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Capitolo 1
Introduzione allo studio del diritto costituzionale e pubblico
1.1. Il costituzionalismo francese
Il diritto costituzionale iniziò il suo cammino circa duecento anni or sono, al tempo della rivoluzione
francese, l'evento storico che travolse l'Ancien Regime, quell'oscuro periodo della tirannia, nel quale
non serviva alcuna norma per attribuire ogni potere al Sovrano.
Approvando la famosa Costituzione del 3 settembre 1791, l'Assemblea nazionale francese diede
l'avvio ad un processo rivoluzionarie; senza precedenti, proseguito con la Costituzione del 24 giugno
1793 e poi con quella del 22 agosto 1795. Ecco una serie di atti radicalmente eversivi della Monarchia
assoluta, che i filosofi illuministi accusavano addirittura di «non avere una Costituzione». All'origine
del concetto di Costituzione v'è dunque un principio almeno idealmente e in potenza democratico, un
anelito di libertà dal dispotismo, anche se le Costituzioni furono alloro sorgere e poi continuarono ad
essere nell'800 il prodotto e l'espressione di oligarchie.
I delegati del "terzo stato", cioè i rappresentanti della borghesia, trasformarono gli "stati generali" in
Assemblea nazionale costituente, rivendicando un potere primigenio, assolutamente libero da ogni
limite e controllo, «salvi quelli che a lui stesso piacesse di adottare». Se è vero che il potere
"costituente" prese forma e si impose in via di fatto, come decisione politica che sostituiva un nuovo
diritto al vecchio con un atto antigiuridico, la distinzione tra pouvoir constltuent e pouvolr constltué,
dovuta proprio alla geniale intuizione dell'abate Sieyès, consentì tuttavia di vincolare giuridicamente
i poteri "costituiti" alla Costituzione.
La Costituzione girondina stabilì dei limiti ai poteri di governo suddividendoli fra diversi soggetti: la
separazione dei poteri, teorizzata da Locke e perfezionata da Montesquieu, era un modo per imbrigliare con vincoli giuridici l'autorità politica di uno Stato importante come la Francia, il cui
Sovrano era stato l'emblema stesso della Monarchia legibus soluta. Sotto tale profilo, nel linguaggio
originario della Costituzione vi è, accanto ad un discorso di libertà, la preoccupazione che questa
possa correre seri pericoli se un unico soggetto, un Monarca o un dittatore o anche un’assemblea,
acquista il predominio assoluto.
1.2 .... e quello nordamericano
Mediante il "contratto sociale" fu possibile garantire i diritti essenziali che appartengono all'uomo
per natura; e, sopra tutto, con questo artifizio trovarono un fondamento razionale i diritti politici, cioè
i diritti dei cittadini nei confronti del potere.
L'onda lunga di questi avvenimenti influenzò i coloni americani, che tuttavia procedettero più oltre
sulla strada del costituzionalismo, consacrando i principi della common law in appositi atti
costituzionali.
Ecco la teoria del diritto naturale o del giusnaturalismo, risalente a Grozio e a Pufendorf, tal quale
fu codificata nella Dichiarazione dei diritti emanata il 12 giugno 1776 della Virginia.
L'idea democratica non restava confinata nell'iperuranio della filosofia politica. Thomas Paine aveva
infatti scritto: «Una Costituzione non è l'atto di un governo, ma di un popolo che crea un governo».
Così, per il tramite di Assemblee rivoluzionarie, nel gennaio e nel marzo del 1776, il New Hampshire
e la South Carolina si erano date due Costituzioni scritte e vi provvidero nel giro di un anno altre
Colonie: Virginia, New Jersey, Delaware, Pennsylvania, Maryland, North Carolina, Georgia e New
York. fu l'assetto inglese di governo, maturato attraverso una esperienza secolare e giunto a
compimento alla fine del '700, a fornire l'esempio da imitare elevato a modello dai primi cultori del
diritto pubblico che descrissero nei loro trattati proprio la Costituzione consuetudinaria d'Inghilterra
come il risultato di un felice equilibrio tra il Re e il Parlamento.
1.3. Costituzionalismo e Costituzione
Pubblicate per la prima volta nella Svizzera francofona, le Costituzioni dei tredici Stati nordamericani
erano ben note ai rivoluzionari europei e già contenevano in nuce gli ingredienti del moderno diritto
costituzionale. Le istituzioni statunitensi, grazie alla loro forma scritta, servirono in tal modo come
ponte di passaggio fra il diritto costituzionale inglese, ancora affidato alle fanti consuetudinarie, e
quello dei vari Stati continentali in Europa.
La rivoluzione liberale venne combattuta sotto la parola d'ordine della Costituzione e le Costituzioni
francesi si diffusero a macchia d'olio in tutta Europa, mano a mano che le varie Monarchie nazionali,
poste in scacco dai movimenti popolari e dalle emergenti classi borghesi, cedevano il posto ai regimi
paleoliberali.
1.4. Le Costituzioni tradizionaliste
In Italia, i primi vagiti costituzionali si ebbero nel periodo napoleonico, tra il 1796 e il 1799, in
seguito all'ingresso nella penisola dell'esercito repubblicano francese. Traumatizzati da questi eventi,
gli staterelli tributari della Francia rivoluzionaria approvarono le loro Carte costituzionali giacobine o
rivoluzionarie, tutte modellate sulla Costituzione francese dell'anno III, di cui l'armata conquistatrice
aveva portato seco numerosi esemplari allo scopo pedagogico di "democratizzare" l'Italia. Tale la
Costituzione di Bologna del 4 dicembre 1796, poi sostituita da quella Cispadana; tale la Costituzione
Cisalpina, promulgata 1'8 luglio 1797 e anch'essa sostituita da un secondo testo l'anno successivo; tali
le Costituzioni della Repubblica Ligure (1797), della Repubblica Romana (1798) e della Repubblica
di Lucca (1799).
Proprio questa atmosfera rivoluzionaria, contrassegnata da un succedersi vorticoso di Costituzioni,
stimolò l'interesse per lo studio del diritto costituzionale, facilitato dal fatto che i cultori della materia
avevano oramai a disposizione un corpo più o meno organico di norme da illustrare ai profani.
L'aspettativa di una Costituzione scritta, cioè consacrata in una legge o "Carta" fondamentale, che
garantisse irrevocabilmente i nuovi diritti, si coniugava con le istanze di emancipazione politica. In
una atmosfera di grande fervore popolare.
Il ristabilimento degli antichi privilegi era tuttavia osteggiato dai moti rivoluzionari tendenti ad
imporre ai Sovrani la concessione di Costituzioni democratiche che, pur "graziosamente" elargite ai
sudditi, erano tuttavia un vero e proprio patto sociale concluso tra due forze politiche, l'una oramai
declinante e l'altra in rapida ascesa. Da un lato, v’erano i Sovrani, tali «per grazia di Dio» prima
ancora che «per volontà della Nazione», ma i cui poteri, diversamente che nel passato (rex facit
legem), risultavano oramai disciplinati dalla Costituzione (lex facit regem). Dall'altro, quel ceto
moderato liberale che in tutta Europa promosse il sorgere degli Stati nazionali, come spazio giuridico
della borghesia emergente. Così, per es., a Bologna e in Romagna ebbe vita nel 1831 l'effimera
Costituzione delle Provincie unite italiane; finché, tra il 1848 e il 1849, si potè assistere ad una vera e
propria fioritura di Carte costituzionali "otturiate” (octroyées) dai Monarci: le Carte del Regno delle
due Sicilie, degli Stati temporali della Chiesa e del Ducato di Parma; mentre furono approvati da
Assemblee costituenti lo Statuto del Regno delle due Sicilie e la Costituzione della Repubblica
romana.
Nel 1848, l'anno stesso in cui Carlo Alberto promulgò lo Statuto del Regno di Sardegna, Cesare
Alfieri patrocinava a Torino un insegnamento di diritto costituzionale, affidato a Luigi Amedeo
Melegari; mentre a Parigi la prima cattedra della disciplina era già stata istituita presso la Sorbona il
22 aprile 1834 dietro sollecitazione del Guizot. La dottrina di Pellegrino Rossi, l'insigne esponente
politico di poliedrica cultura che tenne lezioni dal novembre del 1835 al marzo 1845, ebbe grande eco
anche al di qua delle Alpi.
1.5. Stato e sovranità
La metodologia sincretistica praticata dagli isolati pionieri del diritto costituzionale ha contribuito a
diffondere e a conservare sino ai nostri giorni l'errata convinzione secondo la quale lo stesso concetto
di Costituzione ha un contenuto polisenso, al punto che rilevarne le ambivalenze e le ambiguità è
divenuto un luogo comune: una disputa semantica che non ha l'eguale nemmeno nel campo delle
scienze esatte, dove nessun manualista si sognerebbe di attardarsi a discutere in limine intorno alla
materia che forma l'oggetto della sua disciplina.
Il potere originario e sovrano dello Stato totale, assoluto, esclusivo, superiore e indipendente da ogni
altro - venne reso autonomo da ogni principio esterno ad esso, fosse pure teocratico, monarchico o
democratico. Secondo la icastica affermazione del Laband: «La volontà dello Stato è diversa da
quella dei suoi membri, non è la somma delle loro volontà, ma è una volontà autonoma di fronte ad
essi».
In questa forma di Stato la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico acquista un peculiare
rilievo ricollegando si al diverso ruolo dei rispettivi protagonisti: nell'un caso, i soggetti
dell’ordinamento dialogano fra loro su un piano di eguaglianza, mentre nel secondo lo Stato si colloca
in una posizione sopraordinata rispetto ai privati.
Bisogna ammettere che fu compiuto allora un significativo passo in avanti sul terreno delle garanzie.
Nel momento in cui la legge si sostituiva al regolamento l'amministrazione pubblica si vide infatti
preclusa la facoltà di emanare ogni sorta di provvedimento che reputasse opportuno, libera da ogni
intralcio formale ed obbligo di giustificazione, come le era consentito nel precedente Stato di polizia.
Le sue attribuzioni, da esplicazione di pura forza, divengono nello Stato di diritto poteri limitati dalla
legge, la quale riconosce l'autonomia dei singoli e instaura un vero e proprio rapporto giuridico tra
due soggetti di diritto, uno dei quali è il cittadino e l'altro l'amministrazione pubblica.
In ogni caso, esaltando la razionalità della legge e collocando il legislatore al posto o accanto al
Sovrano, ne riesce emarginata la politica, reputata, diversamente dal diritto positivo, priva di regole e,
in ogni caso, di dubbio utilizzo per finalità rigorosamente giuridiche. Non per nulla i teorici del liberalismo, chiusi nella loro ideologia "statolatrica", accusavano addirittura le forze politiche e i partiti
di svolgere una funzione anticostituzionale, nella misura in cui avrebbero potuto compromettere con
la loro dialettica la compattezza di un sistema chiuso in sé stesso e autosufficiente.
1.6. La Costituzione come diritto dello Stato liberal-democratico e le degenerazioni totalitarie
Una volta che il diritto è risolto nella legge dello Stato, la Costituzione diventa tecnica organizzativa
del potere e la scienza costituzionalistica descrive il potere in quanto disciplinato da regole speciali
rispetto a quelle del diritto privato.
Il diritto pubblico nasce come specializzazione del diritto privato ed è costretto sin dall'inizio entro le
categorie concettuali di questo.
La dottrina generale dello Stato e il diritto generale dello Stato soppiantano la filosofia del diritto e la
teoria generale, estromesse entrambe dalle Università in quanto ritenute fonte di critica degli
ordinamenti positivi. Per via di successive astrazioni, anche il diritto costituzionale particolare, vale a
dire lo Staatsrecht comincia a dedurre dai vari istituti principi più ampi e generali, aventi il proprio
campo di applicazione in un determinato ordinamento positivo. Al diritto costituzionale generale e al
diritto costituzionale comparato viene riservato il compito, meramente teoretico e non dogmatico, di
prendere a modello più ordinamenti costituzionali allo scopo di giungere, nel primo caso, ad una
sintesi unificatrice e per operare, nel secondo, gli opportuni raffronti tra gli istituti accolti nei vari
Stati.
Questa intelaiatura concettuale, che corrisponde all'idea positivista della Costituzione, fu importata
nella nostra dottrina dalla Scuola italiana di diritto pubblico, la quale «muovendo sia pure da un
principio metodologico, comportava una revisione totale di tutta quella materia che si studiava sotto
varie denominazioni: da quella di Dottrina generale dello Stato a quella di Diritto pubblico generale».
I più ascoltati tra gli studiosi non esitavano a paragonare il diritto costituzionale al tronco dell’albero
dal quale si dipartono, come altrettanti rami, le altre parti del diritto, civile, penale, tributario, volendo
con ciò intendere che lo sviluppo delle diverse attività pubbliche risulta legittimo se ed in quanto
appare conforme ai principi che lo Stato ha posto nella sua Costituzione, intesa come legge
fondamentale. E Vittorio Emanuele Orlando, già alla fine del secolo scorso, poteva concepire il diritto
costituzionale come «quella scienza che studia l'ordinamento giuridico dello Stato rappresentativo
moderno con particolare riguardo alla Costituzione politica dello Stato italiano».
Era quella, però, una lettura politica della società attraversata da disuguaglianze sostanziali, nella
misura in cui il valore della libertà aveva la precedenza rispetto a quello della democrazia. Almeno al
suo esordio, lo Stato ottocentesco era infatti l'esempio tipico di un ordinamento liberale ma non
democratico, in quanto estendeva a tutti i suoi cittadini i diritti civili, ma limitava soltanto a ceti
ristretti e privilegiati quelli politici. Il primato del diritto oggettivo, prerogativa del legislatore,
comportava, oltre che il sacrificio dei diritti naturali, la sottomissione alla legge delle altre funzioni
statali, giustizia e amministrazione, definite appunto "esecutive". Mentre le leggi avevano un
contenuto generale e astratto, ogni altro provvedimento dello Stato era dotato di imperatività, in modo
da imporsi senza discussione ai suoi destinatari. Così, nello scrivere il diritto costituzionale sotto
forma di dottrina dello Stato, lo stesso Orlando poneva in secondo piano la teoria della sovranità
popolare, sia perché assegnava allo Stato la potestà suprema, come un attributo autofondante e
inseparabile da esso, sia perché reputava che il popolo trovasse nello Stato la sua vera espressione
come entità giuridica. Questo scenario corrispondeva perfettamente al processo di formazione dello
Stato moderno che, in Italia come in Germania, era avvenuto dall’alto in basso, attraverso una
trasfigurazione del potere in altre forme piuttosto che per il tramite di una conquista popolare.
Lo Stato costituzionale ha rappresentato il punto di arrivo del diritto pubblico, come ordine giuridico.
Nel teorizzare questa razionalità cartesiana, la dottrina tedesca e quella svizzera di lingua tedesca
posero le premesse per il trionfante ingresso della nostra materia nella grande famiglia delle scienze
giuridiche. A quell’altezza di tempo il modello teorico corrispondeva perfettamente al suo oggetto.
Ma l'enfatizzazione della onnipotenza statale, nello stesso momento in cui occultava dietro una forma
armoniosa la realtà socio-politica sottostante, costituiva un potenziale condizionamento sullo stesso
versante delle libertà. La Costituzione che rende il cittadino funzionale allo Stato fornisce infatti un
sistema tanto astratto quanto pericoloso. Prova ne sia che Hegel, nella misura in cui sublimava l'Idea
di Stato, divinizzandola come Spirito collettivo, fu etichettato da Popper, sia pure con una certa
esagerazione, come «il più illustre apologeta dell’autoritarismo prussiano».
Le insidie di una ricostruzione che antepone lo Stato alla persona dovevano produrre analoghi e, se
possibile, anche maggiori guasti, in una direzione culturalmente speculare. Fu infatti muovendo dalla
filosofia hegeliana, nella lettura esasperata di Fuerbach e Engels, che Karl Marx capovolse in chiave
materialista e dialettica il rapporto tra la società civile e lo Stato; e sulla base degli stessi presupposti
teorici Lenin giunse a considerare lo Stato come una mera sovrastruttura attraverso la quale la classe
borghese esercita il proprio predominio sulle altre. Talché la rivoluzione bolscevica assegnò al
proletariato il compito di distruggere lo Stato per affermare la propria dittatura, preceduta in una
prima fase dall’ordinamento social progressi sta instaurato nell'Urss, dove il costituzionalismo ha
perso per sessanta anni ogni significato.
1.7. Il normativismo
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando il dogma dello Stato divenne l'archetipo del diritto
costituzionale: un modello che, pur largamente rimaneggiato, rappresenta ancor oggi la rassicurante
traccia per ogni esposizione della nostra disciplina.
Quanto sia difficile, se non impossibile, avere a disposizione un approccio metodologico alternativo,
lo dimostra appunto il perdurante successo e, sopra tutto, l'ampio utilizzo del neopositivismo logico di
Hans Kelsen, che in certo qual modo completa e perfeziona l'imponente costruzione edificata dalla
Scuola tedesca di diritto pubblico. La sua dottrina pura del diritto, mutuando i presupposti dal
pensiero di Wittgenstein e, sopra tutto, dall'analisi del linguaggio di Austin, giunge infatti a risolvere
il diritto nella norma, considerata, quale che sia il suo contenuto concreto, soltanto come un giudizio
ipotetico relativo ai comportamenti umani.
In quest'ottica, che tende ad ignorare ciò che le norme disciplinano e gli stessi fattori che ne
condizionano l'esistenza, Kelsen fa consistere la Costituzione in «norme sulle norme» ovvero in «un
insieme di norme giuridiche che possono venire modificate soltanto se si osservano speciali
disposizioni, la cui finalità è rendere più difficile la modificazione di tali norme». La funzione
essenziale svolta dalla Costituzione rigida, cioè revisionabile soltanto con il ricorso a procedure
aggravate, è dunque quella di regolare le forme della produzione giuridica.
Si potrebbe addirittura trarre la conclusione, forse eccessiva, che la Costituzione in senso
logico-teoretico precede la Costituzione positiva, anche se bisogna riconoscere che il normativismo,
valido in astratto per tutti gli ordinamenti e per tutte le epoche, ha consentito alla dottrina
costituzionale europea di delineare una impeccabile gerarchia delle fonti e, sopra tutto, di rendere
operativa la rigidità costituzionale. Anche nei Paesi di civil law è stato così possibile applicare la
Costituzione come diritto positivo, i cui principi e le cui norme, all’atto in cui prevalgono sulle fonti
sotto ordinate e, in specie su quelle legislative, esplicano al massimo grado la loro efficacia
prescrittiva, come già accadeva da cento anni negli Stati Uniti.
Sotto tale profilo, dietro la sua apparente agnosticità, la dottrina pura del diritto ha svolto un ruolo
autenticamente garantista, che è da considerarsi una caratteristica peculiare dell'ideologia
costituzionale nord americana e, più in generale, del costituzionalismo anglosassone.
Tuttavia il Kelsen, mentre esclude asetticamente dalla valutazione dell'interprete l'elemento
metagiuridico e, in particolare, respinge ogni contaminazione con il contesto politico-economico
sembra pericolosamente disancorare la suprema autorità da qualsiasi vincolo di contenuto,
consentendole di introdurre nell’ordinamento ogni specie di comando e financo di sovvertire l'assetto
vigente, purché ciò avvenga nelle forme da questo prescritte. In tal senso le sue conclusioni non si
allontanano troppo da quelle del Laband, secondo il quale: «Tutte le considerazioni storiche, politiche
e filosofiche sono per la dogmatica un materiale concreto privo di importanza e, non di rado, servono
soltanto a nascondere la mancanza di un lavoro costruttivo».
Fatto è che questa lettura neokantiana del diritto costituzionale, perfezionata prima dagli allievi del
Kelsen raccolti nella «Scuola di Vienna» e poi dall'inglese Hart, ignora che la Costituzione non è
soltanto la forma dello Stato e che la struttura stessa dello Stato costituzionale rappresenta il risultato
di un processo storico-politico, riscontrabile nella trasformazione dei valori e degli interessi che,
affermatisi nella realtà sociale, si sono via via integrati nelle Costituzioni. Il potere statale non si
identifica soltanto con i modi di produzione del diritto. Oltre alla legislazione vi sono l'indirizzo politico, il governo, i gruppi di interesse. «lI sistema normativo costituzionale ha la sua radice e il suo
fondamento ultimo in una realtà sociale», che non può essere sottratta all'indagine giuridica come
fosse un dato meramente esistenziale.
1.8. La concezione istituzionale
Cercando appunto di apprezzare «le tenaci cose della realtà», Santi Romano contestava la tesi
secondo cui il diritto si esaurisce nel sistema delle sue norme, spostando l'osservazione su «... i
numerosi meccanismi e ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano,
applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse».
La concezione istituzionale del diritto fu largamente influenzata dalla contemporanea letteratura
francese e, in particolare, dalle dottrine di Duguit e di Hauriou, secondo i quali il diritto, prima di
divenire norma che disciplina i rapporti tra gli individui, è struttura e posizione della stessa società.
Il Romano affina questa interpretazione, rilevando che ogni forza comunitaria, una volta
spontaneamente organizzata, si trasforma per ciò stesso in diritto. Il vecchio brocardo ubi societas ibi
ius si traduce così nella più sofisticata equazione secondo cui: «Ogni ordinamento giuridico è una
istituzione e, viceversa, ogni istituzione è un ordinamento giuridico».
Nulla vi poteva essere di più lontano dai «criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto
pubblico», proposti dall'Orlando, che additava come modelli di perfezione formale le fonti
romanistiche e le trattazioni di diritto privato. Senonché lo stesso Romano non valorizza appieno,
almeno nel settore del diritto costituzionale, le sue aperture verso la società e la storia, in quanto
sembra congelare l'elemento istituzionale nella fase formativa della statualità, risolvendo in ultima
analisi l'ordinamento statale nella sua Costituzione formale: con il risultato che nell’«impero del
diritto» viene assorbita «la complessa e reale organizzazione in cui effettivamente lo Stato si
concreta». La sua conclusione - largamente riduttiva rispetto all'originalità dei presupposti teorici - si
riassume nella considerazione che: «Il diritto costituzionale, è il diritto che segna la stessa esistenza
dello Stato, il quale comincia ad aver vita solo quando ha una qualche Costituzione».
Resta però il fatto che, nel correggere un'idea dello Stato che tendeva a far prevalere la sua sovranità
mediante l'eliminazione di tutti gli enti intermedi, l'approccio istituzionale aprì ai costituzionalisti
ampi e suggestivi orizzonti d'indagine: andando oltre lo schermo normativo fu possibile mettere in
risalto fenomeni tipici della Costituzione e del diritto costituzionale riguardanti gli organi titolari
della sovranità statale, i cui rapporti non sempre risultano disciplinati in tutti i loro aspetti da norme
codificate. Le fontifatto, vale a dire consuetudini, convenzioni costituzionali e regole di correttezza,