Pagine autobiografiche
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Renzo Baldo Pagine autobiografiche Quest'opera di Renzo Baldo è concessa sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione: Non commerciale - Non opere derivate INDICE Da Matteotti alle leggi razziali................................ 4 L’Università........................................................... 25 La laurea con Mario Apollonio.............................28 Al corso allievi ufficiali.......................................... 29 Sul Maroccaro con don Antonioli.........................45 Il percorso politico................................................ 49 Memorie de musica............................................... 54 RENZO BALDO Da Matteotti alle leggi razziali* Mia madre (quinta elementare) era istintivamente, popolarescamente, antifascista: Mussolini? un prepotente, che aveva tolto il potere al re, al quale soltanto spettava di comandare. Diceva queste cose di rado, ma in modo deciso, con efficaci battute in dialetto. Il ricordo di queste battute risale agli anni dell’infanzia. Non avevo ancora cinque anni quando massacrarono Matteotti. Per qualche tempo continuai a sentir risuonare questo nome nelle conversazioni degli adulti. E sentii mia madre dire a una conoscente che mia nonna Imelde aveva pianto, anche perché, mi par vagamente di ricordare, riteneva di avere una lontanissima parentela, che la legava non so se a lui o a sua moglie. All’asilo, dove di solito non dicevo una parola, avendo sentito due maestre che a bassa voce parlavano della vicenda, esclamai: “Matteotti è mio parente”. Una di loro mi disse: ”cosa dici, stupidino!” E aggiunse: “E poi i bambini di queste cose non devono parlare”. Confusamente collegavo il nome di Matteotti a quello del signor Bagni, anche lui, così dicevano, socialista - e il termine “socialista” veniva pronunciato con circospezione, abbassando il tono della voce - che abitava nelle stesse nostre case, un portone più in là; anche lui, dunque, socialista, e che per questo aveva dovuto scappare da Brescia, ma che anche a Genova, dove si era trasferito (non so che mestiere facesse, forse il giornalista), l’avevano aspettato al suo arrivo alla stazione - così raccontavano - per aggredirlo e bastonarlo. * Mi è stato chiesto di “documentare” come, tra gli anni ’20 e gli anni ’30, ho ”vissuto” il fascismo. Sono nato nel 1920; quindi: gli anni tra le prime “percezioni” e “intuizioni” della fanciullezza e gli anni della formazione adolescenziale. Ho cercato di registrare i “fatti” con scrupolosa esattezza e di recuperare i ricordi, per quanto possibile, nella autenticità dei pensieri e delle emozioni che li accompagnarono. Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO Non riuscivo a capire perché i socialisti fossero uccisi o bastonati. In seconda elementare - scuola elementare Regina Elena, via Diaz - avevo un compagno di classe di 12 anni (un “anziano”!), un tipo grande e grosso, bonaccione e tracotante (abitava in una cascina di via Berardo Maggi, parlava solo in un dialetto aggressivo e pittoresco): naturalmente sovrastava noi sette-ottenni, incutendoci un inquieto rispetto per le cose mirabolanti di cui parlava, tra le quali, abbastanza frequente: “Anche iér séra so stat coi fascisti. Sèmper col coltèl”. Non so se inventasse o, più probabilmente, si attribuisse cose sentite in famiglia o nei luoghi che frequentava. Una volta aggiunse: “Iér séra gh’éra i socialisti”. (E un giorno ce lo fece anche vedere il coltello, effettivamente un coltellaccio, che mi impressionò, e che mi venne spontaneo collegare con la faccenda dei socialisti da bastonare). Spesso sotto le finestre di casa nostra (in via Diaz, allora di scarsissimo traffico) si radunavano manipoli in divisa, probabilmente per prepararsi a qualche sfilata. Una delle battute di mia madre: “a mèter la zènt én divisa, sé guadagna poc”. E quando arrivai alla terza o quarta elementare, quando ormai la divisa era un obbligo per tutti gli alunni, resistette a lungo, sottraendoci alle convocazioni, o mandandoci alle riunioni e adunate dove occorreva la divisa facendoci dire che la divisa era rotta o era a lavare. Mio padre dovette intervenire, e obbligarla a prepararci camicia nera e calzoncini grigio-verdi, ma si vendicò a modo suo, confezionando dei calzoncini brutti e malfatti (istintivamente mi vergognavo della divisa, ma ancor di più mi vergognavo di averla anche brutta). E si rifiutò sempre di comperare il fez, che detestava senza scampo. Nell’ambito della scuola c’era una sorta di dicotomia: imperversava l’obbligo di sentirsi protagonisti dell’Italia fascista, con frequenti convocazioni a presentarsi in divisa, per adunate e parate, ma nelle ore di lezione io non ricordo che pochissimi episodi di “persuasione” al fascismo. Terza elementare: una maestra, supplente, ci chiede se sappiamo chi sono le persone che compaiono, sotto il Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO crocifisso, in grandi immagini fotografiche: il re, il duce. “Sapete cosa fanno?”. “Comandano”. Domanda imbarazzante, dai banchi: “Chi comanda di più?”. Risposte incerte: il re… il duce…La maestra non sa come cavarsela, e mentre si arrovella per spiegare che comandano tutti e due, una voce, dai banchi, la folgora: ma il duce è cattivo, ha la faccia cattiva. Coro quasi unanime: “Sì, sì, è vero!”. Imbarazzo della maestra, che si affanna a spiegare che invece è così buono, che vuole bene ai bambini, che ha salvato l’Italia, e che suona il violino (questo ingrediente biografico faceva anch’esso parte del repertorio di notizie agiografiche ufficialmente diffuso). *** Se ripenso, analiticamente, a tutti gli insegnanti che ho avuto, dalle elementari al liceo, credo di poter affermare che obbedivano tutti alla regola del silenzio, tutti probabilmente convinti che a scuola si fa scuola, e basta. In quarta elementare, dopo poche settimane, il maestro fu sostituito: ben presto corse la voce che aveva avuto dei guai, perché accusato di aver dileggiato, durante una cena con amici, il distintivo del fascio. Era obbligatorio, non ricordo da quando, portarlo all’occhiello: lo chiamavano “la cimice”. Questo termine, insieme alle barzellette che circolavano, mi dava la sensazione che tra il fascismo e la gente (gli italiani) ci fosse qualche incomprensione o addirittura antagonismo. Nel corso delle lezioni qualche sfumatura di convinto nazionalismo era frequente, ma era, appunto, culto della patria, amore per l’Italia, cosa di cui tutti, più o meno, erano convinti senza esitazioni. Ma fu nel ginnasio superiore che avvertii per la prima volta in modo netto che l’amor patrio poteva farsi chiacchiera e retorica. L’insegnante di lettere, del quale si diceva che fosse parente o addirittura fratello di un caduto fascista, praticava una sua onesta pedagogia dell’apprendimento, con lezioni della più tradizionale routine, talvolta, di passaggio, condendole con i luoghi comuni più tipici, quali l’Italia madre Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO di santi, di eroi, etc., l’Italia che - tranne Wagner - aveva dato i più grandi musicisti, l’Italia che era la prima al mondo nell’arte e nella scienza, e via dicendo. Ma erano passaggi rari e occasionali, e che mai si traducevano in politicizzazioni di attualità. Ero anche stato fortunato: mio padre aveva acquistato, pagandola a rate, la Enciclopedia dei ragazzi edita da Mondadori in sei volumi. A parte il fatto che era una fonte straordinaria di cultura divulgata in modo intelligente e di facile assimilazione, era stata elaborata prima dell’invadenza del fascismo, sicché era costruita su fondamenti seri, di cultura responsabilmente filtrata, in una chiave che potremmo definire laico-liberale. Me ne accorsi pochissimi anni dopo, quando alla successiva edizione fu data una marcata impronta ideologica fascista, che ne investiva pesantemente tutti i settori che a questo rifacimento si prestavano. La cosa era di tale evidenza, che trovandola in casa di conoscenti, lo avvertii immediatamente, con un misto di stupore, di perplessità e di disagio. Mancando di altre fonti di informazione e di riflessione, piccoli fatti come questo finivano con l’assumere un rilievo non trascurabile. Ne cito un altro: quando seppi che la Rivoluzione francese aveva tentato una nuova numerazione degli anni, trovai senza senso, una banale imitazione, la consuetudine, obbligatoria, di segnare le date con l’indicazione dell’Era Fascista (tra le battute umoristiche che circolavano - non erano un gran che, come comicità, ma, diffusissime, contribuivano certamente a screditare il regime c’era anche quella che suggeriva di scrivere “era” con la minuscola, per far capire (così mi spiegò un mio compagno di classe) che, sì, l’Italia “era “ fascista, lo era stata, ma non voleva più saperne. L’unico intervento di pedagogia fascista a cui ho assistito in classe nel corso degli anni, oltre a quello della ingenua maestra della terza elementare, è stato, nell’ultimo anno del liceo, il resoconto, fattoci da un insegnante di filosofia, che era stato a una settimana di aggiornamento culturale sul Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO fascismo. Ci spiegò che il fascismo, erede del Risorgimento e della sostanza più autentica del liberalismo, aveva profondo rispetto per la cultura, era aperto alla discussione e al dialogo, era tollerante, ma che, se qualcuno, ottuso, proprio non voleva capire, c’era il manganello, che riesce a convincere anche le teste dure, che si ostinano a non capire. (Fu, gli va riconosciuto, l’unica occasione, almeno a quel che io ricordo, in cui fece emergere queste sue convinzioni). A proposito di tolleranza: in quella classe c’era anche un compagno, Sandro Molinari, che, per essere stato sistematicamente assente alle adunate del sabato fascista, dovette presentarsi dal Segretario Federale, che dopo avergli fatto una bella predica, lo congedò schiaffeggiandolo. Quando la notizia circolò, ci fu qualche mormorio, e ognuno in cuor suo probabilmente pensò che era meglio non farsi schiaffeggiare. La tesi del fascismo come attuazione delle migliori istanze nazionali e liberali, quali avevano animato il Risorgimento, era allora abbastanza diffusa. Uno dei teorici ne era Balbino Giuliano, del quale lessi un libro, che annotai sui margini con frequenti punti esclamativi e osservazioni o ironiche o in chiave interrogativa. È stato, quello, un momento decisivo per l’uscita consapevole dal fascismo. Ma avevo incominciato a leggere qualche pagina di Luigi Salvatorelli, Guido De Ruggero, Luigi Russo, Alfredo Omodeo, nei cui scritti, anche quando si occupavano di tutt’altro, trapelavano sempre suggerimenti concettuali e riferimenti facilmente traducibili in termini di attualità e di opposizione. Ricordo, per esempio, uno scritto, illuminante, di L. Russo sull’antropolatria. Così come ricordo la notizia, che circolava con un misto di stupore e di ammirazione, di un insegnante di liceo che leggeva e commentava il Della tirannide di Vittorio Alfieri. In seconda liceo ebbimo come insegnante di filosofia un sacerdote, don Caporali. Faceva delle lezioni a flash, di tipo giornalistico. Un giorno ci lesse alcuni brani della celebre intervista che Mussolini aveva rilasciato (nel 1932) a Emil Ludwig, scrittore e giornalista tedesco - ebreo - che godeva Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO allora di larghissima notorietà. Non so cosa esattamente pensasse quell’insegnante in fatto di fascismo. Ma mi dava l’impressione che la sua lettura, quel giorno, fosse corredata da un mezzo sorriso, che forse era ironico, e da qualche battutina di sottile ambiguità. E terminò con la citazione del verso dantesco “dei remi facemmo ala al folle volo”, che Mussolini aveva indicato come il verso di Dante da lui preferito, che aveva sentito come “suo”. “E… sì - concluse, dando risalto al finale - folle volo”. (Questa sfumatura me la sarò immaginata io o era davvero implicita?). Ma ci fu un altro flash più importante: ci parlò brevemente del “Modernismo”, e concluse raccontandoci della clausola del Concordato, che aveva direttamente colpito Buonaiuti. Mi sembrò una cosa ignobile. E il Concordato rimase la mia bestia nera. Il professore reduce dal corso di aggiornamento professava anche molto cattolicesimo, e non mancò, sempre nell’occasione di cui ho detto sopra, di osservare che religione e fascismo collimavano nei fini, come in particolare il Concordato dimostrava. Se sulla questione della tolleranza e dell’attuazione del vero liberalismo ero già in grado, se non proprio di obiettare, certo di dubitare, quest’altra questione, del rapporto fra il fascismo, la religione e la chiesa, mi intrigava e mi metteva in difficoltà. Frequentavo i Padri Filippini della Pace, e non mi sembrava proprio che, nonostante l’estrema misura con cui sfioravano l’argomento, avessero le stesse opinioni del professore. Ricordavo che alcuni anni prima un curato della mia parrocchia, don Bianchi - diventato poi parroco credo a Chiari: ne ricordo il volto, che denotava intelligenza, e al tempo stesso dolcezza e severità - godeva fama di antifascista. L’avevo sentito dire da mia madre, che chissà come e dove captava queste notizie (forse in qualche negozio). Così come anche, non molto dopo, ebbi l’impressione che il parroco don Giuberti, pur non pronunciandosi mai apertamente, fosse orientato ad un giudizio negativo sul fascismo. Ma c’era anche chi scriveva libri - io ebbi per le mani quelli di un bresciano - Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO che intendevano dimostrare affinità e concomitanza fra fascismo e cattolicesimo. Non mi era facile raccapezzarmi. Anche perché dal mondo dei preti venivano messaggi contrastanti, o per lo meno non facilmente interpretabili. Dicevano che padre Gemelli fosse un fascista convinto (e alcune sue scritture sembravano confermarlo). Un seminarista che nella parrocchia di Sant’Afra faceva dottrina la domenica pomeriggio agli studenti delle scuole superiori, don Cesare (era un giovane serio e intelligente), insisteva nel presentarci l’Italia risorgimentale e liberale come una iattura. Io, nutrito di letture, per quanto elementari, di stampo fortemente risorgimentale, gli tenevo testa, tra l’ingenuo e il facinoroso. Una volta mi prese in disparte (avevamo sicuramente una reciproca simpatia) e mi disse: “Guarda che io lo so che voi giovani siete tutti fascisti…etc. etc…. ma non pertanto la verità storica è importante”. Allibii. Gli dissi, credo un po’ disordinatamente, che, secondo me, era la chiesa che aveva preparato il fascismo rifiutando l’Italia liberale. Sicuramente disponevamo, entrambi, di informazioni schematiche e approssimative. Ma questo episodio può avere forse valore di sintomo e di testimonianza dello stato confusionale e un po’ underground in cui si muoveva la nostra formazione. Forse l’episodio più decisivo sul piano della formazione concettuale fu quello della lettura della voce “Fascismo” sulla Enciclopedia Italiana Treccani. Firmata da Mussolini, ma, dicevano, notoriamente scritta da Giovanni Gentile. Ne avevo una copia a stampa. Un giorno mi venne a trovare Umberto Pecorini, due anni più di me, ma mio compagno di classe. La intravide sul tavolo, la prese in mano e mi disse: leggiamola insieme. Non so da dove o da chi avesse attinto convinzioni che gli consentivano così notevole capacità di valutazione critica. Certo mi diede spunti di riflessione decisivi, di quelli che fermentano dentro e con il passar del tempo sempre più si illuminano. Metteva in evidenza l’enfasi del linguaggio, con quelle abusate parole di “fede”, “vita spirituale” e simili. Fece un’osservazione della cui portata mi resi ben conto soltanto Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO dopo molto tempo: che impostura, mi disse, affermare che “gli interessi si conciliano nell’unità dello stato”; ma, soprattutto, sottolineò il passaggio nel quale si afferma che “il fascismo è la forma più schietta di democrazia” (capito? mi diceva, che spudorati…giocare con le parole, per fargli dire il contrario di quello che significano), che “nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno”. Capito? continuò; “Uno”, con la maiuscola, che, aggiunse, in realtà è “uno” con la minuscola. Ma torniamo ad anni precedenti. Sentii mio padre, in conversazione con amici o parenti che frequentavano la casa, deplorare che si pretendesse che per essere un buon italiano si dovesse anche essere fascisti Ma in breve divenne sempre più prudente, e assunse un comportamento che potrebbe definirsi di nicodemismo, (che così facilmente viene scambiato per consenso). Prudenza, naturalmente; anzi, anche paura. Ricordo che in occasione del plebiscito del ‘29 (si doveva votare sì o no) aveva cercato di evitare di andare a votare (lo sentii dire: “Mah! Forse è meglio non votare”. Nel tardo pomeriggio lo vennero a prendere, in macchina, e lo portarono, con molta deferenza, al seggio (presso il quale c’era dunque chi aveva l’incarico di segnalare coloro che ancora non avevano votato: andavano a prenderli facendo loro l’onore di scortarli con la lussuosa offerta di una gita in macchina). Tornato a casa, commentò: ho votato sì, naturalmente. Poi, quando credeva che io non sentissi, a bassa voce disse alla moglie: mi hanno detto che hanno preso a schiaffi, all’uscita, uno che pensavano avesse votato no. (N.B. Si è poi saputo che la scheda elettorale era congegnata in modo che chi votava no era subito individuato, segnalato ai custodi dell’ortodossia che stazionavano fuori, i quali immediatamente provvedevano a dargli la giusta lezione. Dunque, non “pensavano”, ma “sapevano” chi aveva votato no). Col passare degli anni al nicodemismo di mio padre sempre più si accompagnava il rallentarsi delle battute Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO “politiche” di mia madre. Evidentemente consigliata di essere prudente e di star zitta. L’ho sentita però più di una volta esprimersi con sdegno (èmpostùr) facendo nome e cognome, nei confronti di coloro che - conoscenti o colleghi - erano entrati in organismi fascisti, addirittura vestendone le uniformi, nella profluvie dei gradi di cui si fregiavano (seniori, centurioni, etc. etc.),dopo aver fatto per qualche tempo dichiarazioni di antifascismo o addirittura provenendo da partiti o associazioni perseguitate dai fascisti. Nel 1932, in occasione del decennale della marcia su Roma, agli italiani fu concesso l’onore di poter iscriversi al Fascio, con retrodatazione, se mal non ricordo, al 3 Gennaio 1925. Venivano chiamati ad uno ad uno, presso i circoli rionali. Chi non firmava (è cosa nota) perdeva il posto e anche se praticava un lavoro autonomo subiva angherie di ogni tipo (ai sostenitori della tesi del consenso di massa forse sfugge la differenza fra accettazione “forzata” e consenso). In un breve giro di tempo tutti in divisa, soprattutto nelle grandi adunate di massa, obbligatorie. Mi facevan veramente pena coloro di cui si sapeva che certamente fascisti in cuor loro non erano, e che erano costretti a vestirsi d’orbace, a sfilare compatti per testimoniare che l’Italia era tutta fascista. Li vedevo tornare a casa con l’aria di cani bastonati. Ricordo un maestro, che abitava nelle mie scale, sicché spesso mi capitava di incontrarlo: notoriamente si sapeva che era stato un attivo socialista, gli si leggeva in faccia il suo disappunto e la sua rabbia. E mi domandavo che bisogno ci fosse di questa ritualità obbligatoria, senza scampo. Mi sembrava una sopraffazione senza senso. Sapevo che la coscrizione obbligatoria, in nome della patria, era un’invenzione della Rivoluzione Francese, e per quanto dura da accettare (evidentemente non avevo spiriti militari), pur mi sembrava una cosa giusta. Ma che bisogno c’era di mettere in divisa e portare in piazza tutta quella gente? Tra quelli con l’aria sofferente di cani bastonati c’era anche il ragionier Amleto Paoletti, il padre del mio coetaneo e amico Elio. Impiegato comunale, in uffici vari. Curvo e dinoccolato, Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO statura medio-bassa, andatura da umiliato e offeso; con un sorriso affettuosamente e dolorosamente d’attesa: attesa del venir meno della realtà entro la quale era costretto a vivere. Socialista? comunista? anarchico? Non saprei. Forse tutte queste cose insieme, come spesso era di coloro che si sentivano in “opposizione”. Estimatore di Dante, di Victor Hugo, di Tolstoi, di Olindo Guerrini, denigratore del Manzoni (i Promessi Sposi? Un romanzo per serve e per sartine). Spesso la sera leggeva ai suoi figli pagine dei suoi autori. Più volte, soprattutto quando ero un ragazzetto fra i 12 e i 15 anni, assistetti anch’io a queste letture. Nelle scelte, nel modi di leggere e, soprattutto, di buttar lì, quasi in sordina, qualche rapida annotazione di commento, emergeva qualcosa che allora percepivo molto vagamente, ma di cui col passar del tempo, sia pur per lampi e per frammenti, cominciai ad avvertire la portata. Per esempio: la celebrazione della “natura”, con poche parole, ma con un calore e un significato “politico”, ( che in seguito mi accorsi che erano alla Courbet: la spontaneità degli affetti, la naturalezza dell’amore), proiettate verso l’idea di una comunità “comunista”, vagheggiata con animo utopicamente ingenuo e puro; la sottolineatura del precipitare degli egoismi verso la violenza e la guerra; la inaccettabile offesa della povertà, spesso trasformata in miseria. E fu tra i pochissimi che al tempo dell’Etiopia continuarono sicuri nel loro dissenso. Quando su questo argomento gli dicevamo qualcosa in contrario, spesso si limitava a scuotere la testa, in fermo diniego. *** A differenza degli adulti, i ragazzi erano già tutti “fascisti” senza bisogno di essere convocati dalle sezioni rionali per esserne persuasi, iscritti d’ufficio alle organizzazioni fasciste, e obbligati a frequentarle, nelle adunate e nelle esercitazioni paramilitari, che poi in sostanza erano soprattutto esercitazioni preparatorie per sfilare in parata. Si marciava in su e in giù per cortili o per strade di periferia, per poi finalmente sfilare nelle, frequenti, occasioni di pubbliche Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO cerimonie. E francamente questa cosa mi infastidiva e, con il passar degli anni, quasi mi inviperiva: la sensazione di perdere ore e ore, mezze giornate in un ridicolo e faticoso ozio. Con giovanile moralismo pensavo, quasi con dispiacere oltre che con rabbia, che già che si facevano questi sabato fascisti, servissero almeno a qualcosa, a insegnarci qualcosa. Invece, niente: una miscela di ambizioni militaresche e di caos organizzativo, in vista dello spettacolo. Sfilare in parata sfoggiando divise era l’unico fine e l’unica ambizione. Veniva naturale pensare: facciamo spettacolo. Le sensazioni provocate dall’imperversare dello spettacolo e dall’esserne parti costitutive erano varie, aggrovigliate e confuse. Ricordo un mio amico esclamare: la mia rabbia è che quando si sfila, soprattutto quando si è accompagnati dalla musica, sei costretto ad immedesimarti in quella sciocca cosa che stai facendo; anzi, aggiungeva, siamo tutti preoccupati che la cosa riesca. Un po’ come le comparse sulle scene teatrali, che non ci credono a quello che fanno, ma devono pur farlo, e si vergognerebbero a dare segni di sbandamento o di inettitudine. Comunque sia, credo che i “sabato fascisti” abbiano molto contribuito a dare la sensazione del fascismo come spettacolare inutilità, sfoggio di divise, clangorosa retorica, impalcatura di cartapesta. La reazione frequente e diffusa era il turpiloquio, la battuta mordace, lo scatenarsi delle barzellette. Le barzellette antifasciste dilagavano. Dette con qualche prudenza, ma ovunque. Non so se ne esista qualche raccolta o documentazione. Per banale o insipida che la cosa di per sé appaia, si tratta pur sempre di un dato di cui tener conto. Ne ricordo alcune: gli italiani son come i fichi maturi: neri fuori, rossi dentro; in un pick-nick al quale partecipano rappresentanti di tutti gli Stati, uno dei convenuti toglie di tasca un giornale, lo stende sull’erba e dice: “io mangio su Le Figaro”; un altro fa lo stesso gesto e dice:” io mangio sul “Times”, etc. etc., il gerarca fascista inviato da Mussolini in rappresentanza dell'Italia si toglie di tasca Il popolo d’Italia Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO (il giornale fondato da Mussolini e voce ufficiale del regime) ed esclama: “Noi mangiamo sul popolo”; Starace, il segretario del Partito fascista, che nelle grandi adunate aveva il compito di presentare il duce alle folle, ha sempre in tasca un biglietto, che ripassa tutti i giorni, dove c’è scritto : “Salutate nel duce il fondatore dell’impero”; per verificare la solidità di un ponte basta radunarci sopra il Gran Consiglio del Fascismo: se resiste, bene, se crolla, meglio; si propone che alle vie intitolate ad Arnaldo Mussolini si ponga sotto una scritta. “via anche suo fratello”; Donna Rachele è stata multata: non aveva denunciato il porco che aveva in casa. Sciocchezzuole, tutto sommato, ma mi facevano impressione, non tanto per la loro eventuale carica di “spiritosità” quanto per il loro dilagare. Come mai, mi domandavo, tutta questa gente, giovani e adulti, magari proprio mentre stanno celebrando i riti del regime, impettiti nelle loro divise, si divertono tanto per ciò che lo ridicolizza? *** Alla mia quotidiana frequentazione degli ambienti piccoloborghesi dove vivevo e degli ambienti “colti” delle scuole, si affiancavano anche, sia pur sporadicamente, le ore dei pomeriggi di giorni festivi trascorse presso i nostri parenti di Borgo Milano. Ambiente operaio. Vi si respirava, tangibilmente, un’aria diversa. Anche qui, se si toccavano argomenti politici o che avessero in qualche modo una possibile implicazione politica, diffidenti silenzi, battute tronche, discorsi sospesi. Ma quando, magari di straforo, si presentasse un’occasione di esporre opinioni, di rompere il silenzio, non si sentivano discorsi in calibrate dosature di agganci “colti” e nemmeno barzellette, che di quei discorsi calibrati sembrava fossero l’inevitabile accompagnamento, ma parole dure, quasi sempre con un linguaggio, che sorprendeva noi ragazzini timorati. Mio padre, che in vita sua non ho mai sentito una sola volta pronunciare una parolaccia, era a disagio, e interveniva cercando di ottenere linguaggio più castigato, e, soprattutto, mettendo in opera il suo Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO nicodemismo, adoperato come arma di mediazione, forse si potrebbe anche dire di opportuno strumento per dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte. (Nella mente di tanti italiani del tempo - ma, credo, anche negli italiani di dopo alla sostanziale inaccettabilità del fascismo si accompagnava come, poi, le due cose, nella loro contraddittorietà, riuscissero e riescano a convivere, è questione complessa - non mancava certo la convinzione che qualcosa di buono il fascismo avesse fatto per l’Italia. Per esempio: i treni andavano in orario, non c’erano più scioperi, aveva prosciugato le Paludi Pontine, e via di seguito gli ingredienti della propaganda fascista. E non era facile sottrarvisi). Spiccava fra tutti, in quegli incontri di Borgo Milano, per popolaresco gusto di un linguaggio di pittoresca aggressività, mio zio Alessandro, detto, sempre, Sandro. Per capire il personaggio, basti ricordare che il Primo Maggio (festa abolita dal fascismo) si rifiutava di andare a lavorare. Lavorava alla O.M., dove credo si distinguesse per grande bravura di mestiere, e dove mai nessuno, bisogna dirlo, mosse un dito per contestargli certi suoi umori o certe sue scelte, come quella della Festa dei Lavoratori, e come quella, pericolosa, di rifiutare l’iscrizione a qualunque organizzazione fascista e, di conseguenza, di non partecipare a riunioni o adunate. Come ci sia riuscito, non l’ho mai ben capito. E non si faceva certo riguardo, quando sia pur con bruschi frammenti verbali, prendeva la parola, anche in luogo pubblico, come le osterie. Quanto a me, ne ho tratto molta materia di riflessione, soprattutto quando insisteva nel dire che l’Italia era governata da puttane. Non è poco, per un ragazzetto, ascoltare la dissacrazione del potere. *** C’è stato un momento, nel quale l’identificazione di “patria italiana” e di fascismo giocò il massimo ruolo per accrescere il consenso: l’impresa d’Etiopia. Il successo militare diede l’impressione che il fascismo non fosse solo cartapesta e sopraffazione; e le “sanzioni” sancite a Ginevra, con Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO quell’immagine continuamente ripetuta delle 52 nazioni che ci assediavano, contribuirono sicuramente a rinforzare l’adesione “patriottica” al regime. Ma fu un momento di breve durata. Le perplessità rimontarono, e si accrebbero. *** Credo che poco si sia si sia parlato e documentato sul fenomeno della mendicità negli anni trenta. Nel cortile della casa dove abitavamo, tutti i giorni transitavano almeno due o tre suonatori e cantanti ambulanti, che non erano di estrazione popolare e quindi, in certo qual modo, “professionisti”, ma, palesemente, persone che si adattavano a raggranellare in quel modo qualche soldo per sopravvivere. Suonavano, cantavano, e raccoglievano da terra le monetine che gli gettavano dalle finestre. Ricordo, oltre a suonatori di mandolini e di chitarre, alcune esibizioni ben insolite: un violinista con un cantante; perfino un violoncellista; un giovane dal portamento distinto, che suonava splendidamente l’ocarina, biondo, dal volto intensamente espressivo (lo chiamavano “Corradino di Svevia”: erano tempi nei quali si leggeva nelle scuole l’Aleardi: “era biondo, era bello, era beato…”). Mi facevano impressione, mi davano la sensazione di miseria diffusa. L’opinione che il fascismo creasse condizioni di vita economicamente depresse rispetto agli altri paesi era largamente diffusa: borbottata, detta fra i denti. Episodio sintomatico di questa realtà e di queste convinzioni sono state, una mattina, le voci concitate che venivano dalla sala dei professori, che commentavano il provvedimento, piombato all’improvviso e comparso sui giornali, di un taglio, non ricordo di quale aliquota percentuale, su tutti gli stipendi (primi anni trenta: io frequentavo il ginnasio inferiore; il titolo del giornale, a piena pagina, l’avevo già visto a casa mia prima di uscire di casa, e ricordo l’esclamazione e il commento amaro di mio padre). Lo sdegno era tale, che lasciata da parte ogni preoccupazione sentivo frasi come quelle che in simili occasioni si sentono sotto qualunque Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO regime, ma che in un’Italia di ferreo controllo dittatoriale suonavano veramente sintomatiche. Ne ricordo una: “E’ così che si va incontro al popolo!”. Non occorre ricordare che era uno degli slogan più sfruttati dalla propaganda, e come tale facilmente sfruttabile, con battute ironico-sarcastiche, da chi, almeno a livello umorale, con il fascismo non si identificava Che la miseria fosse diffusa era confermato dalla ressa dei mendicanti, che venivano a bussare alla porta ogni giorno. Mia madre teneva una ciotola coi 5 e i 10 centesimi, pronti da distribuire (raramente i 20 centesimi). Aveva l’istinto della statistica, la sera ci diceva il numero: ne transitavano sempre dai dodici ai venti al giorno. Del resto, tutti sapevano e potevano vedere le distribuzioni di minestra ai conventi, per esempio quello dei francescani di via Callegari, che percorrevo tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Ce n’erano in file numerose, non meno di settanta-ottanta, con i loro recipienti di latta e il cucchiaio in mano o alla cintola. Ma la cosa che più mi impressionò fu che un giorno davanti alla Sezione Rionale vidi alcuni giovani in divisa, col fazzoletto giallo-rosso al collo (i colori di Roma). Erano i volontari che partivano per la Spagna. Tra essi c’era anche il suonatore dell’ocarina. Corradino di Svevia - così raccontava, commovendoci, l’Aleardi - era finito “sotto l’arco d’un tempio”. Quest’altro, chissà. A proposito di sala professori: ero in quarta o quinta ginnasio quando arrivò da Roma un ispettore, che, si diceva, era stato chiamato per sottoporre a controllo il prof. Morandi, che insegnava al ginnasio inferiore. Il prof. Morandi godeva fama di ottimo insegnante e di uomo di notevole cultura. Capitano in congedo, mutilato di una gamba nelle guerra del ‘15. Si sussurrava che prima del 3 Gennaio 1925 avesse assunto posizione politica in opposizione al fascismo; ritengo nel Partito Popolare. La supposizione dell’ispezione ad personam non doveva essere senza fondamento: l’ispettore si fermava in ogni classe non più di un’ora o due, al prof. Morandi dedicò due giornate. Ed esaminò, li vidi accumularsi su di un tavolo, tutti i compiti in classe. Non so come sia Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO andata a finire, probabilmente in niente, visto che il prof. in questione continuò nel suo insegnamento. Ma l’episodio non passò certo inosservato. *** Dalla fine del ‘36 nelle sale cinematografiche vennero a mancare film e documentari provenienti dalle nazioni che avevano aderito alle sanzioni. Lo spazio rimasto vuoto fu occupato soprattutto dalla produzione tedesca. Il film della Riefenstahl sulle Olimpiadi di Berlino del ‘36 mi destò sensazioni contrastanti, di ammirazione e di preoccupazione, direi quasi di angoscia, quasi si avesse a che fare con un umanesimo pervertito, con una “grecità” svuotata di anima. Ma soprattutto mi colpivano i documentari, con quella formidabile presenza di coreografia militaresca, che tutti conosciamo, destinata a diventare perfino uno stereotipo, ma che allora ovviamente aveva la potente carica dell’attualità. Avevo la sensazione di essere di fronte ad immagini di celebrazione della forza e della guerra, sensazione che cresceva in modo inequivocabile, senza incertezze, di fronte alle immagini dei saggi ginnici della gioventù tedesca. Eravamo abituati anche noi ai saggi negli stadi, specie a conclusione dell’anno scolastico, ma le figurazioni e i gesti erano nella tradizione del movimento ginnico come equilibrio tra forza e bellezza. I saggi ginnici dei giovani tedeschi erano affidati a movimenti violenti, aggressivi, che davano ai volti tratti di ferocia e di ferinità. “Li educano ad uccidere” fu un commento che sentii; e che condividevo, quasi con sgomento. Questo della violenza era un tema che mi crucciava. Come in un confuso pulviscolare mi arrivavano abbozzi di opinioni, citazioni mal connesse: la violenza che fa la storia etc. etc. ; Sorel, (che, si diceva, era stata la lettura preferita di Mussolini), Nietzsche, Marx, Lenin…e Mussolini, naturalmente. Era facile annaspare. Nel frattempo, ogni tanto, mi toccava vedere la scena di un gagliardetto portato con passo vigoroso in giro per la città da cinque o sei fanatici, che Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO schiaffeggiavano i passanti che non si affrettassero a togliersi il cappello e ad alzare il braccio nel saluto romano. Mi veniva in mente Guglielmo Tell, che non aveva salutato il cappello dell’imperatore appeso nella piazza. Lo dissi anche, a uno di quei fanatici, col quale avevo qualche confidenza, e mi rispose che era tutta un’altra cosa, ma che comunque il fascismo non aveva bisogno di riferimenti storici, perché era lui che faceva la storia. *** Primi mesi del 1938: ero in terza liceo. Una mattina dedicata allo svolgimento di un tema inviato dal Ministero, per l’ultima classe dei licei. Non ne ricordo l’esatta formulazione, ma sostanzialmente chiedeva di esaminare le possibilità di sviluppo economico dell’Africa Orientale. Che ne sapevamo! Anzi, le notizie che circolavano, fondate o no che fossero, erano in proposito tutt’altro che incoraggianti. Era un classico episodio di invito alla chiacchiera. Tutti si misero a scribacchiare qualcosa. Un mio compagno, Renzo Barboglio, incrociò le braccia e consegnò il foglio in bianco. Io ebbi improvvisamente l’estro di scrivere un dialogo, immaginando la conversazione di due alunni che uscendo di scuola discutevano dell’assurdità di ciò che era stato loro richiesto e deploravano non solo il non senso dell’iniziativa, ma la testimonianza ch’essa dava di abitudine alla chiacchiera. E terminavo dicendo: se qualcuno mi dimostrerà che ho torto, dirò anch’io, come il Falstaff di Boito (l’avevo letto da poco): “incomincio a capire / di esser stato un somaro”. Con richiesta di reciprocità per coloro che non fossero riusciti a dimostrare la mia somarità. Alcuni giorni dopo arriva in classe il preside. Era una persona a suo modo degna e umana. Nazionalista e irredentista in terra asburgica, con condanna a morte in contumacia, fascista convinto (uno dei, credo numerosi, fascisti che del fascismo vedevano l’“italianità”, la celebrazione della patria). Deplorò, come segno di scarso senso del dovere, il foglio bianco del compagno, si soffermò a Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO lungo sulla qualità “sovversiva” del mio dialogo, passibile, diceva, di denuncia al Tribunale di Bologna (se mal non ricordo, era un tribunale a cui erano rinviati coloro che commettevano gravi infrazioni contro lo Stato fascista)., mi incitò a capire l’importanza di partecipare a un’iniziativa indirizzata a stimolare la conoscenza della realtà dell’Italia fascista. Ebbi la viltà di dire che l’avevo scritto per scherzo, senza intenzione di consegnarlo e lasciato distrattamente sul banco (non fui denunciato, anche perché credo che quel brav’uomo non l’avrebbe mai fatto per nessuno). *** Un ricordo indelebile: Mussolini pronuncia il celebre discorso che terminava con il motto “libro e moschetto, fascista perfetto”; alle sue spalle sbuca Giovanni Gentile, che con un sorriso compiaciuto gli porge un libro e un moschetto, che il duce sveltamente afferra proponendoli a braccia alzate alla ovazione della folla. Sapevo di Gentile, più per sentito dire che per adeguate letture, che era un insigne filosofo, ma quella partecipazione a un rituale palesemente demagogico mi mise in crisi, soprattutto per quel sorriso, che mi sembrò segno di un dualismo inaccettabile: di qua il paternalismo dell'intellettuale, di là la massa. “Ci portano in piazza per fare massa” mi diceva un amico, al quale devo molto, Elio Paoletti. Cercai di incrementare la lettura di libri di Gentile, scegliendo quelli più abbordabili per il loro contenuto. Quanto più mi ingolfavo in questo approccio tanto più non riuscivo a capire perché mai dalle coordinate che, con fatica, riuscivo a ricavare dalle sue pagine, si potesse arrivare alla teorizzazione del fascismo. Giunsi alla conclusione, sempre con Elio Paoletti, che Gentile continuasse a fare il fascista per coerenza con le posizioni assunte fin dall’inizio (non potevamo prevedere che questa nostra supposizione forse alquanto avventata avrebbe forse potuto essere più probabile, tragicamente, qualche anno dopo) oppure per l’ambizione di essere, per l’Italia del fascismo, quel che Hegel era stato per la Prussia di un secolo Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO prima. Il mio amico Elio sosteneva che secondo lui il pensiero di Gentile poteva portare al comunismo. Io su questo non riuscivo a seguirlo, anzi a capirlo. A proposito di incontri e di agganci in grado di dare qualche orientamento o aiutare a risolvere dubbi. Devo a Isidoro Capitanio, mio maestro presso l’Istituto Venturi, ma che talora frequentavo sulle cantorie delle chiese dove era organista, un succinto ma illuminante intervento chiarificatore. Dopo aver eseguito, non ricordo se all’Elevazione o al Communio, un brano, da lui trascritto per l’organo, dal Parsifal di Wagner (credo fossero i primi mesi del 1938) mi disse: “l’ho eseguito apposta in chiesa, perché spero che si capisca che Wagner non è quello che qualcuno pensa”. (Erano anni nei quali aveva credito l’idea che Wagner avesse scritto musica prenazista). E aggiunse: “Qualche strillo di troppo di Sigfrido non è sufficiente per fare di Wagner un hitleriano”. Non tornò più sull’argomento. Forse pensava di aver osato troppo. Raccontai il tutto al mio amico Umberto Pecorini. Decidemmo di far passare tutto il Parsifal sulla partitura Ricordi per pianoforte. Ne eravamo affascinati. Direi anche: infatuati. Ma almeno ci serviva per negare credito a chi voleva fare di Wagner un nazista. Sapevamo vagamente (non avevamo letto niente in proposito) che Nietzsche aveva fieramente stroncato il Parsifal, ma gli davamo torto. Eravamo convinti che lui sì, Nietzsche, fosse un precursore del nazismo, e ci era antipatico anche perché aveva inventato il Superuomo. Quel Superuomo che non riuscivamo a sopportare in quel tanto di D’Annunzio, che, sia pur a pressappoco, conoscevamo. Annaspavamo. Erano tempi nei quali, su queste cose, per dei poveri liceali, non era facile barcamenarsi. *** Un evento inquietante, e decisivo, fu la promulgazione delle leggi razziali. Non si riusciva a capirne le motivazioni. Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO Mio padre frequentava il Caffè Piccinelli, in Corso Palestro, dove faceva qualche partita a scacchi. Vi aveva conosciuto una persona - credo un medico, ricordo che abitava a Gussago - medaglia d’argento al valor militare nella guerra 15-18. Ci raccontò, con circospezione, a bassa voce, che l’aveva trovato depresso, distrutto, buttato fuori dalla sua professione e dal suo lavoro perché ebreo. La cosa gli (e ci) sembrava disumana e senza spiegazione. Un insegnante del liceo, assai noto in città, e che godeva fama di grande bravura - a me era antipatico, perché quando era in divisa assumeva toni burbanzosi, con piglio “mussoliniano” - ebreo, fu naturalmente estromesso dalla scuola. Sentii una persona, che aveva qualche incombenza nel liceo - (correva voce che fosse un “confidente” della questura, e sicuramente esercitava una qualche mansione del genere: un giorno, con iniziativa credo del tutto di allegria goliardica e senza alcuna intenzione “politica”, gli studenti di una classe si erano presentati a scuola tutti con la cravatta rossa; arrivarono due questurini, evidentemente subito informati con una telefonata) - esclamare in tono trionfante: a quello lì, adesso, gli possiamo anche sputare in faccia. Piccoli episodi marginali, ma certo sufficienti per contribuire a far nascere dubbi e la sensazione di qualcosa di oscuramente inaccettabile. A proposito di leggi razziali: una potenziale spinta a incrementare la diffidenza nei confronti del fascismo certamente l’ha avuta la rivista “La difesa della razza”. Non eravamo certo in grado di darne una valutazione sul piano “scientifico” (come tale essa si presentava), ma colpivano sgradevolmente i toni polemici, taluni contenuti di evidente volgarità o di goffa retorica. E soprattutto lasciavano interdetti le illustrazioni, che abbondantemente la corredavano. Il sistematico accostamento di immagini “ariane” - belle, nobili, solenni, armoniose - con quelle di altre razze - brutte, goffe, deformi, rozze, adipose - sprigionava una irresistibile sensazione di falsità. Ne avevamo pur vedute in abbondanza, almeno sui giornali e al cinema, bellezze di Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO colore, maschili e femminili! Ci guardavamo in giro, e vedevamo, in gran numero, tra i nostri concittadini o compaesani “ariani”, figure non propriamente sempre di anatomica perfezione o da ritenersi esemplari di una razza superiore. Ricordo i ridacchiamenti che si facevano, con giovanile petulanza (i giovani, si sa, hanno facile inclinazione al ridere e alla sottolineatura del grottesco) anche e soprattutto in riferimento a gerarchi e gerarchetti, pure essi non propriamente modelli di armoniosa bellezza. Li chiamavamo “le bellezze ariane”. Ma, al di là di queste impressioni o sensazioni, significative certamente, ma forse un po’ futili, una cosa soprattutto mi colpì, e cioè, nel primo numero, l’editoriale che si faceva in quattro per dimostrare che le dichiarazioni sostanzialmente antirazziste fatte da Mussolini nel 1932 nella intervista a Ludwig non erano in contrasto con le leggi razziali. Mi sembrava proprio un’incredibile falsità. (L’attenzione a quell’editoriale e a quelle affermazioni di Mussolini mi era stata suggerita anche dal fatto che proprio su quelle dichiarazioni e per quella intervista avevo sentito parlare - o letto chissà dove - di un “umanesimo” di Mussolini e quindi del fascismo. Quando ho steso questi appunti, sono andato a rileggere per verificare se non avessi allora preso giovanilmente un granchio: no, quell’editoriale è proprio un bell’esempio di sofisticate falsità). Pagine autobiografiche: Da Matteotti alle leggi razziali RENZO BALDO L’Università Avevo (avevamo) informazioni imprecise, frammentarie, contraddittorie. La maggior parte dei miei coetanei che sceglievano facoltà umanistiche optavano per la Cattolica. Nel non sempre chiaro barlume delle idee e della coscienza, stavo uscendo da quella “adesione” al cattolicesimo entro la quale quasi tutti navigavamo, per tradizione familiare, per condizionamenti ambientali. Ma nella decisione di iscrivermi alla Cattolica ebbe certamente peso il convincimento che forse sarebbe stato bene frequentare una roccaforte della cultura cattolica, per compiere una verifica “sul campo”. Ma non senza una non trascurabile inclinazione a dare la preferenza ad una realtà, che pensavo diversa, estranea, contrapposta alla “istituzione statale”, sospettata di essere tutt’uno con un regime e un’ideologia, per il quale sospetto e diffidenza, quasi rifiuto, si erano ormai fortemente radicati. Su questo punto dovevo presto ricredermi. Il regime si infiltrava abbondantemente dappertutto. Anche lì era obbligatorio presentarsi agli esami in camicia nera, anche lì c’erano i corsi e gli esami di “cultura militare”, anche lì non mancavano offerte rituali alla retorica nazionalista e fascista. Mi si affacciava sempre più la sensazione che il termine “cattolico” era di una quasi sgomentante genericità, una specie di calderone dove ci poteva star dentro di tutto. Si poteva essere cattolici e fascisti, cattolici e antifascisti. Che era come dire che il cattolicesimo non dava alcun “fondamento”, indicava soltanto una gigantesca organizzazione, non priva di pregi, ma che quanto a criterio di “verità” non poteva offrire molto, se non apparentemente. E mi si affacciava, sia pure ancora in termini assai imprecisi, la convinzione che è più facile sbandierare “certezze” che perseguire “verità”, insieme Pagine autobiografiche: L’Università RENZO BALDO ad un’altra, che si poteva essere cattolici e poco o niente cristiani. Discutevo di questi argomenti, con giovanile caotica inesperienza, soprattutto con un compagno di liceo, Edoardo Malagoli. Iscritto anche lui alla Facoltà di lettere della Cattolica, al secondo anno chiese il trasferimento alla Statale, sdegnato - è la parola giusta! - per l’insegnamento del titolare della cattedra di “dottrina cattolica”, (che, per la verità, proprio l’anno dopo fu sostituito da persona di abbastanza diversa calibratura). Era stato Edoardo Malagoli a suggerirmi la lettura di B. Croce. Ero imbevuto di letture desanctisiane, ma fino ad allora Croce nessuno me l’aveva mai nemmeno nominato. Da Croce il passo era breve per ampliare l’orizzonte delle letture che facevano capo a Luigi Russo, Alfredo Omodeo, Guido De Ruggero, oltreché a Gentile, che mi intrigava molto. Di Omodeo mi colpirono i saggi sul cristianesimo delle origini e su Loisy. Ebbi l’impressione che la cultura cattolica si arroccasse su posizioni arretrate, di difesa piuttosto che di ricerca. E soprattutto trovavo incomprensibile che così spesso si citassero Loisy, Renan, Buonaiuti, e via dicendo, magari su, su, fino a Voltaire e agli Enciclopedisti, quasi fossero dei malfattori (Forma mentis, che, poi, produsse, qualche anno dopo - io avevo già terminato l’Università - perfino il cosiddetto giuramento antimodernista). Ebbi alcune conversazioni con un giovane sacerdote, che nella Cattolica ricopriva l’incarico di “assistente spirituale”, Pignedoli, (“don” allora, poi, anni dopo, destinato a ricoprire ruoli importanti). Cordiale, affabile, colto, consentiva una conversazione aperta e vivace. Mi rispose con un sorriso quando gli dichiarai come intollerabile che in una Università vigesse il “Libri proibiti” e che si dovesse far domanda al vescovo per ottenerne la lettura. E rimase un po’ sorpreso, e titubante, quando gli dissi che i migliori docenti - avevo frequentato con profitto e con stima Apollonio (lett. It.), Fiocco (arte), Lazzati (lett. crist. antica), Franceschini (Lett. crist. med.), Grunanger e Vitale Accolti per la lett. tedesca - Pagine autobiografiche: L’Università RENZO BALDO erano, appunto, assai stimabili non perché cattolici, ma perché seri e competenti nel loro lavoro e facevano, quindi, secondo me, “cultura” e non “cultura cattolica”. Giocava, su questa mia “puntigliosità”, l’impressione che mi aveva fatto la deplorazione di Giovanni Gentile, quando i circoli di cultura promossi dal PNF erano stati denominati “di cultura fascista”, anziché, semplicemente, “di cultura” (e fu, anche quella, un’occasione per domandarmi come mai Gentile aderisse con tanta convinzione al fascismo). Vista oggi, la questione potrebbe sembrare sterile e perfino di lana caprina. Ma allora serviva per dare qualche fondamento al mio dissenso o al mio "distacco”. Può darsi sia vero quel che alcuni sostengono, e cioè che sempre i giovani che si muovono intorno ai vent’anni soffrano di disagio intellettuale e psicologico, un disagio spesso represso, che non trova facilmente vie di comunicazione. Certo io allora lo avvertivo, in molti, amici e condiscepoli. Uno dei modi per uscirne era probabilmente quello di pensare il mondo dei libri come luogo di salvezza. Leggevamo quasi come dei denutriti per fame e per sete. E cercavamo affannosamente “fonti”. Lessi, ricevendone forti suggestioni “La vita come ricerca” di Ugo Spirito. Se non fa troppo sorridere l’idea di appiccicarci delle etichette, ero un “crociano”, ma forse, soprattutto (sperando che il sorriso non si accentui troppo), un “problematicista”. Definizioni schematiche, ovviamente, ma che sicuramente indicavano esigenza di chiarezza razionale; se vogliamo, possiamo dire “laica”. Comunque sia, ero avviato su vie diverse da quelle proposte dall’Ateneo cattolico. Pagine autobiografiche: L’Università RENZO BALDO La laurea con Mario Apollonio Mi sono laureato con Mario Apollonio. Godeva fama di studioso serio, di vasti interessi, ma di scrittura difficile e perfino oscura. Effettivamente le sue pagine non mi erano sempre di facile impatto. Ma mi attirava di lui l’ampiezza di orizzonte culturale, potremmo dire “europeo”, che dava sicuramente il segno non solo di grande impegno di studio, ma pure di rifiuto di schematismi e di chiusura in orticelli di poco respiro. Mi colpiva, anche, una sua esplicita “laicità”, che si manifestava come compatto rigore di discorso critico, senza “sbavature” o “concessioni” di alcun tipo. E avevo anche apprezzato il suo modo di condurre le prove di esame: severità, ma forte propensione dialogica, intesa ad accertare la preparazione “personale” dello studente più che la sua diligente appropriazione della materia proposta nei “corsi”. E mi confermò la sua apertura in sede di discussione della tesi, quando mi furono mosse obiezioni e riserve su alcune prospettive concettuali, che, indubbiamente, coinvolgevano convinzioni non strettamente riconducibili ad impianti culturali di sicura ortodossia, e sulle quali mi difese, chiarendone il senso e la ”verità”. (Un esempio: destò sospetto e perfino quasi scalpore l’affermazione che noi non abbiamo conoscenza, sic et simpliciter, del passato, che ci giunge, invece, tramite filtri interpretativi, una complessa “storia” di interpretazioni). Pagine autobiografiche: La laurea con Mario Apollonio RENZO BALDO Al corso allievi ufficiali1 6-VIII-1942. Dal distretto alla stazione, zaino in spalla, sfilando ancora in panni borghesi, ma ormai come militarsoldati.2 Ci precede un sergente, che non sembra molto militarizzato; neanche si preoccupa di voltarsi per verificare se andiamo al passo. Siamo diretti a Como, altri per Pietra Ligure. Tra quelli per Como ci sono, oltre a me, Mario Lussignoli e Mario Conter. Treno per Bergamo. Lecco, Como (ai militari è proibito prendere i treni veloci della linee principali come la BresciaMilano). Dormiamo in un alberghetto a Como. 7 - VIII. Ci presentiamo in caserma. Il “piantone” che ci accoglie all’ingresso ci informa subito: “Vedrete che culo che vi faranno!”. Lo so già, da altri che ci son passati, in questi pre-corsi per aspiranti allievi ufficiali (aspiranti obbligati). Nei cortili marciano in su e in giù quelli che stanno per diventare i nostri commilitoni, arrivati nei giorni precedenti, già in divisa, già sottoposti alle rinvigorenti marziali oziosità della caserma. Per fortuna ci mettono tutti e tre insieme, nel 2° plotone della 2a Compagnia. E siccome pare che ci siano dei problemi organizzativi nei magazzini, per oggi rimaniamo in borghese. Gironzoliamo per i cortili, leggiucchiamo qualcosa. Assaporiamo l’ozio, che da domani sarà un ozio faticoso: tre ore di marcia in su e in giù la mattina, due ore e mezza il pomeriggio. Chissà che muscoli ci faremo. Appunti stesi su fogli di quaderno tra l’Agosto e il Dicembre 1942. Negli anni ’50, riletti, hanno avuto qualche correzione formale, ma senza alcun cambiamento dei contenuti. Con qualche inserimento atto a chiarire meglio qualche passaggio. Gli inserimenti sono riprodotti in corsivo. 2 “Militar-soldato”: espressione gergale, tra l’ironico e l’affettuoso, allora largamente in uso. 1 Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO 8-VIII. Ancora niente divisa. Con nostra soddisfazione: un giorno in meno da marciatori. Rimaniamo così in questa specie di limbo: là fuori il “paradiso perduto” (meno male che ho letto Milton, e posso fare delle belle citazioni); qua dentro la nostra esperienza degli inferi (che esagerato! Ma non siamo qui per servire la patria?). Comunque un po’ di imprecisione organizzativa dei magazzini ci permette questa giornata di limbo in vesti borghesi, seduti ai margini dei cortili. Per fortuna abbiamo con noi qualche libro, quelli delle edizioni economiche Sonzogno, che si infilano facilmente nelle tasche. 9-VIII. Sono arrivate le divise. Nell’indossarla provo una desolata sensazione di “sparizione” della identità. Sensazione evidentemente condivisa dai miei compagni di limbo, tant’è che Lussignoli propone di nascondere la divisa tra le lenzuola della branda e di rimanere in borghese ancora una giornata, mescolandoci con i nuovi arrivati (ne arrivano ogni giorno). La proposta ci entusiasma. Detto e fatto. E non ci accontentiamo. Nel gironzolare dei giorni precedenti avevamo notato che una porta carraia era incustodita. L’abbiamo facilmente superata scavalcando un muretto laterale e siamo andati a sdraiarci su di un prato. Operazione riuscita sia al mattino che al pomeriggio. 10-VIII. Stessa manovra del giorno precedente. Stranamente non c’è mai nessun controllo, nessun appello, tranne la sera dopo la ritirata. Comunque sembra proprio che non abbiamo molta inclinazione alla vita militare. (Deplorevolmente?) Conversiamo tra noi su questa “deplorevolezza”. Siamo dell’opinione che l’invenzione della leva generale obbligatoria - ai tempi della Rivoluzione Francese e di Napoleone - poteva certamente allora avere avuto un senso (il popolo in armi, aux armes o citoyens, formez votres batallions, a difendere la libertà, a servire la patria, tutti, secondo la celebre frase di Napoleone, con nello zaino il Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO possibile bastone di Maresciallo; con la fine dell’arruolamento mercenario, con la fine del privilegio aristocratico di comandare i reggimenti costituiti da plebei affamati in cerca di una paga). Ma oggi? Siamo qui a difendere la libertà? E ci dicevamo anche che l’idea del cittadino in armi per la patria aveva forse avuto ancora un senso nella prima guerra mondiale. Poi, c’era da dubitarne. Conclusione: non sarebbe meglio che si arruolasse e facesse il militar soldato chi ritiene di avere delle ragioni personali e/o delle adeguate capacità per sostenere la vita militare, con il suo peso e magari, perché no?, con le sue soddisfazioni e le sue glorie? Eravamo dell’opinione di quel saggio reazionario di Balzac, che nel suo romanzo Il medico di campagna elogia la società feudale, dove gli uomini robusti fanno il soldato, i deboli il prete o il maestro, gli aspiranti al sapere il medico, lo scrivano o il notaio, etc. Certo non pensavamo di riproporre la società feudale, ma una società un po’ più liberale, questo sì, che lasciasse un po’ più di libera scelta. 11-VIII. Abbiamo dovuto (ovviamente!) accettare l’inevitabile. Abbiamo indossato la divisa e abbiamo iniziato a marciare. 14-VIII. A proposito di divisa: la cosa più insopportabile sono le cosiddette fasce, glorioso retaggio dell’esercito dell’800, che, credo, nessun altro esercito al mondo ha il piacere di avere ancora in adozione. 19-VIII. Marcia di trasferimento da Como a Canzo, dove c’è la caserma nella quale soggiorneremo. (Più di 20 Km, con gli scarponi nuovi e quindi non ancora adattati ai piedi; arriviamo con le inevitabili piaghe). 20-VIII. L’ufficiale che comanda il mio plotone “consegna” tutti quelli (fra essi ci sono anch’io) che si sono permessi pensavamo: ragionevolmente - di presentarsi all’appello del Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO mattino con le scarpe di servizio (di tela, e quindi tali da farci meglio sopportare le piaghe). Ho capito che la ragionevolezza, anzi, il buon senso, qui non sono di casa. Cosa vuoi che siano un po’ di piaghe ai piedi rispetto alla bellezza dello schieramento di scarpe tutte eguali per tutti! 22-VIII. Mi sono proposto di tenere un diario giornaliero o quasi, anche se credo che non avrò molto da scrivere. Tutto certamente sarà monotonamente ripetitivo. Ma se non altro mi manterrò in esercizio carbonaro. Mi ero reso conto che un diario, se casca sotto gli occhi di qualcuno, poteva anche dare dei guai. In seconda Ginnasio avevo in adozione Le mie prigioni di Silvio Pellico, in una edizione largamente commentata. Ero un lettore accanito, e mi interessavano soprattutto le Note, che erano ricche di riferimenti storici. Una lunga Nota informava sull’alfabeto inventato come cifrario segreto dai Carbonari, anche con esempi curiosi di come erano riusciti a comunicare fra loro senza destare sospetti. Mi sono divertito spesso a scrivere con questo alfabeto, che credo soltanto pochi competenti di storia del Risorgimento conoscano. E mi è venuto utile per questi appunti. 22-VIII. Tutte e tre le compagnie schierate in un grande campo sportivo, per il discorso del tenente colonnello comandante della scuola, là al centro, troneggiante sul suo cavallo. Il succo del discorso è stato questo: voi non crediate di essere qualcuno o qualcosa: voi siete qui solo per servire la patria, e la patria la si serve diventando dei duri, delle rocce. Voi siete degli studenti, e magari qualcuno è anche laureato. Ma le lauree qui non servono a niente. Voi siete degli effeminati, noi vi faremo diventare dei veri uomini. Voi sapevate solo leggere libri, e adesso avrete in mano delle armi. E lo dico soprattutto per quelli che studiano filosofia, che è la cosa più ridicola che ci sia, che non serve a niente, e verrà un giorno che sarà abolita. Perché l’Italia ha bisogno di veri Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO uomini, che sappiano marciare e obbedire, forti e robusti, non di filosofi, che pensano e non concludono niente. 29-VIII. La caserma nella quale soggiorniamo ha le caratteristiche non so se di una prigione o di un campo di concentramento. Le camerate sono stretti locali ciechi, senza finestre, uno affiancato e aperto all’altro senza alcun corridoio di passaggio. Vi si assiepano letti a castello a tre piani, con posti letto affiancati a due a due. Ogni castello ha dodici posti letto. Fra un castello e l’altro uno spazio di non più di un metro. Tra un piano e l’altro ci si difende dalle polveri che possono scendere dai piani superiori stendendo dei giornali lungo tutto l’assito che fa da soffitto. Al terzo piano non hanno questo inconveniente, ma in compenso devono avere buone doti di equilibrista. Io per fortuna sono al piano terra. Non c’è uno stipetto, un armadietto, un buco qualsiasi, dove appoggiare, che so io, gli occhiali, un fazzoletto. Tutti gli effetti personali stanno nello zaino, che di giorno troneggia al centro del giaciglio (detto anche letto: materasso su un assito), e di notte a cavallo fra i due giacigli affiancati. Nel cortile, antistante all’unico ingresso che dà sulle camerate, rubinetti su contenitori di latta, che ne accolgono il getto, danno l’acqua per i servizi del mattino, per lavare e stendere qualche indumento. Quando piove o tira vento, è facile immaginare che comodità. I gabinetti sono a circa duecento metri, ma sono aperti soltanto la sera tardi e la notte. Di giorno a circa altri duecento metri, in un prato, ci sono, all’aperto, delle fosse con assiti per i cosiddetti bisogni corporali. 31-VIII. Su un assito delle fosse stercorarie figura la scritta W il Duce. Non ho capito se per dileggio o perché ci ricordiamo che dobbiamo sempre pensarlo in ogni occasione, come in quei collegi dove nei cessi c’è la scritta “Dio ti vede”. 6-IX. Si è diffusa la notizia che il tenente colonnello comandante della scuola è stato sostituito. Si dice che sia Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO sotto inchiesta per irregolarità contabili nelle forniture. La notizia è stata raccolta presso gli ambienti bene di Canzo, località di villeggiatura per la buona borghesia comasca e milanese. In questi frangenti bellici, ovviamente, anche luogo di “sfollamento” dalle città (abbastanza numerosi i nostri commilitoni milanesi, che conoscono persone e frequentano quegli ambienti). 9-IX. La sera, nel cortile, vicino ai rubinetti dell’acqua, rientrando dalla libera uscita e prima della ritirata (h 21; al mattino sveglia alle cinque, e quando c’è la marcia alle quattro e mezza), alcuni si sfogano a cantare Sul ponte di Bassano bandiera nera, l’è il lutto dei soldà che va alla guerra… Hanno incominciato in tre o quattro, e il gruppo si è allargato. È un modo per sfogarsi. Sappiamo che nella prima guerra mondiale questo canto era severamente proibito. Pensiamo che sia rimasto proibito. E per questo lo cantiamo ancor più di gusto, anche se, per la verità, in quest’ora di pre-ritirata, in caserma, di “superiori”, tranne che all’ingresso l’ufficiale di giornata, non c’è nessuno che sia interessato ad ascoltare. 14-IX. Il cambio di comandante non ha cambiato niente. Tutto continua in modo eguale. Come una grande macchina tritura uomini. Il nuovo comandante è un tipo asciutto, che ho apprezzato, perché non ha fatto radunate generali, non ha fatto alcun discorso. Probabilmente capisce benissimo che siamo tutti parte di un ingranaggio che è ridicolo coprire di belle parole. 18-IX. Non mi aspettavo di molto meglio. Però il livello di “trituramento” ha aspetti che a me sembrano paradossali. Forse perché sono nutrito di letture (probabilmente aveva ragione l’ex-comandante, che i libri sono o inutili o dannosi), che, più o meno larvatamente, mi avevano dato qualche convinzione evidentemente sbagliata o giù di moda, superata dai tempi. Convinzioni che mi facevano pensare al servizio militare come a un luogo, nel quale, pur nella sua durezza, ci Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO si sente chiamati a qualcosa per cui questa durezza merita di essere sopportata. Pensavo a certe pagine delle Memorie di Massimo D’Azeglio, a certe pagine di Luigi Russo scritte negli anni della prima guerra mondiale. Qui sembra che lo scopo da raggiungere sia solo quello di annullarti la volontà, di sottrarti a ogni possibilità di riflessione, a farti sentire un niente, anzi una merda, come ripetutamente ci informa, urlando, il sergente maggiore che ci ha in cura. Evidentemente l’idea è che il soldato sia una macchina da usare, da rendere pronta per l’uso; e si ritiene che sia pronta per l’uso solo quando sia deprivato di ogni autonomia, sia ridotto a macchina funzionante. 22-IX. A proposito di quel che ho detto qui sopra. Che senso ha sottoporre tutti a esercizi fisici stressanti, dico tutti, cioè anche quelli che fisicamente non ce la fanno? Per esempio far salire su alto muretto anche quelli che patiscono le vertigini, metterli in ridicolo, fargli rischiare di rompersi le ossa? O far fare il salto, dall’alto di quattro metri, a chi palesemente non è in grado di farlo? Un poveretto della prima Compagnia, con cui casualmente qualche volta avevo avuto l’occasione di conversare durante la libera uscita, e che mi aveva parlato della sua passione per la musica, l’hanno ripetutamente costretto a issarsi là sopra sul parallelepipedo di marmo e a finalmente buttarsi giù, cadendo e rotolando rovinosamente. Racconto questo episodio, perché ha anche del patetico: dalla tasca della giacca gli è volata fuori la partitura tascabile di un quartetto di Dvorak. Qualcuno l’ha spostata con un calcio; io l’ho raccolta, e il giorno dopo gliel’ho portata in infermeria. Ha sorriso senza dire una parola. 2-X. Devo confessare - ma me l’hanno confessato anche altri - che ci sono dei momenti di questa vita disumanizzante, nei quali balenano degli attimi di risveglio non so se dirlo psichico o mentale. Sono, credo, dei momenti, nei quali qualcosa, forse qualcosa di infantile e/o di adolescenziale si Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO impone dà qualche calore, sembra consentire che il nostro io, in qualche modo, si realizzi. Me ne sono accorto quando, nel campo di tiro, sono risultato il migliore del mio plotone nella centratura del bersaglio. Mi è venuto in mente che, qualche anno prima, al poligono di tiro di Mompiano a Brescia, dove un mio amico mi aveva condotto per farmi provare a “tirare”, qualcuno aveva detto, guardando al risultato che avevo raggiunto, che gli risultava che i miopi (con gli occhiali, naturalmente!) sono degli ottimi tiratori. E io allora mi ero sentito soddisfatto e contento. Figurarsi adesso, in pieno assetto militare, sotto gli occhi del tenente comandante del plotone, che mi aveva sicuramente in sommo dispregio, perché in palestra non riuscivo ad addomesticarmi su certi attrezzi. Sono fiacco di muscoli delle braccia, e non riesco soprattutto con le parallele. Sicché nel linguaggio delle caserme sono definibile come “una mezza cartuccia”. 9-X. Ho notato che il linguaggio da caserma è eminentemente stercorario; raramente blasfemo. Non se la prende mai con Dio e con i Santi. Soltanto la Madonna fa spesso da intercalare. Ma forse non pensano alla madre di Gesù. Mario Lussignoli propone di ritenerlo una reminiscenza letteraria, giunta fin qui dai poeti del Dolce Stil Nuovo. Elio Paoletti, che ci ha raggiunto anche lui qui a Como Canzo, è invece dell’opinione che l’intercalare che si serve della Madonna derivi dagli stornelli delle canzoni popolari toscoumbre, che son sempre piene di “madonne”. Peccato che tra noi non ci sia nessun esperto di linguistica, che possa approfondire l’argomento. 10-X. Niente blasfemia, ho detto. Però non manca qualche pittoresco accento anticlericale. Portate il fucile come dei chierichetti in processione con il moccolo. Vi muovete come dei seminaristi che camminano per la strada con la loro tonaca. Fate il presentat-arm come dei sagrestani che muovono il turibolo. Fate l’attenti a destr, che sembrate dei Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO seminaristi col torcicollo, che cercano di guardare le ragazze che passano sul marciapiede dall’altro lato della strada. 14-X. A proposito del sergente maggiore. È romano, e il suo italiano è profondamente romanesco. Se ci fosse qui il Gioacchino Belli, chissà che bel ritratto ne farebbe. È di carriera, e perciò molto probabilmente anche lui, come l’excomandante, pensa a noi come a degli oziosi parassiti. Ma in fondo deve essere un quasi buon uomo. Dorme in uno stambugio qua in caserma. Corre voce che sia stato abbandonato dalla moglie. E che per questo, la sera, quando non è di servizio, torna in caserma ubriaco. Qualche volta anche cacciando urla a qualche malcapitato piantone, accusato di non averlo salutato adeguatamente. 15-X. Quanto a buoni uomini, guardandoli bene, non dico tutti, ma quasi tutti questi urlanti cerberi, che ci strapazzano, ci impongono assurde prescrizioni disciplinari, forse anche quasi convinti che ci fanno diventare veri uomini (ma chissà se ne sono davvero convinti? gli ingranaggi di una macchina non pensano niente, pensano soltanto a funzionare come ingranaggi), sono dei piccolo-borghesi costretti a fare i gladiatori. E l’urlo, che è di prammatica, è un po’ il simbolo della acquisita nuova identità. Come il comandante del primo plotone, che abbiamo saputo essere un bravo maestro di scuola elementare, qui costretto a dimostrare di aver le doti di aspirante Napoleone. 18-X. A proposito di salutare adeguatamente. Fin dai primi giorni, incessanti gli esercizi di saluto, per provarne l’esatta corrispondenza ai dettami del regolamento. Ma anche alle interpretazioni, che ne vengono date. Per esempio: qui qualcuno ha ritenuto importante, quando si abbassa la mano destra dopo il saluto all’altezza della visiera, dare un colpo secco e forte sul fianco della gamba. Evidentemente perché la cosa risulti più marziale. Ma il guaio, comico, è che alcuni volonterosi nei due caffè centrali di Canzo, frequentati dalla Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO buona borghesia, dalla signore villeggianti, hanno solertemente fatto risuonare i marziali colpi secchi ad ogni entrata o uscita di “superiori” destando l’ilarità generale. Una scena da commedia. Risultato: da oggi ai corsisti è tassativamente vietato frequentare quei due caffè. 19-X. Esempi di prescrizioni disciplinari: tre minuti di corsa a ranghi serrati col fucile a bilanc-arm, perché entrando dal portone d’ingresso il plotone ha perso l’allineamento; per quindici minuti ritti in piedi, ben allineati, perché il plotone, chiamato ad adunarsi, si era presentato in file non bene ordinate. Punizioni individuali (le cosiddette ”consegne”): una scarpa non ben pulita; manca un bottone alla giacca; la barba non è ben rasata. 22-X. La cosa veramente strana, anzi allucinante, in questa situazione, è che qui ci preparano per essere gettati in quella spaventosa caldaia che è la guerra che sconvolge l’Europa. Per la verità nessuno ne parla. Ho notato che in caserma quasi non si vedono giornali. Quando si esce per la libera uscita quasi nessuno si preoccupa di comprare un giornale. Sembra quasi che il vortice nel quale siamo dentro, nel quale ci butteranno dentro con i nostri muscoli irrobustiti, quasi non esista. Qui non cadono bombe, qui c’è la gente in villeggiatura, qui forse è quasi un angolo protetto, paradisiaco. Mi accorgo che qui si ottiene anche il risultato di diventare fatalisti. Chissà cosa accadrà. Chissà come andrà a finire. Chissà come finiremo. E intanto tiriamo avanti. 26-X. Dalla fine del mese scorso riesco a scrivere con calma questi appunti, perché abbiamo affittato, per le ore di libera uscita, un retrobottega di un fruttivendolo, che ce l‘ha concesso per pochi soldi. Una stanza di pochi metri quadrati, ma con qualche sedia e un lungo tavolo. Lo frequentiamo in quattro; i soliti tre, più Elio Paoletti. Leggiucchiamo, scribacchiamo, mangiucchiamo qualcosa, specie la frutta che ci dà a poco prezzo il negozio antistante. Ci sembra di essere nella hall di un grande albergo. Ci sono anche degli armadietti Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO pensili, con qualche cassetto. Mi fanno molto comodo, perché ci lascio anche questi appunti, mescolati a fogli di giornale. 31-X. Talora non posso frequentare il retrobottega, perché mi capita, abbastanza spesso, di essere “consegnato”. E non mi pare di comportarmi da indisciplinato. Ma qualche volta sono volutamente “trascurato” e cerco di far capire che preferisco essere “consegnato” piuttosto che accettare supinamente. Come quella volta che ho detto ad alta voce che è inutile farci alzare alle cinque per poi farci aspettare in piedi una mezzora che si faccia chiaro. Anche questo fa parte della disciplina. E del trituramento. 6-XI. A proposito di disciplina. Alcuni hanno chiesto di essere esentati dalla Messa domenicale (alla quale si presenzia in piedi a ranghi serrati, ma in posizione di riposo, cioè a gambe leggermente divaricate, e ritti sull’attenti quando alla elevazione si alza uno squillo di tromba) dichiarando di non essere credenti. Con la ovvia osservazione che uno potrebbe essere anche di un’altra religione. Risposta: la messa è un “servizio”. Tutti vi devono presenziare. La messa come “servizio militare”. Che sia anche questo un risultato del Concordato? In una breve conversazione con chi gli faceva queste obiezioni, il cappellano sorridendo ha detto di star tranquilli, perché, con la Messa, Dio aiuta tutti, anche i non credenti. 10-XI. Mio fratello mi ha scritto una cartolina con il ritratto del duce, e con delle frasi a lui inneggianti, tolte dal frasario consueto, con una pletoricità osannante, che c’è da meravigliarsi che alla censura sia sfuggito il tono ironico e beffardo che ne trasudava (ma forse alla censura leggono le lettere e non le cartoline; oppure l’immagine trionfante che la illustrava ha distolto dalla lettura delle frasi che riempivano il testo. Oppure alla censura c’è qualcuno che è convinto che gli elogi più sperticati per il duce siano più che naturali. Oppure alla censura se ne fregano. Quale sarà la supposizione giusta? Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO Conter l’ha inchiodata su un suffisso ligneo, ci ha sputato sopra, e ha chiesto che il rito si ripeta ogni sera quando usciamo. 12-XI. Cercavo fin dai primi tempi di questo soggiorno canzese un pianoforte dove nelle ore di libera uscita e la domenica pomeriggio ci si potesse concedere qualche momento musicale. L’abbiamo trovato, su indicazione del nostro fruttivendolo, persuadendo il custode della scuola elementare, e dell’asilo comunale, ad ospitarci nella stanza dove c’è un pianoforte. Dalla metà del mese scorso l’abbiamo spesso sfruttato. Ma Conter dopo alcuni giorni l’ha lasciato tutto a me, perché ha trovato un pianoforte in un albergo, dove è ospite, niente meno, la moglie del capitano comandante la nostra Compagnia. Può così fare delle vere e proprie audizioni per l’inclito pubblico dell’albergo. Per lui una vera soddisfazione, ma anch’io devo riconoscere che quelle poche mezz’ore al pianoforte mi ristorano; mi fanno risvegliare quel qualcosa di “mentale”, di cui ho detto prima a proposito del tiro al bersaglio (e forse è meglio il pianoforte). 15-XI. A proposito delle “soddisfazioni”, che, come ho osservato per il tiro al bersaglio, si possono avere in questa vita non proprio soddisfacente: tra gli esercizi che dobbiamo praticare per essere sempre più agili e forti, c’è il cosiddetto “salto mortale”. Non avrei mai immaginato di poterci riuscire. Forse perché non mi ero mai proposto una carriera presso un circo equestre. Invece ci son riuscito benissimo, fin dal primo colpo. Mi sento ridicolo, ripensandoci, ma ne sono rimasto molto soddisfatto. E ci son riuscito anche con il moschetto a tracolla. Mai straordinario come Mario Lussignoli, che ci riesce perfino con sulle spalle il mortaio Brixia. Quasi nessuno riesce a eguagliarlo. Se entreremo in circo equestre lui farà più carriera di me. Sì, siamo contenti e soddisfatti. Siamo pronti per affrontare il nostro futuro, magari in un circo. Ma ci si può accontentare. Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO Anche perché qui non siamo in un circo, ma in un luogo dove ci si irrobustisce per il bene della patria. 18-XI. Sempre a proposito di soddisfazioni: batto tutti nella rapidità con cui smonto e rimonto il mitragliatore. Mi batte soltanto uno del primo plotone, che ci mette dai sei agli otto secondi meno di me. Un prodigio. Mi sento come Giulio Cesare, quando diceva che preferiva essere primo in un villaggio che secondo a Roma. In realtà: qualche volta penso che se dovessi essere in battaglia alle prese con il mitragliatore, non so come la metterei. Mi sembra che qui facciamo esercizi da giocolieri. Per carità! Me ne guardo bene dal pensarmi come un teorico dell’arte militare, un esperto di tattiche e di combattimento. Ne aborro, e spererei di non trovarmici mai (perché dovrei dire il contrario?). Ma, pur pensando che posso facilmente sbagliarmi, che, anzi, non ci capisco niente, mi pare, da quello che si sente raccontare, che quelli che hanno avuto l’onore o la sventura di trovarsi sui più vari fronti, non si siano trovati a giocare con il mitragliatore. 18-XI. Quando, qualche settimana fa, siamo stati insigniti del grado di caporale, per i meriti e le competenze acquisite nella prima tranche di questo corso, ho ricordato, naturalmente, che è, credo, incominciata con Napoleone la tradizione di nominare ”Caporale”, “caporale d’onore”, chi si rivelava grande stratega. Nella mia viziosità di quasi letterato e di lettore di istorie, ho anche pensato che il primo grande “Caporale” è stato un letterato, Senofonte, improvvisamente passato da scrivano estensore di cronache a guida dei suoi Greci nella loro mitica Catabasi verso il Ponto Eusino. Come ci trovo gusto a pensare e a scrivere queste cose da smidollato letterato! Forse in barba al nostro ex comandante, che ce l’aveva coi letterati e coi filosofi. Ma forse, soprattutto, perché vorrei fermarmi a caporale. Chiudermi in uno studiolo e fare magari il cronista. E fermarmi lì, senza protagonismi. Forse anche perché di protagonisti c’è pieno il mondo, e spesso non Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO hanno dato, e ancora sembra che non diano, qualche tocco benefico al mondo. Non so come il mondo verrà fuori da questo Sabba in cui sta ferocemente danzando. E in cui masse intere sono costrette a danzare, a suon di bombe e di frustate d’ogni sorta. Ma se ne verrà fuori, forse bisognerà smetterla di far fare carriere e di mettere in scena protagonisti. Non si combina niente di buono aspirando a carriere. Forse la storia umana andrebbe meglio se non ci fossero protagonisti Qui invece bisogna far carriera per forza. E fra neanche un mese sarò sergente. 25-XI. È venuto a tenere un discorso a tutte e tre le Compagnie riunite per l’occasione un mutilato della guerra 15-18, di cui più volte avevo sentito parlare e di cui avevo anche avuto l’occasione di leggere qualche scritto. Discorso animato da un fervore retorico credo sincero; ma retorico, appunto; pieno di un misticismo da togliergli ogni efficacia persuasiva. Dico “discorso”, ma in realtà non era un “discorso”, bensì una proclamazione di “sacri” principi: servire la patria senza porsi domande, essere coraggiosi, pronti al sacrificio, perché è nel sacrificio che l’uomo si realizza. Non una sola parola in grado di “motivare” il perché. Niente domande, appunto. Ai soldati della prima guerra mondiale, quanto meno, spiegavano che bisognava sacrificarsi per liberare Trento e Trieste. Qui niente: fede; credere, obbedire, combattere. Forse mi illudo, ma il silenzio con cui è stato accolto non era soltanto dettato dalla disciplinata silenziosità che è richiesta al militarsoldato. 28 XI. Se i cultori della teoria del “sacrificio” leggessero il romanzo di Igino Tarchetti,3 che abbiamo letto in queste settimane, cambierebbero testa? Siamo dell’opinione, noi che l’abbiamo letto, e con profitto, che però è ingenuo pensare che Riferimento a Una nobile follia (Drammi della vita militare.di Igino Ugo Tarchetti, protagonista della Scapigliatura milanese. 3 Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO basti un libro per cambiare la testa. Che cosa poi effettivamente occorra, è un problema grosso. E nelle circostanze nelle quali navighiamo sembra che lo si debba per forza rimandare a “dopo”, il problema. Però mi accorgo che il nostro pensiero corre sempre al “dopo”. Che ne sarà di noi, di tutti noi, di tutti quelli che hanno avuto la sfortuna di nascere in questo tempo sciagurato? Se saremo ancora al mondo; e il mondo esca fuori un po’ più decente da questo viluppo insensato di uomini, che frequentano corsi militari per andare a sparare su altri uomini, anche loro usciti fuori da corsi militari dove gli hanno insegnato a sparare. Forse per renderlo più decente, questo mondo, si dovrà cambiare le teste. Come? Anche leggendo Igino Tarchetti. E qualcos’altro ancora. Che aiuti quelli che ancora ci saranno, nel “dopo”, a liberarsi dal credere senza pensare. 30-XI. Mi piacerebbe scrivere un racconto o, meglio, una commedia dal titolo “La civiltà del muscolo”. Primo capitolo (o scena): gli dei degli Inferi capeggiati da Arimane, che, notoriamente, è un dio malvagio (vedi L’inno ad Arimane di Leopardi), decidono di incrementare e diffondere la “civiltà del muscolo” affidando incarichi a personaggi all’uopo sicuramente adatti. Seconda scena: Sisifo organizza l’esibizione dei gerarchi che fanno il salto nel cerchio. Terza scena: Procuste organizza le aie dove il duce possa esibirsi come trebbiatore. Quarta scena: Alichino, Barbariccia, Draghignazzo, etc. (insomma i diavoli di cui ci informa Dante) dirigono a turni quindicinali la Scuola di Canzo. Quinta scena: Belzebù organizza attività muscolari per ricondurre i filosofi sulla retta via (del non pensare). Sesta scena: Mefistofele scrive un libro per dimostrare l’inutilità dei libri. Scena finale: torme di nero-rossigni diavoletti controllano e misurano le capacità muscolari di tutti coloro che chiedono di far parte della élite muscolodotata. Chi non si presenta al controllo o non rivela misure adeguate sarà registrato nelle Corporazioni dei philosophi, dei clerici e dei magistri. Che non avranno Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO diritto né alla gloria, né alla distribuzione di viveri da conforto. 1-XII. Da Darwin, con interpretazione molto discutibile, è nato il “darwinismo sociale”. Una cosa brutta. Ma forse anche l’organizzazione della vita militare risponde a leggi darwiniane: se non proprio l’eliminazione fisica dei deboli, dei “non adatti”, almeno la loro emarginazione, la loro ridicolizzazione. 2-XII. Die Reihen gut geschlossen: questo verso cantato dai Kameraden tedeschi ci appare terribilmente simbolico. E chissà se anche fra di loro c’è qualcuno che se ne accorge e preferirebbe non essere in “file ben serrate”. Noi, comunque, ogni tanto in un misto di ironia, di rassegnazione e di protesta lo cantiamo, aggiungendo: leider. 4 4 Leider, in tedesco, significa “purtroppo”. Pagine autobiografiche: Al corso Allievi ufficiali RENZO BALDO Sul Maroccaro con don Antonioli5 Pontedilegno. Estate 1944. Tempo di Resistenza. Don Giovanni mi dà appuntamento per il tardo pomeriggio del (se mal non ricordo) 9 Luglio. Dobbiamo portare dei rifornimenti per un piccolo gruppo di partigiani attestati sull’alta Val di Genova. Zaini in spalla, pesanti. Credo che oltre a viveri contenessero anche qualche arma o, più probabilmente, proiettili. A Pontedilegno risiedevano distaccamenti amministrativi della Repubblica di Salò, di non ricordo quali ministeri, con annesse squadre di Gnr e altri militari repubblichini. Aspettiamo l’imbrunire, infiliamo sentieri il più possibile fuori mano e arriviamo al Tonale, dove pernottare. So che dobbiamo percorrere la vedretta tra il Passo Paradiso e il Maroccaro. Don Giovanni non ha con sé la corda. Penso che la troveremo nella malga dove dobbiamo passare la notte. Non c’è nessuna corda. Come mai? domando. Bastano le piccozze, mi dice. Ma sei sicuro? gli chiedo (non avevo molta esperienza dei luoghi, ricordavo che la vedretta in questione non offre grandi difficoltà, ma, pensavo: non si sa mai.) Mi rassicura: è una vedretta da ridere. La mattina dopo, effettivamente, la percorriamo senza difficoltà. Nessuna ombra di crepacci, salvo, ovviamente, il crepaccio terminale, che sorpassiamo facilmente. Scendiamo al Mandrone. Scarichiamo gli zaini. Scendiamo verso il Bedole. In incontri vari trascorre la giornata. Pernottiamo al Mandrone. Al mattino risaliamo verso il passo Maroccaro. L’articolo mi è stato cortesemente richiesto da mons. Franceschetti, allora rettore del Seminario diocesano, e pubblicato nel libro dedicato a Don Giovanni Antonioli, a cura di Franco Frassine, per la editrice Morcelliana (2002). 5 Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli RENZO BALDO Impressionante! Non mi è mai capitato di vedere uno spettacolo simile, una simile trasformazione. Nella notte credo a causa dell’afa accresciuta dal cielo basso e coperto nel ghiacciaio si erano aperti crepacci, lividi, fittissimi, che gli conferivano un colore violaceo, intenso soprattutto sui bordi delle spaccature, intervallati da strisce di neve grigiobiancastra. Un momento di stupore interrogativo. Credo, gli dico, che sia impossibile attraversarlo senza corda. Penso, aggiungo, che dovremo aggirare la vedretta stando su in alto e cercare di scendere lungo gli ammassi morenici laterali. Sì, mi dice, ma sai quanto tempo ci mettiamo? È meglio scendere piano piano, tastando il terreno con le piccozze, per scoprire gli eventuali crepacci invisibili, occultati dalla neve friabile, come spesso accade. Sì, gli dico, ma sai che rischio? Se uno scivola o, peggio, gli cede sotto i piedi la neve, l’altro non può farci niente. Ma no, mi dice, ce la facciamo senz’altro. Tento invano di dissuaderlo. Ha sul volto quella sua sorridente e angelica sicurezza, che gli è data dalla sua esperienza di montagna, ma anche dalla tranquilla ingenuità che nel subconsci delle anime religiose si nutre di noncuranza del pericolo, di fiducia nella provvidenza, al limite del fatalismo gioiosamente irresponsabile. Cedo. Scendiamo. Non è una discesa molto divertente. Ricordavo di aver visto in discesa su quella vedretta alpinisti che slittavano via veloci e allegri, e io stesso, meno esperto e meno coraggioso, di averla percorsa spesso correndo. Quella volta proprio no. Crepacci e crepaccetti si aprono a distanza ravvicinata, anzi ravvicinatissima, Molti sono così larghi (forse è la paura, che li allarga), che rinunciamo a saltarli e preferiamo aggirarli procedendo parallelamente fino al loro punto di chiusura. È un andirivieni lento, lungo, faticoso. Di questo passo, gli dico, il tempo sarà quasi quello del giro sulla morena. Scendiamo ancora di qualche metro. Don Giovanni è davanti a me; si gira su un fianco e mi dice: dobbiamo proprio andare sulla Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli RENZO BALDO morena. (Lo sfasciume morenico, a poche decine di metri, è là che ci attende). Ha appena pronunciato queste parole che la neve sprofonda e Don Giovanni precipita: per fortuna si era girato sul fianco, e le braccia, appoggiandosi sui bordi, lo trattengono (Gli esperti sanno che i crepacci nascosti dalla neve sono spesso riconoscibili da una bordatura della neve che si forma sui lati del crepaccio. Posso assicurare che lì, dove Don Giovanni è sprofondato, non c’era proprio nessuna bordatura). Credo di aver reagito, con sgomento, con una, forse due imprecazioni. Naturalmente gli domando subito se riesce a puntare i piedi sulle pareti. No, mi risponde, sento solo il vuoto. (In parole povere, poteva sostenersi soltanto con i gomiti e gli avambracci). Data la pendenza, e trovandomi io dalla parte alta, da dove ero non potevo dargli alcun aiuto. Con la piccozza ho sondato meglio che potevo la neve al di là del crepaccio, per assicurarmi che potesse sostenermi, ho saltato; con l’aiuto della piccozza ben puntata mi son fermato quasi subito, scivolando di pochi centimetri. Ho rapidamente preparato due supporti a gradino nel ghiaccio per puntarvi gli scarponi, mi sono chinato, quasi sdraiato, afferrandogli il braccio sinistro. Fa di tutto, gli ho detto, per girarti, staccando rapidamente il braccio destro dal bordo del crepaccio e riuscire così ad appoggiarti con entrambi i gomiti dalla mia parte. Ci è riuscito. Purtroppo con i piedi era sempre nel vuoto, non poteva puntarli. Ha dovuto far leva sulle braccia, con me che lo aiutavo il più possibile per sollevarlo, prendendolo sotto le ascelle, e tirarlo fuori. C’è riuscito. Ci siamo guardati in faccia. È andata bene, mi dice. Sì, ma bisogna arrivare alla morena. Non so quanto tempo ci abbiamo messo per percorrere quelle poche decine di metri. Puntavamo le piccozze a ogni passo, prima di muovere il passo successivo. picchiavamo con gli scarponi per assicurarci della tenuta della neve, che non ci facesse altre sorprese. La morena mi è sembrata un paradiso, nonostante la fatica del percorrere ammassi petrosi, spesso obbligati a salire e Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli RENZO BALDO scendere spingendoci e tirandoci u reciprocamente. Ricordo il piacere di quando siamo passati, giù in basso, dalla bocchetta del ghiacciaio, pur sapendo che da quel momento, finita la discesa, si doveva ricominciare a salire Arrivati a Pontedilegno, abbiamo mangiato pane e formaggio. Poi siamo andati a dormire. Nel sonno incubi di sogni con immagini di livide e plumbee cascate e pareti di ghiaccio. (Il giorno dopo Don Giovanni mi confessò che anche lui aveva fatto questi sogni). Qualche anno dopo, in uno dei nostri incontri, purtroppo piuttosto rari, mi dice (sempre con quel suo sorriso che gli affiorava in volto spesso infittendosi di arguzia): “Sai che rischio hai corso; se non riuscivi a tirarmi su da quel crepaccio, ti potevano accusare di omissione di soccorso, di preticidio e di occultamento di cadavere. Ma - aggiunse - cosa assai più grave: avendomi tirato fuori, diciamo pure, salvato e mantenuto in vita, sei diventato responsabile di tutte le mie malefatte degli anni successivi, vita natural durante”. Pagine autobiografiche: Sul Maroccaro con don Antonioli RENZO BALDO Il percorso politico Brevi cenni in risposta alla domanda: Quali “sollecitazioni” hanno influito sulla tua formazione civile e sulle tue convinzioni politiche? Mi è già accaduto, in altra occasione, di richiamare l’attenzione sulle difficoltà, per i giovani che sulla fine degli anni ’30 e nei primissimi anni quaranta si affacciavano alla riflessione politica, di elaborare idee organicamente chiare e precise. Mancava la possibilità di letture adeguate, si captavano confusamente affermazioni, rifiuti, convinzioni, espresse in forme frammentarie, talora anche più umorali che concettualmente sicure. E d’altra parte, non era certo facile liberarsi dal “ricatto”, mediante il quale il Fascismo propagandava se stesso come attuazione del “destino” politico del Paese, come punto terminale del processo storico avviatosi con il Risorgimento. Eppure forse proprio soprattutto su questo punto si aprivano le crepe, attraverso le quali si riusciva a individuare l’inaccettabilità del fascismo: il suo militarismo, la sua prepotenza e rozzezza ideologica, la sua ”volgarità”, che poco sembravano coincidere con la tensione etica del Risorgimento, vuoi nelle sue forme mazziniane che in quelle cavouriane. La lettura della Storia d’Italia dal 1861 al 1914 di Benedetto Croce è stata, su questo punto, decisiva: l’Italia “liberale” era molto meglio. Diventare “liberali” per questa strada, può, oggi, far sorridere. Ma era, di fatto, una strada percorribile. Da dedicarle attenzione. Un’attenzione che si è via via irrobustita tramite la lettura di testi dell’area del liberalismo, recente o meno recente. Possiamo anche dire, non c’è dubbio, che, per questa strada, l’adesione al “liberalismo” aveva un’origine e Pagine autobiografiche: Il percorso politico RENZO BALDO uno sviluppo, che si possono definire “libreschi”, ma, credo, sorretti da un autentico afflato etico. Comunque sia, a contatto con persone, e poi, subito dopo la fine della guerra, anche con più ampie e articolate letture, che si aprivano a problematiche aperte a teorizzazioni di tutt’altra natura (il socialismo, la lotta di classe) mi si avvalorava l’idea che con il liberalismo (mi facevo forte con la distinzione tra liberalismo e liberismo), davvero e rigorosamente praticato, si potessero “civilmente” risolvere tutti i problemi, compresa la cosiddetta questione sociale, la diseguaglianza, la povertà, le ingiustizie, le calamità sociali, in tutte le loro forme, etc. etc. Ricordo di essermi confortato in questa convinzione anche con la lettura di articoli di Adolfo Omodeo, su una rivista uscita dopo il ‘45 (se mal non ricordo La nuova Europa), nei quali si sosteneva che tra liberalismo ed eventuali scelte di “collettivizzazione” non c’era incompatibilità Sempre in tema di letture, che mi irrobustivano in queste convinzioni, non posso dimenticare certe pagine di Luigi Einaudi e un testo di economia politica del Bresciani Turroni, dalla cui esposizione dei nodi del liberalismo più rigoroso, per quanto la cosa possa sembrare strana, mi sembravano ricevere conferma quelle mie opinioni. Non mi sono mancati contatti e sondaggi con testi, e persone, dell’area cattolica. Mi interessava capirne orientamenti e messaggi. Non mi convinse molto la lettura del più noto teorico di quell’area, Giuseppe Toniolo. Trovai più persuasive le istanze che emergevano da pagine di Maritain e di Mounier, ma sempre di più pesava su di me la convinzione che il mondo cattolico, tramite le persone e le iniziative sorrette da genuine ispirazione cristiana, fosse in grado di intervenire per attenuare mali e sofferenze, ma nella sua componente “clericale” (di potere) non assolutamente in grado di proporre e attuare un progetto politico-economico, pronto, anzi, a qualunque compromesso. In proposito. Il Concordato del ‘29 me ne appariva la prova più lampante. E mi colpirono molto sgradevolmente le opinioni di stampo Pagine autobiografiche: Il percorso politico RENZO BALDO salazariano, che sentii pronunciare da persone, assai in vista, certo per altri aspetti stimabili, che avevano anche partecipato alla Resistenza, ma che in Salazar, cioè una dittatura “mite” (presunta tale) e “cattolica” vedevano la miglior soluzione politica. E mi identificai sempre di più con la linea PannunzioErnesto Rossi, con la rivista Il Mondo. Sulla spinta di questa cultura “liberale” mi iscrissi al P.L.I. Ne uscii nel ‘55, quando il prevalere della linea Malagodi e la fuoriuscita della sinistra di Villabruna resero evidente che quella strada non rispondeva per niente alla mia idea di “liberalismo”. Mi divenne così sempre più consistente l’idea che, tranne per chi si sentisse vocato alla vita politica nella sua combattività partitica, fosse assai meglio operare, ovunque se ne presentasse l’occasione, per favorire il realizzarsi di una vita civile capace di rispondere alle reali necessità “collettive”, con un impegno non riducibile ad astratte teorizzazioni e, soprattutto, non costretto a fare rigidamente i conti con orientamenti e discipline di partito. In questa direzione, dunque, ha avuto sicuramente notevole rilievo la lettura de Il Mondo, che-mi sembrava, e credo ancor oggi potrei essere di questa opinione - voce del “liberalismo” (tra virgolette) così come mi si era configurato nel corso di quegli anni. E assai solido apporto mi è venuto dagli interventi, su quella rivista, di Ernesto Rossi, del quale mi colpì soprattutto la lettura di un suo libro, nel quale si teorizzava il dilemma liberismo-collettivismo come falso dilemma, da risolversi con la constatazione che essi non si configurano affatto come due “estremi” contrapposti e irriducibili, ma come una retta, sulla quale individuare il punto giusto, sul quale far leva per dare risposta, al momento giusto, ai bisogni concreti di una società civile. Detto in altre parole: niente astratti utopismi, ma, sempre, tensione utopica. Mi sembrava fondamentale persuadersi che, all’interno di questa tematica generale (la scelta giusta, al momento giusto) Pagine autobiografiche: Il percorso politico RENZO BALDO si delinea, per tutti, l’esigenza di guardare al “per che cosa” sia giusto e opportuno impegnarsi, e portare, se possibile, il proprio contributo per la sua attuazione. Per tutti, ma forse soprattutto per i cosiddetti intellettuali, per il semplice fatto che essi dispongono, bene o male, tanto o poco, di strumenti atti a partecipare alla realizzazione dello scopo. Non c’è forse bisogno di dire che, sull’argomento, ben presto la lettura delle pagine di Gramsci sugli “intellettuali” mi è stata di molto nutrimento. E da Gramsci è facile intendere quali orizzonti mi si aprivano. Ma, in proposito, vorrei almeno ricordare, e non marginalmente, come fertile impatto, l’incontro con Gobetti, con la singolare forza suggestiva, che si sprigiona da quella sua “compresenza” con l’esperienza gramsciana. Ho cercato di operare coerentemente con le convinzioni, che mi si erano formate “leggendo”, ma sempre più dal trampolino dei libri spinto ad intendere la corposità della realtà. Pur nutrendo e mantenendo un forte fastidio per le etichettature, ho sempre ritenuto importante esplicitamente schierarsi là dove, in quel momento, appariva giusto schierarsi, per conseguire quanto di più umanamente autentico si presentava come “necessario” perché la convivenza civile fosse veramente “civile”. (Credo, del resto, che così sia stato per tutti coloro che hanno sentito l’esigenza di connotare eticamente le scelte politiche). Per tradurre il discorso in termini di esemplificazione, dandogli riferimenti di “cronaca”, potrei dire, sia pure un po’ schematicamente, che ai tempi dell’Eco di Brescia ero, inizialmente, favorevole al progetto politico che si denominava come “centro-sinistra”, per poi, rapidamente deluso, sempre più convincendomi che la forza politica in grado di opporsi alle pesanti negatività che emergevano dalle scelte (nazionali e mondiali) legate all’implacabile morsa degli interessi economici gestiti in chiave di spregiudicatezza, spesso piratesca, erano i partiti comunisti. A questo punto si può aprire il discorso sul “che cosa” si aspettassero dai partiti Pagine autobiografiche: Il percorso politico RENZO BALDO comunisti coloro che vi aderivano o che, come era il mio caso, davano ad essi fiducia. Detto in breve: non certo quel che con goffo semplicismo intriso di arroganza e di ignoranza gli attribuivano e gli attribuiscono gli anticomunisti viscerali, bensì, con etica convinzione, una più ragionevole, e possibile, vita civile. Pagine autobiografiche: Il percorso politico RENZO BALDO Memorie de musica Il primo incontro con la musica, fra i tre e i quattro anni, un singolare personaggio, che, un paio di volte al mese, si esibiva nel cortile della casa di via Sangervasio, con la chitarra, una trombetta in bocca, un campanello sul piede destro, una ciotola lì davanti per le offerte, i cinque o dieci centesimi, che i ragazzini, inviati dalle madri, gli portavano, in un rituale, che sapeva, ai miei occhi, di omaggio, di giusto riconoscimento, quasi sacrale, come le elemosine che si raccoglievano in chiesa. Dopo aver depositato la cospicua offerta, rimanevo rimanevamo - a qualche passo di distanza, in affascinata contemplazione e ascolto. Ed è stato con soddisfatta sorpresa che, un giorno, lo trovai in un locale di periferia - un’osteria dov’ero entrato accompagnato non ricordo da chi - che si esibiva, da tranquillo protagonista, tra un affollarsi di clienti più attenti al loro calice che alla sua musica,ma che sembravano lì per riconoscergli la sua bravura, per testimoniarne la straordinarietà. Figurarsi! tre strumenti tutti insieme!! Invidiavo i miei coetanei che sapevano cantare. Tra essi mio fratello, che aveva due anni e mezzo meno di me, ma che destava ammirazione per la sua disinvoltura canora. Le mie corde vocali rendevano ridicolmente stonato ogni mio tentativo di intonare un canto. Mio fratello, invece, cantava benissimo; gli bastava sentire una canzonetta, che subito la intonava, dal principio alla fine. Tra l’altro, cantava spesso La canzone del Piave, Monte Grappa tu sei la mia patria, l’inno di Garibaldi Si scopron le tombe, si levano i morti. Tra parentesi: ogni volta che sentiva l’Inno di Garibaldi, così dicevano, la nonna Imelde piangeva di commozione. Echi risorgimentali. Il giorno dei suoi funerali (31 XII 1924), mio fratello, forse entusiasmato dall’andirivieni di parenti e conoscenti in visita alla salma, improvvisamente con voce squillante intonò: Il Piave Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO mormorava calmo e placido al passaggio…Fu bloccato da una zia. All’asilo, la direttrice aveva il pallino del canto. Tutti i giorni ci radunava per almeno un’oretta. La odiavo. Cantavo stonato, di malavoglia. E mi rimproverava anche, perché stonavo. A suo dire, stonavo perché non stavo attento. “Ma poverino!” ebbe a dire una volta un’altra maestra, “non ha orecchio”! Anche lei, come molti, convinta che le corde vocali abbiano a che fare con l’“orecchio”. Le canzoni mi piacevano. Avrei voluto cantarle! Ramona… Laggiù nell’Arizona… Sulla sponda argentina… Mi attiravano, ma proprio non ci riuscivo. A proposito di Sulla sponda argentina. Ne era diffusa una variante, che non sol quanti ricordino: Sulla sponda argentina / Mussolini ‘l camina / con Turati dé dré, / che ghé tira ‘l zaché: / so fascista anche mé. E un’altra, che credo sia scomparsa ancor più della precedente dalle memorie cittadine: Sul corso Zanardelli / ci stanno gli imboscati, / con le scarpine lucide / e i guanti profumati… Le cantavo volentieri, stonando ovviamente senza capirci nulla; chissà mai perché gli tirava èl zachè, e chissà mai chi erano quegli imboscati che stavano sul corso Zanardelli…(Potenza del canto: trovarci gusto senza capire troppo quel che si sta cantando. Un altro esempio: Trippoli (con due p), bel suol d’amore… (Per la verità, neanche più tardi riuscivo a capire che ci avesse a che fare l’amore con Tripoli). Ma l’ingresso trionfale nella musica è stato a sette anni, al Teatro Sociale, dove davano, niente meno, Il Trovatore. La prima scena, ad apertura di sipario, con quei giannizzeri armati e con l’elmo in testa, che cantavano impetuosi, alternandosi con quel focoso loro capo, che gli raccontava quella cupa storia di streghe, letteralmente mi conquistò. Mio padre, saggiamente, prima dell’inizio dello spettacolo aveva cercato di darmi un’idea della trama, intricatissima tra le più intricate trame d’opera. Però qualcosa ne avevo capito. Mio fratello, sdraiato sul pancone dei posti a sedere della galleria (si usavano allora anche i posti in piedi: mi sentivo un privilegiato, Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO seduto su quel pancone) dormì per tutto lo spettacolo (sentii mio padre dire: meno male che per lui non ci han fatto pagare il biglietto). Io rimasi sveglio fino alla fine. Ascoltavo anche i commenti degli spettatori a noi vicini, che trovavano che il tenore spesso stonava. Pensavo che forse era come me. Fino alla fine, dico, destando qualche stupore nei miei genitori e, nei giorni successivi, anche tra gli amici che vennero edotti della serata. Mi sentivo anch’io un protagonista. Ma davvero fu, quello, il fascinoso incontro con l’opera. E per anni la musica fu, per me, l’opera. Di opere sentivo parlare, dai genitori e dagli amici che frequentavano la casa. Mio padre seguiva la stagione al Grande, in loggione naturalmente. Qualche volta, al matinée della domenica, ci andava anche mia madre. E il giorno dopo ci raccontavano quel che avevano visto e sentito. Ma l’incremento maggiore alla mia cultura operistica venne, inaspettatamente, da un amico di famiglia, che, non ricordo bene per quali mai ragioni, lasciò da noi per qualche tempo in deposito un grammofono con un bel malloppo di dischi. Una preziosa antologia di “arie”, soprattutto. Verdi, con maggiore abbondanza, Donizetti, Puccini, la Carmen, qualcosa di Rossini, di Bellini e perfino un po’ di Wagner. I nomi dei cantanti - Aureliano Pertile, Gina Cigna, Toti Dal Monte… e tanti altri - mi ruotavano nella testa come figure fiabesche, di una fiaba piena di fascinazione, misteriosamente tutt’uno con quei personaggi protagonisti di vicende tra lo strano e l’inquietante: Mimì, che fingeva di dormire e poi moriva, e quell’altro che voleva vendere la sua zimarra; Radames che voleva partire per la guerra, e quel tale che informava che aveva conservato il fiore che gli avevan donato; e quella allegra signora che dichiarava di voler vivere folleggiando e che invece moriva rimpiangendo Parigi. Mi sono chiesto, qualche anno dopo, se era la musica che mi colpiva o se era la corposità da romanzo nero o rosa-nero delle vicende. Eppure, no! Credo proprio di aver vissuto, a livello istintivo, “popolare”, l’esperienza del melodramma, nella sua indissolubilità di parola e musica, di mélos e dramma. Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO A sette anni iniziai a prendere lezione di pianoforte dalla maestra Conchieri, che abitava al secondo piano della nostra scala. Era paziente, attenta, credo proprio brava. Va detto che l’unica esperienza di apprendimento musicale di mio padre era stata, tra i 14 e i 16 anni, a Marsciano (Perugia), dove nella banda locale aveva appreso i primi rudimenti per suonare il bombardino. Non conosceva quasi altra musica che non fossero le opere, che gli venivano offerte dalle stagioni del Teatro Grande e del Sociale. Però, sia pur vagamente, ma con convinzione, percepiva l’”altra” musica come qualcosa che era il caso di conoscere. E vi era sollecitato, anche, da una memoria familiare: sua madre, la nonna Imelde, aveva studiato il pianoforte in un collegio di Ferrara. Per l’improvviso crollo patrimoniale della sua famiglia ne era uscita a 17 anni. Nelle difficoltà, talvolta anche dolorose e drammatiche, degli anni successivi, mio padre più volte l’aveva sentita ripetere che solo una cosa rimpiangeva, di non aver più potuto suonare il pianoforte. Quel modesto pianoforte comprato da mio padre per farvi studiare i suoi figli costituiva sicuramente, per lui, un richiamo, una risposta, un “compenso” a sua madre, alla sua vita non facile, e senza pianoforte. *** Due anni dopo all’Istituto Venturi si fece libero un posto nella scuola di Isidoro Capitanio. Una decina di concorrenti: Io fui il prescelto. Brava la maestra Conchieri, che aveva insistito perché io partecipassi. Temo però che il livello dei non ammessi fosse assai basso. Capitanio era generosamente attento e paziente. Io però ero impacciato, spaesato, intimidito. Stranamente, ero sicuro e perfino brillante nel corso di teoria. Naturalmente stonatissimo nel solfeggio cantato. E qui ebbi però la rivelazione: ero bravissimo nel dettato musicale; recepivo con assoluta esattezza i tempi, le tonalità, la linea melodica. L’insegnante stentava a crederci; mi ispezionava sempre il banco e la cartella, sospettando che io avessi una copia del testo di cui si serviva per la dettatura al pianoforte. Ebbi dunque la prova che Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO l’“orecchio” non ha molto a che fare con le corde vocali. E me lo confermò il maestro di solfeggio cantato, quando lo sentii affermare che nel suo coro di S. Alessandro c’erano alcuni con voci bellissime, ma che facevano una gran fatica, e senza molto riuscirci, a cantare intonati. Ma nello strumento non andavo al di là di risultati assai modesti. Mio padre, che riceveva notizie non molto confortanti, mi chiese più di una volta se volevo smettere di studiare musica. Io regolarmente dicevo: no. Non so bene il perché. Forse perché vagamente intuivo, nonostante la mia scarsa partecipazione a quello che stavo facendo, che prima o poi qualcosa si sarebbe rivelato. Per me allora le Sonatine di Bertini o di Clementi, e subito dopo le Sonate di Haydn, le Sonate di Mozart si equivalevano, per insignificanza, agli studi dello Czerny e del Lebert e Stark, alla esecuzione delle scale e degli arpeggi. Tutti suoni senza significato. Ottenevo talvolta, con la diligenza della applicazione, qualche risultato decente, ma con assoluta mia estraneità. Ricordo una persona in visita a casa nostra, che, vedendo sul leggio le Sonate di Mozart, esclamò. “Ah! Queste son cose meravigliose!”. Per fortuna non mi chiese di suonarle. Ma io francamente pensavo che fosse un bugiardo. Continuava la mia passione per le opere, con i dischi e con qualche frequenza del Loggione. Per me la musica era quella. Tutto il resto era, ripeto, senza significato. Sono arrivato così, a dodici anni, niente meno che al 4° corso. E il maestro Capitanio mi disse che non mi ammetteva al 5°: me lo faceva ripetere. Ci rimasi un po’ male - diciamo così, umiliato - ma non poi tanto, come quando arriva un acquazzone, che ti disturba, ma sapevi che poteva o doveva arrivare. *** Non so bene come e cosa sia successo. Nelle nostre case più o meno piccolo borghesi stavano arrivando gli apparecchi radio. Anche mio padre acquistò una radio Savigliano, a tre Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO valvole. Un apparecchietto, che portava però con sé il dono dell’aprirsi a mille ascolti (sostituito, un paio di anni dopo, da un Phonola a 5 valvole, che era, allora, almeno per noi, il non plus ultra). Non è del tutto facile, oggi, rendersi conto di quello che è stato, allora, l’arrivo della radio nelle nostre case. Si parla spesso dell’impatto, della trasformazione epocale prodotta dall’arrivo della TV. Ma l’arrivo della radio non è stato da meno. Anzi, forse, con ancora maggior peso. Certo anche la radio offriva futilità e papparelle varie. Ma c’era anche dell’altro, a saperlo cogliere. Innanzi tutto la sensazione che si allargavano i confini: la Svizzera di Monte Ceneri, le stazioni francesi, tedesche, perfino Barcellona, e, soprattutto, Praga, con una stazione, che, chissà mai per quali ragioni, captavamo meglio di ogni altra, con una annunciatrice dalla voce armoniosissima (non capivamo una parola, naturalmente, ma ne eravamo tutti innamorati, forse anche perché era la stazione da cui sentivamo meglio i programmi musicali). Ricordo l’impatto entusiasmante con il teatro (Pirandello soprattutto). Ma per quanto riguarda la musica, fu una vera elettrizzazione. Fu sconvolgente sentire le Sinfonie di Beethoven, i poemi sinfonici di Mendelssohn (La grotta di Fingal, Le Ebridi...). Cito a caso, le pagine di cui maggiormente ricordo l’emozione all’ascolto. E, improvvisamente la folgorazione con il Mozart delle Sinfonie, in primo luogo la K 550 (mirerè, mirerè, mirerèsi…). Cosa c’è di più ovvio, di più scontato!?! Ma provate a immaginarvi un trediciquattordicenne, che si tuffa nell’ignoto e nell’inaspettato di queste meraviglie… Ho usato il termine folgorazione, ma senza esagerare. Ricordo che l’incipit del primo tempo della K 550 mi ha fatto letteralmente sobbalzare sulla sedia. Da lì a capire, finalmente, le Sonate di Mozart, il passo era breve. Nel giro di breve tempo, tra i 14 e i 15 anni, il Maestro Capitanio, stupito, quasi non mi riconosceva più. Suonavo ormai in un altro modo: capivo quello che suonavo. Meglio tardi che mai. Certo potrebbe sembrare eccessivo attribuire alla scatola della radio questo potere risvegliatore. Sicuramente c’è stata Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO una concomitanza con altri fattori, imponderabili probabilmente. Resta il fatto che quella scatola a tre valvole, e poi quella a cinque valvole, mi sono rimaste impresse nella memoria come portatrici di trasformazione. L’impatto con la musica, il percorso ad acquisirne la realtà nella sua ricchezza, è stato, poi, quello che, più o meno, è di tutti. C’è chi incomincia prima, a capire, e chi incomincia dopo. Ma quando si incomincia, se non vi si è distolti da altro, come può effettivamente capitare, la strada è aperta. Potrebbe non essere il caso di insistere. Si tratta di cose abbastanza scontate. Voglio solo accennare al fatto che, a mia esperienza, nei giovani l’impatto segna profondamente l’anima e assume facilmente carattere esplosivo Nonostante si tratti certamente di cose scontate, voglio, per esempio, a questo punto, ricordare che, fra i 15 e i 17 anni, mi son sentito segnare l’anima dall’incontro con Bach. Le Invenzioni, che si affrontano nei primi anni, non mi avevano detto proprio niente, mi avevano, anzi, molto annoiato. E lo stesso, purtroppo, devo dire delle Suites francesi. Ma l’incontro con le Suites inglesi e, soprattutto, con Il clavicembalo ben temperato, ebbi l’impressione del disvelarsi di un mondo, nel quale, per usare una terminologia allora in voga, si arricchivano “cuore e mente”. (Cuore e mente era proprio il titolo di una antologia che usavamo al Ginnasio). Voglio orgogliosamente ricordare un episodio. A partire dal quinto corso Capitanio aveva la consuetudine di esigere, ad ogni lezione (le lezioni erano bisettimanali), una pagina, dei più vari autori, di volta in volta assegnata. Quando mi assegnava un Preludio o una Fuga di Bach, mi ci ritrovavo con entusiasmo, al punto che egli mi chiedeva di essere sincero, e di dirgli se avevo avuto l’occasione di studiarla anche in precedenza. E fra i 16 e i 18 anni ho conosciuto il brivido che nasce dall’incontro con Beethoven. Forse le generazioni del primo ‘900 hanno vissuto Beethoven alla Romain Rolland, anche se non l’avevano letto o ne avevano vagamente sentito parlare. Però, in proposito, mi è accaduto di imbattermi, non ricordo su Pagine autobiografiche: Memorie de musica RENZO BALDO quale rivista, con un sondaggio fatto in Francia sui giovani chiamati alle armi per andare al fronte, nella guerra del ‘14. Il sondaggio chiedeva, tra l’altro, che libro o quali libri mettessero nello zaino. Moltissimi avevano il Beethoven di R. Rolland. Impressionante: andavano a combattere contro i tedeschi con un libro, che testimoniava la grandezza tedesca e, per di più, di uno scrittore, che in quella grandezza vedeva un richiamo per una civiltà che rifiutasse la guerra. Pagine autobiografiche: Memorie de musica