1 L`INCONTRO GRUPPALE TRA ADOLESCENTE E ADULTO NEL

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1 L`INCONTRO GRUPPALE TRA ADOLESCENTE E ADULTO NEL
L'INCONTRO GRUPPALE TRA ADOLESCENTE E ADULTO NEL GRUPPO
di Dominique Quelin Soligoux
La psicologia dei gruppi cambia in funzione dell'età delle persone che li compongono,
della loro patologia mentale, della cultura a cui appartengono.
Inoltre, una caratteristica essenziale dei gruppi di bambini e di adolescenti consiste
nell'essere composti dalla riunione dissimetrica di adulti e di giovani.
Cio' distingue radicalmente i gruppi terapeutici di bambini e adolescenti dai gruppi
terapeutici di adulti, e implica una rifflessione teorica specifica che tenga conto di questa
presenza dell' adulto, vissuta diversamente a seconda delle età.
Le relazioni di gruppo sono presenti durante tutta l'evoluzione della vita, e la tendenza al
raggruppamento presenta un carattere realmente specifico dalla più tenera età, benchè le
esigenze fisiologiche e affettive specifiche sembrino opporsi al concetto stesso di
gruppo di pari nella prima infanzia.
Infatti, le condizioni di sviluppo nei primi anni fissano il bambino al suo nucleo famigliare di
origine, cosi' intensamente ( sopprattutto alla madre da cui resta dipendente quasi
totalmente e per molto tempo per potere soppravivere) che sembra impossibile per lui
distaccarsene. Eppure l'approfondimento degli studi sulle origini della socializzazione
esige di superare il quadro delle relazioni madre, padre / bambino.
Fin dai primi anni dell'asilo nido, infatti, le interazioni tra i lattanti sono numerose e varie e
possono anche crearsi relazioni sabili.
Osservatori con un punto di vista da etologo ,come H. Montagner, hanno cosi' potuto
evidenziare le caratteristiche che distinguono nettamente la comunicazione dei bambini
tra di loro da quella che mostrano con gli adulti.
Le interazioni non sono assolutamente dello stesso tipo: Quando i bambini sono soli, si
osserva piuttosto la scoperta in comune dei giochi e dello spazio; la competizione e
certe manifestazioni agressive ugualmente osservate hanno inoltre per scopo,
all'interno di questi giochi, di assicurarsi un ruolo dominante o semplicemente di provare
le reazioni degli altri.
Sembra che questa area di comunicazione debba costituire una fonte importantissima di
arricchimento, di apprendimento e di stima di se, che utilizzata all'età adulta , puo'
costituire un apporto molto importante alla vita sociale.
Quando invece le relazioni si effettuano con l' adulto , predominano i comportamenti
affiliativi: domanda di aiuto, di consolazione ,di protezione.
Inoltre, in presenza dell'adulto, i bambini abbandonano i modi di interazione utilizzati
quando stavano soli tra pari, per privileggiare i modi di comunicazione più specificamente
socializzati destinati all'adulto, e che allora si generalizzano a tutto il gruppo di bambini.
Tale cambiamento induce pero', una relativa perdita delle competenze creative del
bambino, che in un certo modo non esperimenta più tutte le sue potenzialità.
Ci riferiamo evidentemente alle interazioni e non al funzionamento gruppale, poichè con i
bambini non puo' esistere il gruppo se non c’è l'adulto che lo organizza.
Negli anni della scuola; la proposta del "gruppo-classe" soddisfa e assorbe quasi tutta
l'attrazione per il gruppo, il quale caratterizza allora la dinamica psichica del bambino:
questo gruppo organizzato dall'adulto privileggia i comportamenti affiliativi
tradizionalmente necessari agli apprendimenti a scapito molto spesso della creatività.
Questo movimento resta pero', indispensabile alla socializzazione poichè partecipa al
lavoro di dessessualizzazione della relazione oggettuale propria all'infanzia, e permette
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quindi un aggiustamento nei confronti della realtà.
Facilitando gli apprendimenti, l'insegnante aiuta a scoprire il piacere del funzionamento
dell' Io , il che gli conferisce un ruolo di sostegno narcisistico.
I controinvestimenti narcisistici costituiscono infatti i mezzi più importanti per consentire la
rimozione del complesso edipico.
Nell'adolescenza, il gruppo dei pari viene investito quale spazio di sostegno narcisistico e
appoggio delle identificazioni. Per l'adolescente , è un modo di rimettere in questione la
propria « filiazione identitaria »(la propria identità come figlio di quei determinati genitori).
Questo lavoro di separazione verrà effettuato tramite un movimento di " disidentificazione" nei confronti degli oggetti primari in quanto parti di sè, ma le funzioni e gli
attributi dell'oggetto potranno essere preservati e riinvestiti nell'ideale dell'Io .
Nonostante ciò l'investimento del gruppo dei pari segna per l'adolescente uno stato di
crisi rispetto alla propria identità , da cui ,nel migliore dei casi,tale gruppo lo aiuterà ad
uscire . Il gruppo non puo' quindi costituirsi che attraverso una presa di distanza nei
confronti dell'adulto. Qesta sembra essere per l'adolescente, la sola soluzione possibile
per l'accesso all'autonomia. IL gruppo gli permetterà dunque di liberarsi dal suo gruppo
famigliare. Quindi, il riconoscimento e l'elaborazione dello scarto tra il proprio ideale e
quello del gruppo gli permetterà, prendendo l'ideale gruppale come punto di appoggio dei
suoi oggetti identificatori, di costituirsi il suo futuro ideale dell'Io e di accedere allora ad un
' altra tappa della socializzazione.
Nell’adolescenza, vediamo dunque che il gruppo dei pari si costituisce contro l'adulto
nell'intento di liberarsi dal contesto famigliare troppo caldo e nello stesso tempo
infantilizzante. Gli adolescenti vivono allora tra di loro un 'esperienza vicina all'illusione
gruppale. Questa esperienza di onnipotenza nel "tutto uguale" tenta di annullare tanto la
differenza dei sessi quanto quella delle generazioni.
Si puo' dire cosi' che l'adolescente attraversa "una seconda fase di individuazione/
separazione" che giungerà a un distacco dalle immagini genitoriali e ad un
rimaneggiamento strutturale intrapsichico.
Ma per separarsi dai genitori , e indispensabile avere acquistato delle basi narcisistiche
sufficientemente solide nonchè la permanenza dell'oggetto interno:
Cio' suppone l'esistenza di un contesto famigliare positivo nel corso della prima infanzia ,
e un processo di separazione – individuazione riuscito che abbia permesso la costituzione
di un mondo interno.
L ‘ACCETTAZIONE DELPROGETTO DI GRUPPO TERAPEUTICO
Cosi’, certi adolescenti per cui il primo processo è stato ad esempio interrotto o intralciato
da varie difficoltà, non possono affrontare questa nuova tappa di sviluppo. Più di frequente
viene fatta allora, tramite la domanda dei genitori , una domanda di aiuto per superare
questa difficoltà. IL clima conflittuale nella famiglia, gli insuccessi delle terapie anteriori,
l’assunzione di droghe , possono essere dunque all’origine delle consultazioni e
accompagnano domande di ripresa di un lavoro per causa di inibizione fobica o psicotica ,
o più semplicemente di timidezza… insomma incontriamo nello stesso tempo adolescenti
in crisi con la famiglia e adolescenti in difficoltà di fronte ai gruppi .
Il non riconoscere la sofferenza e il modo d’intervenire spesso autoritario dei genitori non
contribuiscono alla riunione delle condizioni migliori alla protosta di una terapia
indviduale ; il transfert rimanda alle carenze infantili finora celate, e la presenza
dell’oggetto fa risorgere il dolore dell’assenza.
Noi proponiamo dunque un dispositivo gruppale che permetta all’adolescente di
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distanziarsi nei confronti dell’oggetto e di esperimentare nell stesso tempo un
riavvicinamento sopportabile ; cio’ gli procurerà sostegni esterni tollerabili per placare le
rappresentazioni interne, e uno spazio di pensiero per elaborare questa problematica.
Si potrà cosi evitare il ricorso sistematico all’atto o talvolta alla violenza in quanto processo
di rappresentazione e dunque anche come tentativo di rappresentare la realtà interna.
Il gruppo potrà inoltre permettere una restaurazione narcisistica indispensabile ad un
lavoro psichico. La situazione di gruppo permette di vivere un ‘esperienza con altri , di
conoscersi prima di poter affrontare in situazione di fiducia, le difficoltà personali. In
effetti, non si propone loro subito una terapia bensi’ uno spazio in cui potranno
incontrare altri ragazzi, far conoscenza e provare a capire quanto succede non solo tra di
loro ma anche nei confronti dell’adulto , in una elaborazione dell’illusione onnipotente
dell’anullamento delle differenze.
Nel gruppo terapeutico, l’essenziale del lavoro poggerà su questa elaborazione e sul suo
superamento. Cio’ puo’ avvenire solamente se si giunge a tale fase del processo
gruppale.
L’INIZIO
La ricerca di quanto puo’ esserci di comune è il primo tentativo di organizzazione del
gruppo ; lo mostra l’esempio seguente.
Dopo un silenzio, Mikaya propone di presentarsi ; ognuno lo fa, ma il silenzio dura un
momento. X fa un’altra domanda : In che classe sono ? Dalla terza media al secondo
anno di liceo… Silenzio
Continua…. Che musica preferiscono ? Ci sono quelli a cui piace il Rap, ma ognuno ha
la sua variante come la « fusion » ad esempio per Jeremie.
Chiedo una spiegazione : mi dicono gentlmente che si tratta di un mistura di rap e di hardrock. Ci sono anche gli appassionati di reggae, di techno’ o anche di musica classica.
Insomma niente di veramente comune. Continuano ad interrogarsi, sugli strumenti di
musica che suonano, per Jeremie è la chitarra, per altri è il pianoforte, anche qui niente
di comune… abbandonano la musica per passare agli sport : che cosa praticano ? per
Michel il rugby, per Julien il tennis, per Jeremie lo squatt, per X la pallavolo, per Mikaya
niente… non vedono che differenze. Continua cosi’ .. ciascuno parla delle proprie attività
e dei propri proggetti. Tutti gli argomenti esplorati finiscono coll’estinguersi, viene fuori
un’altra domanda dopo un momento di silenzio.
Il terapeuta non è silenzioso, partecipa alla conversazione mantenendo la massima
neutralità, manifestando pero’ interesse per gli argomenti dei ragazzi
Ma il silenzio diventa pesante.
Egli ricorda allora la possibilità di mettere in scena situazioni vissute… Nessuno ha idee,
egli suggerisce di trasferire la situazione attuale sul primo giorno di.scuola, quando gli
allievi non si conoscono ancora. Un ragazzo propone : « siamo davanti al liceo » Ci
alziamo e spingiamo il tavolo, i ragazzi chiedono al terapeuta di partecipare : recita con
loro la parte di un adolescente :
Quando ,nel gioco domanda ansioso « conoscete i professori » ? Jeremie esclama :
quelli ci rompono le scatole ! commento condiviso da tutti , e qualcuno propone una
scuola senza insegnanti…. L’idea interessa tutti, scherzano, parlano dell’autogestione, di
fare a meno degli adulti… Michel dice di conoscerere un ragazzo che frequenta una
scuola « autogestita », un vero casino , un mercato di hascich… L’idea che senza gli
adulti sarebbe il casino viene sfiorata ; ma non emerge nessuna associazione, segue
invece un silenzio penoso.. il terapeuta ferma il gioco , Julien osserva con una smorfia
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che non è andata bene, « non ce la facciamo, non ci conosciamo « Questo primo tema,
il rifiuto dell’adulto, verrà ripreso più tardi. Intanto, dicono, non va bene ! Perchè ? si tratta
di un rifiuto del dispositivo proposto : recitare ? A meno che l’idea di escludere l’adulto
abbia sollevato troppo senso di colpa ?
Dopo un po’ un nuovo tentativo per trovare un tema comune si salda con un’impossibilità :
infatti, ricercano « l"assolutamente uuguale ». L’essere interessato non bastta, ci vuole
tutto, condividere, essere simili, se non trovano insistono immediatamente sulle
differenze. Ma di che diffferenza si tratta ?
Adulto / adolescente certamente poichè nello stesso tempo mostrano all’adult o che
sono insieme riuniti ma diversi.
Cio’ che li riunisce, in realtà , è la domanda dell’adulto / lo mostra la seduta seguente di
un altro gruppo di adolescenti composto di 5 maschi e 2 femmine dai 14 ai 17 anni,e di
una coppia di terapeuti .E’ iniziato da poco più di tre mesi, ed è un gruppo a durata non
determinata in anticipo, e che è stato preceduto , come facciamo per tutti i nostri gruppi,
da una riunione genitori / figli. I genitori continueranno ad incontrarsi al loro ritmo con un
altro terapeuta.
Cedric incomincia subito : « Io non voglio tornare la settimana prossima, non volevo
venire già oggi alla riunione, avevo preso questa decisione, e mi hanno detto di venire a
dirvelo qui, allora ecco ve lo dico ».
Dall’inizio il tema del non volere partecipare alle sedute è stato sviluppato da Cedric che
si appoggiava su un elemento di realtà poco considerato da noi durante la preparazione
del gruppo : egli abita lontano in periferia e il ritorno a casa di sera gli pesa molto.
Tutti gli altri sembrano informati della sua decisione. Gli adolescenti hanno infatti preso
l’abitudine di ritrovarsi davanti all’entrata del centro un po’ prima della seduta e di
entrare insieme solo quando sono tutti arrivati ; parlano dunque mentre aspettano e infatti
non reagiscono molto quando sentono quell’annuncio. Rompe il silenzio Justine :
« Credevo che la regola fosse di fermarsi tutti insieme »
Olivier : « Ha detto che non viene più , è questa la regola, ad ogni modo è la nostra e
siamo d"accordo con lui, è libero, mica possiamo forzarlo a restare, se facciamo anche noi
come i genitori ! facciamo quel che vogliamo, l"importante è sentirsi liberi ! »
Guillaume, si rivolge a Justine : « Ad ogni modo , che cosa ci impedisce di dire tutti la
stessa cosa, suppongo che nessuno possa impedirci di terminare il gruppo ; non
sappiamo esattamente quel che facciamo qui, io poi se non ci fossero i miei genitori non ci
sarei ! »
Cedric : « è vero , per me non è cambiato niente, e poi non so neanche quel che doveva
cambiare, e siccome i miei genitori non mi obbligano, non vedo perchè dovrei continuare,
visto che non facciamo niente »
Questi primi scambi sono abbastanza tipici degli inizi dei gruppi terapeutici di adolescenti :
il gruppo non è ancora investito come oggetto.
Qui, vediamo bene che il gruppo, in seguito alla presenza di terapeuti adulti è assimilato
ai genitori , che sono all’origine della domanda di cura.
Il gruppo , per gli adolescenti dipende dal desiderio dei genitori e dei terapeuti, non
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appartiene loro, è una creazione degli adulti ed è dunque normale diffidarne,
attaccarlo. Infatti, la dinamica psichica, in adolescenza , deve superare il senso di
dipendenza inerente al bisogno di identificazione. Nutrirsi dell’altro è un bisogno che
sembra tanto più forte quanto simultaneamente provoca, al fine di preservare il
narcisismo, la stessa esigenza di lottare contro la dipendenza che da questo stesso
bisogno è suscitata. Questa difficoltà porta l’adolescente ad adottare spesso
atteggiamenti di provocazione e di sfida che rendono difficili ogni alleanza terapeutica.
Il gruppo di pari, invece, viene investito come spazio di sostenimento narcisistico e
appoggio delle identificazioni . ; e del resto, abbiamo visto che prima e dopo la seduta i
ragazzi si sono ritrovati rapidamente per parlare insieme.
Il gruppo terapeutico viene vissuto , in un primo tempo , come il segno della dipendenza
nei confronti dei genitori , e verrà propposto appunto ad adolescenti per i quali il gruppo
dei pari non soddisfa pienamente gli obbiettivi che riempie sufficientemente per altri.
La presenza degli adulti introduce, inoltre, un senso di persecuzione che bisognerà
superare affinchè si costituisca un sentimento di appartenenza atto a consentire un
appoggio e delle possibilità di identificazione necessari al lavoro terapeutico.
Cio’ pone un problema ai terapeuti che devono trovare la buona distanza per intervenire.
Le difficoltà incontrate in questo gruppo , ci hanno costretti ad una vigilanza tanto più
importante nei confronti delle nostre posizioni e interventi, quanto l’atteggiamento di rifiuto
dei ragazzi era difficile da sopportare e poteva indurre in ritorno movimenti di rigidità.
Noi riteniamo importante che il lavoro terapeutico, a qualsiasi età, possa appoggiarsi
sullo sviluppo e l’elaborazione di modi di comunicazione più specifici tra pari, che l’adulto
deve quindi rispettare.
L’atteggiamento e i modi di intervento del o dei terapeuti devono tuttavia tener conto delle
particolarità dell’investimento del gruppo nell’economia psichica dei giovani pazienti.
L’obbiettivo del gruppo terapeutico è infatti di operare una mediazione con l’adulto. Esso
ha infatti un effetto tampone e permette l’elaborazione di tale relazione, poichè viene
posta la questione della differenza delle generazioni.
Per gli adolescenti, la reciprocità nel dispositivo, tra le loro posizioni e quelle dell’adulto,
ci sembra dunque particolarmente importante.
Contrariamente a quanto succede nella relazione pedagogica classica, non esiste un
rapporto dominante / dominato, o maestro/ allievo : ognuno conta sugli altri ed ha bisogno
di tutti. Percio’, dall’inizio del gruppo, privileggeremo la sistemazione di questo spazio
comune : imparare a conoscersi , a funzionare insieme e non solo in presenza dell’adulto
ma con l’adulto ; non daremo troppo precocemente un senso ai contenuti sottostanti
anche se sono contenuti gruppali. Cio’ sarebbe vissuto in modo intrusivo, ricreerebbe la
posizione di quello che sa nei confronti di quelli che non sanno, e introdurrebbe infine
una superiorità gerarchica che l’adolescente non trova più giustificabile.
In questa seduta , percio’, non interveniamo interpretando il trasfert, o esplicitando quanto
abbiamo creduto di capire circa la difficoltà ad entrare nel funzionamento gruppale
propposto, in riferimento alla nostra presenza !
Ma sottolineamo semplicemente che :
- « Cedric ci mostra che l"esperienza che stiamo vivendo, non sembra ancora totalmente
positiva per tutti ; che cosa possiamo fare insieme per cambiare le cose ?
Justine e Aureliano, mostrano ciascuno l’aspetto positivo delle sedute e cio’ che
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hanno potuto ricavarne, ma solo Justine insiste per proseguire. Aureliano sarebbe
d’accordo per lasciare il gruppo, riconoscendo che tutto sommato è stato positivo , se
non ci fosse suo padre ! ! !
Gli altri ragazzi intervengono soltanto con un cenno per dire di si quando Olivier sempre
più insistente ciede ad ognuno di loro se sono d’accordo per mettere un termine
all’esperienza del gruppo.
La terapeuta propone allora di riprendere insieme quanto è stato detto e vissuto dall’inzio
della seduta, e tenta quindi di far rilevare il movimento difensivo che li riunisce
nell’idea dell'interruzione , per non affrontare la separazione e l'abbandono.
In effetti, come saranno vissute le defezioni, se soppravengono quando il gruppo si
costituisce unicamente contro gli adulti? Esiste il rischio che gli adolescenti si uniscano
soltanto per fugggire e che il gruppo si riduca ad essere una faccenda che interessa solo
i terapeuti.
Ci siamo posti questa domanda di fronte alla decisione di Cedric : stava davvero
influenzando tutti gli altri ? Eppure, avevamo il sentimento che qualcosa stava creandosi,
che indubbiamente la posizione ambivalente di Aurelien era condivisa più o meno da altri
o forse da tutti , e che dovevamo « tenere » , di mostrando in questo modo il nostro
interesse per loro e per l’esperienza in corso.
Li abbiamo dunque lasciati, precisando bene che li avremmo aspettati il martedi
seguente.
Dopo alcune sedute Aurelien ha chiesto di fissare una data « per sapere fino a quando
ci si dovesse impegnare a venire » ed è stato deciso che tutti sarebbero venuti fino alle
vacanze d’estate : per la fine si sarebbe visto dopo.
Il gruppo, insomma, si unusce grazie alla partenza di alcuni , che saranno allora i capri
espiatori. I terapeuti e gli adolescenti si uniscono in un vissuto di abbandono condiviso ;
diventano un gruppo di superstiti.
Inoltre, il patto fatto con gli adolescenti a proposito della durata e dell’impegno permette
di riunire adulti e adolescenti in uno stesso progetto che sarà cosi’ valorizzato e oggetto di
riappropriazione da parte di questi ultimi.
POSTO DATO AI GENITORI IN QUESTO TIPO DI TRATTAMENTO
Un punto comune riunirà gli adolescenti , lo conosciamo bene in consultazione e in
terapia : è l’atteggiamento critico nei confronti dei genitori. Questo rifiuto apparente è
sotteso da un ‘ambivalenza importante ; infatti , criticarli non significa distruggerli. Tutti,
sappiamo quant’è delicata un’alleanza con gli adolescenti contro i genitori . In gruppo, il
dispositivo che proponiamo, permette lo sviluppo di questa aggressività, sovente
amplificata dalla dimensione gruppale, senza rinforzare la colpevolezza legata alle
costrizioni superegoiche.
Viene infatti proposto ai genitori un gruppo parallelo che si riunisce generalmente una
volta al mese.
Proponendo ai genitori uno spazio che dia loro la possibilità di rimmettersi in causa, ma
anche di sostenersi, si crea un contenitore narcisistico che permette all’adolescente di
ritrovare la fiducia nelle strutture e di appoggiarsi sui nuovi elementi relazionali che non
erano presenti nella loro famiglia..
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Cio’ li aiuterà ad uscire dalla ripetizione e permetterà di spostare quanto era rimosso Da
parte loro, i genitori , messi a confronto con la crisi della metà della vita si ritroveranno uniti
nell’ interrogarsi circa la loro domanda di aiuto
Il condividere le difficoltà comuni permetterà loro di ritrovare la relazione ai propri genitori
, di identificarsi con i loro figli adolescenti attingendo alla propria adolescenza.
TRA IL MONDO DEI GENITORI E QUELLO DEGLI ADOLESCENTI QUALE POSTO
DOVRA’ OCCUPARE ILTERAPEUTA ?
Il posto dell’ adulto è molto difficile. In un primo caso puo’ venire respinto, in un secondo
caso partecipa all’illusione , atteggiandosi a compagno dei ragazzi.In questa esperienza,
in effetti , se il terapeuta assume la posizione dell’analista che ascolta e da senso, gli
adolescenti si rifuggeranno in modo difensivo nel silenzio durante le sedute mentre
comunicheranno nella strada o nella sala di aspetto tanto più facilmente quanto l’adulto
sarà assente. Nel secondo caso invece, se il terapeuta cerca di avvicinarsi partecipando
agli scambi, i ragazzi non mancheranno di ricordargli la distanza giusta. Lo mostra il
seguente esempio :
In un gruppo di cinque ragazzi e ragazze dai quattordici ai quindici anni, si parla , da
alcune settimane, di computer e videogiochi; tutti sembrano condividere la stessa
esperienza ed utilizzano un lessico specializzato n cui e questione di trasformazione
magica, di fusione dei protagonisti con anullamento delle differenze di generazione… Il
discorso del gruppo evoca la piena onnipotenza. Il terapeuta, ridotto ad una funzione di
spettatore è confrontato in modo evidente, ad un'altra cultura; si sente estraneo e nello
stesso tempo sedotto da questo mondo ignoto. Egli tenta allora un'alleanza,chiedendo
alcune spiegazioni; gli adolescenti lo guardano sorpresi, quasi avessero dimenticato la sua
presenza e uno di loro , gentilmente, gli spiega che questi giochi son fatti per i giovani; un
altro aggiunge che sono pericolosi per gli adulti perchè si lasciano
Prendere e non ne possono più uscire; un terzo ragazzo precisa che ha sentito parlare di
una persona che ne era diventata matta…è evidente che ognuno tiene il suo posto,
eppure lo scambio ha senza dubbio un carattere ludico. Alla fine della seduta tutti
stringono calorosamente la mano del terapeuta dicendogli:
" alla settimana prossima".
Più tardi, l'elaborazione dei fantasmi difensivi di onnipotenza, diventerà possibile , in
riferimento alle possibilità offerte dai videogiochi e dalle immagini virtuli.
In 'occasione dell'assenza di un ragazzo, il terapeuta, scherzando, si lamenta
dell'indigenza del centro, che non possiede un computer sufficientemente potente da
realizzare l’immagine virtuale dell’assente ,per fare in modo che il gruppo sia completo.
Seguirà un vero lavoro analitico del funzionamento degli adolescenti, che potrà iscriversi
nella dinamica gruppale.
Infine, le posizioni particolari del terapeuta, prese in funzione dell'età e delle specificità
del funzionamento psichico dei giovani pazienti, influenzeranno la sua modalità di
intervenire in modo significativo.
Al di là di queste differenze , la sua capacità a condividere gli stati emozionali del gruppo,
mettendosi in contatto con le proprie parti infantili, verrà sempre sollecitata e gli
permetterà di trovare la distanza giusta, preservanndo la differenza delle generazioni.
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Questa sarà la condizione perchè il processo gruppale possa svilupparsi e prendere
senso nei gruppi terapeutici di bambini e di adolescenti.
BIBLIOGRAFIA
Privat P.,Quelin-Soligoux D.(2000) L’enfant en psychothérapie de groupe , Edition
DUNOD,Paris.
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PSICODRAMMA ED EFFETTI DI PRESENZA
O.Avron
La mia pratica psicodrammatica si sviluppa nel contesto degli anni 60-70. Nello stesso
tempo e in modo indipendente erano giunti in Francia, attraverso gli Stati Uniti, lo
psicodramma moreniano e la dinamica di gruppo di Kurt Lewin. L’esperienze di gruppo
rappresentavano all’epoca una novità, se non un’esaltazione che coglieva di sorpresa
psicoterapeuti e psicosociologi, data la molteplicità di approcci e fondamenti teorici.
Alcuni psicoanalisti si sono subito appropriati di queste tecniche cercando di ri-orientare
una teorizzazione della dinamica gruppale a partire dai fenomeni inconsci. Ma il
passaggio da una comprensione fondata sulla conflittualità intra-psichica, così come
Freud l’aveva elaborata, ad una spiegazione del funzionamento interindividuale sollevava
più interrogativi che risposte. La contropartita era una grande libertà concettuale, senza
“maitre à penser” .
Ero molto sensibile a questi diversi movimenti in quanto avevo terminato la mia
formazione analitica, cominciavo la pratica terapeutica individuale, insegnavo
all’Università di Parigi VII, ed ero incaricata di costituire gruppi di coinvolgimento per la
formazione degli studenti.
Facendo confluire queste diverse tendenze decido di fare la conoscenza dello
psicodramma con Anne Schutzenberger che si era formata con Moreno e di partecipare
allo Psicodramma presso l’Istituto di Psicoanalisi dove tre psicoanalisti della Società
Psicoanalitica di Parigi, Serge Lebovici, Renè Diatkine, Evelyne Kestemberg, tentavano
dal 1948 di utilizzare a loro modo la tecnica psicodrammatica con bambini e pazienti
psicotici. Essi stessi scrivono “a quei tempi non avevamo conoscenza se non per sentito
dire dei lavori di Moreno, questo ci obbligava ad improvvisare ed a fare numerose prove
in direzioni diverse”1. Tuttavia, essenzialmente, essi mantenevano il punto di vista
psicoanalitico, facendo intervenire come partner del gioco, degli psicoanalisti in
formazione che assumevano direttamente il livello latente del tema proposto
accentuando, ad esempio, nei loro ruoli, i movimenti pulsionali sottostanti o le voci
superegoiche ed inibenti, internalizzate dal paziente.
Io stessa non avevo idee guida. Trovavo, intuitivamente, che gli psicoanalisti
sottovalutassero un po’ troppo la dinamica gruppale e che l’equipe di Anne Schutzenberg
non tenesse sufficientemente conto dei processi inconsci. Imparavo.
Da parte sua Didier Anzieu riuniva psicosociologi e psicoanalisti per avviare una ricerca
che integrasse, a partire dall’esperienza dei gruppi di formazione, gli apporti della
dinamica grippale e la psicoanalisi.
Sono, dunque, immersa in questa storia culturale. I terapeuti di gruppo inglesi, Foulkes
e Bion, sono ancora poco conosciuti. Conoscerò i lavori di Bion nel 1965 dopo la
traduzione del suo libro “Esperienze nei gruppi”2. Questa lettura avrebbe sostenuto e
rilanciato i miei interrogativi, accompagnato la riflessione e le modificazioni sia cliniche
che teoriche, tuttora in corso. Oggi penso che una concettualizzazione analitica che
integri la dinamica gruppale è lontana dall’essere raggiunta. Questo tuttavia mantiene
aperto un campo di ricerca stimolante.
Dispositivo psicodrammatico.
1
Lebovici S., Diaktine R., Kestemberg e., -“Bilan de dic ans de pratique psychodramatique chez l‟enfant e
l‟adolescent”, La Psichiatrie del „enfant, PUF, Vol.1 fascicule 1, 1958
2
Bion W.R. – Recherches sulr le petits groupes, PUF, 1965
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Prima di fornire gli elementi della mia ricerca, vorrei presentare il dispositivo attuale per
dare una visione clinica più concreta del mio lavoro.
Si tratta di gruppi terapeutici privati. Sono costituiti da 7 pazienti adulti che, per la
maggior parte, hanno precedentemente seguito delle lunghe terapie individuali. In breve,
diciamo che rientrano nella categoria degli “stati limite”. Sono la sola terapeuta. Le sedute
sono di due ore, settimanali. Il contratto è di un anno, rinnovabile; questo comporta uno
statuto di “gruppo parzialmente aperto”, in generale due pazienti terminano a luglio e
sono sostituiti da due nuovi pazienti a settembre. La durata media della terapia è di tre
anni. Questo dispositivo permette ai pazienti di vivere le ansie di integrazione e
separazione, lascia ad ognuno il tempo che ritiene necessario per riflettere e partecipare
ai movimenti d’insieme dove bisogna, lentamente, apprendere a situarsi. Con
l’esperienza, la seduta settimanale di due ore si è suddivisa in tre tempi successivi: lo
scambio preliminare, il gioco, la discussione gruppale
1. Lo scambio preliminare
Dura da mezz’ora a tre quarti d’ora. Ci s’informa, si portano le difficoltà del momento, si
ricorda un’ultima seduta, un sogno, un ricordo. Così si persegue la costruzione di una
trama comune dove ci si muove nella storia presente e passata degli uni e degli altri, ci si
articola alle differenti sensibilità, s’intravede la forza oscura della vita inconscia. Lascio
che gli scambi, base del lavoro terapeutico, si organizzino liberamente. Se gli scambi
tendono a frammentarsi, segnalo la linea affettiva che li sottende, oppure chiedo: “che
cosa stiamo dicendo?” ,“che cosa ci inquieta?” E’ un modo per ricordare che tutto ciò che
avviene è significativo e ci lega l’uno all’altro.
2. Il gioco psicodrammatico:
Dopo questo primo scambio chiedo chi vuole giocare. Accompagno colui che propone il
gioco nello spazio lasciato libero a questo scopo e l’aiuto a precisare il suo tema. Dopo di
ciò il paziente stesso sceglie i suoi partner.
Anche quando il tema è individuale, come in questo caso, la “ messa in scena” è
gruppale. Richiede la partecipazione di più pazienti, portatori dei ruoli precisi a loro
richiesti, ma anche di ciò che, coscientemente o inconsciamente, sanno dei loro partner.
Il gioco fa circolare questi differenti livelli di conoscenza e d’intuizione. D’altra parte
affinché la dinamica scenica possa realizzarsi occorre mantenere non solo la
rappresentazione e la coerenza di una storia ma bisogna realizzare un atto collettivo in
divenire e questo richiede un collegamento istantaneo delle reciproche stimolazioni.
Questa struttura scenica gruppale costituisce un potente motore per i partner e per il
pubblico sia a livello dei contenuti che delle modalità di legame createsi.
Non intervengo mai come partner del gioco. Qualche volta doppio l’autore per
esprimere con una frase ciò che,soggiacente il discorso,rischia la dispersione,potrebbe
non giungere alla parola. In un gioco Beatrice riprende gli interminabili rimproveri verso il
marito giudicato egoista e distante.Conosciamo bene questi rimproveri così come le
riconciliazioni con un padre freddo e severo. Ma, ogni volta, l’evento deludente l’assorbe
completamente.Io doppio:“ In realtà vorrei sapere se mi ami?”. Questo brusco
spostamento la sorprende e l’emoziona. La discussione di gruppo evidenzierà le vere
poste in gioco affettive che si nascondono dietro i comportamenti manifesti. Spesso
utilizzo la tecnica del cambiamento di ruolo per avvicinare quelle reazioni inconsce
mutuamente intrattenute.Ad esempio è interessante chiedere ad un paziente che ripete
delle situazioni di attacco persecutorio di prendere il posto del partner per sentire la
propria violenza molto spesso negata.
3.
La discussione gruppale
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Al di là del contenuto del gioco è di fondamentale importanza sollecitare, in seguito, la
partecipazione e l’elaborazione di ognuno. Gli apporti degli uni e degli altri sono allora di
sorprendente acutezza.
In questo contesto interpretare a livello del gruppo o individuale, sottolineare una
reazione personale o un movimento di insieme non è molto diverso.Avviene
parallelamente una presa di contatto più stretta con sé stessi e con gli altri.
Prime riflessioni sulla funzione psichica in gruppo
Questo legame complesso tra l’intra-psichico e l’inter-psichico è diventato l’asse
principale della mia ricerca. L’esperienza dei piccoli gruppi di terapia fa scoprire come la
conoscenza dei contenuti inconsci sia d’importanza capitale per comprendere il
funzionamento dell’essere umano legato alla sua sessualità infantile. Grazie alle
scoperte dei Freud , utilizziamo il cammino delle libere associazioni per intravedere gli
echi inesauribili delle domande di appagamento, la loro ripetizione, la loro via
d’espressione deviata. In situazioni di gruppo la catena associativa che si organizza tra i
partecipanti può lasciare intravedere il fantasma attivo e dominante . I lavori di Didier
Anzieu3 prima, di Renè Kaes4 in seguito, fanno assegnamento sull’universalità dei
fantasmi originari per mettere in luce la loro modalità di articolazione tra individui.
M’ispiro a questi aspetti dei loro lavori per analizzare come alcune concatenazioni di
contenuti manifesti possano fare eco, in ciascuno, e nello stesso momento ad una
fantasmatica sessuale infantile. Ma resta aperta la domanda attorno alle modalità
psichiche che permettono questo contatto immediato da una struttura psichica all’altra.
Fin dall’inizio delle mie esperienze di gruppo sono stata colpita oltre che dai contenuti,
anche dalla tensione che si genera tra gli individui riuniti e che crea un clima emozionale
difficile da definire ma portatore di movimenti instabili di unione-separazione. Chiamo
effetti di presenza questi sistemi fluttuanti di tensione-attenzione per sottolineare che
sono legati alla presenza effettiva degli individui ed al legame immediato che si crea.
Questi effetti di presenza di natura energetica ,che suscitano un legame psichico
immediato,vanno differenziati dai contenuti rappresentativi legati all’assenza dei primi
personaggi investiti e all’appello desiderante che conserva la loro internalizzazione e la
loro ricerca nel mondo esterno.Queste due modalità psichiche così diverse s’intrecciano
così intimamente da risultare, il più delle volte ,indissociabili. Perciò la loro osservazione è
difficile.Prima di passare ai postulati necessari per situare le mie riflessioni ad un livello
metapsicologico,vorrei attraverso un esempio clinico mostrare il flusso incessante che,
allo stesso tempo, ci mette in contatto con il mondo esterno ed interno.
Esempio clinico
Ho tratto L’esempio da uno dei gruppi di psicodramma in corso
Aperto due anni fa ha avuto molte difficoltà “a fare gruppo”. Riunisce 7 partecipanti con
particolare difficoltà di contatto. La maggior parte di loro è in una posizione di ritiro tranne
una donna fin troppo esuberante, Jacqueline. Per molto tempo la parola troverà poca
possibilità di rimbalzo e di ritorno. Visibilmente ci si evita. I giochi si afflosciano
rapidamente, salvo per Jacqueline che parla molto ma non viene affatto ascoltata come
se il suo fiotto di parole avesse una funzione di sbarramento e l’obbligasse ad insistere
nel discorso. L’atmosfera è pesante. Provo a fare dei collegamenti, ad attribuire un senso.
Vengo ascoltata con attenzione e perfino con una certa riconoscenza ma subito riprende
3
Anzieu D. – Le groupe et l‟incosciente, Dunod, 1975
Kaes R. – L‟appareil psychique groupal, Dunod 1976
- Le groupe et le sujet du groupe, 1993
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la solita descrizione degli avvenimenti come se fossero dei fatti di cronaca, separati gli uni
dagli altri.
Quando colgo la dominante affettiva del discorso può accadere che un partecipante
(sensibilizzato da u lungo lavoro analitico precedente) riconosca: “questo è legato a mia
madre…. O a mio padre…. Questo lo so ma non cambia nulla”; provo in modo palpabile
la paura che hanno di entrare in contatto gli uni con gli altri, perché troppo sensibili alla
loro presenza reattiva.
Ecco una sequenza del gioco dove intervengono 4 partecipanti:
- Jacqueline, l’esuberante
- Julie, come attrice principale, donna silenziosa e depressa
- Jane, la cui vita affettiva è un deserto
- Jean-Paul, molto chiuso con idee persecutorie, a volte vicino al delirio.
Quel giorno l’atmosfera generale è come al solito pesante, sgradevole, devitalizzata.
Ad un certo punto Jean-Paul si fa portavoce di questo stato generale. Fa notare quanto
sia riposante ritrovarsi la sera da soli, nella propria stanza, con i propri libri ed
eventualmente uno spinello. Ha avuto una relazione affettiva disastrosa, il suo direttore lo
perseguita, i colleghi non sono interessanti. Ripete “finalmente non avere più nessuno
sulle spalle”, “si è più tranquilli”; “gli altri sono lontani”.
Collego “in effetti sembra che anche qui ci sia una grande paura l’uno dell’altro”.
Julie, una donna silenziosa la cui caratteristica è di tenere sempre gli occhi abbassati,
dietro quel sipario chiuso si lascia sfuggire una constatazione “se mi sentono fragile gli
altri ne approfittano subito. Non mi so difendere, sono troppo “porosa”.
- “Porosa?” chiede qualcuno.
- “Si, tutto ciò che si dice mi colpisce troppo violentemente, questo m’impedisce d
pensare. Le mie idee si sfilacciano, è il vuoto”.
Chiede di giocare. Ciò che è stato detto le fa venire voglia di giocare ma non sa come
mettere in scena questo stato d’angoscia e di vuoto che conosce fin dall’infanzia. L’aiuto
a fare delle associazioni. Improvvisamente le ritorna in mente una scena abituale, quella
della colazione: “Ero io che dovevo garantire tutto….. Dovevo pensare a tutto”. A
quell’epoca ha una decina d’anni. Sua madre ammalata da anni è a letto. E’ una donna
depressa ed ipocondriaca ma, a quell’età Julie la crede in pericolo. Le porta la colazione
in camera, poi deve preparare il fratellino e portarlo a scuola. Quanto al padre è in
cucina, “prostrato”. Sceglierà Jacqueline, l’esuberante, nel ruolo di madre. Lei con facilità
comincia ad incalzare la figlia con domande e lamentele. Jane, la grande inibita, prende il
ruolo del bambino. Immobile, priva di reazioni si fa strapazzare dalla sorella maggiore.
Jean-Paul, gettato su di una sedia ripete con convinzione una frase che Julie ha riportato
all’inizio “Fa molta attenzione a tua madre perché può morire da un momento all’altro”.
E’ impressionante vedere sopra tre sedie un pò lontane l’una dall’altra i tre partners
ripiegati su s stessi e Julie in piedi che si affanna, angosciata, a rispondere a tutte le
sollecitazioni del padre, della madre, del bambino. A bassa voce dice “non ce la faccio,
non ce la faccio”. Fermo il gioco riprendendo questa frase “non ce la faccio”.
Lei “bisognava che pensassi a tutto, altrimenti avevo l’impressione che tutto crollasse”.
Piange.
Durante la successiva discussione gli scambi sono profondi. Ci si ascolta. Finalmente si
entra nel gioco azzardando reciproche reazioni. Senza dubbio molti di loro hanno
sperimentato il sostegno ed l’invischiamento di questi livelli primari di partecipazione
gruppale . Si ripropongono nel gruppo antiche modalità di coinvolgimento delll’atmosfera
familiare:
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- Jean-Paul, facendo eco a Julie, racconterà scene di violenza incomprensibile tra i suoi
genitori. Un giorno c’era calma. Un giorno era l’inferno. Sotto la tempesta se ne stava in
un angolo “mi perdevo completamente d’animo”.
Jacqueline, più sobria del solito, racconta come tentasse di fare il clown per far
rilassare i genitori, sempre silenziosi e tristi “ero contenta quando ci riuscivo, esageravo”
(come fa anche con noi) “se non mi ascoltavano, giravo in tondo, non sapevo più che
fare”.
Jane, quel giorno dirà soltanto “a casa mia non succedeva niente…. Mi annoiavo”.
Queste atmosfere sono così continue ed abituali che vengono vissute come norma.
Sono parte costituita dell’essere senza che si debba riflettere a questo proposito. “Più
tardi mi ha molto sorpreso constatare che non era la stessa cosa a casa dei miei
compagni”, dirà Jean-Paul che ha trascorso l’infanzia in una famiglia ripiegata su se
stessa, con scarsi contatti con il mondo esterno.
A livello di lavoro gruppale è importante riconoscere la dimensione di questa
esperienza vissuta ed aiutare a tradurre in parole questa partecipazione impensata. Si
tratta in qualche modo di riabilitare il fondamento esistenziale dell’individuo affinché si
riappropri della sua partecipazione ai legami inter-psichici. Lentamente si renderà conto
che il clima emotivo, quale che sia la sua tonalità umiliante o ingenua, è stato determinato
da tutti, compreso egli stesso .
A partire da lì ha modellato le proprie funzioni di inter-legame.
Avendo avviato ed accettato questa conoscenza sarà possibile mettere in luce le difese
funzionali ripetitive ed eccessive che ne sono scaturite. In un secondo tempo potranno
essere affrontati gli eventuali benefici libidici ritirati attraverso l’esercizio di queste funzioni
e di queste difese. Tenere insieme un gruppo o diventare il porta-sfortuna del gruppo può
essere il percorso inconscio per farsi riconoscere ed amare. La partecipazione ai legami
scenici può allora essere analizzata nella sua dimensione sessualizzata.
Così, per quanto riguarda Julie, è proprio a partire dalla presa di coscienza della sua
funzione di responsabilità sacrificale - avvicinata da diverse angolazioni; nel passato, nel
suo lavoro, nel nostro gruppo, che è stato possibile accostare efficacemente i benefici che
avrebbe potuto ricavarne:
ottenere la riconoscenza del padre
rimuovere l’aggressività verso la madre
esercitare un violento ascendente sul fratellino
Le risonanze inter-individuali acquistano così una grande forza, tutto riprende
movimento e vita.
Per tutta la durata del lento lavoro analitico con un gruppo di pazienti, lo psicoanalista
deve mantenere quella visione binoculare preconizzata da Bion:
attenzione alle modalità di partecipazione che aprono e chiudono il contatto
con gli altri
attenzione al materiale dei contenuti latenti che esprime, senza fine, i desideri
della sessualità infantile
Queste due attività s’intrecciano con i diversi aspetti predominanti a seconda dei
momenti. Questo significa che la scelta degli interventi, accentuazione a dare un certo
movimento, sono il frutto combinato dell’esperienza dello psicoanalista, della sensibilità
partecipativa al clima gruppale, della sua riflessione concettuale. Esperienza che non
finisce mai di evolvere.
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Ripresa della riflessione teorica
La lettura del libro di Bion sui piccoli gruppi è stata determinante nella misura in cui
sosteneva le mie prime intuizioni.
Non riprenderò la teoria bioniana in quanto è ormai molto conosciuta. La descrizione
della mentalità di gruppo e degli assunti di base mi è servita come punto di partenza.
Bion presupponeva la realizzazione immediata di uno stato mentale collettivo primario,
uniforme ed anonimo, di tipo emozionale. Per dare una base concettuale alle sue
osservazioni avanzerà in seguito il postulato del proto-mentale, postulato che mi sembra
quello della pulsione. “Non posso esporre chiaramente questo postulato senza ricorrere
ad una concettualizzazione che trascenda l’esperienza….. vedo il sistema protomentale
come un tutto in cui il fisico, lo psicologico ed il mentale sono indifferenziati”. Da questa
matrice proto-mentale costituita da tutti i membri del gruppo nascerebbero “dei sentimenti
discreti ed a malapena legati gli uni agli altri…..Le emozioni relative all’ipotesi di base per
rinforzare, invadere e qualche volta dominare la via mentale del gruppo”.
Da questo approccio, descritto troppo rapidamente, riprenderei, ora due aspetti:
1)
l’importanza accordata al vissuto emozionale condiviso, base di ogni sviluppo
mentale
2)
la constatazione,che Bion metterà in risalto successivamente, di una forte
resistenza ad utilizzare questa esperienza emozionale in vista dello sviluppo progressivo
del pensiero.
Per descrivere la specificità del funzionamento mentale gruppale, Bion utilizza
indifferentemente i termini di emozioni, stato affettivo, sentimento, sensazione, tendenza
emozionale. E’ difficile nominare questi stati soggettivi attraverso i quali è possibile
sentire il legame con tutti gli altri, senza indietreggiamenti e senza responsabilità. Questi
stati soggettivi non sono necessariamente piacevoli, possono essere noiosi e stressanti
ma mantengono la comunione di un legame primario istantaneo, da qui la difficoltà di farlo
evolvere. “Rifiuto aggressivo – egli scrive – di un processo di sviluppo…..i membri
desiderano poter arrivare perfettamente attrezzati. Senza evoluzione e senza
apprendistato per vivere,agire e stabilirsi nel gruppo”. I suoi lavori sulla psicosi non
cesseranno di sottolineare questa formidabile resistenza all’evoluzione mentale che si
traduce con il rifiuto di apprendere dall’esperienza.
Una forma di evitamento psicotico ancora più radicale consiste nell’attaccare e
distruggere il legame emozionale primario stesso, quando l’esigenza della sua
elaborazione psichica diventa troppo forte e richiede costrizione e sforzo.
Nel suo libro “Alle origini dell’esperienza”5, la cui traduzione letterale è più esplicita
“Apprendere dall’esperienza”, Bion constata “l’incapacità di utilizzare l’esperienza
emozionale provoca un disastro di uguale entità nello sviluppo della personalità: annovero
tra questi disastri i diversi gradi di deterioramento psicotico che si potrebbe descrivere
come morte della personalità” .
Effetti di presenza, pulsione d’inter-legame
5
Bion W.R. – Aux sources del‟expérience, PUF, 1979
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Mi sono a lungo confrontata ed anche differenziata dal corpus teorico bioniano benché
questi abbia dato un forte impulso alle mie ricerche e continui a stimolarle.
Oggi penso che l’emozionalità gruppale non corrisponda alla combinazione uniforme
proposta da Bion con la mentalità di gruppo e gli assunti di base. Quando questa
uniformità compare è l’espressione di una difesa collettiva provocata
dall’immobilizzazione dei processi interni-esterni della funzione di inter-legame. Tale
funzione deve garantire il legame inter – psichico non all’interno di un immaginario
uniforme ma attraverso la mobilizzazione degli apparati psichici in stato di recettività e
stimolazione
Le mie ipotesi attorno a questa funzione pulsionale d’inter-legame conducono a tre
punti principale che continuo a riproporre6:
1)
Essa si organizza a partire da spinte energetiche estremamente mobili, originate
da tutti gli individui presenti. Queste spinte non corrispondono a scariche di eccitazione
interna. Sono delle forme di tensione-attenzione, interne-esterne la cui funzione è di
legarsi tra di loro, tra le loro polarità dissimmetriche di stimolazione e ricettività, e di
rovesciarsi a contatto con la polarità esterna attiva. Asimmetria strutturale di base che
permette, al tempo stesso, lo scarto dinamico e l’inversione indispensabile alla
formazione, alla continuità o alla rottura di un’auto-organizzazione in movimento.
2)
E’ possibile comprendere l’attività delle corrente energetiche oscillanti dell’interlegame distogliendo parzialmente l’attenzione dallo scambio dei contenuti ed arrivare ad
una percezione partecipativa dei movimenti d’insieme. In questo caso non si tratta di una
percezione sensoriale del mondo esterno o di una percezione soggettiva centrata sui
propri sentimenti. L’apertura percettiva all’impatto dell’attività esterna si produce
attraverso la risposta che induce dentro di noi. Nel momento stesso in cui il mondo
esterno ci provoca è in gioco il nostro operato perché noi partecipiamo a delle reazioni a
catena. Ci troviamo così nella situazione paradossale di essere provocati e fare
conoscenza di un ambiente psichico di cui, senza saperlo, siamo co-autori. Siamo, allo
stesso tempo, all’interno ed all’esterno di noi stessi. Da questo paradosso nasce una
forma di conoscenza. Conoscenza esperenziale del mondo psichico circostante ritmato
su un’attività esterna che contribuiamo a creare e che, in cambio, ci informa sulla propria
esistenza ed intensità.
3)
Definisco pensiero scenico questo proto-pensiero capace di sceneggiare ed in
parte prevedere le attività reciproche del legame. Questa forma di pensiero scenico,
sperimentando e guidando l’inter-legame acquisisce, attraverso la molteplicità di
situazioni da affrontare, una maggior capacità di previsione. Progressivamente potrà
essere messa al servizio di azioni collettivi finalizzate. Come ogni azione psichica il
pensiero scenico potrà essere utilizzato sia per finalità di solidarietà gratificante che per
finalità di lavoro. Il valore morale dell’azione è un altro grande problema. Ma in ogni caso
la capacità esperenziale di partecipazione alle forme primarie dei reciproci legami e lo
sviluppo del pensiero scenico apriranno l’accesso alla consapevolezza generalizzata
dell’intercausalità psichica ed ancora di più alla multi-causalità che lega gli esseri, gli
avvenimenti e le cose.
Per provare a collocare questa energia plurima che lega gli individui fra loro ed a loro
insaputa ho proposto di prendere in considerazione, nella prospettiva metapsicologica
della seconda topica, l’esistenza di una pulsione di inter-legame che farebbe parte delle
molteplici forze dell’Es, quella “pentola bollente” come Freud l’ha definita, che da impulso
all’energia di ogni legame e slegatura psichica. Qui non posso sviluppare la mia
concezione ma il postulato di una pulsione d’inter-legame permette di attribuire una
6
Avron O. – La pensée Scénique, Erès, 1986
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specificità propria all’emergere della dinamica inter-pulsionale, costitutiva dei legami
immediati tra gli individui. Possiamo allora pensare che gli effetti della pulsione di interlegame si combinino con gli effetti rappresentativi della pulsione sessuale per dare forma
agli scenari fantasmatici originari ed alla oro sensibilità universale. Così l’espressione del
piacere e la necessità di sentirsi sufficientemente collegati per garantire la propria
sicurezza dovrebbe, fin dall’origine, trovare quel dosaggio instabile e mai soddisfacente
tra interiorità ed esteriorità, tra i legami desessualizzati e quelli di raggruppamento
comunitario. Tutto ciò richiederebbe, ben inteso, una lunga trattazione. Qui non faccio
altro che indicare questa dimensione metapsicologica.
Le disfunzioni dell’inter-legame.
Le disfunzioni gravi dell’inter-legame provocano disturbi di ordine psicotico. E’
l’organizzazione stessa del legame permanente e reciproco con l’ambiente circostante ad
essere disturbato, produce stati emozionali di angoscia più o meno profonda che
intaccano il sentimento stesso di esistere.
Accettando che in ogni personalità vivono fianco a fianco una parte nevrotica ed una
parte psicotica, mi sembra che nei pazienti relativamente adattati, che fanno parte del
gruppo di psicodramma che ho presentato, vi sia una copertura nevrotica che li protegge
da angosce d’identità più o meno profonde. L’incontro con altri rappresenta una sorta di
attrazione repulsiva: attrazione e paura del mondo esterno, capace di sostegno o di
distruttività. Il gruppo terapeutica rappresenta un confronto non solo con le loro
problematica sessuali intrapsichiche ma anche con il legame diretto con quegli “altri”
indispensabile e pericoloso
Attualmente questo m’induce a seguire non solo il clima emozionale del gruppo e le
sue oscillazioni ma anche le modalità funzionali di stimolazione e ricettività esercitate da
ogni individuo, a propria insaputa, al fine di partecipare o meno alla contatto ed alle
modificazioni della trama emozionale gruppale del momento.
L’esercizio di queste funzioni d’inter-legame nei piccoli gruppi di terapia interroga la loro
organizzazione e la loro eventuale struttura difensiva nell’ambiente originario di ciascuno.
Questa disamina utilizza sia l’osservazione diretta che la strada indiretta delle
associazioni circa il clima emozionale familiare:
1. L’osservazione diretta permetterà, prestando attenzione ai momenti, agli interventi,
alle reazioni, di seguire sul campo la variabilità o la staticità delle modalità di contatto e di
esitamento: come ogni paziente risponde o meno alle sollecitazioni individuali e partecipa
al clima d’insieme per modificarlo o renderlo immobile, che posto prende nel gruppo,
come viene sollecitato o dimenticato.
2.
Via indiretta: presuppongo che le caratteristiche di queste funzioni di interlegame osservabili nel gruppo di terapia si siano sviluppate nell’ambiente primario del
soggetto. Dal momento che queste assumono tonalità ripetitive-difensive si può pensare
che si siano plasmate in un ambiente egli stesso disfunzionale. I sistemi emozionali
instabili hanno, in questo modo, segnato profondamente le funzioni partecipative e di
legame del bambino; la sovrastimolazione o il ritiro sistematico ne sono gli attuali
testimoni.
Le funzioni innate di stimolazione e recettività hanno, in qualche modo, perso la
capacità di flessibilità ed estensione originali. Si sono fissate in modo eccessivo e
ripetitivo sulle reazioni dell’ambiente circostante non permettendo più o, non
sufficientemente, l’apertura e l’attrativa indispensabile alle varie azioni e reazioni del
mondo esterno. Tutto ciò è rinforzato dal fatto che le famiglie sono generalmente troppo
ripiegate su se stesse. Vissuti psicotici possono apparire nei pazienti sotto forma di
lamentele ricorrenti e non ben definite: l’impressione di essere inconsistente, senza
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colonna vertebrale, trasparente, attaccato da tutte le parti o minacciato di crollo
immediato. A questi stati si unisce spesso l’idea che gli altri ci utilizzino o che sia
impossibile difendersi dai loro attacchi. Da qui i sistemi di fuga o di timore persecutorio.
Per facilitare la presa di coscienza di queste strutture familiari e l’eventuale
rimaneggiamento dei processi partecipativi del soggetto, facilito non solo il ricordo di
personaggi familiari dell’infanzia ma anche quelli dei luoghi emozionali costitutivi della
sicurezza o insicurezza del legame. Appaiono così ricordi precoci dai contorni imprecisi.
Nella seduta di gruppo che ho presentato abbiamo visto come Julie e gli altri
partecipanti hanno progressivamente dato forma e parola all’opacità di atmosfere familiari
gravemente disturbate. Le trame energetiche non – verbali, al cui interno ognuno è preso
a propria insaputa, sono costitutive del sentimento stesso di esistere. Sentimento che
richiede una certa consistenza per permettere, parallelamente, l’avventura personalizzata
del desiderio e il lavoro umanizzante della simbolizzazione
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FATTORI TERAPEUTICI NEI GRUPPI OMOGENEI A ORIENTAMENTO PSICOANALITICO PER I DISTURBI
ALIMENTARI
Lilia Baglioni
Una paziente di un gruppo terapeutico racconta una storia di sua invenzione che si svolge
nella valle dei "boccioli che non si schiudono". Il luogo è stato stregato: indifferenti al
succedersi delle stagioni, i fiori tengono chiuse e immobili le loro piccole corolle, vivono in
un eterno presente. Non fioriscono, non muoiono, non producono frutti. Di conseguenza,
gli abitanti della valle muoiono di fame, perché l'ambiente naturale che li circonda è fuori
sincronia con i loro ritmi vitali.
Per questo gruppo, l'incantesimo ha un nome: anoressia. L'anoressia è una condizione
patologica la cui osservazione e comprensione si avvalgono utilmente di un uso flessibile
di teorie e modelli diversi. Questo perché la ricerca di una teoria capace di spiegare e
risolvere tutto, se da un lato rispecchia la sclerotizzazione difensiva dei confini dell'io tipica
di questi pazienti, dall'altro produce spesso interventi che li costringono a ritirarsi dietro
una barriera difensiva ancor più fitta, nel tentativo di far sopravvivere ciò che viene
percepito come il vero sé: il che, malauguratamente, segna spesso il punto di non-ritorno
sia per la terapia che per il paziente.
Non tutti i casi che arrivano in consultazione sono di eguale gravità. Può trattarsi in effetti
di un disturbo transitorio, ma anche in quel caso ciò che emerge è l'incapacità di elaborare
efficacemente un trauma, un lutto, o semplicemente una fase difficile del percorso
adolescenziale, incapacità legata a una sorta di disorientamento, a una perdita di
coordinate fisiche, mentali e relazionali, a sentimenti di futilità e disorientamento affettivo,
a una mancanza di spazio interiore.
Ciò che emerge, dunque, è un sé incompleto o vulnerabile; un sé che o non ha sviluppato
le sue funzioni e i suoi oggetti, o che ha potuto farlo solo sacrificando, segregando e
isolando il sé che è capace di imparare dal dolore mentale, e insieme prendendo le
distanze da tutti quegli oggetti, incluso il corpo, capaci di istigare tale esperienza di
apprendimento. Il vero sé viene protetto da un "falso sé" (Winnicot 1960) e un "falso
corpo" (Orbach).
La ricerca sulle carenze infantili ha dimostrato che il mancato sviluppo di una
rappresentazione psichica del proprio corpo può essere dovuto sia a un'eccesso che a
una carenza di stimolazione cognitiva ed emozionale.
La psicologia del sé imputa il mancato consolidamento di un'immagine corporea integrata
e coesa a una serie di interazioni disadattive fra il sé e l'oggetto-sé: intrusività, mancanza
di risposta empatica, risposte incoerenti o selettive ai segnali del bambino da parte delle
figure percepite come fonte primaria di cure sarebbero causa, fra l'altro, di difficoltà nel
processo di separazione-individuazione, scarsa percezione dei confini, paura di essere
invasi, estrema arrendevolezza alle richieste di conformarsi.
Risposte difensive quali l'innalzamento della soglia determinano, a un livello di
organizzazione elevato, una scarsa integrazione delle rappresentazioni fisiche e psichiche.
Quando il genitore non è in grado di entrare in risonanza con gli stati interiori del bambino,
la risposta del bambino stesso alle proprie esperienze corporee ed emotive, ai propri
movimenti e affetti, finirà per essere incompleta, priva della convalida del riferimento
diretto alla propria esperienza. Il risultato di ciò sarà un'immagine di sé distorta, e un'
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immagine corporea altrettanto distorta, come emerge chiaramente dai disegni delle
pazienti anoressiche, in cui i confini sono vaghi o strabordanti e le figure
caratteristicamente deformate.
Ciò che sembra mancare è un'esperienza "sentita" del corpo in quanto somma sempre
presente delle esperienze personali sia al livello cinestetico, visivo e uditivo, che a quello
affettivo e cognitivo: un'esperienza di "continuità dell'essere" (Winnicott).
Le risposte genitoriali selettive alla comunicazione di stati psicosomatici da parte del
bambino creano una realtà selettiva, e complessi schemi adattivi organizzati attorno a
singoli modelli percettivo-emotivi che divengono tratti della personalità e strategie di
interazione caratteristiche.
In un sé più integrato, le fantasie di perdita prendono forme più definite (castrazione o
perdita di parti del corpo) che non compromettono gravemente la coesione del sé, in
quanto sono basate su uno schema corporeo più coerente ma nelle pazienti anoressiche e
bulimiche, al contrario, le angosce prevalenti ruotano attorno a fantasie di annientamento
e smembramento.
L'attenzione all'esperienza corporea di questo tipo di pazienti può essere vista come
l'espressione di un più grave disturbo del sé corporeo e psicologico, e come un tentativo di
ripristinare l'integrità del corpo e della sua rappresentazione, tentativo che può esprimersi
in sintomi come la depersonalizzazione, l'ipocondria, le allucinazioni somatiche e la
dissociazione psicosomatica (Ciocca 1997).
Diversamente, come hanno osservato Winnicott e Lichtemberg, l'esperienza di un sè
corporeo tende a prodursi spontaneamente in presenza di stimoli "in fase" e di intensità
appropriata.
Lo scambio affettivo fra il bambino e le figure accudenti rende possibile al bambino
l'esperienza di possedere un corpo. L'esperienza di un senso di sé stabile ha come
presupposto quella di uno spazio fisico autonomo dotato di confini. Ossia, il bambino deve
essere stato trattato come un'entità distinta a partire dal corpo e dal suo rapporto con
l'ambiente.
Il sistema madre-bambino può essere osservato da due vertici: come una "coppia"
(couple), o come un "paio" (pair). Nel primo caso, gli umori, gli interessi e i comportamenti
dei due ruotano attorno alle reciproche differenze e ai vantaggi che esse offrono; nel
secondo, il tentativo è quello di ridurre le differenze, di diventare una cosa sola, ad
esempio imitando i movimenti, le espressioni facciali e i suoni dell'altro (Emde 1983). Agli
occhi dell'osservatore, la madre apparirà impegnata ad aiutare il bambino a conformarsi
alla cultura dell'ambiente circostante, mentre il bambino mira a crearsi la propria nicchia
nel sistema ecologico; entrambi sono alle prese con problemi relativi alle opportunità di
"aggregazione al gruppo" e "accoppiamento" (H. Boris 1993).
Aspetti primari fondamentali dell'esperienza umana si costruiscono nell'individuo per
mezzo di una specifica funzione "gruppale"; e d'altro canto, una specifica funzione
gruppale può istigare radicali trasformazioni di quella esperienza.
Bion ha descritto il processo secondo cui la madre, attivando la propia funzione alfa,
contiene mentalmente e fisicamente le angosce, le sensazioni e le emozioni che il
bambino non è ancora in grado di metabolizzare: gli elementi beta, che corrispondono a
oggetti cattivi niente-seno. La futura capacità del bambino di contenere, trasformare e
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metabolizzare autonomamente gli elementi beta dipenderà dalla qualità della sua
relazione con la madre, e dalla capacità di sintonia, amore e attenzione (in ultima analisi,
di reverie) della diade: "Non è possibile intrattenere un rapporto diretto con noi stessi
senza l'intervento di una sorta di levatrice mentale e fisica. A quanto sembra c'è bisogno di
rimbalzare contro un'altra persona, di avere qualcuno che rifletta ciò che diciamo, perché
possa diventare comprensibile" (Bion 1987).
Le anoressiche, come altri pazienti gravi che incarnano nella propria condizione le forme
che il disagio assume nella società occidentale contemporanea, appaiono segnate da un
presentimento al confine fra il biologico e il mentale, dalla sensazione di essere
condannate al gruppo dei non eletti, dei non riconosciuti come simili, e dunque destinati, o
condannati, a non sopravvivere o non giungere a maturità. Quella che agli occhi del
terapeuta è una malattia, per il paziente è un mezzo di salvezza; e tuttavia io ho notato in
questi pazienti l'emergere di un desiderio di essere parte integrante di un collettivo,
desiderio a volte mai conosciuto prima, o ritrovato dopo averlo perduto precocemente.
Queste osservazioni si basano sulla mia esperienza di terapeuta di gruppo con pazienti in
cura presso l'ABA - associazione per lo studio e la ricerca su anoressia e bulimia, che
idealmente accomuna pazienti e terapeuti in una sorta di vasto gruppo specializzato. Nel
periodo in cui lavoravo nell'associazione, questa gestiva centri clinici che promuovevano
come strumento terapeutico d'elezione piccoli gruppi a lungo termine a inserimento
graduato. Ponendosi come anello intermedio fra gruppo primario e gruppo secondario,
un'associazione
si presta particolarmente ad accogliere la richiesta terapeutica, spesso ambivalente e
confusa, di una popolazione ben nota ai professionisti come estremamente difficile da
raggiungere. Il disturbo alimentare costituiva l'elemento di omogeneità che legava gli
individui al gruppo; il sintomo condiviso era una fonte di identità provvisoria e insieme
chiave di accesso alla terapia. Frequentare il centro clinico era inoltre un modo, spesso
l'unico, per convincersi che se esiste un luogo deputato all'analisi della loro condizione,
tale condizione esiste davvero, ed è degna di attenzione come lo è la persona che ne
soffre.
In effetti, la prima richiesta di queste pazienti sembrava essere quella di un riconoscimento
della propria esistenza, un desiderio di vedere "istituzionalizzata" la propria identità grazie
al riconoscimento della malattia non come qualcosa da interpretare, ma da ascoltare, da
interrogare con curiosità e rispetto, qualcosa dotato di un potenziale espressivo il cui
significato sconosciuto andava rivelato. Gli interventi terapeutici più formalizzati, di tipo
medico, psicologico o sociale, erano radicati e sostanziati da quell'assunto di base - una
sorta di embrionale alleanza terapeutica ideale - condiviso fin dall'inizio da terapeuti e
pazienti membri dell'Associazione.
Se la scelta di un setting istituzionale di questo tipo, in alternativa a un setting più
asimmetrico basato sul modello medico tradizionale, rispondeva all'esigenza di spostare
l'accento dall'isolamento alla connessione, e dalla salvazione alla rivelazione di se’a se’
stessi attraverso l’altro, la finalità del piccolo gruppo era fondamentalmente quella di
promuovere il passaggio graduale della persona da un progetto di autotrasformazione
fondato su fantasie di onnipotenza a un progetto di crescita fondato sulla realtà e
sull'interdipendenza.
Appartenenza
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Costruire un corpo-sé autentico nel gruppo significa costruire un corpo di rappresentazioni
e di affetti attraverso la narrazione di storie che si intrecciano in uno spazio comune:
connettere i diversi elementi contenuti nel campo del gruppo a livello verbale, pre-verbale
e non verbale, può essere un modo per riannodare le fila di una crescita precocemente
interrotta o deviata con il sostegno dello spazio protetto del gruppo.
A un livello primitivo, l'appartenenza di un individuo a un gruppo dipende dall'aver
collocato nel gruppo aspetti di sé marcatamente indifferenziati e difficilmente
rappresentabili, e trova riscontro nella crescente fiducia dell'individuo nel proprio diritto di
esistere all'interno del gruppo (Sheidlinger 1964).
Nelle prime fasi del gruppo, le fantasie onnipotenti predominano; la distinzione fra
soggetto e oggetto è assente, e dunque i membri hanno l'opportunità, spesso per la prima
volta, di contattare e condividere le proprie dimensioni ed esperienze simbiotiche, momenti
di fusionalità protetta.
L'intensa attivazione emotiva è condivisa dall'intero gruppo, all'interno del quale comincia
a mostrarsi una prima forma embrionale di Noi, di uno spirito di gruppo (Bion 1961). Il
clima emotivo è connotato da un'intensa speranza. In un gruppo in cui la fusionalità ha
una funzione di contenimento (Neri 1990), l'esperienza individuale fluttua, emozioni,
sensazioni e pensieri convergono senza perdersi in un vuoto indifferenziato.
In effetti, la fusionalità gruppale implica la dissoluzione dei confini individuali e
simultaneamente la costituzione di un contenitore gruppale dotato di confini. La capacità di
sentirsi, di rappresentare e narrare il sé è all'inizio una funzione del gruppo che
gradualmente si comunica all'individuo, proprio come lo sviluppo graduale di una funzione
alfa autonoma nel bambino è sostenuto dallo svolgimento pieno e maturo di quella stessa
funzione da parte della madre all'interno della diade.
Grazie alla presenza del gruppo, gradualmente si viene a creare un campo di sensazioni,
emozioni, pensieri, fantasie, miti, storie ed esperienze condivise. Inconsciamente, tutti i
membri del gruppo vi contribuiscono, recandovi le particolari atmosfere dei propri ambienti
di origine e le caratteristiche della propria patologia.Al tempo stesso da questo campo tutti
i mmbri sono contenuti "Il campo è un luogo, un tramite e uno stato mentale che influenza
tutti i membri di un gruppo. E' caratterizzato da sincronia e interdipendenza, e da costante
evoluzione" (Neri 1997).
Secondo Bion, a un certo livello l'individuo è parte di un sistema, il sistema protomentale.
A questo livello i fenomeni sono tanto somatici che psichici: da qui evolvono quelli che
Bion definì "assunti di base", tipici meccanismi di difesa primitivi di stampo etologico.
che possono prendere la forma di fantasie collettive
Il concetto di socialità sincretica (Bleger 1967) ci consente di utilizzare l'idea di Bion di una
dimensione protomentale, e al tempo stesso di dare conto di fenomeni di gruppo che,
diversamente dagli assunti di base, parlano più di non-ancora-evoluto, che di involuzione.
Socialità sincretica è un modo per definire la dimensione sensoriale, propriocettiva e
cinestetica dell'esperienza gruppale. Ritmi fisiologici condivisi, percezioni spaziali comuni,
regolazione collettiva della tonalità affettiva sono gli elementi più ovvi dell'ambiente a cui
danno vita e che silenziosamente conferma l'esistenza del gruppo-nella-mente come
qualcosa di affidabile, noto e stabile. Questo è il livello dove differenze e identità individuali
non esistono, ma che tuttavia comunica con il livello superiore di socialità dove queste
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esistono e svolgono la loro funzione. Socialità sincretica e socialità evoluta non si
contraddicono e non si escludono a vicenda ma sono, nella visione di Bleger,
interdipendenti. Di più, la prima è il fondamento dell'altra, in quanto sostanzia le "costanti"
dell'identità e mantiene il rapporto con la risorsa degli "affetti vitali".
Nel gruppo, le esperienze sensoriali, emotive e affettive sono connesse agli aspetti più
evoluti della vita mentale, e la condivisione di affetti e le esperienze di appartenenza
rivestono un'importanza paragonabile a quella del pensiero formale. Cambiamento ed
evoluzione sono possibili quando i due livelli operano in sincronia. Contrariamente ai
fenomeni degli assunti di base, le manifestazioni di socialità sincretica non sono forme
generali onnipresenti nei collettivi, ma anzi sono altamente specifiche di un determinato
gruppo e sono passibili di trasformazione e non come gli assunti di base di semplice
alternanza.
Il concetto di "genius loci",elaborato da C.Neri ,coglie certi aspetti di questa dimensione.
La funzione Genius Loci, come la divinità romana, è in risonanza con la qualità affettiva ed
emotiva dell'atmosfera del gruppo e la rispecchia, promuove un sentimento di
appartenenza che non si basa sull'opposizione fra "gruppo" e "non-gruppo", preservando il
potenziale di scambio fra "interno" ed "esterno"promuove la partecipazione dei membri
alla vita di gruppo, custodendone l'armonia e quindi la coesione, trasforma oggetti
minacciosi ed estranei in oggetti familiari mediando gli scambi fra esterno e interno,gruppo
e individuo (Neri 1992, 1997).
Il gruppo come oggetto-sé
Una volta ebbi modo di vedere un oggetto che nella medicina tradizionale cinese veniva
usato dalle donne che dovevano sottoporsi a visita medica, dato che il contatto diretto con
il corpo della donna era proibito. L'oggetto in questione era una specie di bambola. La
donna toccava la bambola per indicare la zona dove avvertiva il disturbo, e l'esame veniva
condotto dal medico sulla bambola. La bambola è una caratteristica di quel particolare
rapporto medico-paziente, ma la cosa particolarmente interessante è che gli occidentali
colonizzatori la chiamarono "la donna-medico": quindi, sorprendentemente, non "la
bambola del medico", o "la donna visitata dal medico", ma "la donna-medico"! Il gruppo
può essere paragonato a questo oggetto mediatore. Si potrebbe dire che sintomi
omogenei o esperienze tipiche contribuiscano a forgiare un'area di appartenenza
gruppale, la quale offre uno spazio alternativo al sé, separato ma accessibile, dove le
caratteristiche del male possono prendere corpo nel discorso del gruppo e acquistare
visibilità. La comunicazione nel gruppo permette inoltre una migliore localizzazione o
configurazione della patologia.
Gli oggetti-sé sostengono il sé ma ne sono distinti, esistono al di fuori di esso nel "mondo
reale". Kohut e la sua scuola hanno ipotizzato che gli individui facenti parte di un gruppo
non soltanto avrebbero molteplici occasioni per soddisfare il proprio bisogno di oggetti-sé
grazie alle interazioni con gli altri membri, ma che il gruppo stesso, in quanto entità
affettivo-cognitiva dotata di una sua specificità, potrebbe essere considerato un
fondamentale oggetto-sé (Pines 1998).
Un gruppo può assumere, in momenti diversi, tutte e tre le funzioni attribuite agli oggetti-sé
da Kohut: quella di oggetto-sé gemellare o alter-egoico, di oggetto-sé ideale e di oggettosé speculare. Le esperienze di oggetto-sé gemellare sono particolarmente frequenti in un
gruppo omogeneo, e contribuiscono in misura determinante alla creazione della matrice di
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gruppo (Foulkes 1975), ossia quell'area da cui si evolvono sia il gruppo stesso che gli
individui, e che ha un duplice aspetto di matrice culturale e - a un livello molto più primitivo
- di matrice -ovaio contenente il corpo-mente ancora indifferenziato, l'area protomentale di
Bion.
Nel caso di pazienti anoressiche e bulimiche, il gruppo omogeneo in quanto oggetto-sé
offre un'esperienza di autoriconoscimento e di regolazione affettiva che getta le basi di un
processo di esplorazione di sé, altrimenti impossibile in persone per cui il senso stesso
della propria esistenza è in pericolo. Se le pazienti riescono a percepire la forma
soggettiva della propria vita affettiva riflessa dagli altri membri come qualcosa di condiviso
e quindi significativo, umano, comunicabile e perciò trasformabile, potranno col tempo
riuscire a riconoscere come propri sentimenti di amore, odio, curiosità.
Il gruppo consente ai suoi membri di fare il primo, indispensabile passo fuori
dell'isolamento generato dal sentirsi un mostro, un aggregato di elementi incoerenti. Il
gruppo rimanda all'individuo un riflesso fedele, ma in qualche modo migliorato, di sé. E'
come se il rapporto individuale con il gruppo rispecchiasse quello del bambino con una
madre che esprime il suo orgoglio e il suo amore dicendo: "Il mio bambino è il migliore che
ci sia, è un bambino speciale". Non si tratta, tuttavia, di un falso. Non è una menzogna,
perché l'elemento riflesso è di tipo affettivo, non ha la concretezza di una fotografia. Ciò
che conta è il fatto di essere guardati con una certa luce negli occhi, che illumina anche
l'oggetto osservato, come se ( parafrasando l'affermazione di Freud) "la luce dell'oggetto si
riflettesse sull'io".
La questione diventa allora sentire che per il proprio gruppo, o il proprio genitore, si è il
tipo giusto, che si soddisfano i criteri estetici e si è quindi riconoscibili, se non proprio
"belli". Non si tratta di "piacere", ma di dare una coerenza affettiva a elementi disparati, in
un dialogo che essenzialmente dona significato ad elementi già dotati di forma. Nel gruppo
omogeneo, la coesione inizialmente offerta dalla comune attenzione a sintomi e
comportamenti condivisi genera coerenza (Pines 1984).
Per questi pazienti è anche di importanza cruciale che l'onnipotenza solitamente
distruttivamente espressa in fantasie magiche terrorizzanti sia trasferibile al gruppo, che
potrà essere esperito come un oggetto realmente capace di prestazioni superiori a quelle
dell'individuo - capace quindi di offrire sostegno - e come qualcosa di più grande ma al
tempo stesso alla portata del singolo. Questo sostegno è particolarmente efficace nei
gruppi in cui protezione e incoraggiamento vengono offerti non solo a quelle funzioni
mentali collettive che costituiscono il sostrato del sentimento di esistenza e costanza al
livello del nucleo più primitivo del sistema sé/oggetto-sé, ma anche ai livelli superiori del
pensiero di gruppo, come accade in un gruppo a orientamento psicoanalitico (Neri 1998).
Nel corso del primo mese di terapia, una paziente, Carola, racconta un sogno che mette in
parole la sua esperienza di incontro con il gruppo ed attiva risonanze multiple fra i
membri,promovendo la comunicazione:
Mi trovo in un mondo fatto di vetro, ho paura di muovermi perché è tanto fragile. Tutto è
fatto di vetro, ma stranamente tutto è opaco. Poi mi ritrovo sulla spiaggia: la superficie è
piatta, ma so che c'è un mondo nelle profondità dell'oceano che pullula di vita; l'acqua
diventa così trasparente che posso guardare dentro, le creature che ci abitano sono grandi
e piccole e di ogni forma e tipo. Cominciano a parlare in coro a voce alta e a muoversi in
sincronia come ballerini. Mi sento felice e salto dentro, comincio a danzare e cantare con
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loro. Poi scompaiono, si fa buio, ho paura. Guardo le stelle per confortarmi e mi sento
dissolvere in loro. Poi sono sulla strada di casa: posso vedere la strada illuminata dalla
luna piena e la casa davanti a me. Mi volto, e vedo le mie impronte profonde nel terreno,
come se avessi un corpo molto pesante; stranamente non mi dispiace.
Serena dice, unendosi alle danza: Come le impronte di un gigante... visto che hai lasciato
le impronte puoi tornare su quella spiaggia e continuare a danzare...
Maria racconta che prova così fastidio a guardarsi allo specchio che spesso le viene voglia
di farlo a pezzi. Tutte concordano, e raccontano esperienze simili. Alcune hanno paura di
diventare grosse come elefanti. Marina, un'anoressica sottile ed emaciata, non si guarda
mai allo specchio: "loro", racconta, le dicono che è pelle e ossa, non sembrano vedere
altro in lei, non sembrano voler parlare d'altro, nessuno vuole conoscerla davvero.
Ma noi sì! interloquisce Maria. Marina resta in silenzio. Carola, emozionata, grida: Qui la
trasparenza è legittima, possiamo e dobbiamo dire la verità! Fiona, osserva che il peso è
più leggero nell'acqua.
In un gruppo omogeneo, l'universalità viene particolarmente rinforzata, sebbene all'inizio
abbia un carattere fortemente immaginario (Longo 1997). Nei momenti di crisi, che si
verificano con l'entrata di un nuovo membro o quando il gruppo si trova a confrontarsi con
un'immagine di sé minacciosa o non familiare, la conversazione si focalizza
ossessivamente sul sintomo, sul confronto e il rispecchiamento di elementi che saranno
condivisi perché formalmente identici, per il fatto stesso di essere stereotipati, uniformi. In
situazioni del genere, l'attenzione delle pazienti slitta dal "perché?" al "quanto?", dalla
qualità alla quantità. A quel punto, "meno è più" (o meglio), e "più e più della stessa cosa"
sembra diventare la filosofia e la parola d'ordine del gruppo. In quell'universo di discorso,
le narrative che emergono riguardo ai rapporti con figure significative, a persone e
interazioni, si caricano di dettagli e del medesimo entusiasmo ripetitivo che le pazienti
applicano al loro rapporto col cibo e alla tormentosa complessità dei rituali connessi al
cibo; ma sono narrative tutte identiche, fotocopie l'una dell'altra,in qualche modo piatte:
“Proprio come mia madre... mio padre... mio fratello... il mio fidanzato.” Mi sembra di sentir
parlare della mia famiglia..." La differenza è intollerabile, perché significa morte e
separazione, non complementarietà e vita, una possibilità generativa. Se lasciamo da
parte le parole e ci concentriamo sulla musica,pero’, queste comunicazioni stereotipate
appaiono come un rituale volto alla ricerca di sintonia: il discorso del gruppo suona come
un coro che intona un'unica nota. E' una sola voce? Più voci?
La risonanza fra i membri è il fondamento del lavoro di gruppo, ed equivale all'esperienza
della sintonia nella diade madre-bambino (Stern 1985).
La sintonia fra pensiero individuale e pensiero di gruppo è indispensabile ai fini della
comunicazione; se a un livello più fondamentale può dirsi automatica, ai livelli superiori
richiede una buona dose di lavoro psichico (Kaës 1985).
L'incapacità di “pensare pensieri”, ossia di elaborare le emozioni, e il bisogno di espellerle
o fuggirle, sono caratteristiche delle persone che soffrono di disturbi alimentari di vario tipo
e gravità che in maggiore o minor misura mostrano tratti alessitimici.
Tuttavia,partecipando a un gruppo composto interamente di pazienti anoressiche e
bulimiche, si viene colpiti dall'impressione di qualcosa di troppo pieno, eccessivo, qualcosa
di stranamente dissimile dal freddo tono distaccato con cui le pazienti parlano di cose che
le disgustano o terrorizzano. La consapevolezza che tutti i componenti del gruppo hanno
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avuto esperienze simili genera rapidamente un sentimento di sollievo, e una tacita fiducia
che comincia con questo linguaggio comune apparentemente già esistente prima
dell'entrata nel gruppo, e che malgrado le varie sfumature sembra incapace di ospitare o
trasmettere affetti. Come ogni codice rigido, può far circolare ogni sorta di oggetti senza
però coglierne adeguatamente la natura o la forma.
Questo ineffabile “resto” si fa però sentire in molti modi. Sensazioni dotate di incipienti
sfumature psicologiche, in procinto di divenire pensieri, o pensieri che sono stati abortiti,
trovano espressione in gesti, stati somatici, perfino in parole, ancorché parole spogliate del
loro significato comunemente accettato per far posto all'informe e inarticolato che la
paziente tenta di liberare. Contenuti mentali, stati mentali intollerabili, non trovando un
contenitore adeguato capace di trasformarli in pensieri onirici, vengono allucinati, ossia
evacuati nello spazio del gruppo, che viene invaso da oggetti dolorosi, violenti e iperconcreti: "Lo spazio diventa terrorizzante... diventa terrore esso stesso" (Bion 1970). Se la
funzione alfa è assente o invertita, gli elementi beta formano uno " schermo beta", che
impedisce il contatto con la realtà e l'elaborazione delle impressioni sensoriali.
Il compito del gruppo è di rendere "le cose" pensabili. Inizialmente,infatti, negli individui
non c'è lo spazio perché ciò accada. Questo comporta la necessità di un altrove, uno
spazio dove possa avere inizio la trasformazione del materiale grezzo. Nello spazio del
gruppo, si sviluppano processi fra il gruppo e i singoli membri, o fra individui appartenenti
al gruppo, che sono simili a quelli che in condizioni ideali intervegono fra madre e bambino
allorché la madre funge da contenitore dei pensieri incipienti del bambino, accoglie i
sentimenti e le percezioni indifferenziate, li "digerisce con la sua reverie", e li restituisce al
bambino trasformati, evoluti. In un gruppo impegnato nella costruzione di legami, la
stimolazione reciproca proveniente dai suoi membri e dall'analista tramite il lavoro della
reverie,sogno o alfa -sogno(Bion 1992) prefigura in un terzo soggetto, il sogno del gruppo,
la possibilità di pensare pensieri e usarli per far fronte al terrore dell'annientamento. In tutti
quei momenti, inevitabili se il processo terapeutico decolla, in cui l'accumulo di materiale
nuovo e doloroso minaccia di rendere l'esperienza intollerabile per i singoli membri del
gruppo, l'altro come oggetto può essere messo in ombra, parzialmente sostituito da un
diffuso Io-Noi, e il gruppo può "arrendersi" al sogno.
Un gruppo che non è ancora in grado di sognare può nondimeno lasciarsi sognare,
accettare di divenire il soggetto del sogno dell'analista o di uno dei suoi membri (Baglioni
1996). Ogniqualvolta la funzione alfa arriva a un punto morto al livello individuale, può
subentrare un'analoga funzione gruppale, quella che Corrao definisce "funzione gamma".
La funzione gamma è in grado di destrutturare e ricostruire rappresentazioni transitorie,
operando sugli elementi sensoriali ed emotivi presenti nel campo gruppale (Corrao 1981).
Ciò consente da un canto la fluidificazione dei campi individuali, e dall'altro la creazione di
un nuovo soggetto composito organizzato sulla falsariga di un sogno. Questa fase di
attività del gruppo può essere rappresentata, con un'immagine cara alla fantascienza, da
un salto nell'iperspazio, dove le stelle per un attimo scompaiono per ricomparire con
un'altra configurazione.
Il reciproco stimolo della funzione alfa veicolata dall'efficace linguaggio onirico aumenta la
capacità di comunicare e conoscere le proprie emozioni, nonché di usarle per creare e
mantenere collegamenti.
Tenere aperto il canale che dall'incubo conduce al pensiero nascente, alla costruzione del
sogno è, a mio modo di vedere, un aspetto cruciale del lavoro con le pazienti anoressiche
e bulimiche. E' questa funzione della terapia che viene costantemente messa in pericolo
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nel corso della vita del gruppo, e che richiede quindi fondamenta solide e una
"manutenzione" continua da parte del terapeuta, assai più necessaria e impegnativa di
quanto lo sia nel caso di gruppi non omogenei.
E' infatti attraverso sogni, fantasie e speculazioni immaginative che il sé viene
rappresentato al gruppo.
Il sogno è uno dei più importanti mezzi di autorappresentazione, sia per l'individuo che per
il gruppo nel suo insieme (Neri 1997). Esso diviene il contenitore di ciò che è provocatorio
e terrorizzante (Friedman 2001), un palcoscenico pubblico e privato, una membrana di
pensiero (Bion 1970), una pelle mentale (Anzieu 1985). Raccontare un sogno significa
rompere l'isolamento, partecipare, chiedere aiuto, condividere. A volte un sogno può
trasmettere un messaggio che è di vitale importanza per la sopravvivenza del gruppo
(Shlachet 1995).
Nei gruppi con pazienti anoressico-bulimiche,aiutare i partecipanti a sviluppare un
pensiero analitico implica sostenere attivamente la capacita’ di pensare per immagini e
operare trasformazioni di sentimenti in cognizioni, Il compito del conduttore non è
interpretare, ma piuttosto rispecchiare e dar forma verbale ai movimenti emotivi del gruppo
nel suo insieme, incoraggiando la "decontrazione" delle singole posizioni dei membri
all'interno del gruppo mediante l'amplificazione tematica.
Un rito di passaggio
Carmen, una giovane donna che per prima ha abbandonato il sintomo nel corso del
secondo anno del gruppo, ma si è ammalata di diabete, ha avuto un aborto. Nella seduta
immediatamente successiva alla comunicazione di questo evento, tutte trovano difficile
non reagire scaricando il dolore vissuto come tensione insostenibile, attraverso una serie
di acting-out.
Carmen stessa vuole smettere di venire al gruppo.
Nel corso delle sedute successive, però, il gruppo evoca una fantasia in cui questo evento
traumatizzante non è mai accaduto, o può essere annullato: Fiona sogna il Gatto del
Cheshire, il gatto magico che scompare pezzo a pezzo solo per ricomparire tutto intero.
Ma questo gatto dal ghigno conturbante è una presenza scomoda. Nel laborioso sogno
che fa seguito a questo, compare un gatto raggomitolato, che viene identificato sia col
gruppo che col bambino perduto. Nel sogno il gatto diventa sempre più caldo e viene
messo nel congelatore... ma si teme che la’ possa morire. Il gruppo è ansioso di placare le
sue emozioni intense, ribollenti; tenta la soluzione di congelarle, insieme alla paura di aver
cacciato via la compagna e aver forse recato danno a tutto il gruppo.
In una delle sedute successive, Maria, una ragazza dall'aspetto molto dolce che non
riesce assolutamente a esprimere rabbia ed è la più giovane del gruppo, sogna di stare
per partorire, e di essere condotta in sala parto dove sono radunate tutte le sue amiche: il
neonato che le viene presentato è un cagnolino, morbido al tocco e con un buon odore.
Lei comincia a toccarlo con piacere, ma all'improvviso le viene dato un secondo esserino:
ha partorito due gemelli! Il secondo è un neonato umano. Maria pensa che averli entrambi
vada bene, ma il bambino comincia a crescere molto rapidamente e sembra molto geloso
del fratellino; comincia anche a parlarle e a stringerla così forte "da spezzarle le ossa".
Il sogno si presta a essere interpretato come un mito cosmico: Marta, che studia filosofia
indiana, racconta la storia del serpente primordiale che regge il mondo nelle sue spire.
Marina, un'anoressica restrittiva di solito molto chiusa, che la settimana prima era stata
ricoverata in ospedale con l'intesa che avrebbe continuato a partecipare alle sedute, a
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questo punto rompe il silenzio. Anche lei ha sognato: Mio fratello ha bevuto qualcosa di
velenoso; lo tengo fra le braccia e sento il suo cuore che batte sempre più debolmente e a
un certo punto si ferma. Mi sveglio con la sensazione che è il mio cuore a essersi fermato:
ho paura di poter morire. Ho paura che sia troppo tardi.
Il sogno fa uscire alla ribalta Marina e il suo cuore malato per la prima volta, e sfida il
gruppo con la fine di una comune fantasia di invulnerabilità. Appare evidente che tutto il
gruppo ha partecipato alla tragedia della gravidanza interrotta di Carmen, anche se ha
potuto parlarne solo in sogno.
Con grande emozione, Carla parla di come, per la prima volta, stia affrontando la realtà
della morte di suo padre, avvenuta diversi mesi prima: Voglio essere capace di sentire
queste emozioni, anche se sono dolorose, altrimenti lo avrò perso davvero per sempre.
Mentre parla, comincia a piangere. Carmen, che per diverse sedute è rimasta in silenzio,
seduta con il petto piegato sulle ginocchia e il volto quasi completamente nascosto dai
lunghi capelli neri, solleva la testa e dice che la disposizione spaziale dei personaggi del
sogno di Marina le fa pensare alla Pietà di Michelangelo.
Sentire di nuovo la sua voce ridona speranza e forza al resto del gruppo: il cuore del
gruppo ricomincia a battere, il tempo riprende a scorrere. Ciò a sua volta permette a
Carmen di sentire e pensare un evento che altrimenti, senza l'aiuto del gruppo, non
avrebbe avuto altro teatro che il suo corpo.
Fronteggiare insieme la perdita, e le sue catastrofiche conseguenze, in modo nuovo ed
efficace nel contesto della storia del gruppo, dà forza a un sentimento nascente di avere
tutto ciò che occorre per vivere, e offre l'opportunità a ciascuno dei membri di riesaminare
esperienze antiche mai del tutto integrate, ma spesso solo registrate sotto forma di
terremoti somatici, angosce senza nome. Una giovane donna di questo stesso gruppo
dirà: oggi mi guardo intorno e vedo che siamo tutte belle. Lo dirà in un momento, vale la
pena sottolineare, in cui tutte le partecipanti sono in lacrime. E la bellezza che scorge non
ha nulla a che fare con l'essere attraenti: è un modo per esprimere una verità complessa
contenuta, come nell'esperienza estetica, in una sensazione di completezza e pienezza,o
verita’ che non è necessariamente piacevole, ma densa e vibrante di vita.
Dopo un lungo processo, attivato dall'enzima del sogno e solo parzialmente fatto di parole,
il nucleo congelato della sofferenza si è sciolto. Ora è importante che le lacrime versate
siano viste come qualcosa di “bello”, qualcosa capace di contenere ed esprimere il dolore
in una forma comunicabile e tollerabile, una forma che collega il dolore di ciascuna e di
questo piccolo gruppo alle radici del più vasto gruppo umano attraverso i riti del lutto e la
figura delle "dolenti".
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La nozione di malattia. Considerazione storiche, antropologiche e cliniche1
Raffaella Girelli e Claudio Neri
Per presentare sulla pagina scritta le nostre idee, mantenendo la dinamicità che ha
caratterizzato i nostri scambi, abbiamo scelto la forma del dialogo. Ci auguriamo di
riuscire a rendere il senso dei singoli interventi e anche lo sviluppo dell’intero
discorso.
Girelli
Vorrei iniziare a partire dalla medicina, anzi dalle origini della nostra medicina. Alla
diagnosi, in medicina, si è sempre arrivati seguendo precise procedure, definite sin
dall’inizio della tradizione medica occidentale, che prende avvio con la scuola
ippocratica di Cos (V secolo a.C.). Questa scuola ha insegnato che attraverso una
visione onnicomprensiva dei sintomi (sinossi) si acquisisce l’èidos, la forma della
malattia, che viene a costituire una buona diagnosi della stessa.
Neri
Gli studi di medicina realizzano un forte imprinting. Per me - quando ero un giovane
medico - la diagnosi coincideva con la serie di procedure di cui tu parli: anamnesi,
esame obiettivo del paziente con scrupolosa e dettagliata raccolta dei sintomi,
diagnosi differenziale. La diagnosi, a sua volta, coincideva con l’individuazione della
malattia.
Girelli
La scuola ippocratica era ben consapevole che le procedure indicate lasciavano aperto
un ambito di incertezza: la correttezza della diagnosi dipendeva in una certa misura
dall’occhio clinico. Tuttavia - come si deduce da un passaggio dell’Antica Medicina se vi è incertezza, dato che non vi sono “misure esatte”, per il medico preparato,
onesto e coscienzioso, vi è anche una strada per uscire dall’incertezza, che è quella di
acquisire una scienza che limiti il più possibile l’errore di conoscenza umano.
Neri
Ai tempi dell’università avevo particolarmente apprezzato una benevola formula
assolutoria che compare nell’Antica Medicina: “Molto loderò il medico che poco
sbagliasse”; non avevo invece ben compreso quanto fosse importante l’ammonimento
iniziale, quello sull’assenza di una qualche misura, numero o peso, che possano
valere da “punto di riferimento per un’esatta conoscenza”. Adesso, mi appare chiaro
che l’incertezza è una condizione propria della pratica medica e che si estende alla
nozione stessa di malattia.
Girelli
La storia della medicina ha evidenziato come si siano ripetuti nel tempo i tentativi di
considerare le malattie come entità reali, concrete prima e logiche poi, ma comunque
come qualcosa che fosse un elemento costitutivo del mondo vivente. Questa
concezione della malattia è quella ontologica.
Neri
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Per il medico, considerare la malattia come qualcosa che esiste veramente e non
come il nome che viene dato a qualcosa corrisponde a un’aspirazione molto forte e
tenace.
Girelli
Appunto. Soprattutto dopo la rivoluzione scientifica del Seicento, sotto l’influsso dei
naturalisti, si sono sviluppati tentativi di classificazione delle malattie, considerate
come elementi reali. Questi tentativi non hanno mai raggiunto una compiutezza,
come è avvenuto invece per la classificazione delle piante.
Neri
Infatti. Le malattie non esistono allo stesso titolo dei malati, dei germi patogeni o dei
processi patologici.
Girelli
Possiamo ravvisare un riflesso di questo approccio alla malattia nel DSM (Diagnostic
Statistical Manual). Esso riprende e raccoglie in quadri nosografici i caratteri
(sintomi) che si presentano con maggiore frequenza e insieme (clusters). È quindi
basato su una concezione nominalista e operazionale della malattia, e non su una
concezione ontologica.
Neri
Mi sembra che nel disegno del DSM si veda anche l’importanza assunta dalla
statistica.
Girelli
Procediamo per gradi. Nel corso dei secoli ha avuto luogo una seconda
trasformazione nel modo di concepire la malattia in medicina, che ha coinciso con
l’inserirla in una cornice di complessità. Mi riferisco al considerare la malattia
contemporaneamente da più vertici: quello clinico-descrittivo (che in larga parte
deriva dalla scuola di Cos), quello anatomo-patologico, quello eziologico. Per
esempio, una stessa malattia è stata prima identificata come tisi, sulla base delle sue
caratteristiche cliniche, poi, quando si è individuata la lesione d’organo e di tessuto
(polmone e tubercoli), come polmonite con caratteristiche particolari; infine la
scoperta del bacillo di Koch ne ha messo in luce la dimensione eziologica e quindi la
stessa malattia è stata identificata come tubercolosi.
Neri
La malattia, inoltre, è diversa se viene vista con gli occhi del medico e se invece è
vista e sentita da chi è malato.
Girelli
Ti puoi spiegare meglio?
Neri
La lingua inglese raccoglie, meglio dell’italiano, la differenza di cui sto parlando.
L’inglese impiega il termine disease per parlare della malattia quando questa è
considerata come qualcosa di oggettivo, come una sindrome; altre due parole,
sickness e illness, indicano “come” è vissuta la malattia. Una persona che si sente
stanca e malaticcia, per esempio, dirà: “I feel sick and tired” e non userà la parola
disease.
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Girelli
Dove si incontrano il paziente e il medico?
Neri
Si incontrano nello studio medico, nell’ambulatorio, in ospedale. Balint parla della
malattia come co-costruzione del paziente e del medico. Egli vede la malattia come
qualcosa che si va via via definendo a partire dalle prime “offerte” di sintomi da parte
del paziente e dalle prime “risposte” da parte del medico.
Girelli
La malattia può essere vista anche come il rapporto fra parte e tutto. Ogni volta che
una parte del nostro corpo si presenta come malata, e noi ne soffriamo, potremmo
chiederci se è malata solo quella parte che ci fa stare male oppure se siamo noi, nella
nostra interezza, a stare male, e questa sofferenza si concentra in una parte del corpo.
Sono due punti di vista, entrambi mettono in risalto un bisogno di ascolto e di cura,
anche se contradditori fra loro.
Neri
La scoperta del sistema immunitario e l’individuazione delle sue connessioni con gli
stati affettivi sembrano dare valore ai meccanismi di regolazione tra parti e insieme
del nostro organismo.
Girelli
Vorrei mettere in luce un ultimo elemento della concezione della scuola di Cos che
mi sembra avere grande valore: la concezione della malattia come percorso che ha
una propria evoluzione. Vorrei leggere un piccolo brano di Franco Voltaggio: “Le
malattie, per il medico di Cos, appaiono come processi che […] hanno una
fenomenologia insieme evolutiva e sistemica. Sono, in altre parole, sistemi in
evoluzione contrassegnati da una relativa indipendenza dal soggetto in cui si
manifestano […] e da una sorta di implicito finalismo […]. In [questa] prospettiva
[…], guarire non significa tanto rimuovere decisamente il male, “scacciarlo”,
quanto favorire una strategia spontanea messa in atto dall’organismo stesso. Questo
significa che la terapia propriamente detta […] è intesa o a coadiuvare la
canalizzazione che porta alla remissione del male o a impedire la deviazione”.
Neri
Mi hanno colpito due frasi. La prima è: “Le malattie sono sistemi in evoluzione”.
Girelli
Questa frase segnala che è essenziale tenere conto dell’autonomia che viene
acquistata dalla malattia, dopo che si è costituita come sistema. La malattia “come
sistema” segue sue leggi e dinamiche. Intendo dire che una volta che si è costituita
come tale (cioè una volta che si è dispiegata quella certa serie di fatti: l’attacco di un
bacillo, le reazioni immunitarie dell’individuo, l’introduzione del farmaco), essa ha
una relativa indipendenza dall’individuo stesso, cioè ha una sua storia, una sua
evoluzione.
Neri
La seconda frase è: “Le malattie sono dotate di un implicito finalismo”.
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Girelli
Fa riferimento alla pratica della prognosi, intesa non soltanto come una previsione
sull’esito positivo o negativo della malattia, ma anche come una valutazione della
direzione che essa potrà prendere, tenendo conto di tutti i fattori, favorevoli o
contrari, che entrano in campo nella malattia.
Neri
La malattia un èidos in movimento?
Girelli
Sì.
Neri
La terapia si basa sul seguire una “simulazione” del percorso della malattia, costruita
dal medico?
Girelli
Sì. La terapia della medicina ippocratica consisteva nel seguire e indirizzare un
“doppio” del percorso spontaneo e favorevole della malattia, usando tutti i presidi
(per esempio, somministrando caldo-freddo, certe bevande o erbe), che le
impedissero di deviare o di andare verso esiti negativi. In questo senso, aiutare a
“guarire” significa assecondare una strategia spontanea messa in atto dall’organismo
stesso. Ecco perché canalizzare la malattia verso una evoluzione favorevole implica
saper cogliere le forze positive in campo, valutare su che cosa si può contare per
superare il momento di crisi costituito dalla malattia.
Neri
Freud e la psicoanalisi, con la scoperta del transfert e della nevrosi di transfert, hanno
scoperto un particolare tipo di doppio della malattia e offerto una chiave di lettura
della malattia nel quadro della relazione paziente-curante.
Girelli
Mi vengono in mente due altri apporti della psicoanalisi all’idea di malattia:
Winnicott ed Erikson. Entrambi hanno messo in luce il carattere relazionale della
psicopatologia, e hanno aperto un discorso sul ruolo costitutivo dell’ambiente per lo
sviluppo dell’individuo (e della sua psicopatologia), che si configura come centrale
anche per l’idea di malattia nel piccolo gruppo. L’accento di Winnicott è
sull’ambiente affettivo, quello di Erikson sull’ambiente socio-culturale. Del pensiero
di Erikson, è importante sottolineare che l’identità si fonda su tre componenti fra loro
interagenti, quella personale, quella sociale o di gruppo, quella culturale-ideologica.
Erikson ha voluto evidenziare che ciascuno di noi acquisisce un senso di identità che
non è squisitamente personale (intrapsichico), bensì si costituisce grazie al
riconoscimento e all’apporto degli “altri significativi”, ecco perché l’identità è anche
sociale o di gruppo. Nello stesso tempo, un altro “collante” essenziale per la nostra
integrazione è costituito dai valori della cultura di appartenenza: ciascuno per
“esistere” ha bisogno di sapere in cosa crede, questo gli consente di capire chi è
(identità filosofico-ideologica). Il senso di identità, per Erikson, non può prescindere
dal riconoscimento di se stessi all’interno di un gruppo di pari e dal riconoscere a
quale mondo di valori e credenze si appartiene.
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Neri
In questa prospettiva, come si potrebbe pensare alla malattia nel gruppo?
Girelli
Mi viene in mente una suggestiva descrizione del male sociale, fornita da Boccaccio
nel Decamerone, quando descrive la peste a Firenze del 1348, che ti vorrei leggere:
“Nacquero diverse paure et immaginazioni […], e tutti quasi ad un fine tiravano
assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi […]. L’uno cittadino l’altro
[schifava], e quasi niuno vicino [aveva] dell’altro cura, et i parenti insieme rade
volte, o non mai, si [visitavano], e di lontano, era con sì fatto spavento questa
tribolazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro
abbandonava, et il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo
marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile) li padri e le madri i figliuoli,
[…] schifavano. […] In tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda
autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta”.
Questa descrizione chiarisce bene come nel male sociale siano colpite le fondamenta
stessa del vivere civile, è come se nessuno si riconoscesse più nei valori di cui
parlavamo prima. Essi perdono la loro funzione.
Neri
“Il male sociale” è una linea di discorso interessante, però non è esattamente ciò di
cui vorrei parlare. Cercherò di riprendere il tema della “malattia nel contesto di
gruppo” in un’altra chiave. Gli studi antropologici hanno messo in luce come la
malattia individuale sia sempre inserita in un sistema di significati e di
interpretazione.
Girelli
Mi puoi fare un esempio?
Neri
La malattia “pisa” descritta da Marc Augé, che ha svolto ricerche presso gli Alladian
della Costa d’Avorio, è una buona illustrazione. Il pisa è la malattia dell’uomo che
sputa sangue e perde le forze; la causa a cui di norma viene attribuita è l’adulterio
della moglie.
Girelli
Come arrivano ad attribuire la sintomatologia dello sputare sangue all’adulterio della
moglie?
Neri
È necessario ampliare il discorso. Il sistema di omologie e la logica impiegati dagli
Alladian per costruire e dare senso alla nozione di malattia pisa sono gli stessi che
reggono un particolare interdetto: il divieto di copulare per terra nella savana.
Girelli
Come si collegano la malattia e questo strano tabù?
Neri
A fondamento della malattia e dell’interdetto è posta l’equivalenza sangue = sperma.
Altri tratti dello stesso sistema simbolico sono il carattere caldo del “sangue-sperma”
e il principio dell’incompatibilità del caldo con il caldo. Impiegando queste
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equivalenze è possibile spiegare come lo sperma dell’uomo tradito dalla moglie non
possa mescolarsi o aggiungersi dentro il corpo di lei a quello dell’altro partner
sessuale. Lo sperma, conseguentemente, “rifluisce” nell’uomo sotto forma di sangue
e viene vomitato o sputato. Analogamente, poiché la terra è calda, e l’accoppiamento
(copula) è anch’esso caldo, copulare per terra nella savana fa aumentare il calore
della terra. Seguono rischi di siccità e di sterilità.
Girelli
È un sistema di analogie molto complesso.
Neri
Il sistema di equivalenze impiegato dagli Alladian per dare senso al pisa, in effetti, è
molto complesso e raffinato. Esso articola: la sintomatologia somatica della malattia
(sputare o vomitare sangue) e la sua espressione psicologica: gelosia, rabbia, senso di
abbandono; (quest’ultima, però, non è espressa direttamente, ma è contenuta
implicitamente nella condizione dell’uomo tradito dalla moglie); la compatibilità
(crasi) e/o incompatibilità (dis-crasia) delle persone (il marito, la moglie, un altro
uomo) e dei fluidi (sangue, sperma, vomito); l’ordinamento della comunità e
l’infrazione delle regole (legame e obbligazioni coniugali); i transiti interpersonali e
somatici e la loro possibile inversione (non contenimento, inversione del flusso,
sputare).
Girelli
L’idea che la malattia dell’individuo rimandi al suo gruppo di appartenenza è stata
concettualizzata da Foulkes con l’espressione “localizzazione del disturbo”. I sintomi
di un singolo sono un aspetto di qualcosa di più complesso che riguarda la rete delle
sue relazioni significative.
Neri
Ciò che dici della localizzazione è interessante, ma mi sembra che colga soltanto un
aspetto del discorso sulla malattia pisa.
Girelli
Robi Friedman propone di portare l’attenzione sulla ricerca di categorie nosografiche
propriamente “interpersonali”, in base alle quali la responsabilità del disagio è
svincolata dal singolo che ne è portatore, anzi egli sottolinea come tutto il contesto
debba affrontare una trasformazione, divenire qualcosa di diverso, e non solo
l’individuo che agli occhi di tutti è malato.
Neri
Questo è un ulteriore tassello: il senso e la possibilità di trasformazione e cura della
malattia si iscrivono nella costruzione di un sistema di significati comune ai membri
del gruppo.
Girelli
Spiegami perché hai fatto riferimento a una malattia e a una cultura tanto diverse
dalla nostra.
Neri
Ho portato questo esempio per due motivi. Prima di tutto mi sembra importante il
collegamento della malattia (di qualunque malattia) con forze vitali più generali. Per
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la malattia pisa, il collegamento è con la fecondità, sterilità della terra. In secondo
luogo, mi pare interessante che nella nozione della malattia vengano inseriti alcuni
elementi che riguardano le leggi e i tabù della comunità o del gruppo. È quello che
vediamo nei piccoli gruppi a finalità analitica. Io ho cercato di darne conto
introducendo nel mio libro Gruppo i concetti di “commuting”, “nomos” e “patrimonio
affettivo del gruppo”.
Girelli
Ora capisco meglio: la malattia trova senso nel sistema di regole della comunità
Alladian attraverso un nesso logico che non appartiene a una logica propriamente
aristotelica. Il piccolo gruppo analitico utilizza una sua logica mitico-onirica?
Neri
Sì, ma è necessario a volte creare un dispositivo che faciliti il suo dispiegamento. A
tal fine, per esempio, io mi servo, durante i miei interventi in seduta, dell’inserimento
di stralci di miti, film, racconti. Non li espongo mai per esteso proprio per aprire una
catena di associazioni di gruppo. Sono “frammenti” che daranno luogo a una nuova
storia o mito, che saranno significativi per quello specifico piccolo gruppo.
Nota bibliografica
Per rendere più scorrevole la lettura non abbiamo indicato nel testo i riferimenti bibliografici, li
forniamo adesso. Nella breve introduzione al dialogo abbiamo tenuto presente Bateson (1972), p. 3.
Riguardo alla prima parte del testo, che si focalizza sulla nozione di malattia in medicina,
specifichiamo che: i primi due interventi di Girelli traggono ispirazione da Voltaggio (1992), pp.
329 e 322; parte delle notizie storiche riportate sulla scuola ippocratica sono tratte anche dal
manuale di Angelletti, Gazzaniga (2002) e dall’articolo di Arecco (1999); i successivi tre interventi,
orientati a una sintesi dello sviluppo storico della nozione di malattia in medicina, si fondano su
informazioni tratte da Grmek (1998), pp. 17-19. Anche Neri si riferisce a Grmek (1998), p. 23,
quando parla dello statuto della malattia. Abbiamo inoltre riscontrato la medesima posizione critica
nei confronti di uno statuto ontologico della malattia in Landoni (2004), anche se, precisamente, il
suo discorso è riferito alla malattia in quanto esito del processo diagnostico, dato che quest’ultimo
argomento rappresenta il focus del suo lavoro.
L’approccio nominalista alla malattia, da noi ravvisato nel DSM, è altresì sottolineato da Tucci
(2004) come caratterizzante l’idea di diagnosi sottesa al Manuale Diagnostico e Statistico.
Neri, quando interviene a proposito di Balint e della relazione medico-paziente, si riferisce alle sue
opere riportate in bibliografia e anche al testo di Tomassoni e Solano (2003), p. 60. La medesima
sottolineatura dell’incontro personale fra medico e paziente, in riferimento al processo diagnostico,
è presente in Panzera (2004). Il pensiero a cui la collega si riferisce esplicitamente è quello di
Gadamer (non di Balint).
Nel discorso sulla nozione di malattia in psicoanalisi, citando Winnicott ed Erikson, Girelli ha in
mente i due rispettivi testi citati in bibliografia. Anche quando parla di localizzazione del disturbo
(Foulkes) e di categorie nosografiche interpersonali (Friedman), le fonti di riferimento sono quelle
della bibliografia.
Il collegamento di Neri fra la lettura antropologica della malattia e la nozione di malattia nel piccolo
gruppo si è reso possibile sulla base di quanto evidenziato dagli studi di Augé presso gli Alladian
della Costa d’Avorio, riportati nel testo citato in bibliografia.
Nota
1
Già pubblicato in Rivista Italiana di Gruppoanalisi, 2004, XVIII, 2, [41-49].
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Sapienza, Roma), Psicoanalista con funzioni didattiche della Società Psicoanalitica Italiana,
Membro Ordinario del London Institute of Group-Analysis.
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Civile di Roma (n. 426 del 28/10/2004)– www.funzionegamma.edu
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Il luogo dell'Inconscio non é solo la mente individuale:
modelli teorici a confronto
Giulio Cesare Zavattini
Il rapporto tra la configurazione del mondo interno e le relazioni interpersonali
dell‟individuo è oggetto di un ampio dibattito nel mondo psicoanalitico. Tale dibattito
ha reso possibile aprire il lavoro clinico a nuovi settori d‟intervento, nei quali l‟oggetto
non è più soltanto il singolo individuo, bensì le sue relazioni, con un genitore - nella
psicoanalisi infantile – con il partner, con la famiglia - nella psicoanalisi di coppia o
familiare, con i membri di un gruppo. Ciò ha implicato non solo la rilettura dei modelli
e della teoria della tecnica, ma ha portato all‟individuazione di una nuova tipologia di
pazienti e un nuova visione della psicopatologia.
Nei modelli psicoanalitici attuali vi è, infatti, maggiormente l'idea di un rapporto più
stretto tra il profilo del mondo interno (oggetti interni, sé, intersoggettività) e
l'enactment sulle relazioni reali per cui le relazioni interpersonali divengono lo scenario
su cui viene appoggiato il mondo interno (Person, Cooper, Gabbard, 2005). Questo
aspetto è evidente nel rapporto tra organizzazione interna del genitore e relazioni con i
figli, organizzazione interna del partner e relazione di coppia ed indubbiamente nei
fenomeni che „si accendono‟ nei gruppi (Lieberman, Van Horne, 2005; Neri, 2005,
2007; Eiguer, Granjon, Loncan, 2006 ; Kaës, 2006; Fonagy, Target, 2007; Santona,
Zavattini, 2007; Zavattini, 2006).
Balint (Balint, 1935) sin dal lontano 1935 si chiedeva, del resto, che fosse prestata più
attenzione allo sviluppo delle relazioni oggettuali, nel senso che tutti i termini e i
concetti psicoanalitici, a eccezione di “oggetto” e di “relazioni oggettuali” si
riferirebbero all‟individuo da solo, segnalando i limiti di una tradizione di lettura della
personalità centrata su ciò che si chiama one-body-psychology, ossia la focalizzazione
sulle caratteristiche della mente individuale vista come a sé stante e come l‟unico vero
luogo dell‟Inconscio.
Nella psicoanalisi attuale, invece, la funzione della relazione con l‟altro, intesa come
uno dei sistemi motivazionali umani, ha contribuito alla definizione di una nuova
prospettiva teorica: dal bambino che si difende dal mondo, al bambino che è in
relazione con il mondo e viene da quest‟ultimo influenzato, ad un bambino che a sua
volta é influenzato ed influenza l‟ambiente che lo circonda.
Sono note le trasformazioni di questa problematica nel movimento psicoanalitico che a
partire dalle teorie delle relazioni oggettuali ha rivisto ampiamente il paradigma
freudiano sino ad arrivare alle recenti posizioni intersoggettivistiche (Mitchell, 2000) in
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cui viene ripreso il quesito relativo al rapporto tra la configurazione del mondo interno e
la natura e sviluppo delle relazioni interpersonali (Beebe, Lachman, 2002; Mayes,
Fonagy, Target, 2007).
Tale linea di ricerca ha determinato, pur con varie differenze, una notevole riflessione
nel movimento psicoanalitico internazionale con un‟accentuazione del tema della
coppia psicoanalitica come matrice da cui processualmente emergono i significati e
vengono definite le vicende dell‟incontro tra paziente e psicoanalista (Gallese, Fadiga,
Fogassi, Gill, 1993 ; Ferro, 1996; Bezoari, Ferro, 1997; Bromberg, 1998/2001;
Gabbard, Westen, 2003).
Il lavoro di Bion (Bion, 1961, 1962) ed il concetto di “assunti di base”, è stato
determinante perché si è cominciato a chiedersi come le idee psicoanalitiche potessero
adattarsi al setting di gruppo, oppure come le concezioni psicoanalitiche non
combacino con il setting di gruppo. In altri termini, parafrasando l‟osservazione di
Balint, possiamo chiederci se l‟individuo è un‟entità differente rispetto al gruppo, che è
costituito da un insieme di individui e, quindi le due entità, ossia quella individuale e
quella collettiva, sono qualcosa di completamente diverso. Si apre il quesito segnalato
da Francesco Corrao (Corrao, 1998) quando si chiedeva: “Abbiamo bisogno di teorie
del tutto differenti per ciascuno dei due livelli ?”.
In secondo luogo la riflessione che è scaturita dal pensiero di Bion sia sui gruppi che nel
lavoro con pazienti gravi (Bion, 1961, 1967) ha facilitato la capacità di distaccarsi dalla
dissimetria di ruolo tra paziente e psicoanalista per entrare nel gioco delle „dissimetrie
variabili‟ e circolari non tanto per un affetto di tipo filiale e familiare come pensava
Freud, ma per affetto nei confronti del contesto – o campo – in cui prende corpo la
relazione terapeutica.
In questa direzione oggi la tesi di un assottigliamento della distinzione tra soggetto e
oggetto appare tuttavia meno dirompente se consideriamo i contributi
della
neuroscienze. La scoperta dei “neuroni specchio” - il cui funzionamento è attivo sia
quando vengono eseguite azioni finalizzate a uno scopo, sia quando si osservano le
stesse azioni eseguite da altri - illustra, infatti, la “… capacità innata e preprogrammata
di internalizzare, incorporare, assimilare, imitare, ecc., lo stato di un’altra persona, e i
neuroni specchio costituiscono la base di questa capacità. Ma per il raggiungimento
della piena espressione questa predisposizione ha bisogno di avere come complemento
un adeguato comportamento del caregiver che lo rispecchi, interagendo con lui in
modo coerente o prevedibile … Tutte queste concettualizzazioni, molto diverse l’una
dall’altra e provenienti da diversi orientamenti teorici, sottolineano l’importanza
dell’oggetto (esterno o internamente rappresentato che sia) nel rispecchiare il Sé come
una modalità fondamentale di ristrutturare il mondo interno” (Gallese, Migone &
Eagle, 2006).
I quesiti del rapporto tra organizzazione individuale e dimensioni relazionali è, quindi,
ormai un tema di fondo nel dibattito psicoanalitico che non riguarda più soltanto la
riflessione „anticipatrice‟ che è venuta dagli studi sul gruppo, ma è andata anche oltre
non solo rispetto al modello verticale della rimozione, ma anche a quello orizzontale
della scissione.
Dov‟è ora il luogo dell‟Inconscio ?, è una domanda che pervade tutta la psicoanalisi,
con differenze notevole nei modelli, nei territori esplorati e nelle tradizioni teoriche dei
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vari paese, per esempio tra l‟area francofona e quella anglosassone della psicoanalisis
come emergerà bene dai contributo di questo numero.
Rispetto quesito di cui sopra abbiamo invitato vari studiosi italiani e stranieri a
partecipare al dibattito che non ha l‟obiettivo di una sistematicità, ma piuttosto quello di
„invogliare‟ ad un Forum in cui potessero confrontarsi in forma polifonica vari „spunti‟
e „vertici‟ d‟attenzione e di cui ringraziamo sia gli autori che hanno generosamente
contribuito con un loro lavoro a questo numero di Funzione Gamma, sia coloro che non
hanno potuto e che speriamo partecipino in futuro.
Il lettore troverà, quindi, vari punti di riflessione, diversi, non sempre paragonabili: il
tema, per esempio delle fantasie originarie come collante tra mente individuale e
famiglia, come nel saggio di Anne Loncan, Fantasies, myths and dreams as witnesses of
family psychic groupality, la ripresa della problematica bioniana, ma vista sul piano del
concetto di Apparato psichico gruppale nel lavoro di Renè Kaës, Pour une troisièm
topique de l’intersubjectivité et du sujet dans l’espace psychique commun et partagé, la
problematica delle relazioni oggettuali ed il confronto con il tema della regolazione
delle emozioni, come nei saggi di David e Jill Scharff, The Interpersonal Unconscious
in cui vi è un forte riferimento allo scenario diriflessione delle neuroscienze e della
trasmissione intergenerazionale in termini più vicini agli studi dell‟infant reserach o di
Patrizia Velotti e Zavattini, L’incontro con l’altro nella relazione di coppia: il luogo
della reciprocità, in cui si fa riferimento alla relazione di coppia come uno dei luoghi di
negoziazione della intersoggetività. il tema dei miti nei sogni nel lavoro di Ravit
Raufman, Folkloristic Methods in Dreams Interpretation.
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Giulio Cesare Zavattini è Professore Ordinario di Psicodinamica di coppia con
elementi di psicoterapia e di Psicopatologia dell‟adolescenza, Università di Roma “La
Sapienza”; Psicoanalista S.P.I. ed I.P.A.; Membro IACFP (Parigi); Membro Associato
SCPP (Londra).
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