
essere tutt’uno con un regime e un’ideologia, per il quale
sospetto e diffidenza, quasi rifiuto, si erano ormai fortemente
radicati.
Su questo punto dovevo presto ricredermi. Il regime si
infiltrava abbondantemente dappertutto. Anche lì era
obbligatorio presentarsi agli esami in camicia nera, anche lì
c’erano i corsi e gli esami di “cultura militare”, anche lì non
mancavano offerte rituali alla retorica nazionalista e fascista.
Mi si affacciava sempre più la sensazione che il termine
“cattolico” era di una quasi sgomentante genericità, una
specie di calderone dove ci poteva star dentro di tutto. Si
poteva essere cattolici e fascisti, cattolici e antifascisti. Che era
come dire che il cattolicesimo non dava alcun “fondamento”,
indicava soltanto una gigantesca organizzazione, non priva di
pregi, ma che quanto a criterio di “verità” non poteva offrire
molto, se non apparentemente. E mi si affacciava, sia pure
ancora in termini assai imprecisi, la convinzione che è più
facile sbandierare “certezze” che perseguire “verità”, insieme
Pagine autobiografiche: L’Università
RENZO BALDO
ad un’altra, che si poteva essere cattolici e poco o niente
cristiani.
Discutevo di questi argomenti, con giovanile caotica
inesperienza, soprattutto con un compagno di liceo, Edoardo
Malagoli. Iscritto anche lui alla Facoltà di lettere della
Cattolica, al secondo anno chiese il trasferimento alla Statale,
sdegnato - è la parola giusta! - per l’insegnamento del titolare
della cattedra di “dottrina cattolica”, (che, per la verità,
proprio l’anno dopo fu sostituito da persona di abbastanza
diversa calibratura). Era stato Edoardo Malagoli a suggerirmi
la lettura di B. Croce. Ero imbevuto di letture desanctisiane,
ma fino ad allora Croce nessuno me l’aveva mai nemmeno
nominato. Da Croce il passo era breve per ampliare
l’orizzonte delle letture che facevano capo a Luigi Russo,
Alfredo Omodeo, Guido De Ruggero, oltreché a Gentile, che
mi intrigava molto. Di Omodeo mi colpirono i saggi sul
cristianesimo delle origini e su Loisy. Ebbi l’impressione che
la cultura cattolica si arroccasse su posizioni arretrate, di
difesa piuttosto che di ricerca. E soprattutto trovavo
incomprensibile che così spesso si citassero Loisy, Renan,
Buonaiuti, e via dicendo, magari su, su, fino a Voltaire e agli
Enciclopedisti, quasi fossero dei malfattori (Forma mentis,
che, poi, produsse, qualche anno dopo - io avevo già
terminato l’Università - perfino il cosiddetto giuramento
antimodernista).
Ebbi alcune conversazioni con un giovane sacerdote, che
nella Cattolica ricopriva l’incarico di “assistente spirituale”,
Pignedoli, (“don” allora, poi, anni dopo, destinato a ricoprire
ruoli importanti). Cordiale, affabile, colto, consentiva una
conversazione aperta e vivace. Mi rispose con un sorriso
quando gli dichiarai come intollerabile che in una Università
vigesse il “Libri proibiti” e che si dovesse far domanda al
vescovo per ottenerne la lettura. E rimase un po’ sorpreso, e
titubante, quando gli dissi che i migliori docenti - avevo
frequentato con profitto e con stima Apollonio (lett. It.),
Fiocco (arte), Lazzati (lett. crist. antica), Franceschini (Lett.
crist. med.), Grunanger e Vitale Accolti per la lett. tedesca -
Pagine autobiografiche: L’Università
RENZO BALDO
erano, appunto, assai stimabili non perché cattolici, ma
perché seri e competenti nel loro lavoro e facevano, quindi,
secondo me, “cultura” e non “cultura cattolica”. Giocava, su
questa mia “puntigliosità”, l’impressione che mi aveva fatto la
deplorazione di Giovanni Gentile, quando i circoli di cultura
promossi dal PNF erano stati denominati “di cultura fascista”,
anziché, semplicemente, “di cultura” (e fu, anche quella,
un’occasione per domandarmi come mai Gentile aderisse con
tanta convinzione al fascismo). Vista oggi, la questione
potrebbe sembrare sterile e perfino di lana caprina. Ma allora
serviva per dare qualche fondamento al mio dissenso o al mio
"distacco”.
Può darsi sia vero quel che alcuni sostengono, e cioè che
sempre i giovani che si muovono intorno ai vent’anni soffrano
di disagio intellettuale e psicologico, un disagio spesso
represso, che non trova facilmente vie di comunicazione.
Certo io allora lo avvertivo, in molti, amici e condiscepoli.
Uno dei modi per uscirne era probabilmente quello di pensare
il mondo dei libri come luogo di salvezza. Leggevamo quasi
come dei denutriti per fame e per sete. E cercavamo
affannosamente “fonti”.
Lessi, ricevendone forti suggestioni “La vita come ricerca”
di Ugo Spirito. Se non fa troppo sorridere l’idea di
appiccicarci delle etichette, ero un “crociano”, ma forse,
soprattutto (sperando che il sorriso non si accentui troppo),
un “problematicista”. Definizioni schematiche, ovviamente,
ma che sicuramente indicavano esigenza di chiarezza
razionale; se vogliamo, possiamo dire “laica”. Comunque sia,
ero avviato su vie diverse da quelle proposte dall’Ateneo
cattolico.
Pagine autobiografiche: L’Università
RENZO BALDO
La laurea con Mario Apollonio
Mi sono laureato con Mario Apollonio. Godeva fama di
studioso serio, di vasti interessi, ma di scrittura difficile e
perfino oscura. Effettivamente le sue pagine non mi erano
sempre di facile impatto. Ma mi attirava di lui l’ampiezza di
orizzonte culturale, potremmo dire “europeo”, che dava
sicuramente il segno non solo di grande impegno di studio,
ma pure di rifiuto di schematismi e di chiusura in orticelli di
poco respiro. Mi colpiva, anche, una sua esplicita “laicità”, che
si manifestava come compatto rigore di discorso critico, senza
“sbavature” o “concessioni” di alcun tipo. E avevo anche
apprezzato il suo modo di condurre le prove di esame:
severità, ma forte propensione dialogica, intesa ad accertare
la preparazione “personale” dello studente più che la sua
diligente appropriazione della materia proposta nei “corsi”. E
mi confermò la sua apertura in sede di discussione della tesi,
quando mi furono mosse obiezioni e riserve su alcune
prospettive concettuali, che, indubbiamente, coinvolgevano
convinzioni non strettamente riconducibili ad impianti
culturali di sicura ortodossia, e sulle quali mi difese,
chiarendone il senso e la ”verità”. (Un esempio: destò
sospetto e perfino quasi scalpore l’affermazione che noi non
abbiamo conoscenza, sic et simpliciter, del passato, che ci
giunge, invece, tramite filtri interpretativi, una complessa
“storia” di interpretazioni).
Pagine autobiografiche: La laurea con Mario Apollonio
RENZO BALDO
Al corso allievi ufficiali1
6-VIII-1942. Dal distretto alla stazione, zaino in spalla,
sfilando ancora in panni borghesi, ma ormai come
militarsoldati.2 Ci precede un sergente, che non sembra molto
militarizzato; neanche si preoccupa di voltarsi per verificare
se andiamo al passo.
Siamo diretti a Como, altri per Pietra Ligure. Tra quelli per
Como ci sono, oltre a me, Mario Lussignoli e Mario Conter.
Treno per Bergamo. Lecco, Como (ai militari è proibito
prendere i treni veloci della linee principali come la BresciaMilano). Dormiamo in un alberghetto a Como.
7 - VIII. Ci presentiamo in caserma. Il “piantone” che ci
accoglie all’ingresso ci informa subito: “Vedrete che culo che
vi faranno!”. Lo so già, da altri che ci son passati, in questi
pre-corsi per aspiranti allievi ufficiali (aspiranti obbligati).
Nei cortili marciano in su e in giù quelli che stanno per
diventare i nostri commilitoni, arrivati nei giorni precedenti,
già in divisa, già sottoposti alle rinvigorenti marziali oziosità
della caserma.
Per fortuna ci mettono tutti e tre insieme, nel 2° plotone
della 2a Compagnia. E siccome pare che ci siano dei problemi
organizzativi nei magazzini, per oggi rimaniamo in borghese.
Gironzoliamo per i cortili, leggiucchiamo qualcosa.
Assaporiamo l’ozio, che da domani sarà un ozio faticoso: tre
ore di marcia in su e in giù la mattina, due ore e mezza il
pomeriggio. Chissà che muscoli ci faremo.
Appunti stesi su fogli di quaderno tra l’Agosto e il Dicembre 1942. Negli
anni ’50, riletti, hanno avuto qualche correzione formale, ma senza alcun
cambiamento dei contenuti. Con qualche inserimento atto a chiarire
meglio qualche passaggio. Gli inserimenti sono riprodotti in corsivo.
2
“Militar-soldato”: espressione gergale, tra l’ironico e l’affettuoso, allora
largamente in uso.
1
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
8-VIII. Ancora niente divisa. Con nostra soddisfazione: un
giorno in meno da marciatori. Rimaniamo così in questa
specie di limbo: là fuori il “paradiso perduto” (meno male che
ho letto Milton, e posso fare delle belle citazioni); qua dentro
la nostra esperienza degli inferi (che esagerato! Ma non siamo
qui per servire la patria?). Comunque un po’ di imprecisione
organizzativa dei magazzini ci permette questa giornata di
limbo in vesti borghesi, seduti ai margini dei cortili. Per
fortuna abbiamo con noi qualche libro, quelli delle edizioni
economiche Sonzogno, che si infilano facilmente nelle tasche.
9-VIII. Sono arrivate le divise. Nell’indossarla provo una
desolata sensazione di “sparizione” della identità. Sensazione
evidentemente condivisa dai miei compagni di limbo, tant’è
che Lussignoli propone di nascondere la divisa tra le lenzuola
della branda e di rimanere in borghese ancora una giornata,
mescolandoci con i nuovi arrivati (ne arrivano ogni giorno).
La proposta ci entusiasma. Detto e fatto. E non ci
accontentiamo. Nel gironzolare dei giorni precedenti avevamo
notato che una porta carraia era incustodita. L’abbiamo
facilmente superata scavalcando un muretto laterale e siamo
andati a sdraiarci su di un prato. Operazione riuscita sia al
mattino che al pomeriggio.
10-VIII. Stessa manovra del giorno precedente.
Stranamente non c’è mai nessun controllo, nessun appello,
tranne la sera dopo la ritirata. Comunque sembra proprio che
non abbiamo molta inclinazione alla vita militare.
(Deplorevolmente?)
Conversiamo tra noi su questa “deplorevolezza”. Siamo
dell’opinione che l’invenzione della leva generale
obbligatoria - ai tempi della Rivoluzione Francese e di
Napoleone - poteva certamente allora avere avuto un senso
(il popolo in armi, aux armes o citoyens, formez votres
batallions, a difendere la libertà, a servire la patria, tutti,
secondo la celebre frase di Napoleone, con nello zaino il
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
possibile
bastone
di
Maresciallo;
con
la
fine
dell’arruolamento mercenario, con la fine del privilegio
aristocratico di comandare i reggimenti costituiti da plebei
affamati in cerca di una paga). Ma oggi? Siamo qui a
difendere la libertà? E ci dicevamo anche che l’idea del
cittadino in armi per la patria aveva forse avuto ancora un
senso nella prima guerra mondiale. Poi, c’era da dubitarne.
Conclusione: non sarebbe meglio che si arruolasse e facesse
il militar soldato chi ritiene di avere delle ragioni personali
e/o delle adeguate capacità per sostenere la vita militare,
con il suo peso e magari, perché no?, con le sue soddisfazioni
e le sue glorie? Eravamo dell’opinione di quel saggio
reazionario di Balzac, che nel suo romanzo Il medico di
campagna elogia la società feudale, dove gli uomini robusti
fanno il soldato, i deboli il prete o il maestro, gli aspiranti al
sapere il medico, lo scrivano o il notaio, etc. Certo non
pensavamo di riproporre la società feudale, ma una società
un po’ più liberale, questo sì, che lasciasse un po’ più di libera
scelta.
11-VIII. Abbiamo dovuto (ovviamente!) accettare
l’inevitabile. Abbiamo indossato la divisa e abbiamo iniziato a
marciare.
14-VIII. A proposito di divisa: la cosa più insopportabile
sono le cosiddette fasce, glorioso retaggio dell’esercito
dell’800, che, credo, nessun altro esercito al mondo ha il
piacere di avere ancora in adozione.
19-VIII. Marcia di trasferimento da Como a Canzo, dove c’è
la caserma nella quale soggiorneremo. (Più di 20 Km, con gli
scarponi nuovi e quindi non ancora adattati ai piedi;
arriviamo con le inevitabili piaghe).
20-VIII. L’ufficiale che comanda il mio plotone “consegna”
tutti quelli (fra essi ci sono anch’io) che si sono permessi pensavamo: ragionevolmente - di presentarsi all’appello del
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mattino con le scarpe di servizio (di tela, e quindi tali da farci
meglio sopportare le piaghe). Ho capito che la ragionevolezza,
anzi, il buon senso, qui non sono di casa. Cosa vuoi che siano
un po’ di piaghe ai piedi rispetto alla bellezza dello
schieramento di scarpe tutte eguali per tutti!
22-VIII. Mi sono proposto di tenere un diario giornaliero o
quasi, anche se credo che non avrò molto da scrivere. Tutto
certamente sarà monotonamente ripetitivo. Ma se non altro
mi manterrò in esercizio carbonaro.
Mi ero reso conto che un diario, se casca sotto gli occhi di
qualcuno, poteva anche dare dei guai. In seconda Ginnasio
avevo in adozione Le mie prigioni di Silvio Pellico, in una
edizione largamente commentata. Ero un lettore accanito, e
mi interessavano soprattutto le Note, che erano ricche di
riferimenti storici. Una lunga Nota informava sull’alfabeto
inventato come cifrario segreto dai Carbonari, anche con
esempi curiosi di come erano riusciti a comunicare fra loro
senza destare sospetti. Mi sono divertito spesso a scrivere
con questo alfabeto, che credo soltanto pochi competenti di
storia del Risorgimento conoscano. E mi è venuto utile per
questi appunti.
22-VIII. Tutte e tre le compagnie schierate in un grande
campo sportivo, per il discorso del tenente colonnello
comandante della scuola, là al centro, troneggiante sul suo
cavallo.
Il succo del discorso è stato questo: voi non crediate di
essere qualcuno o qualcosa: voi siete qui solo per servire la
patria, e la patria la si serve diventando dei duri, delle rocce.
Voi siete degli studenti, e magari qualcuno è anche laureato.
Ma le lauree qui non servono a niente. Voi siete degli
effeminati, noi vi faremo diventare dei veri uomini. Voi
sapevate solo leggere libri, e adesso avrete in mano delle armi.
E lo dico soprattutto per quelli che studiano filosofia, che è la
cosa più ridicola che ci sia, che non serve a niente, e verrà un
giorno che sarà abolita. Perché l’Italia ha bisogno di veri
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uomini, che sappiano marciare e obbedire, forti e robusti, non
di filosofi, che pensano e non concludono niente.
29-VIII. La caserma nella quale soggiorniamo ha le
caratteristiche non so se di una prigione o di un campo di
concentramento. Le camerate sono stretti locali ciechi, senza
finestre, uno affiancato e aperto all’altro senza alcun corridoio
di passaggio. Vi si assiepano letti a castello a tre piani, con
posti letto affiancati a due a due. Ogni castello ha dodici posti
letto. Fra un castello e l’altro uno spazio di non più di un
metro. Tra un piano e l’altro ci si difende dalle polveri che
possono scendere dai piani superiori stendendo dei giornali
lungo tutto l’assito che fa da soffitto. Al terzo piano non
hanno questo inconveniente, ma in compenso devono avere
buone doti di equilibrista. Io per fortuna sono al piano terra.
Non c’è uno stipetto, un armadietto, un buco qualsiasi, dove
appoggiare, che so io, gli occhiali, un fazzoletto. Tutti gli
effetti personali stanno nello zaino, che di giorno troneggia al
centro del giaciglio (detto anche letto: materasso su un
assito), e di notte a cavallo fra i due giacigli affiancati. Nel
cortile, antistante all’unico ingresso che dà sulle camerate,
rubinetti su contenitori di latta, che ne accolgono il getto,
danno l’acqua per i servizi del mattino, per lavare e stendere
qualche indumento. Quando piove o tira vento, è facile
immaginare che comodità.
I gabinetti sono a circa duecento metri, ma sono aperti
soltanto la sera tardi e la notte. Di giorno a circa altri
duecento metri, in un prato, ci sono, all’aperto, delle fosse con
assiti per i cosiddetti bisogni corporali.
31-VIII. Su un assito delle fosse stercorarie figura la scritta
W il Duce. Non ho capito se per dileggio o perché ci
ricordiamo che dobbiamo sempre pensarlo in ogni occasione,
come in quei collegi dove nei cessi c’è la scritta “Dio ti vede”.
6-IX. Si è diffusa la notizia che il tenente colonnello
comandante della scuola è stato sostituito. Si dice che sia
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sotto inchiesta per irregolarità contabili nelle forniture. La
notizia è stata raccolta presso gli ambienti bene di Canzo,
località di villeggiatura per la buona borghesia comasca e
milanese. In questi frangenti bellici, ovviamente, anche luogo
di “sfollamento” dalle città (abbastanza numerosi i nostri
commilitoni milanesi, che conoscono persone e frequentano
quegli ambienti).
9-IX. La sera, nel cortile, vicino ai rubinetti dell’acqua,
rientrando dalla libera uscita e prima della ritirata (h 21; al
mattino sveglia alle cinque, e quando c’è la marcia alle quattro
e mezza), alcuni si sfogano a cantare Sul ponte di Bassano
bandiera nera, l’è il lutto dei soldà che va alla guerra…
Hanno incominciato in tre o quattro, e il gruppo si è allargato.
È un modo per sfogarsi. Sappiamo che nella prima guerra
mondiale questo canto era severamente proibito. Pensiamo
che sia rimasto proibito. E per questo lo cantiamo ancor più
di gusto, anche se, per la verità, in quest’ora di pre-ritirata, in
caserma, di “superiori”, tranne che all’ingresso l’ufficiale di
giornata, non c’è nessuno che sia interessato ad ascoltare.
14-IX. Il cambio di comandante non ha cambiato niente.
Tutto continua in modo eguale. Come una grande macchina
tritura uomini. Il nuovo comandante è un tipo asciutto, che
ho apprezzato, perché non ha fatto radunate generali, non ha
fatto alcun discorso. Probabilmente capisce benissimo che
siamo tutti parte di un ingranaggio che è ridicolo coprire di
belle parole.
18-IX. Non mi aspettavo di molto meglio. Però il livello di
“trituramento” ha aspetti che a me sembrano paradossali.
Forse perché sono nutrito di letture (probabilmente aveva
ragione l’ex-comandante, che i libri sono o inutili o dannosi),
che, più o meno larvatamente, mi avevano dato qualche
convinzione evidentemente sbagliata o giù di moda, superata
dai tempi. Convinzioni che mi facevano pensare al servizio
militare come a un luogo, nel quale, pur nella sua durezza, ci
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si sente chiamati a qualcosa per cui questa durezza merita di
essere sopportata. Pensavo a certe pagine delle Memorie di
Massimo D’Azeglio, a certe pagine di Luigi Russo scritte
negli anni della prima guerra mondiale. Qui sembra che lo
scopo da raggiungere sia solo quello di annullarti la volontà,
di sottrarti a ogni possibilità di riflessione, a farti sentire un
niente, anzi una merda, come ripetutamente ci informa,
urlando, il sergente maggiore che ci ha in cura.
Evidentemente l’idea è che il soldato sia una macchina da
usare, da rendere pronta per l’uso; e si ritiene che sia pronta
per l’uso solo quando sia deprivato di ogni autonomia, sia
ridotto a macchina funzionante.
22-IX. A proposito di quel che ho detto qui sopra. Che
senso ha sottoporre tutti a esercizi fisici stressanti, dico tutti,
cioè anche quelli che fisicamente non ce la fanno? Per
esempio far salire su alto muretto anche quelli che patiscono
le vertigini, metterli in ridicolo, fargli rischiare di rompersi le
ossa? O far fare il salto, dall’alto di quattro metri, a chi
palesemente non è in grado di farlo? Un poveretto della prima
Compagnia, con cui casualmente qualche volta avevo avuto
l’occasione di conversare durante la libera uscita, e che mi
aveva parlato della sua passione per la musica, l’hanno
ripetutamente costretto a issarsi là sopra sul parallelepipedo
di marmo e a finalmente buttarsi giù, cadendo e rotolando
rovinosamente. Racconto questo episodio, perché ha anche
del patetico: dalla tasca della giacca gli è volata fuori la
partitura tascabile di un quartetto di Dvorak. Qualcuno l’ha
spostata con un calcio; io l’ho raccolta, e il giorno dopo
gliel’ho portata in infermeria. Ha sorriso senza dire una
parola.
2-X. Devo confessare - ma me l’hanno confessato anche
altri - che ci sono dei momenti di questa vita disumanizzante,
nei quali balenano degli attimi di risveglio non so se dirlo
psichico o mentale. Sono, credo, dei momenti, nei quali
qualcosa, forse qualcosa di infantile e/o di adolescenziale si
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impone dà qualche calore, sembra consentire che il nostro io,
in qualche modo, si realizzi. Me ne sono accorto quando, nel
campo di tiro, sono risultato il migliore del mio plotone nella
centratura del bersaglio. Mi è venuto in mente che, qualche
anno prima, al poligono di tiro di Mompiano a Brescia, dove
un mio amico mi aveva condotto per farmi provare a “tirare”,
qualcuno aveva detto, guardando al risultato che avevo
raggiunto, che gli risultava che i miopi (con gli occhiali,
naturalmente!) sono degli ottimi tiratori. E io allora mi ero
sentito soddisfatto e contento. Figurarsi adesso, in pieno
assetto militare, sotto gli occhi del tenente comandante del
plotone, che mi aveva sicuramente in sommo dispregio,
perché in palestra non riuscivo ad addomesticarmi su certi
attrezzi. Sono fiacco di muscoli delle braccia, e non riesco
soprattutto con le parallele. Sicché nel linguaggio delle
caserme sono definibile come “una mezza cartuccia”.
9-X. Ho notato che il linguaggio da caserma è
eminentemente stercorario; raramente blasfemo. Non se la
prende mai con Dio e con i Santi. Soltanto la Madonna fa
spesso da intercalare. Ma forse non pensano alla madre di
Gesù. Mario Lussignoli propone di ritenerlo una reminiscenza
letteraria, giunta fin qui dai poeti del Dolce Stil Nuovo. Elio
Paoletti, che ci ha raggiunto anche lui qui a Como Canzo, è
invece dell’opinione che l’intercalare che si serve della
Madonna derivi dagli stornelli delle canzoni popolari toscoumbre, che son sempre piene di “madonne”. Peccato che tra
noi non ci sia nessun esperto di linguistica, che possa
approfondire l’argomento.
10-X. Niente blasfemia, ho detto. Però non manca qualche
pittoresco accento anticlericale. Portate il fucile come dei
chierichetti in processione con il moccolo. Vi muovete come
dei seminaristi che camminano per la strada con la loro
tonaca. Fate il presentat-arm come dei sagrestani che
muovono il turibolo. Fate l’attenti a destr, che sembrate dei
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seminaristi col torcicollo, che cercano di guardare le ragazze
che passano sul marciapiede dall’altro lato della strada.
14-X. A proposito del sergente maggiore. È romano, e il suo
italiano è profondamente romanesco. Se ci fosse qui il
Gioacchino Belli, chissà che bel ritratto ne farebbe. È di
carriera, e perciò molto probabilmente anche lui, come l’excomandante, pensa a noi come a degli oziosi parassiti. Ma in
fondo deve essere un quasi buon uomo. Dorme in uno
stambugio qua in caserma. Corre voce che sia stato
abbandonato dalla moglie. E che per questo, la sera, quando
non è di servizio, torna in caserma ubriaco. Qualche volta
anche cacciando urla a qualche malcapitato piantone,
accusato di non averlo salutato adeguatamente.
15-X. Quanto a buoni uomini, guardandoli bene, non dico
tutti, ma quasi tutti questi urlanti cerberi, che ci strapazzano,
ci impongono assurde prescrizioni disciplinari, forse anche
quasi convinti che ci fanno diventare veri uomini (ma chissà
se ne sono davvero convinti? gli ingranaggi di una macchina
non pensano niente, pensano soltanto a funzionare come
ingranaggi), sono dei piccolo-borghesi costretti a fare i
gladiatori. E l’urlo, che è di prammatica, è un po’ il simbolo
della acquisita nuova identità. Come il comandante del primo
plotone, che abbiamo saputo essere un bravo maestro di
scuola elementare, qui costretto a dimostrare di aver le doti di
aspirante Napoleone.
18-X. A proposito di salutare adeguatamente. Fin dai primi
giorni, incessanti gli esercizi di saluto, per provarne l’esatta
corrispondenza ai dettami del regolamento. Ma anche alle
interpretazioni, che ne vengono date. Per esempio: qui
qualcuno ha ritenuto importante, quando si abbassa la mano
destra dopo il saluto all’altezza della visiera, dare un colpo
secco e forte sul fianco della gamba. Evidentemente perché la
cosa risulti più marziale. Ma il guaio, comico, è che alcuni
volonterosi nei due caffè centrali di Canzo, frequentati dalla
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buona borghesia, dalla signore villeggianti, hanno
solertemente fatto risuonare i marziali colpi secchi ad ogni
entrata o uscita di “superiori” destando l’ilarità generale. Una
scena da commedia. Risultato: da oggi ai corsisti è
tassativamente vietato frequentare quei due caffè.
19-X. Esempi di prescrizioni disciplinari: tre minuti di
corsa a ranghi serrati col fucile a bilanc-arm, perché entrando
dal portone d’ingresso il plotone ha perso l’allineamento; per
quindici minuti ritti in piedi, ben allineati, perché il plotone,
chiamato ad adunarsi, si era presentato in file non bene
ordinate. Punizioni individuali (le cosiddette ”consegne”):
una scarpa non ben pulita; manca un bottone alla giacca; la
barba non è ben rasata.
22-X. La cosa veramente strana, anzi allucinante, in questa
situazione, è che qui ci preparano per essere gettati in quella
spaventosa caldaia che è la guerra che sconvolge l’Europa. Per
la verità nessuno ne parla. Ho notato che in caserma quasi
non si vedono giornali. Quando si esce per la libera uscita
quasi nessuno si preoccupa di comprare un giornale. Sembra
quasi che il vortice nel quale siamo dentro, nel quale ci
butteranno dentro con i nostri muscoli irrobustiti, quasi non
esista. Qui non cadono bombe, qui c’è la gente in
villeggiatura, qui forse è quasi un angolo protetto,
paradisiaco. Mi accorgo che qui si ottiene anche il risultato di
diventare fatalisti. Chissà cosa accadrà. Chissà come andrà a
finire. Chissà come finiremo. E intanto tiriamo avanti.
26-X. Dalla fine del mese scorso riesco a scrivere con calma
questi appunti, perché abbiamo affittato, per le ore di libera
uscita, un retrobottega di un fruttivendolo, che ce l‘ha
concesso per pochi soldi. Una stanza di pochi metri quadrati,
ma con qualche sedia e un lungo tavolo. Lo frequentiamo in
quattro; i soliti tre, più Elio Paoletti. Leggiucchiamo,
scribacchiamo, mangiucchiamo qualcosa, specie la frutta che
ci dà a poco prezzo il negozio antistante. Ci sembra di essere
nella hall di un grande albergo. Ci sono anche degli armadietti
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pensili, con qualche cassetto. Mi fanno molto comodo, perché
ci lascio anche questi appunti, mescolati a fogli di giornale.
31-X. Talora non posso frequentare il retrobottega, perché
mi capita, abbastanza spesso, di essere “consegnato”. E non
mi pare di comportarmi da indisciplinato. Ma qualche volta
sono volutamente “trascurato” e cerco di far capire che
preferisco essere “consegnato” piuttosto che accettare
supinamente. Come quella volta che ho detto ad alta voce che
è inutile farci alzare alle cinque per poi farci aspettare in piedi
una mezzora che si faccia chiaro. Anche questo fa parte della
disciplina. E del trituramento.
6-XI. A proposito di disciplina. Alcuni hanno chiesto di
essere esentati dalla Messa domenicale (alla quale si
presenzia in piedi a ranghi serrati, ma in posizione di riposo,
cioè a gambe leggermente divaricate, e ritti sull’attenti
quando alla elevazione si alza uno squillo di tromba)
dichiarando di non essere credenti. Con la ovvia osservazione
che uno potrebbe essere anche di un’altra religione. Risposta:
la messa è un “servizio”. Tutti vi devono presenziare. La
messa come “servizio militare”. Che sia anche questo un
risultato del Concordato? In una breve conversazione con chi
gli faceva queste obiezioni, il cappellano sorridendo ha detto
di star tranquilli, perché, con la Messa, Dio aiuta tutti, anche i
non credenti.
10-XI. Mio fratello mi ha scritto una cartolina con il ritratto
del duce, e con delle frasi a lui inneggianti, tolte dal frasario
consueto, con una pletoricità osannante, che c’è da
meravigliarsi che alla censura sia sfuggito il tono ironico e
beffardo che ne trasudava (ma forse alla censura leggono le
lettere e non le cartoline; oppure l’immagine trionfante che la
illustrava ha distolto dalla lettura delle frasi che riempivano il
testo. Oppure alla censura c’è qualcuno che è convinto che gli
elogi più sperticati per il duce siano più che naturali. Oppure
alla censura se ne fregano. Quale sarà la supposizione giusta?
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
Conter l’ha inchiodata su un suffisso ligneo, ci ha sputato
sopra, e ha chiesto che il rito si ripeta ogni sera quando
usciamo.
12-XI. Cercavo fin dai primi tempi di questo soggiorno
canzese un pianoforte dove nelle ore di libera uscita e la
domenica pomeriggio ci si potesse concedere qualche
momento musicale. L’abbiamo trovato, su indicazione del
nostro fruttivendolo, persuadendo il custode della scuola
elementare, e dell’asilo comunale, ad ospitarci nella stanza
dove c’è un pianoforte. Dalla metà del mese scorso l’abbiamo
spesso sfruttato. Ma Conter dopo alcuni giorni l’ha lasciato
tutto a me, perché ha trovato un pianoforte in un albergo,
dove è ospite, niente meno, la moglie del capitano
comandante la nostra Compagnia. Può così fare delle vere e
proprie audizioni per l’inclito pubblico dell’albergo. Per lui
una vera soddisfazione, ma anch’io devo riconoscere che
quelle poche mezz’ore al pianoforte mi ristorano; mi fanno
risvegliare quel qualcosa di “mentale”, di cui ho detto prima a
proposito del tiro al bersaglio (e forse è meglio il pianoforte).
15-XI. A proposito delle “soddisfazioni”, che, come ho
osservato per il tiro al bersaglio, si possono avere in questa
vita non proprio soddisfacente: tra gli esercizi che dobbiamo
praticare per essere sempre più agili e forti, c’è il cosiddetto
“salto mortale”. Non avrei mai immaginato di poterci riuscire.
Forse perché non mi ero mai proposto una carriera presso un
circo equestre. Invece ci son riuscito benissimo, fin dal primo
colpo. Mi sento ridicolo, ripensandoci, ma ne sono rimasto
molto soddisfatto. E ci son riuscito anche con il moschetto a
tracolla. Mai straordinario come Mario Lussignoli, che ci
riesce perfino con sulle spalle il mortaio Brixia. Quasi nessuno
riesce a eguagliarlo. Se entreremo in circo equestre lui farà
più carriera di me.
Sì, siamo contenti e soddisfatti. Siamo pronti per affrontare
il nostro futuro, magari in un circo. Ma ci si può accontentare.
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
Anche perché qui non siamo in un circo, ma in un luogo dove
ci si irrobustisce per il bene della patria.
18-XI. Sempre a proposito di soddisfazioni: batto tutti
nella rapidità con cui smonto e rimonto il mitragliatore. Mi
batte soltanto uno del primo plotone, che ci mette dai sei agli
otto secondi meno di me. Un prodigio. Mi sento come Giulio
Cesare, quando diceva che preferiva essere primo in un
villaggio che secondo a Roma.
In realtà: qualche volta penso che se dovessi essere in
battaglia alle prese con il mitragliatore, non so come la
metterei. Mi sembra che qui facciamo esercizi da giocolieri.
Per carità! Me ne guardo bene dal pensarmi come un teorico
dell’arte militare, un esperto di tattiche e di combattimento.
Ne aborro, e spererei di non trovarmici mai (perché dovrei
dire il contrario?). Ma, pur pensando che posso facilmente
sbagliarmi, che, anzi, non ci capisco niente, mi pare, da quello
che si sente raccontare, che quelli che hanno avuto l’onore o
la sventura di trovarsi sui più vari fronti, non si siano trovati a
giocare con il mitragliatore.
18-XI. Quando, qualche settimana fa, siamo stati insigniti
del grado di caporale, per i meriti e le competenze acquisite
nella prima tranche di questo corso, ho ricordato,
naturalmente, che è, credo, incominciata con Napoleone la
tradizione di nominare ”Caporale”, “caporale d’onore”, chi si
rivelava grande stratega. Nella mia viziosità di quasi letterato
e di lettore di istorie, ho anche pensato che il primo grande
“Caporale” è stato un letterato, Senofonte, improvvisamente
passato da scrivano estensore di cronache a guida dei suoi
Greci nella loro mitica Catabasi verso il Ponto Eusino. Come
ci trovo gusto a pensare e a scrivere queste cose da smidollato
letterato! Forse in barba al nostro ex comandante, che ce
l’aveva coi letterati e coi filosofi. Ma forse, soprattutto, perché
vorrei fermarmi a caporale. Chiudermi in uno studiolo e fare
magari il cronista. E fermarmi lì, senza protagonismi. Forse
anche perché di protagonisti c’è pieno il mondo, e spesso non
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
hanno dato, e ancora sembra che non diano, qualche tocco
benefico al mondo.
Non so come il mondo verrà fuori da questo Sabba in cui
sta ferocemente danzando. E in cui masse intere sono
costrette a danzare, a suon di bombe e di frustate d’ogni
sorta. Ma se ne verrà fuori, forse bisognerà smetterla di far
fare carriere e di mettere in scena protagonisti. Non si
combina niente di buono aspirando a carriere. Forse la storia
umana andrebbe meglio se non ci fossero protagonisti Qui
invece bisogna far carriera per forza. E fra neanche un mese
sarò sergente.
25-XI. È venuto a tenere un discorso a tutte e tre le
Compagnie riunite per l’occasione un mutilato della guerra
15-18, di cui più volte avevo sentito parlare e di cui avevo
anche avuto l’occasione di leggere qualche scritto. Discorso
animato da un fervore retorico credo sincero; ma retorico,
appunto; pieno di un misticismo da togliergli ogni efficacia
persuasiva. Dico “discorso”, ma in realtà non era un
“discorso”, bensì una proclamazione di “sacri” principi:
servire la patria senza porsi domande, essere coraggiosi,
pronti al sacrificio, perché è nel sacrificio che l’uomo si
realizza. Non una sola parola in grado di “motivare” il perché.
Niente domande, appunto. Ai soldati della prima guerra
mondiale, quanto meno, spiegavano che bisognava
sacrificarsi per liberare Trento e Trieste. Qui niente: fede;
credere, obbedire, combattere. Forse mi illudo, ma il silenzio
con cui è stato accolto non era soltanto dettato dalla
disciplinata silenziosità che è richiesta al militarsoldato.
28 XI. Se i cultori della teoria del “sacrificio” leggessero il
romanzo di Igino Tarchetti,3 che abbiamo letto in queste
settimane, cambierebbero testa? Siamo dell’opinione, noi che
l’abbiamo letto, e con profitto, che però è ingenuo pensare che
Riferimento a Una nobile follia (Drammi della vita militare.di Igino Ugo
Tarchetti, protagonista della Scapigliatura milanese.
3
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
basti un libro per cambiare la testa. Che cosa poi
effettivamente occorra, è un problema grosso. E nelle
circostanze nelle quali navighiamo sembra che lo si debba per
forza rimandare a “dopo”, il problema. Però mi accorgo che il
nostro pensiero corre sempre al “dopo”. Che ne sarà di noi, di
tutti noi, di tutti quelli che hanno avuto la sfortuna di nascere
in questo tempo sciagurato? Se saremo ancora al mondo; e il
mondo esca fuori un po’ più decente da questo viluppo
insensato di uomini, che frequentano corsi militari per andare
a sparare su altri uomini, anche loro usciti fuori da corsi
militari dove gli hanno insegnato a sparare. Forse per
renderlo più decente, questo mondo, si dovrà cambiare le
teste. Come? Anche leggendo Igino Tarchetti. E qualcos’altro
ancora. Che aiuti quelli che ancora ci saranno, nel “dopo”, a
liberarsi dal credere senza pensare.
30-XI. Mi piacerebbe scrivere un racconto o, meglio, una
commedia dal titolo “La civiltà del muscolo”. Primo capitolo
(o scena): gli dei degli Inferi capeggiati da Arimane, che,
notoriamente, è un dio malvagio (vedi L’inno ad Arimane di
Leopardi), decidono di incrementare e diffondere la “civiltà
del muscolo” affidando incarichi a personaggi all’uopo
sicuramente adatti. Seconda scena: Sisifo organizza
l’esibizione dei gerarchi che fanno il salto nel cerchio. Terza
scena: Procuste organizza le aie dove il duce possa esibirsi
come trebbiatore. Quarta scena: Alichino, Barbariccia,
Draghignazzo, etc. (insomma i diavoli di cui ci informa Dante)
dirigono a turni quindicinali la Scuola di Canzo. Quinta scena:
Belzebù organizza attività muscolari per ricondurre i filosofi
sulla retta via (del non pensare). Sesta scena: Mefistofele
scrive un libro per dimostrare l’inutilità dei libri. Scena finale:
torme di nero-rossigni diavoletti controllano e misurano le
capacità muscolari di tutti coloro che chiedono di far parte
della élite muscolodotata. Chi non si presenta al controllo o
non rivela misure adeguate sarà registrato nelle Corporazioni
dei philosophi, dei clerici e dei magistri. Che non avranno
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
diritto né alla gloria, né alla distribuzione di viveri da
conforto.
1-XII. Da Darwin, con interpretazione molto discutibile, è
nato il “darwinismo sociale”. Una cosa brutta. Ma forse anche
l’organizzazione della vita militare risponde a leggi
darwiniane: se non proprio l’eliminazione fisica dei deboli,
dei “non adatti”, almeno la loro emarginazione, la loro
ridicolizzazione.
2-XII. Die Reihen gut geschlossen: questo verso cantato
dai Kameraden tedeschi ci appare terribilmente simbolico. E
chissà se anche fra di loro c’è qualcuno che se ne accorge e
preferirebbe non essere in “file ben serrate”. Noi, comunque,
ogni tanto in un misto di ironia, di rassegnazione e di protesta
lo cantiamo, aggiungendo: leider. 4
4
Leider, in tedesco, significa “purtroppo”.
Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali
RENZO BALDO
Sul Maroccaro con don Antonioli5
Pontedilegno. Estate 1944. Tempo di Resistenza. Don
Giovanni mi dà appuntamento per il tardo pomeriggio del (se
mal non ricordo) 9 Luglio. Dobbiamo portare dei rifornimenti
per un piccolo gruppo di partigiani attestati sull’alta Val di
Genova. Zaini in spalla, pesanti. Credo che oltre a viveri
contenessero anche qualche arma o, più probabilmente,
proiettili.
A Pontedilegno risiedevano distaccamenti amministrativi
della Repubblica di Salò, di non ricordo quali ministeri, con
annesse squadre di Gnr e altri militari repubblichini.
Aspettiamo l’imbrunire, infiliamo sentieri il più possibile
fuori mano e arriviamo al Tonale, dove pernottare. So che
dobbiamo percorrere la vedretta tra il Passo Paradiso e il
Maroccaro. Don Giovanni non ha con sé la corda.
Penso che la troveremo nella malga dove dobbiamo
passare la notte. Non c’è nessuna corda. Come mai?
domando. Bastano le piccozze, mi dice. Ma sei sicuro? gli
chiedo (non avevo molta esperienza dei luoghi, ricordavo che
la vedretta in questione non offre grandi difficoltà, ma,
pensavo: non si sa mai.) Mi rassicura: è una vedretta da
ridere.
La mattina dopo, effettivamente, la percorriamo senza
difficoltà. Nessuna ombra di crepacci, salvo, ovviamente, il
crepaccio terminale, che sorpassiamo facilmente. Scendiamo
al Mandrone. Scarichiamo gli zaini. Scendiamo verso il
Bedole. In incontri vari trascorre la giornata. Pernottiamo al
Mandrone. Al mattino risaliamo verso il passo Maroccaro.
L’articolo mi è stato cortesemente richiesto da mons. Franceschetti,
allora rettore del Seminario diocesano, e pubblicato nel libro dedicato a
Don Giovanni Antonioli, a cura di Franco Frassine, per la editrice
Morcelliana (2002).
5
Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli
RENZO BALDO
Impressionante! Non mi è mai capitato di vedere uno
spettacolo simile, una simile trasformazione. Nella notte credo a causa dell’afa accresciuta dal cielo basso e coperto nel ghiacciaio si erano aperti crepacci, lividi, fittissimi, che gli
conferivano un colore violaceo, intenso soprattutto sui bordi
delle spaccature, intervallati da strisce di neve grigiobiancastra.
Un momento di stupore interrogativo. Credo, gli dico, che
sia impossibile attraversarlo senza corda. Penso, aggiungo,
che dovremo aggirare la vedretta stando su in alto e cercare di
scendere lungo gli ammassi morenici laterali. Sì, mi dice, ma
sai quanto tempo ci mettiamo? È meglio scendere piano
piano, tastando il terreno con le piccozze, per scoprire gli
eventuali crepacci invisibili, occultati dalla neve friabile, come
spesso accade. Sì, gli dico, ma sai che rischio? Se uno scivola
o, peggio, gli cede sotto i piedi la neve, l’altro non può farci
niente. Ma no, mi dice, ce la facciamo senz’altro.
Tento invano di dissuaderlo. Ha sul volto quella sua
sorridente e angelica sicurezza, che gli è data dalla sua
esperienza di montagna, ma anche dalla tranquilla ingenuità
che nel subconsci delle anime religiose si nutre di noncuranza
del pericolo, di fiducia nella provvidenza, al limite del
fatalismo gioiosamente irresponsabile.
Cedo. Scendiamo. Non è una discesa molto divertente.
Ricordavo di aver visto in discesa su quella vedretta alpinisti
che slittavano via veloci e allegri, e io stesso, meno esperto e
meno coraggioso, di averla percorsa spesso correndo. Quella
volta proprio no.
Crepacci e crepaccetti si aprono a distanza ravvicinata, anzi
ravvicinatissima, Molti sono così larghi (forse è la paura, che
li allarga), che rinunciamo a saltarli e preferiamo aggirarli
procedendo parallelamente fino al loro punto di chiusura. È
un andirivieni lento, lungo, faticoso. Di questo passo, gli dico,
il tempo sarà quasi quello del giro sulla morena. Scendiamo
ancora di qualche metro. Don Giovanni è davanti a me; si gira
su un fianco e mi dice: dobbiamo proprio andare sulla
Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli
RENZO BALDO
morena. (Lo sfasciume morenico, a poche decine di metri, è là
che ci attende).
Ha appena pronunciato queste parole che la neve
sprofonda e Don Giovanni precipita: per fortuna si era girato
sul fianco, e le braccia, appoggiandosi sui bordi, lo
trattengono (Gli esperti sanno che i crepacci nascosti dalla
neve sono spesso riconoscibili da una bordatura della neve
che si forma sui lati del crepaccio. Posso assicurare che lì,
dove Don Giovanni è sprofondato, non c’era proprio nessuna
bordatura).
Credo di aver reagito, con sgomento, con una, forse due
imprecazioni. Naturalmente gli domando subito se riesce a
puntare i piedi sulle pareti. No, mi risponde, sento solo il
vuoto. (In parole povere, poteva sostenersi soltanto con i
gomiti e gli avambracci). Data la pendenza, e trovandomi io
dalla parte alta, da dove ero non potevo dargli alcun aiuto.
Con la piccozza ho sondato meglio che potevo la neve al di là
del crepaccio, per assicurarmi che potesse sostenermi, ho
saltato; con l’aiuto della piccozza ben puntata mi son fermato
quasi subito, scivolando di pochi centimetri. Ho rapidamente
preparato due supporti a gradino nel ghiaccio per puntarvi gli
scarponi, mi sono chinato, quasi sdraiato, afferrandogli il
braccio sinistro. Fa di tutto, gli ho detto, per girarti, staccando
rapidamente il braccio destro dal bordo del crepaccio e
riuscire così ad appoggiarti con entrambi i gomiti dalla mia
parte. Ci è riuscito. Purtroppo con i piedi era sempre nel
vuoto, non poteva puntarli. Ha dovuto far leva sulle braccia,
con me che lo aiutavo il più possibile per sollevarlo,
prendendolo sotto le ascelle, e tirarlo fuori. C’è riuscito.
Ci siamo guardati in faccia. È andata bene, mi dice. Sì, ma
bisogna arrivare alla morena. Non so quanto tempo ci
abbiamo messo per percorrere quelle poche decine di metri.
Puntavamo le piccozze a ogni passo, prima di muovere il
passo successivo. picchiavamo con gli scarponi per assicurarci
della tenuta della neve, che non ci facesse altre sorprese.
La morena mi è sembrata un paradiso, nonostante la fatica
del percorrere ammassi petrosi, spesso obbligati a salire e
Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli
RENZO BALDO
scendere spingendoci e tirandoci u reciprocamente. Ricordo il
piacere di quando siamo passati, giù in basso, dalla bocchetta
del ghiacciaio, pur sapendo che da quel momento, finita la
discesa, si doveva ricominciare a salire
Arrivati a Pontedilegno, abbiamo mangiato pane e
formaggio. Poi siamo andati a dormire. Nel sonno incubi di
sogni con immagini di livide e plumbee cascate e pareti di
ghiaccio. (Il giorno dopo Don Giovanni mi confessò che anche
lui aveva fatto questi sogni).
Qualche anno dopo, in uno dei nostri incontri, purtroppo
piuttosto rari, mi dice (sempre con quel suo sorriso che gli
affiorava in volto spesso infittendosi di arguzia): “Sai che
rischio hai corso; se non riuscivi a tirarmi su da quel
crepaccio, ti potevano accusare di omissione di soccorso, di
preticidio e di occultamento di cadavere. Ma - aggiunse - cosa
assai più grave: avendomi tirato fuori, diciamo pure, salvato e
mantenuto in vita, sei diventato responsabile di tutte le mie
malefatte degli anni successivi, vita natural durante”.
Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli
RENZO BALDO
Il percorso politico
Brevi cenni in risposta alla domanda: Quali “sollecitazioni”
hanno influito sulla tua formazione civile e sulle tue
convinzioni politiche?
Mi è già accaduto, in altra occasione, di richiamare
l’attenzione sulle difficoltà, per i giovani che sulla fine degli
anni ’30 e nei primissimi anni quaranta si affacciavano alla
riflessione politica, di elaborare idee organicamente chiare e
precise. Mancava la possibilità di letture adeguate, si
captavano confusamente affermazioni, rifiuti, convinzioni,
espresse in forme frammentarie, talora anche più umorali che
concettualmente sicure. E d’altra parte, non era certo facile
liberarsi dal “ricatto”, mediante il quale il Fascismo
propagandava se stesso come attuazione del “destino” politico
del Paese, come punto terminale del processo storico
avviatosi con il Risorgimento.
Eppure forse proprio soprattutto su questo punto si
aprivano le crepe, attraverso le quali si riusciva a individuare
l’inaccettabilità del fascismo: il suo militarismo, la sua
prepotenza e rozzezza ideologica, la sua ”volgarità”, che poco
sembravano coincidere con la tensione etica del
Risorgimento, vuoi nelle sue forme mazziniane che in quelle
cavouriane. La lettura della Storia d’Italia dal 1861 al 1914 di
Benedetto Croce è stata, su questo punto, decisiva: l’Italia
“liberale” era molto meglio.
Diventare “liberali” per questa strada, può, oggi, far
sorridere. Ma era, di fatto, una strada percorribile. Da
dedicarle attenzione. Un’attenzione che si è via via irrobustita
tramite la lettura di testi dell’area del liberalismo, recente o
meno recente. Possiamo anche dire, non c’è dubbio, che, per
questa strada, l’adesione al “liberalismo” aveva un’origine e
Pagine autobiografiche: Il percorso politico
RENZO BALDO
uno sviluppo, che si possono definire “libreschi”, ma, credo,
sorretti da un autentico afflato etico.
Comunque sia, a contatto con persone, e poi, subito dopo
la fine della guerra, anche con più ampie e articolate letture,
che si aprivano a problematiche aperte a teorizzazioni di
tutt’altra natura (il socialismo, la lotta di classe) mi si
avvalorava l’idea che con il liberalismo (mi facevo forte con la
distinzione tra liberalismo e liberismo), davvero e
rigorosamente praticato, si potessero “civilmente” risolvere
tutti i problemi, compresa la cosiddetta questione sociale, la
diseguaglianza, la povertà, le ingiustizie, le calamità sociali, in
tutte le loro forme, etc. etc. Ricordo di essermi confortato in
questa convinzione anche con la lettura di articoli di Adolfo
Omodeo, su una rivista uscita dopo il ‘45 (se mal non ricordo
La nuova Europa), nei quali si sosteneva che tra liberalismo
ed eventuali scelte di “collettivizzazione” non c’era
incompatibilità
Sempre in tema di letture, che mi irrobustivano in queste
convinzioni, non posso dimenticare certe pagine di Luigi
Einaudi e un testo di economia politica del Bresciani Turroni,
dalla cui esposizione dei nodi del liberalismo più rigoroso, per
quanto la cosa possa sembrare strana, mi sembravano
ricevere conferma quelle mie opinioni.
Non mi sono mancati contatti e sondaggi con testi, e
persone, dell’area cattolica. Mi interessava capirne
orientamenti e messaggi. Non mi convinse molto la lettura del
più noto teorico di quell’area, Giuseppe Toniolo. Trovai più
persuasive le istanze che emergevano da pagine di Maritain e
di Mounier, ma sempre di più pesava su di me la convinzione
che il mondo cattolico, tramite le persone e le iniziative
sorrette da genuine ispirazione cristiana, fosse in grado di
intervenire per attenuare mali e sofferenze, ma nella sua
componente “clericale” (di potere) non assolutamente in
grado di proporre e attuare un progetto politico-economico,
pronto, anzi, a qualunque compromesso. In proposito. Il
Concordato del ‘29 me ne appariva la prova più lampante. E
mi colpirono molto sgradevolmente le opinioni di stampo
Pagine autobiografiche: Il percorso politico
RENZO BALDO
salazariano, che sentii pronunciare da persone, assai in vista,
certo per altri aspetti stimabili, che avevano anche partecipato
alla Resistenza, ma che in Salazar, cioè una dittatura “mite”
(presunta tale) e “cattolica” vedevano la miglior soluzione
politica.
E mi identificai sempre di più con la linea PannunzioErnesto Rossi, con la rivista Il Mondo.
Sulla spinta di questa cultura “liberale” mi iscrissi al P.L.I.
Ne uscii nel ‘55, quando il prevalere della linea Malagodi e la
fuoriuscita della sinistra di Villabruna resero evidente che
quella strada non rispondeva per niente alla mia idea di
“liberalismo”.
Mi divenne così sempre più consistente l’idea che, tranne
per chi si sentisse vocato alla vita politica nella sua
combattività partitica, fosse assai meglio operare, ovunque se
ne presentasse l’occasione, per favorire il realizzarsi di una
vita civile capace di rispondere alle reali necessità “collettive”,
con un impegno non riducibile ad astratte teorizzazioni e,
soprattutto, non costretto a fare rigidamente i conti con
orientamenti e discipline di partito.
In questa direzione, dunque, ha avuto sicuramente
notevole rilievo la lettura de Il Mondo, che-mi sembrava, e
credo ancor oggi potrei essere di questa opinione - voce del
“liberalismo” (tra virgolette) così come mi si era configurato
nel corso di quegli anni. E assai solido apporto mi è venuto
dagli interventi, su quella rivista, di Ernesto Rossi, del quale
mi colpì soprattutto la lettura di un suo libro, nel quale si
teorizzava il dilemma liberismo-collettivismo come falso
dilemma, da risolversi con la constatazione che essi non si
configurano affatto come due “estremi” contrapposti e
irriducibili, ma come una retta, sulla quale individuare il
punto giusto, sul quale far leva per dare risposta, al momento
giusto, ai bisogni concreti di una società civile. Detto in altre
parole: niente astratti utopismi, ma, sempre, tensione
utopica.
Mi sembrava fondamentale persuadersi che, all’interno di
questa tematica generale (la scelta giusta, al momento giusto)
Pagine autobiografiche: Il percorso politico
RENZO BALDO
si delinea, per tutti, l’esigenza di guardare al “per che cosa” sia
giusto e opportuno impegnarsi, e portare, se possibile, il
proprio contributo per la sua attuazione. Per tutti, ma forse
soprattutto per i cosiddetti intellettuali, per il semplice fatto
che essi dispongono, bene o male, tanto o poco, di strumenti
atti a partecipare alla realizzazione dello scopo.
Non c’è forse bisogno di dire che, sull’argomento, ben
presto la lettura delle pagine di Gramsci sugli “intellettuali”
mi è stata di molto nutrimento. E da Gramsci è facile
intendere quali orizzonti mi si aprivano. Ma, in proposito,
vorrei almeno ricordare, e non marginalmente, come fertile
impatto, l’incontro con Gobetti, con la singolare forza
suggestiva, che si sprigiona da quella sua “compresenza” con
l’esperienza gramsciana.
Ho cercato di operare coerentemente con le convinzioni,
che mi si erano formate “leggendo”, ma sempre più dal
trampolino dei libri spinto ad intendere la corposità della
realtà.
Pur nutrendo e mantenendo un forte fastidio per le
etichettature, ho sempre ritenuto importante esplicitamente
schierarsi là dove, in quel momento, appariva giusto
schierarsi, per conseguire quanto di più umanamente
autentico si presentava come “necessario” perché la
convivenza civile fosse veramente “civile”. (Credo, del resto,
che così sia stato per tutti coloro che hanno sentito l’esigenza
di connotare eticamente le scelte politiche).
Per tradurre il discorso in termini di esemplificazione,
dandogli riferimenti di “cronaca”, potrei dire, sia pure un po’
schematicamente, che ai tempi dell’Eco di Brescia ero,
inizialmente, favorevole al progetto politico che si
denominava come “centro-sinistra”, per poi, rapidamente
deluso, sempre più convincendomi che la forza politica in
grado di opporsi alle pesanti negatività che emergevano dalle
scelte (nazionali e mondiali) legate all’implacabile morsa degli
interessi economici gestiti in chiave di spregiudicatezza,
spesso piratesca, erano i partiti comunisti. A questo punto si
può aprire il discorso sul “che cosa” si aspettassero dai partiti
Pagine autobiografiche: Il percorso politico
RENZO BALDO
comunisti coloro che vi aderivano o che, come era il mio caso,
davano ad essi fiducia. Detto in breve: non certo quel che con
goffo semplicismo intriso di arroganza e di ignoranza gli
attribuivano e gli attribuiscono gli anticomunisti viscerali,
bensì, con etica convinzione, una più ragionevole, e possibile,
vita civile.
Pagine autobiografiche: Il percorso politico
RENZO BALDO
Memorie de musica
Il primo incontro con la musica, fra i tre e i quattro anni, un
singolare personaggio, che, un paio di volte al mese, si esibiva
nel cortile della casa di via Sangervasio, con la chitarra, una
trombetta in bocca, un campanello sul piede destro, una ciotola
lì davanti per le offerte, i cinque o dieci centesimi, che i
ragazzini, inviati dalle madri, gli portavano, in un rituale, che
sapeva, ai miei occhi, di omaggio, di giusto riconoscimento,
quasi sacrale, come le elemosine che si raccoglievano in chiesa.
Dopo aver depositato la cospicua offerta, rimanevo rimanevamo - a qualche passo di distanza, in affascinata
contemplazione e ascolto. Ed è stato con soddisfatta sorpresa
che, un giorno, lo trovai in un locale di periferia - un’osteria
dov’ero entrato accompagnato non ricordo da chi - che si
esibiva, da tranquillo protagonista, tra un affollarsi di clienti
più attenti al loro calice che alla sua musica,ma che
sembravano lì per riconoscergli la sua bravura, per
testimoniarne la straordinarietà. Figurarsi! tre strumenti tutti
insieme!!
Invidiavo i miei coetanei che sapevano cantare. Tra essi mio
fratello, che aveva due anni e mezzo meno di me, ma che
destava ammirazione per la sua disinvoltura canora. Le mie
corde vocali rendevano ridicolmente stonato ogni mio tentativo
di intonare un canto. Mio fratello, invece, cantava benissimo;
gli bastava sentire una canzonetta, che subito la intonava, dal
principio alla fine. Tra l’altro, cantava spesso La canzone del
Piave, Monte Grappa tu sei la mia patria, l’inno di Garibaldi
Si scopron le tombe, si levano i morti. Tra parentesi: ogni volta
che sentiva l’Inno di Garibaldi, così dicevano, la nonna Imelde
piangeva di commozione. Echi risorgimentali. Il giorno dei suoi
funerali (31 XII 1924), mio fratello, forse entusiasmato
dall’andirivieni di parenti e conoscenti in visita alla salma,
improvvisamente con voce squillante intonò: Il Piave
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
mormorava calmo e placido al passaggio…Fu bloccato da una
zia.
All’asilo, la direttrice aveva il pallino del canto. Tutti i giorni
ci radunava per almeno un’oretta. La odiavo. Cantavo stonato,
di malavoglia. E mi rimproverava anche, perché stonavo. A suo
dire, stonavo perché non stavo attento. “Ma poverino!” ebbe a
dire una volta un’altra maestra, “non ha orecchio”! Anche lei,
come molti, convinta che le corde vocali abbiano a che fare con
l’“orecchio”.
Le canzoni mi piacevano. Avrei voluto cantarle! Ramona…
Laggiù nell’Arizona… Sulla sponda argentina… Mi attiravano,
ma proprio non ci riuscivo.
A proposito di Sulla sponda argentina. Ne era diffusa una
variante, che non sol quanti ricordino: Sulla sponda argentina
/ Mussolini ‘l camina / con Turati dé dré, / che ghé tira ‘l
zaché: / so fascista anche mé. E un’altra, che credo sia
scomparsa ancor più della precedente dalle memorie cittadine:
Sul corso Zanardelli / ci stanno gli imboscati, / con le
scarpine lucide / e i guanti profumati… Le cantavo volentieri,
stonando ovviamente senza capirci nulla; chissà mai perché gli
tirava èl zachè, e chissà mai chi erano quegli imboscati che
stavano sul corso Zanardelli…(Potenza del canto: trovarci gusto
senza capire troppo quel che si sta cantando. Un altro esempio:
Trippoli (con due p), bel suol d’amore… (Per la verità, neanche
più tardi riuscivo a capire che ci avesse a che fare l’amore con
Tripoli).
Ma l’ingresso trionfale nella musica è stato a sette anni, al
Teatro Sociale, dove davano, niente meno, Il Trovatore. La
prima scena, ad apertura di sipario, con quei giannizzeri armati
e con l’elmo in testa, che cantavano impetuosi, alternandosi
con quel focoso loro capo, che gli raccontava quella cupa storia
di streghe, letteralmente mi conquistò. Mio padre,
saggiamente, prima dell’inizio dello spettacolo aveva cercato di
darmi un’idea della trama, intricatissima tra le più intricate
trame d’opera. Però qualcosa ne avevo capito. Mio fratello,
sdraiato sul pancone dei posti a sedere della galleria (si
usavano allora anche i posti in piedi: mi sentivo un privilegiato,
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
seduto su quel pancone) dormì per tutto lo spettacolo (sentii
mio padre dire: meno male che per lui non ci han fatto pagare
il biglietto). Io rimasi sveglio fino alla fine. Ascoltavo anche i
commenti degli spettatori a noi vicini, che trovavano che il
tenore spesso stonava. Pensavo che forse era come me. Fino
alla fine, dico, destando qualche stupore nei miei genitori e, nei
giorni successivi, anche tra gli amici che vennero edotti della
serata. Mi sentivo anch’io un protagonista. Ma davvero fu,
quello, il fascinoso incontro con l’opera. E per anni la musica
fu, per me, l’opera.
Di opere sentivo parlare, dai genitori e dagli amici che
frequentavano la casa. Mio padre seguiva la stagione al Grande,
in loggione naturalmente. Qualche volta, al matinée della
domenica, ci andava anche mia madre. E il giorno dopo ci
raccontavano quel che avevano visto e sentito. Ma l’incremento
maggiore alla mia cultura operistica venne, inaspettatamente,
da un amico di famiglia, che, non ricordo bene per quali mai
ragioni, lasciò da noi per qualche tempo in deposito un
grammofono con un bel malloppo di dischi. Una preziosa
antologia di “arie”, soprattutto. Verdi, con maggiore
abbondanza, Donizetti, Puccini, la Carmen, qualcosa di
Rossini, di Bellini e perfino un po’ di Wagner. I nomi dei
cantanti - Aureliano Pertile, Gina Cigna, Toti Dal Monte… e
tanti altri - mi ruotavano nella testa come figure fiabesche, di
una fiaba piena di fascinazione, misteriosamente tutt’uno con
quei personaggi protagonisti di vicende tra lo strano e
l’inquietante: Mimì, che fingeva di dormire e poi moriva, e
quell’altro che voleva vendere la sua zimarra; Radames che
voleva partire per la guerra, e quel tale che informava che aveva
conservato il fiore che gli avevan donato; e quella allegra
signora che dichiarava di voler vivere folleggiando e che invece
moriva rimpiangendo Parigi. Mi sono chiesto, qualche anno
dopo, se era la musica che mi colpiva o se era la corposità da
romanzo nero o rosa-nero delle vicende. Eppure, no! Credo
proprio di aver vissuto, a livello istintivo, “popolare”,
l’esperienza del melodramma, nella sua indissolubilità di
parola e musica, di mélos e dramma.
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
A sette anni iniziai a prendere lezione di pianoforte dalla
maestra Conchieri, che abitava al secondo piano della nostra
scala. Era paziente, attenta, credo proprio brava.
Va detto che l’unica esperienza di apprendimento musicale
di mio padre era stata, tra i 14 e i 16 anni, a Marsciano
(Perugia), dove nella banda locale aveva appreso i primi
rudimenti per suonare il bombardino. Non conosceva quasi
altra musica che non fossero le opere, che gli venivano offerte
dalle stagioni del Teatro Grande e del Sociale. Però, sia pur
vagamente, ma con convinzione, percepiva l’”altra” musica
come qualcosa che era il caso di conoscere. E vi era sollecitato,
anche, da una memoria familiare: sua madre, la nonna Imelde,
aveva studiato il pianoforte in un collegio di Ferrara. Per
l’improvviso crollo patrimoniale della sua famiglia ne era uscita
a 17 anni. Nelle difficoltà, talvolta anche dolorose e
drammatiche, degli anni successivi, mio padre più volte l’aveva
sentita ripetere che solo una cosa rimpiangeva, di non aver più
potuto suonare il pianoforte. Quel modesto pianoforte
comprato da mio padre per farvi studiare i suoi figli costituiva
sicuramente, per lui, un richiamo, una risposta, un “compenso”
a sua madre, alla sua vita non facile, e senza pianoforte.
***
Due anni dopo all’Istituto Venturi si fece libero un posto
nella scuola di Isidoro Capitanio. Una decina di concorrenti: Io
fui il prescelto. Brava la maestra Conchieri, che aveva insistito
perché io partecipassi. Temo però che il livello dei non
ammessi fosse assai basso.
Capitanio era generosamente attento e paziente. Io però ero
impacciato, spaesato, intimidito. Stranamente, ero sicuro e
perfino brillante nel corso di teoria. Naturalmente stonatissimo
nel solfeggio cantato. E qui ebbi però la rivelazione: ero
bravissimo nel dettato musicale; recepivo con assoluta
esattezza i tempi, le tonalità, la linea melodica. L’insegnante
stentava a crederci; mi ispezionava sempre il banco e la
cartella, sospettando che io avessi una copia del testo di cui si
serviva per la dettatura al pianoforte. Ebbi dunque la prova che
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
l’“orecchio” non ha molto a che fare con le corde vocali. E me lo
confermò il maestro di solfeggio cantato, quando lo sentii
affermare che nel suo coro di S. Alessandro c’erano alcuni con
voci bellissime, ma che facevano una gran fatica, e senza molto
riuscirci, a cantare intonati.
Ma nello strumento non andavo al di là di risultati assai
modesti. Mio padre, che riceveva notizie non molto confortanti,
mi chiese più di una volta se volevo smettere di studiare
musica. Io regolarmente dicevo: no. Non so bene il perché.
Forse perché vagamente intuivo, nonostante la mia scarsa
partecipazione a quello che stavo facendo, che prima o poi
qualcosa si sarebbe rivelato. Per me allora le Sonatine di
Bertini o di Clementi, e subito dopo le Sonate di Haydn, le
Sonate di Mozart si equivalevano, per insignificanza, agli studi
dello Czerny e del Lebert e Stark, alla esecuzione delle scale e
degli arpeggi. Tutti suoni senza significato. Ottenevo talvolta,
con la diligenza della applicazione, qualche risultato decente,
ma con assoluta mia estraneità. Ricordo una persona in visita a
casa nostra, che, vedendo sul leggio le Sonate di Mozart,
esclamò. “Ah! Queste son cose meravigliose!”. Per fortuna non
mi chiese di suonarle. Ma io francamente pensavo che fosse un
bugiardo.
Continuava la mia passione per le opere, con i dischi e con
qualche frequenza del Loggione. Per me la musica era quella.
Tutto il resto era, ripeto, senza significato.
Sono arrivato così, a dodici anni, niente meno che al 4°
corso. E il maestro Capitanio mi disse che non mi ammetteva al
5°: me lo faceva ripetere. Ci rimasi un po’ male - diciamo così,
umiliato - ma non poi tanto, come quando arriva un
acquazzone, che ti disturba, ma sapevi che poteva o doveva
arrivare.
***
Non so bene come e cosa sia successo. Nelle nostre case più
o meno piccolo borghesi stavano arrivando gli apparecchi
radio. Anche mio padre acquistò una radio Savigliano, a tre
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
valvole. Un apparecchietto, che portava però con sé il dono
dell’aprirsi a mille ascolti (sostituito, un paio di anni dopo, da
un Phonola a 5 valvole, che era, allora, almeno per noi, il non
plus ultra).
Non è del tutto facile, oggi, rendersi conto di quello che è
stato, allora, l’arrivo della radio nelle nostre case. Si parla
spesso dell’impatto, della trasformazione epocale prodotta
dall’arrivo della TV. Ma l’arrivo della radio non è stato da
meno. Anzi, forse, con ancora maggior peso. Certo anche la
radio offriva futilità e papparelle varie. Ma c’era anche
dell’altro, a saperlo cogliere. Innanzi tutto la sensazione che si
allargavano i confini: la Svizzera di Monte Ceneri, le stazioni
francesi, tedesche, perfino Barcellona, e, soprattutto, Praga,
con una stazione, che, chissà mai per quali ragioni, captavamo
meglio di ogni altra, con una annunciatrice dalla voce
armoniosissima (non capivamo una parola, naturalmente, ma
ne eravamo tutti innamorati, forse anche perché era la stazione
da cui sentivamo meglio i programmi musicali).
Ricordo l’impatto entusiasmante con il teatro (Pirandello
soprattutto). Ma per quanto riguarda la musica, fu una vera
elettrizzazione. Fu sconvolgente sentire le Sinfonie di
Beethoven, i poemi sinfonici di Mendelssohn (La grotta di
Fingal, Le Ebridi...). Cito a caso, le pagine di cui maggiormente
ricordo l’emozione all’ascolto. E, improvvisamente la
folgorazione con il Mozart delle Sinfonie, in primo luogo la K
550 (mirerè, mirerè, mirerèsi…). Cosa c’è di più ovvio, di più
scontato!?! Ma provate a immaginarvi un trediciquattordicenne, che si tuffa nell’ignoto e nell’inaspettato di
queste meraviglie… Ho usato il termine folgorazione, ma senza
esagerare. Ricordo che l’incipit del primo tempo della K 550 mi
ha fatto letteralmente sobbalzare sulla sedia. Da lì a capire,
finalmente, le Sonate di Mozart, il passo era breve. Nel giro di
breve tempo, tra i 14 e i 15 anni, il Maestro Capitanio, stupito,
quasi non mi riconosceva più. Suonavo ormai in un altro
modo: capivo quello che suonavo. Meglio tardi che mai.
Certo potrebbe sembrare eccessivo attribuire alla scatola
della radio questo potere risvegliatore. Sicuramente c’è stata
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
una concomitanza con altri fattori, imponderabili
probabilmente. Resta il fatto che quella scatola a tre valvole, e
poi quella a cinque valvole, mi sono rimaste impresse nella
memoria come portatrici di trasformazione.
L’impatto con la musica, il percorso ad acquisirne la realtà
nella sua ricchezza, è stato, poi, quello che, più o meno, è di
tutti. C’è chi incomincia prima, a capire, e chi incomincia dopo.
Ma quando si incomincia, se non vi si è distolti da altro, come
può effettivamente capitare, la strada è aperta.
Potrebbe non essere il caso di insistere. Si tratta di cose
abbastanza scontate. Voglio solo accennare al fatto che, a mia
esperienza, nei giovani l’impatto segna profondamente l’anima
e assume facilmente carattere esplosivo Nonostante si tratti
certamente di cose scontate, voglio, per esempio, a questo
punto, ricordare che, fra i 15 e i 17 anni, mi son sentito segnare
l’anima dall’incontro con Bach. Le Invenzioni, che si affrontano
nei primi anni, non mi avevano detto proprio niente, mi
avevano, anzi, molto annoiato. E lo stesso, purtroppo, devo
dire delle Suites francesi. Ma l’incontro con le Suites inglesi e,
soprattutto, con Il clavicembalo ben temperato, ebbi
l’impressione del disvelarsi di un mondo, nel quale, per usare
una terminologia allora in voga, si arricchivano “cuore e
mente”. (Cuore e mente era proprio il titolo di una antologia
che usavamo al Ginnasio).
Voglio orgogliosamente ricordare un episodio. A partire dal
quinto corso Capitanio aveva la consuetudine di esigere, ad
ogni lezione (le lezioni erano bisettimanali), una pagina, dei
più vari autori, di volta in volta assegnata. Quando mi
assegnava un Preludio o una Fuga di Bach, mi ci ritrovavo con
entusiasmo, al punto che egli mi chiedeva di essere sincero, e di
dirgli se avevo avuto l’occasione di studiarla anche in
precedenza.
E fra i 16 e i 18 anni ho conosciuto il brivido che nasce
dall’incontro con Beethoven. Forse le generazioni del primo
‘900 hanno vissuto Beethoven alla Romain Rolland, anche se
non l’avevano letto o ne avevano vagamente sentito parlare.
Però, in proposito, mi è accaduto di imbattermi, non ricordo su
Pagine autobiografiche: Memorie de musica
RENZO BALDO
quale rivista, con un sondaggio fatto in Francia sui giovani
chiamati alle armi per andare al fronte, nella guerra del ‘14. Il
sondaggio chiedeva, tra l’altro, che libro o quali libri mettessero
nello zaino. Moltissimi avevano il Beethoven di R. Rolland.
Impressionante: andavano a combattere contro i tedeschi con
un libro, che testimoniava la grandezza tedesca e, per di più, di
uno scrittore, che in quella grandezza vedeva un richiamo per
una civiltà che rifiutasse la guerra.
Pagine autobiografiche: Memorie de musica