Maternità e libere professioniste A cura di Cristian Perniciano
Transcript
Maternità e libere professioniste A cura di Cristian Perniciano
Maternità e libere professioniste A cura di Cristian Perniciano –Area Previdenza e Assistenza INCA Nazionale La natura del lavoro autonomo e del lavoro professionale hanno portato il legislatore e la giurisprudenza a prevedere anche per la maternità un trattamento diverso rispetto al mondo del lavoro dipendente. In particolare per quanto riguarda l'obbligo di astensione dal lavoro, questo è previsto per le lavoratrici dipendenti durante l'intero periodo del congedo di maternità, ovvero per i tre mesi antecedenti ed i due mesi successivi il parto. Questo diritto è irrinunciabile. La ratio di tale norma è evidente. Si vuole evitare che il datore di lavoro ricatti la lavoratrice e la costringa, in un momento tanto delicato, a dichiarare sotto qualsivoglia forma di costrizione la propria volontà di continuare a lavorare. Nei casi di lavoratrici gestanti e senza alcun problema di salute per se stesse o per il nascituro è altresì possibile posticipare l'inizio del congedo, il quale deve comunque durare per i 5 mesi; la lavoratrice può, in pratica, iniziare il congedo anche soltanto un mese prima della data presunta del parto, ma in questo caso avrà diritto di rimanere in congedo fino al quarto mese successivo alla nascita del figlio. Per le lavoratrici autonome questo obbligo non sussiste. Queste possono continuare la loro attività lavorativa anche durante quello che dovrebbe essere il loro “congedo di maternità”, e contemporaneamente percepire dall'Inps o dalla Cassa Professionale di riferimento l'indennità di maternità a motivo della quale, del resto, annualmente versano una quota assieme alla generalità dei contributi previdenziali. La Corte costituzionale, chiamata a dirimere un caso relativo ad una notaia, nella storica sentenza 3 del 1998 recita infatti che l'indennità di maternità “serve ad assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di vivere questa fase della sua esistenza senza una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro la ha consentito di raggiungere e ad evitare, quindi, che alla maternità si ricolleghi uno stato di bisogno economico”. Una lavoratrice autonoma, nel periodo di congedo, credibilmente, avrà minor tempo da dedicare al suo lavoro, ed in questo bisogno si inserisce l'indennità di maternità, sostiene la Suprema Corte. L'Inps con la circolare numero 147 del 1996 già non pretendeva, a norma della legge 546/87, l'effettiva astensione dal lavoro per le iscritte alle gestioni speciali dei lavoratori autonomi. Negli anni novanta sappiamo come e quanto si siano inserite nella dicotomia tipica tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti i lavoratori parasubordinati. Per questi, e per tutti i professionisti che non avevano una cassa professionale di riferimento, nasce nel 1996 la Gestione separata presso l'Inps. Con la nascita di questa gestione sorge il problema di assicurare, oltre alla tutela pensionistica propriamente detta, anche tutta quella serie di istituti di previdenza collaterali, come la malattia, i trattamenti di famiglia, e, appunto, la maternità. L'organizzazione di queste tutele si è generata in maniera molto confusa, per interpretazione amministrativa, per legge, per decreto ministeriale, per sentenza. Per le lavoratrici iscritte alla gestione separata, la parola finale sull'argomento maternità la pone il decreto interministeriale del 12 luglio 2007. Il decreto fa riferimento, in particolare, all'articolo 80 comma 12 della legge 388/2000, che ha stabilito che la tutela prevista per la maternità e gli assegni al nucleo familiare per i lavoratori iscritti alle gestione separata deve avvenire nelle stesse forme previste per il lavoro dipendente. Anche in base alla considerazione che questi lavoratori versano i contributi per maternità e quota CUAF (contributo unificato assegni familiari) in maniera analoga ai lavoratori dipendenti. Questa interpretazione ha avuto certamente conseguenze positive, in particolare per quanto riguarda gli importi erogati ai lavoratori iscritti. Per quanto riguarda il congedo di maternità, però, il decreto comporta alcune criticità. L'articolo 1 del decreto estende il divieto di adibire le donne al lavoro durante il congedo anche ai committenti di lavoratrici a progetto e categorie assimilate (co.co.co.) nonché agli associanti in partecipazione, a tutela delle associate in partecipazione iscritte alla gestione separata. Questa direttiva trova la sua ragion d'essere nella diffusione di molti rapporti di collaborazione che in realtà mascherano effettivi rapporti di lavoro dipendente. Non prevedere questo obbligo di divieto avrebbe vanificato, per molte donne, l'analogo traguardo ottenuto per le lavoratrici dipendenti. Vista infatti la posizione debole di queste lavoratrici, spesso ancor più debole rispetto alle lavoratrici subordinate, sarebbe stato molto facile per un datore di lavoro mascherare il proprio sopruso con una libera scelta della lavoratrice autonoma parasubordinata. L'articolo 2 del decreto, tratta la fattispecie delle lavoratrici autonome con partita IVA. Apparentemente il trattamento è uguale a quanto destinato alle parasubordinate, ma, ad una lettura più attenta si può notare una differenza fondamentale. L'articolo due prevede che le libere professioniste iscritte alla gestione separata possano accedere all'indennità di maternità a condizione che l'astensione effettiva dall'attività lavorativa si attestata da apposita dichiarazione. Non obbliga quindi le libere professioniste ad astenersi dall'attività lavorativa, semplicemente a questa astensione subordina il pagamento dell'indennità. Probabilmente la ratio è la medesima di ciò che è riportato all'articolo 1, vista l'esistenza di rapporti di lavoro subordinato mascherati da rapporti professionali autonomi di professionisti con partita IVA. A parte però la credibile minor incidenza di queste fattispecie “truffaldine”, presenti sicuramente in misura più rarefatta rispetto a quanto accade nel mondo del lavoro parasubordinato, il testo del decreto, per come è scritto, non solo non limita la ricattabilità della lavoratrice, ma se possibile riesce addirittura ad aumentarne il livello, oltre ad impedire alle tante libere professioniste vere di usufruire della tutela prevista alle loro omologhe iscritte a casse professionali(farmaciste, dottoresse, biologhe etc.) o alle gestioni speciali Inps(artigiane, commercianti). Torniamo un passo indietro. La nascita della gestione separata, oltre a mettere ordine nel mondo delle collaborazioni, ha ricondotto nell'alveo dell'assicurazione obbligatoria molti professionisti. Un avvocato ha la sua cassa di riferimento, la Cassa Forense. Un webmaster, un fisioterapista, un ricercatore, pur svolgendo un lavoro egualmente autonomo, di questa cassa erano sprovvisti. Dal 1996 hanno invece la gestione separata. Come ogni lavoratore autonomo, anche essi hanno delle scadenze, un lavoro da autodirigere, ed autorganizzare. La legge 546 del 1987 per l'Inps, e la sentenza 3 del 1998 per le casse libero professionali hanno tenuto conto proprio di questa esigenza, lasciando le lavoratrici libere di ridurre la propria attività in relazione alle difficoltà ed alla diminuzione dei tempi di lavoro cui debbono farsi carico nel corso di una gravidanza. La possibilità di usufruire dell'indennità (“rischio” contro cui sono del resto assicurate, e per cui pagano il relativo premio) e di poter contemporaneamente lavorare, in fondo, come ribadito dalla suprema corte, viene proprio incontro alla necessità per la lavoratrice di affrontare nella maniera più serena possibile la maternità. Porre l'aut-aut ad una professionista (o l'indennità, o il lavoro) significa metterla di fronte ad una scelta che può significare, se la professionista scegliesse di percepire l'indennità, la diminuzione del giro d'affari e la mancata fidelizzazione, o addirittura la diminuzione di un portafoglio clienti magari costruito nel tempo con professionalità e serietà, mentre nel caso in cui scelga il lavoro, ella dovrebbe rinunciare all'indennità di maternità per cui ha nel corso della sua vita lavorativa regolarmente pagato il contributo. La soluzione che possiamo definire “all'italiana” di questa situazione, si risolve, spesso, nell'anticipazione o nella posticipazione delle fatture emesse durante il periodo nel quale le professioniste dichiarano di non lavorare. Se andiamo invece a porci il problema di cosa accada in questo quadro legislativo nel caso in cui il rapporto di lavoro autonomo sia solo un rapporto di lavoro dipendente mascherato, l'obbligo di scelta, e la possibilità quindi di ricatto, assolutamente non viene a cadere, causando uno stress se possibile anche maggiore, e permettendo un ricatto da parte del datore di lavoro sicuramente più cogente perchè non coperto da un obbligo di legge come per le collaboratrici a progetto. Queste contraddizioni, per concludere, sono figlie, tra le altre cose, di un atteggiamento insincero da parte del mondo datoriale, che troppo spesso assume collaboratori e professionisti per mascherare rapporti di lavoro dipendente, ma, d'altra parte, è innegabile la carenza analitica che scontano legislatore e parti sociali coinvolte nelle discussioni sull'argomento quando non si rendono conto che quello che può essere una tutela per una figura professionale si può trasformare in limite, difficoltà, addirittura in diritto negato per una figura diversa.