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Volume 38
152
Ottobre-Dicembre 2008
INDICE numero 152 Ottobre-Dicembre 2008
Editoriale
Pasquale Di Pietro .....................................................................................................................................................................................191
ADOLESCENTOLOGIA (a cura di Sergio Bernasconi, Silvano Bertelloni)
Novità in medicina dell’adolescenza
Silvano Bertelloni, Salvatore Chiavetta, Cecilia Volta, Piernicola Garofalo, Mirella Strambi, Eleonora Dati, Sergio Bernasconi ................192
Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici
Giuseppe Raiola, Eleonora Dati, Vincenzo De Sanctis, Maria Concetta Galati, Silvano Bertelloni ..............................................................199
Osteoporosi in età adolescenziale
Giampiero I. Baroncelli, Francesco Vierucci, Silvano Bertelloni .................................................................................................................209
La sindrome metabolica in età evolutiva
Lorenzo Iughetti, Patrizia Bruzzi, Barbara Predieri, Giulia Vellani, Michele De Simone .............................................................................215
MALATTIE METABOLICHE (a cura di Generoso Andria)
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico: nuove patologie, nuovi geni-malattia e novità
nel campo della diagnosi e della terapia
Daniela Melis, Federica Deodato, Rossella Parini, Carlo Dionisi-Vici .........................................................................................................221
Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie: l’esperienza degli Stati Uniti d’America
Silvia Tortorelli, Piero Rinaldo ....................................................................................................................................................................232
Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie
Nicola Brunetti-Pierri .................................................................................................................................................................................241
FRONTIERE (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
Luigi Daniele Notarangelo .........................................................................................................................................................................249
FOCUS SU: (a cura di Generoso Andria)
Il trattamento dell’emicrania nel bambino
Giuliano Galli Gibertini, Laurence Morin, Laurence Teisseyre, Chantal Wood, Luigi Titomanlio .................................................................259
LINEE GUIDA (a cura di Riccardo Longhi)
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Alessandra Marchesi, Giacomo Pongiglione, Alessandro Rimini, Riccardo Longhi, Alberto Villani ............................................................266
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
Linee Guida della Società Italiana di Pediatria
Coordinatori: Maurizio de Martino, Nicola Principi ...................................................................................................................................284
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 191
EDITORIALE
I congressi SIP: da Genova a Padova
Il Congresso di Genova voleva essere un segno tangibile del processo di rinnovamento della SIP e credo che abbia ampiamente colto l’obiettivo prefissato. Raramente un Congresso ha avuto una così ampia produzione scientifica e una partecipazione tanto numerosa ed assidua.
Penso soltanto all’ultima sessione plenaria – la tavola rotonda sugli adolescenti – che si è svolta davanti ad un aula affollata da oltre 700
persone.
Il merito di questo successo va certamente al Comitato scientifico e organizzatore, al Direttivo della SIP, al contributo dato da Società affiliate
e Gruppi di studio, all’autorevolezza dei relatori e alla qualità dei loro interventi. Credo, però, che il salto di qualità che c’è stato a Genova sia
essenzialmente dovuto al modo in cui il Congresso è stato vissuto dai tantissimi colleghi che vi hanno partecipato. Un Congresso celebrato
non per ossequio ad una scadenza annuale, ma animato da un progetto – “La SIP tra scienza e famiglia” – condiviso e strategico per la
nostra Società e la Pediatria tutta.
Genova 2008 non segnerebbe, però, il momento di svolta che tutti vi abbiamo letto se rappresentasse un’eccezione a sé stante. L’impegno, mio personale e di tutto il Direttivo, è che possa essere stato l’inizio di un percorso, la cui seconda tappa sarà il Congresso di Padova
2009.
“Nuove frontiere della moderna Pediatria” – come titolerà il Congresso – sarà la nostra sfida di quest’anno. E anche quest’anno – come lo
ero stato per il Congresso di Genova – sono ottimista sul risultato, perché all’impegno collettivo e alla validità dei colleghi che più da vicino
ne seguiranno l’organizzazione si aggiunge l’esperienza acquisita lo scorso anno.
Anche a Padova avremo una ampia produzione scientifica “targata SIP” da presentare e sono certo che gli argomenti che verranno individuati per creare l’impalcatura del programma scientifico (ancora una volta in stretta collaborazione con Società affiliate e Gruppi di studio)
saranno di grande interesse per moltissimi colleghi. E considero estremamente interessante e coinvolgente il tema conduttore: le nuove
frontiere della Pediatria.
La frontiera è ciò che ci separa dall’“oltre”; in ogni momento ed in ogni contesto c’è sempre un “oltre” e, quindi, nuove frontiere da esplorare. Ma ci sono contingenze particolari in cui potremmo dire, parafrasando Orwell, che ci sono frontiere “più frontiere” di altre. Ed è quanto sta
accadendo oggi nel campo della medicina, in cui i progressi scientifici e tecnologici hanno avuto un incremento talmente rapido da rendere
sempre più impegnativo il lavoro di un medico.
La formazione permanete da “valore aggiunto” della professionalità del medico è ormai diventata una condizione indispensabile per svolgere in modo adeguato la professione; la qualità, nell’assistenza e nelle cure, è un elemento determinante in un contesto sociale in cui la
domanda di salute da parte dei cittadini è diventata, spesso, pretesa di salute; la capacità di comunicare con interlocutori esterni all’ambito
medico (dai pazienti alle Istituzioni) è un fattore essenziale per sostenere e far progredire una medicina che culturalmente ed operativamente si sta spostando sempre più dalla cura alla prevenzione.
A questo si aggiunge che mai come in questo momento, come ulteriore conseguenza delle frontiere raggiunte dalla medicina, problematiche
di tipo medico si interconnettono sempre più a valutazioni di carattere etico. Pensiamo solo, caso emblematico per l’area pediatrica, ai limiti
di sopravvivenza dei bambini nati prematuri.
Questi aspetti riguardano naturalmente tutti i settori della medicina, ma la Pediatria, se possibile, è ancora più esposta alle conseguenze di
queste rapide mutazioni scientifiche ed ambientali, perché bambini ed adolescenti non solo devono essere aiutati a conservare o riacquistare il benessere fisico, ma devono essere accompagnati in un percorso evolutivo in cui gli aspetti psicologici e relazionali sono strettamente
collegati con quelli fisici. Ed il pediatra deve imparare a farsene sempre più carico.
Il Congresso di Padova 2009, andando ad esplorare le nuove frontiere della moderna Pediatria, sarà certamente un momento di serrato
confronto e di crescita culturale per la Pediatria italiana. I presupposti e l’impegno perché ciò avvenga ci sono tutti anche perché conto,
come lo scorso anno, sulla collaborazione e il sostegno di tantissimi di voi.
Pasquale Di Pietro
Presidente della Società Italiana di Pediatria
191
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 192-198
ADOLESCENTOLOGIA
Novità in medicina dell’adolescenza
*
**
***
Silvano Bertelloni, Salvatore Chiavetta , Cecilia Volta , Piernicola Garofalo ,
****
**
Mirella Strambi , Eleonora Dati, Sergio Bernasconi
Medicina dell’Adolescenza, U.O. di Pediatria II, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria,
*
Pisa; Pediatra di Famiglia, Palermo; ** Clinica Pediatrica, Dipartimento Materno-infantile, Azienda Ospedalie***
****
ro-Universitaria, Parma; U.O. di Endocrinologia, Ospedale “V. Cervello”, Palermo; Dipartimento di Pediatria,
Ostetricia e Medicina della Riproduzione, Università di Siena
Riassunto
L’adolescenza è un ampio periodo della vita di ogni individuo (10-18 anni), che dal punto di vista culturale e assistenziale è competenza della Pediatria.
Condizioni biologiche o sociali possono ampliare i limiti dell’adolescenza. I percorsi assistenziali per gli adolescenti necessitano di una migliore organizzazione sia a livello del territorio (cure primarie e consultoriali) che dell’ospedale. Un aspetto particolarmente delicato è rappresentato dalla transizione delle
cure pediatriche a quelle dell’adulto dei soggetti affetti da patologia cronica. L’ottimizzazione di questo percorso permette il completamento del naturale
percorso di crescita di ogni individuo.
Summary
Adolescence represents a large period of life, usually from puberty onset (10-11 years) to adulthood (18 years); biological and/or social issue may
anticipate or delay such limits. From a medical point of view, adolescence is part of pediatrics. The organization of care for adolescents needs to be improved both at territorial and hospital setting. More homogeneous indication for adolescent care should be assured among European countries. A main
item in adolescent medicine is the transition from pediatric to adult care for children with chronic diseases. The transition should be properly organized
at both primary and secondary/tertiary level to assure adequate wellbeing and care in adulthood for each individual.
Introduzione
L’Adolescentologia è una sub-specialità della pediatria, che si è sviluppata a partire dalla metà degli anni ’50 dello scorso secolo (Alderman et al., 2004), e rappresenta il “fisiologico” completamento del
bagaglio culturale e professionale di ogni pediatra, che non può che
assumersi il compito di prendersi cura del bambino dalla nascita (o
meglio dalla vita prenatale) fino al completamento della sua crescita
psico-fisica, cioè almeno fino al raggiungimento della maggiore età
(Berg Kelly, 2007; Bertelloni e Raiola, 2007a). Questa sub-specialità
è nata e si è sviluppata in considerazione del fatto che molte delle caratteristiche biologiche e psicologiche degli adolescenti, così
come le loro principali cause di morbilità e mortalità hanno caratteristiche proprie, che le differenziano sia da quelle dei bambini che
da quelle dell’adulto, richiedendo professionisti specificatamente
dedicati e formati per questa fascia di età (Alderman et al., 2004;
Bertelloni e Raiola, 2007a).
In questo ambito, che comprende molteplici argomenti, si è pensato
di dare spazio ad aspetti emergenti di tipo organizzativo, come quelli
relativi all’assistenza dell’adolescente e alla transizione dalle cure
pediatriche a quelle dell’adulto, anche tenendo conto della situazione italiana.
Limiti cronologici e attività assistenziali
per gli adolescenti
Sebbene dal punto di vista cronologico l’adolescenza non abbia limiti rigidamente definibili, usualmente, si tende a far coincidere il
suo inizio con la comparsa dei segni di sviluppo puberale ed il suo
termine con il raggiungimento dell’età adulta (Tab. I) (WHO, 1975).
192
L’inizio dell’adolescenza viene pertanto uniformemente identificato
intorno ai 10-11 anni, mentre il termine dell’adolescenza è meno
definito (Tab. I). Un recente pronunciamento della Società Italiana
di Medicina dell’Adolescenza ribadisce che l’adolescenza può essere generalmente collocata nel periodo tra i 10 e i 18 anni di età
(Raiola et al., 2007). Tuttavia, tenendo conto della tendenza sia ad
un inizio più anticipato dello sviluppo puberale sia a un più ritardato
raggiungimento di un ruolo indipendente e responsabile nella società, l’adolescenza può estendersi dagli 8-9 anni fino a tutta la terza
decade di vita quando condizioni mediche, neuro-psicologiche o sociali ne alterino il fisiologico decorso (Raiola et al., 2007). I pediatri
dovrebbero quindi essere in grado di assicurare una adeguata presa
in carico dell’adolescente e dei suoi problemi per tutto questo ampio
periodo (AAP, 1972; Raiola et al., 2007).
A fronte di queste indicazioni rimane tuttavia irrisolto il problema
dell’assistenza pediatrica per gli adolescenti.
In Italia, a livello territoriale, l’area di interesse e di competenza del
pediatra di famiglia (PdF), secondo l’ultimo Accordo Collettivo Nazionale, comprende solo parzialmente l’età adolescenziale, avendo
il PdF l’esclusività dell’assistenza fino al 6° anno, la possibilità (facoltativa) di seguire i propri assistiti fino al 14° anno, con l’ulteriore
estensione (ma di non uniforme attuazione, a seconda dei diversi Accordi Regionali) fino al 16° anno per casi particolari e/o per
patologia cronica. Eppure, secondo il Progetto Obiettivo MaternoInfantile collegato al Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (Min.
Sal., 2000), bisognerebbe “garantire ad ogni bambino-adolescente
il suo pediatra e la continuità terapeutica … estendendo l’area pediatrica all’adolescenza” (Min. Sal., 2000). In questa ottica, il pieno
riconoscimento dell’età adolescenziale tra le competenze del PdF
Novità in medicina dell’adolescenza
Tabella I.
Evoluzione dei limiti cronologici dell’adolescenza negli ultimi 30 anni (Raiola et al., 2007).
Organizzazione Mondiale della Sanità
Società Italiana di Pediatria
Paese
Anno
Limiti
(anni)
CH
1975
10-20
I
1995
11-18
Accademia Americana di Pediatria
USA
1995
11-21
Società di Medicina Adolescenza
USA
1995
I
2007
10–25
10-18*
Società Italiana di Medicina Adolescenza
* Da tenere in considerazione che:
• inizio fin da 8-9 anni, se pubertà precoce/anticipata;
• estensione fino alla III-IV decade di vita nel caso di individui con patologie/disordini cronici (organici o neuro-psichiatrici) o rilevanti problematiche
sociali.
(Bianchi, 2007), potrebbe determinare consistenti vantaggi per lo
stato di salute dei giovani (Tab. II) – in prospettiva anche della popolazione in generale – assicurando livelli uniformi di assistenza
specialistica per un’intera fascia di popolazione, che oggi trova
spesso come unico – ma assolutamente inadeguato- riferimento
per le sue necessità di salute il solo pronto soccorso (Bertelloni e
Raiola, 2007b; De Sanctis et al., 2006).
Il territorio potrebbe inoltre fornire risposte ai bisogni di salute degli
adolescenti attraverso la pediatria di comunità e i consultori giovani.
La prima rimane tuttavia poco sviluppata in Italia, essendo presente
in forma ben organizzata solo in poche realtà (Farneti et al., 2007).
Nei secondi, gli adolescenti, poco disponibili al confronto con modelli
organizzativi rigidi e strutturati (come l’ospedale), potrebbero invece
trovare “spazi riservati” non burocratizzati e quindi più adeguati alle
loro esigenze (Ancora, 2005; Strambi e Lombardi, 2007). In effetti,
la distribuzione dei consultori è oggi abbastanza omogenea (Tab. III)
(Strambi e Lombardi, 2007).
Tuttavia, le figure più rappresentate nei consultori rimangono gli psicologi ed i ginecologi, di rilievo la presenza degli assistenti sociali
e delle ostetriche, mentre è ancora carente, nella maggioranza dei
consultori, la figura del pediatra che con gli adolescenti dovrebbe
avere un rapporto privilegiato (Bertelloni et al., 2001; Strambi et al.,
2007). Ancora più rari sono altri specialisti, come dietisti, dermatologi, educatori, sociologi. I maschi continuano ad utilizzare poco le
strutture consultoriali (rapporto maschi/femmine < 1/10) (Strambi e
Lombardi, 2007), anche perché i principali motivi di accesso a queste strutture rimangono quelli legati alla contraccezione (Tab. IV).
Recenti dati epidemiologici sugli aspetti legati all’esercizio della
sessualità e sull’utilizzo di sostanze d’abuso (ISTAT, 2007; Min. Sal.,
2007a; Min. Sol. Soc., 2007; Strambi e Lombardi, 2007) dimostrano
tuttavia come molti obiettivi debbano essere ancora raggiunti (Tab. V)
(v. anche articolo Comportamenti a rischio in età adolescenziale, pp.
199-208 di questo stesso fascicolo).
Dovranno quindi essere sviluppate nuove modalità di approccio alla
prevenzione, che rendano il rapporto degli adolescenti con la “parte
tecnica” più vivace, attuale e in grado di suscitare maggiore curiosità e interesse. Sarà inoltre necessario una maggiore interazione con
la famiglia, fino ad oggi troppo spesso lasciata “fuori” dai consultori,
abbattendo barriere culturali ancora esistenti, ed affrontando con
maggiore serenità i vari temi, indipendentemente dalle convinzioni
ideologiche (Strambi e Lombardi, 2007).
Il mondo pediatrico è probabilmente il solo in grado di dare un
contributo importante alla soluzione del problema, con una visione
globale delle varie problematiche (cioè non legate a una disciplina
specialistica). Il pediatra ha infatti la possibilità di operare un coinvolgimento di tutti gli attori del sistema (minori, famiglie, consultori, scuola, istituzioni) individuando un percorso che già ben prima
dell’adolescenza sviluppi un processo pedagogico di educazione a
corretti stili di vita (sessuale, alimentare, voluttuaria, ecc.). Si tratta
quindi di ripensare i metodi della comunicazione e del funzionamento dei consultori per realizzare una educazione sanitaria più efficiente ed efficace (Bianchi, 2007; Strambi e Lombardi, 2007). Questo
nuovo ruolo consultoriale potrebbe forse essere svolto da una figura
di “pediatra della scuola” (Bianchi, 2007; Burgio et al., 2007), for-
Tabella II.
Alcuni interventi assistenziali del PdF e possibili ricadute sulla salute degli adolescenti (Bertelloni e Raiola, 2007a).
Tipo di intervento
Ricadute sulla salute degli adolescenti
Estensione dei bilanci di salute
per l’adolescente omogeneamente in tutte le regioni *
Monitoraggio dello sviluppo psico-fisico fino al completamento
Educazione sanitaria (con particolare riguardo a fumo, alcool, droga, attività
sessuale, nutrizione, incidenti stradali, attività fisica, rapporti sociali …)
Intercettazione di specifiche patologie adolescenziali maschili e femminili
Risoluzione del problema del minor accesso degli adolescenti maschi ai
servizi sanitari
Collaborazione con i servizi sociali
Individuazione e presa in carico precoce delle situazioni di disagio adolescenziale legate a devianze, emarginazione, maltrattamenti, immigrazione
Protocolli operativi per malattie croniche
Miglioramento dell’assistenza domiciliare integrata per gli adolescenti con
patologia cronica.
* Da organizzare mediante modalità di chiamata attiva secondo un progetto “Salute adolescenza” analogo a quello “Salute infanzia” (Bianchi, 2007; De
Sanctis et al., 2006).
193
S. Bertelloni et al.
Tabella III.
Attività consultoriali per adolescenti in Italia (Strambi e Lombardi,
2007).
Area
1996
2002
Nord
34,2%
29,2%
Centro
22,4%
22,0%
Sud
27%
30,6%
Isole
16,4%
–
Tabella IV.
Principali motivi di accesso al Consultorio giovani di Siena (Strambi
e Lombardi, 2007).
Motivo consultazione
%
Gestione della contraccezione, difficoltà psicologiche e relazionali
33
Informazioni sulla contraccezione e visita ginecologica
17
Consulenza per problemi di pediatria generale
12
Consulenza per problemi dermatologici
8
Richiesta di aiuto per problemi di rapporto col cibo
7
Richieste di informazioni sul funzionamento del consultorio
Altro
6
17
mato in modo da utilizzare un “linguaggio” particolarmente idoneo
ai fini di una comunicazione più efficace nei confronti dei giovani
ed operare con interventi globali sulle tematiche di salute (Raiola et
al., 2007), superando i “vecchi” programmi centrati sulle malattie e
sulle situazioni a rischio ed orientando maggiormente la prevenzione
verso il sostegno ai bisogni naturali di crescita, piuttosto che alla sola
riduzione dei fattori di rischio” (Bertelloni e Raiola, 2007b; Strambi
e Lombardi, 2007; Burgio et al., 2007). Sarebbe inoltre auspicabile una maggiore flessibilità di questo pediatra, potendosi ipotizzare
un suo intervento in ambiti assistenziali differenti (scuola, territorio,
ospedale) in modo da rappresentare un punto fisso di riferimento per
l’adolescente (Bertelloni e Raiola, 2007a e 2007b; Bianchi, 2007;
Strambi e Lombardi, 2007). Potrebbe essere utile anche l’istituzione
di veri e propri bilanci di salute alla famiglia con metodologia sistemico-relazionale per dare nuove risposte ai problemi comportamentali (De Luca et al., 2009).
Il terzo attore nell’assistenza all’adolescente è l’ospedale. Nell’agosto 1987, il Consiglio Superiore di Sanità riconosceva l’opportunità
del ricovero dell’adolescente in strutture pediatriche (Bertelloni et
al., 2007a). A oltre 20 anni da quella indicazione, la situazione rimane del tutto insoddisfacente. A fronte di un ricovero in Area pediatrica di oltre il 95% dei bambini nel primo anno di vita, solo il 51% di
quelli tra 5 e 14 anni trova assistenza nei reparti a loro dedicati (Bertelloni et al., 2007a; Bertelloni e Raiola, 2007a). Se poi si considera
l’età adolescenziale più elevata (15-18 anni) solo il 12% dei soggetti
trova assistenza in Area pediatrica, mentre il restante 88% è ricoverato in reparti per adulti e quindi assistito da personale medico e
paramedico non adeguatamente formato per le necessità dei minori
(Bertelloni et al., 2007a; Bertelloni e Raiola, 2007a). Questo dipende
probabilmente non solo dal mancato riconoscimento ufficiale dell’adolescente come paziente pediatrico in molte aziende ospedaliere
e dalla tendenza dei reparti specialistici dell’adulto a ricoverare gli
adolescenti (Bertelloni et al., 2007a; Min. Sal., 2007b), ma anche dal
fatto che la grande maggioranza delle Pediatrie italiane non ha operato una riqualificazione professionale e strutturale/alberghiera.Continuano quindi a mancare spazi specificatamente dedicati a questi
pazienti, troppo spesso trattati dal personale medico e paramedico
pediatrico come bambini (Bertelloni et al., 2007a; Bertelloni e Raiola,
2007a; Min. Sal., 2007b), negando nel momento del ricovero la loro
differente identità e trascurando, a volte anche dal punto di vista
comunicativo verbale e non verbale (Bertelloni e Raiola, 2007a), un
loro maggiore coinvolgimento nei percorsi di cura e nell’acquisizione
del consenso informato (Locatelli, 2007).
Si dovrebbe invece realizzare un adattamento delle strutture pediatriche di ricovero in senso adolescentologico, attivando, oltre a
servizi ambulatoriali e day hospital con orari ed accessi dedicati
– separati da quelli per i bambini più piccoli – un numero adeguato
di posti letto per adolescenti in aree di degenza specifiche con arredi
e cartellonistica adeguati (Bertelloni e Raiola, 2007a; Bianchi, 2007;
De Sanctis et al., 2006); cioè dopo aver reso i reparti pediatrici a misura di bambino si dovrebbe essere in grado di trasformarli a misura
di adolescente (Bertelloni e Raiola, 2007a; De Sanctis et al., 2006).
Le attività di adolescentologia dovrebbero essere sviluppate attraverso collaborazioni interdisciplinari a rete con tutti i professionisti
interessati alla salute dell’adolescente sia a livello ospedaliero che
territoriale, prevedendo anche una interazione con il mondo della
scuola e la realizzazione di programmi di educazione medica continua in modo da realizzare una struttura trans-murale (Bertelloni e
Raiola, 2007a; De Sanctis et al., 2006), finalizzata a “promuovere la
correttezza e l’efficacia dell’assistenza – ospedaliera e territoriale
– nei confronti degli adolescenti” (Bianchi, 2007).
Tuttavia, la situazione italiana non è assolutamente isolata. In ambito
Tabella V.
Alcuni indicatori della salute dell’adolescente: variazioni negli anni.
Indicatore
I rilevazione
II rilevazione
Referenza
bibliografica
Uso di contraccezione nei primi anni dopo l’inizio dei rapporti sessuali (età 14-25 anni)
1987: 55%
2005-2006: 54,5%
Strambi e Lombardi, 2007
Interruzione volontaria di gravidanza (età < 20 anni)
1983: 8,0‰
2005: 7,6‰*
Ministero della Salute, 2007
Consumo di alcolici fuori pasto (età 14-17 anni)
1998: 9,7%
2006: 20,5%
ISTAT, 2007
Uso di cannabis negli ultimi 12 mesi (età 15-24 anni)
2001: M: 15% - F: 8%
2005: M: 22,0% - F: 17,5%
Ministero della Solidarietà
Sociale, 2007
Uso di cocaina negli ultimi 12 mesi (età 15-24 anni)
2001 M: 2,8% - F: 1%
2005: M: 4,1% - F: 2,6%
Ministero della Solidarietà
Sociale, 2007
* Da notare, la riduzione nelle donne di 25-29 anni: 1983: 27,6‰; 2005: 15,3‰ (–44.6%).
194
Novità in medicina dell’adolescenza
Tabella VI.
Assistenza pediatrica per gli adolescenti: situazione europea (Ercan et al., 2009).
Età massima (anni) di competenza della pediatria in Europa
Paesi
EU
Assistenza
territoriale
Assistenza
ospedaliera
Paesi
extra-EU
Assistenza
territoriale
Assistenza
ospedaliera
Bulgaria
18
18
Albania
14
14
Danimarca
0
16
Georgia
14
14
Estonia
–
18
Israele
18
18
Finlandia
16
16
Macedonia
18
18
Francia
6
18
Russia
18
18
Germania
18
18
Serbia
18
18
Grecia
20
14
Svizzera
−
16
Italia
14
18
Turchia
18
18
Lituania
18
18
Ucraina
18
18
Lussemburgo
14
14
Olanda
–
16
Norvegia
16
16
Portogallo
–
18
Regno Unito
16
16
Rep. Ceca
19
19
Romania
19
19
Slovenia
19
18
Spagna
14
14
Svezia
19
19
Ungheria
14
14
europeo, vige ad esempio una grande variabilità per quanto riguarda l’assistenza pediatrica territoriale ed ospedaliera agli adolescenti
(Tab. VI) (Ercan, 2009), sottolineando la necessità di realizzare una
maggiore integrazione tra le esperienze e le normative dei vari paesi
almeno a livello di Unione Europea (Bertelloni et al., 2007b; Bertelloni et al., 2009).
In sintesi, sebbene a livello teorico non esistono ormai dubbi sul fatto
che l’adolescenza è un ambito di competenza della pediatria (Burgio,
2003) (Tab. VII), permane la necessità di migliorare l’offerta assistenziale pediatrica per tutta questa fascia di età con scelte più omogenee
e trasparenti in termini di politica sanitaria, formazione e organizzazione dei servizi (Bertelloni e Raiola, 2007a; Raiola et al., 2007; De
Sanctis et al., 2006; Ercan et al., 2009; Bertelloni et al., 2007b).
In questa ottica, del tutto recentemente, è stato proposto un progetto
di legge che cerca di riordinare, almeno in Italia, tutta questa complessa materia, riconoscendo ufficialmente le competenze pediatriche
sull’età adolescenziale sia a livello territoriale che ospedaliero e indicando anche dei modelli di transizione dalle cure pediatriche a quelle
dei medici dell’adulto per tutti gli adolescenti (Bianchi, 2007).
L’attuale attenzione a questa delicata fase di “care” nasce dal fatto
che:
Il problema della transizione dalle cure pediatriche
a quelle dell’adulto
• la strutturazione della fase di transizione non sembra essere
ancora sufficientemente adeguata, come risulta anche da una
recente indagine in Italia, che ha messo in evidenza come il 50%
dei medici coinvolti non si ritenga soddisfatto dei risultati raggiunti (Volta et al., 2003). Dati analoghi sono stati rilevati anche
da autori statunitensi e britannici, che hanno sottolineato come
non si sia ancora raggiunto un grado ottimale di organizzazione
di questo processo (Reiss e Gibson, 2002).
La Società Americana di Medicina dell’adolescente ha definito la
transizione come “un passaggio, programmato e finalizzato, di adolescenti e giovani adulti affetti da problemi fisici e medici di natura
cronica da un sistema di cure centrato sul bambino ad uno orientato
sull’adulto” (Blum et al., 1993).
• l’evoluzione delle conoscenze mediche ha nettamente migliorato la prognosi e la sopravvivenza di molte malattie croniche
e/o disabilità, tanto che oltre il 90% dei bambini che nascono
affetti da tali condizioni o le sviluppano in età pediatrica ha oggi
un’aspettativa di vita notevolmente aumentata e stimata spesso
ben oltre i 20 anni d’età (Gortmaker e Sappenfield, 1984; Rosen,
1995);
• la transizione clinica è un processo multidimensionale e multidisciplinare, volto non solo ad occuparsi delle necessità cliniche della persona nel passaggio dalla pediatria alla medicina
specialistica dell’adulto, ma anche delle esigenze psicosociali,
educative e professionali. Si tratta dunque di un delicato processo dinamico, incentrato sul paziente, che deve garantire continuità, coordinazione, flessibilità, sensibilità, secondo linee guida
prestabilite con una grande attenzione alle esigenze individuali
(Viner, 2008);
195
S. Bertelloni et al.
Tabella VII.
Definizione dell’area di competenza pediatrica (Bertelloni et al.,
2009).
Tabella VIII.
Differenze tra i modelli di cure delle Unità Operative Pediatriche e
quelle dell’adulto.
European Accademy
of Pediatrics/UNEPSA*
CESP/EAP**
Caratteristiche del modello pe- Caratteristiche del modello aduldiatrico
to
Le cure pediatriche sono definibili
come l’assistenza medica degli individui durante la crescita e fino al
completamento dello sviluppo, cioè
dalla nascita a 18 anni.
Le cure pediatriche sono rappresentate dall’assistenza medica a
bambini e adolescenti fino al completamento della crescita e dello
sviluppo.
Consultazione familiare
* The Union of National European Paediatric Societies and Associations
** Confederation of European Specialists in Pediatrics (specialist section
of pediatrics of the European Union of Medical Specialists (UEMS)/European Accademy of Pediatrics
Consultazione individuale
Team multidisciplinare e supporto Supporto di team limitato
psicosociale
Numero di pazienti relativamente Numero di pazienti elevato
ridotto
Competenze specifiche per malat- Scarsa esperienza per malattie rare
tie rare pediatriche
ad insorgenza in età pediatrica
Liste di attesa ridotte
Liste di attesa prolungate
Sostegno dai coetanei/associazio- Assenza di supporto dai gruppi di
ne famiglie
coetanei
Gli ostacoli che rendono difficile la transizione possono manifestarsi
a vari livelli:
• da parte del team pediatrico, ad esempio, per il legame affettivo con il paziente, per la non completa fiducia o conoscenza
delle strutture internistiche soprattutto riguardo a malattie solo
recentemente arrivate alla cura dei medici dell’adulto (es. malattie metaboliche), per l’interesse scientifico nel follow-up del
paziente;
• da parte dell’adolescente o giovane adulto, per la paura di affrontare un ambiente sconosciuto in cui può non avere un referente fisso, per l’assenza dell’appoggio dei familiari, che gli internisti tendono a coinvolgere molto meno intensamente rispetto
a quanto venga fatto dai pediatri e per l’assenza di un ambiente
dedicato alla sua età;
• da parte della famiglia, che non si sente più un interlocutore
importante per il medico, anche se spesso continua a rappresentare per il giovane affetto da patologia cronica un sostegno
indispensabile, anche dal punto di vista economico e sociale,
con conseguente sentimento di esclusione riferito dai genitori
all’atto della transizione.
Infine è indubbio che la medicina dell’adulto è praticata in un ambiente dove ci si attende che il paziente sia completamente autonomo, diversamente dal modello pediatrico di assistenza, incentrato
su una gestione della malattia più di tipo “familiare”. Nella Tabella
VII sono riassunte alcune delle più importanti differenze tra servizi
pediatrici e quelli dedicati all’adulto (Watson, 2005).
In pratica, nel nostro paese, la transizione è largamente frammentaria e pertanto mantiene i caratteri della volontarietà spontaneistica di
cui si fanno carico fra mille difficoltà gli operatori sanitari di singole
ed illuminate realtà locali. Manca una cultura specifica allargata agli
amministratori, mancano i luoghi stessi della transizione; in questo
panorama globale il più delle volte la transizione diventa una realtà
largamente disattesa se non addirittura omessa.
Prendendo in considerazione questi ed altri fattori che possono rendere difficile la gestione di questa fase, sono comparsi in letteratura pediatrica differenti programmi di transizione, senza però che
emergesse un modello unico, privilegiato e scientificamente validato
(Viner, 2008; Rosen, 1995; Reiss e Gibson, 2002).
Il primo modello – disease-based – è attualmente molto diffuso in
USA ed Australia; consente ai ragazzi con specifiche patologie di
transitare in un ambulatorio co-gestito per un certo tempo da uno
196
specialista pediatra e da un medico dell’adulto: tipico esempio l’ambulatorio diabetologico condiviso (joint-clinic); si tratta di un’esperienza abbastanza seguita anche nel nostro paese.
Il secondo modello assistenziale, prevede invece spazi dedicati ai ragazzi dove le figure tutoriali siano esperti non di patologia ma d’area
assistenziale. In sostanza si tratta di formare ed attivare sevizi propri
rivolti all’adolescenza. L’obiettivo strategico, anche se dispendioso,
è di imbastire una rete globale orientata alla gestione del paziente in
età transizionale, alla quale aggregare anche i medici di cure primarie siano essi pediatri di famiglia o medici generalisti.
Indipendentemente dal modello, alcune raccomandazioni generali
devono essere tenute presenti nel tentativo di organizzare una propria modalità di transizione:
• età del trasferimento: non esiste un “momento” fisso anche se
molti considerano i 18 anni oppure l’età in cui viene lasciata la
scuola come età a cui fare riferimento in modo flessibile, poiché
ciò che conta è la maturità raggiunta dall’adolescente nella gestione della propria malattia (Viner, 2008);
Tabella IX.
Informazioni essenziali da includere nella relazione clinica (Kripalani
et al., 2007).
Diagnosi primaria e secondaria
Storia clinica e reperti obiettivi rilevati
Periodo di ricovero, terapie somministrate e breve diario clinico(in caso
di ricovero)
Risultati di procedure diagnostiche e test di laboratorio
Raccomandazioni inerenti ulteriori consulenze specialistiche necessarie
Informazioni fornite al paziente e/o alla sua famiglia riguardanti lo stato
di malattia
Aggiornamento sulle presenti condizioni cliniche del paziente
Piano terapeutico aggiornato, con eventuali motivazioni in caso di variazioni ed indicazioni relative alla prescrizione di nuovi farmaci
Informazioni dettagliate inerenti a tempi e modalità di follow-up e test
diagnostici da effettuare in tale regime
Eventuali servizi socio-assistenziali attivati
Nome e recapito del medico ospedaliero responsabile di ambulatori per
“giovani”
Novità in medicina dell’adolescenza
• periodo di preparazione e programma di educazione: da iniziarsi
nella prima parte dell’adolescenza che tenda a “far comprendere la natura della malattia, il razionale del trattamento, la causa
dei sintomi e a far riconoscere un eventuale peggioramento e le
misure per contrastarlo oltre che le modalità per chiedere l’aiuto
del personale sanitario e per orientarsi nel sistema sanitario”
(Viner, 2008);
• processo coordinato di trasferimento: va sviluppata e realizzata
un’azione congiunta (ad esempio ambulatorio di transizione) con
la struttura degli adulti destinata a seguire il singolo paziente,
che permetta una reciproca conoscenza e un passaggio coordinato di consegne tra le équipes mediche. Nei sistemi sanitari anglosassoni un ruolo importante in questo senso viene svolto dal
personale infermieristico. Sia l’incontro tra il paziente ed il futuro
specialista, prima della transizione clinica, sia la presenza del
pediatra, durante la prima visita presso la medicina dell’adulto,
sembrano essere di notevole efficacia nel successo del trasferimento. Indubbiamente, una vicina localizzazione dei due servizi,
eventualmente all’interno dello stesso complesso ospedaliero,
agevola la compliance al cambiamento (Vanelli et al., 2004).
A questo proposito tra le carenze segnalate nel nostro studio
(Volta et al., 2003) emerge la mancanza di comunicazione tra
pediatri ed internisti/specialisti dell’adulto, unitamente alle rispettive differenze nella gestione e nel trattamento della patologia cronica. Questo sottintende essenzialmente l’assenza di linee
guida condivise da entrambe le figure professionali coinvolte.
• Coinvolgimento del pediatra di famiglia e/o del medico di base:
in molte esperienze è stata segnalata la scarsa partecipazione
del medico delle cure primarie (pediatra di base o medico di me-
dicina generale) al processo di transizione; al contrario, si tratta
di una figura professionale indispensabile che dovrebbe essere
intensamente coinvolta nell’intero processo. Questa situazione è
spesso riconducibile alla scarsa capacità di comunicazione tra
i medici specialisti delle strutture ospedaliere ed i medici del
territorio, per cui informazioni ritardate, imprecise o frammentarie, spesso riportate dal paziente al medico di base possono
determinare influenze negative che tendono a ripercuotersi sul
paziente, sulla continuità assistenziale, nonché sul personale
rapporto di fiducia medico/paziente (Kely et al., 2002). La relazione clinica scritta dovrebbe quindi rappresentare il metodo per
documentare i percorsi diagnostico-terapeutici realizzati dallo
specialista, fornendo al medico di famiglia gli elementi necessari alla co-gestione del paziente. Le informazioni da includere
nelle relazioni cliniche secondo la American Medical Association
(Kripalani et al., 2007) sono elencate nella Tabella VII.
Dal punto di vista organizzativo, il miglioramento della comunicazione potrebbe realizzarsi anche attraverso la possibilità di creare un
archivio tecnologico di facile consultazione, che contenga tutte le
relazioni cliniche riguardanti il paziente, in modo da garantire l’accesso ad una storia clinica il più possibile completa ed aggiornata a
tutti i professionisti coinvolti nel processo di care.
In conclusione, appare oggi indispensabile che i vari “attori” che
possono svolgere un ruolo nella fase della transizione (personale
sanitario e amministrativo, società scientifiche, responsabili di strutture sanitarie, associazioni di genitori, ecc.) elaborino, nelle varie
realtà in cui i pazienti si trovano a vivere, dei percorsi che da un
lato facilitino il passaggio dall’organizzazione pediatrica a quella
dell’adulto e che dall’altro garantiscano il completo soddisfacimento
di quel concetto di care globale, che viene oggi considerato indispensabile per un’assistenza di qualità.
Box di orientamento
•
•
•
L’adolescenza inizia intorno a 10-11 anni e il suo termine può essere posto al raggiungimento della maggiore età (18 anni). Tenendo conto della
tendenza sia a un inizio più anticipato dello sviluppo puberale sia a un più ritardato raggiungimento di un ruolo indipendente e responsabile nella
società, l’adolescenza può estendersi dagli 8-9 anni fino a tutta la terza decade di vita quando condizioni mediche, neuro-psicologiche o sociali ne
alterino il fisiologico decorso.
I percorsi assistenziali per adolescenti necessitano di essere ottimizzati sia a livello territoriale che a livello ospedaliero.
La transizione dalle cure pediatriche a quelle dell’adulto rappresenta un fattore cruciale per assicurare un’adeguata assistenza e una crescita
psicologica e sociale ottimale agli adolescenti con patologia cronica. Tale transizione può essere effettuata secondo alcuni modelli sperimentati ma
ancora troppo poco diffusi in Italia.
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Corrispondenza
dott. Silvano Bertelloni, Medicina dell’Adolescenza, U.O. Pediatria II, Dipartimento Materno-Infantile Ospedale Santa Chiara, via Roma 67, 56125 Pisa
• E-mail: [email protected]
198
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 199-208
ADOLESCENTOLOGIA
Comportamenti a rischio in età adolescenziale:
aspetti medici
Giuseppe Raiola, Eleonora Dati*, Vincenzo De Sanctis**, Maria Concetta Galati***,
Silvano Bertelloni*
U.O.S. di Auxoendocrinologia e Medicina dell’Adolescenza, U.O. di Pediatria, A.O. “Pugliese-Ciaccio” Catanzaro;
*
Sezione di Medicina dell’Adolescenza, Dipartimento di Materno-infantile, A.O.U. Pisana, Pisa; ** U.O. di Pediatria
e Adolescentologia, A.O.U. di Ferrara, Arcispedale “S. Anna”; *** U.O. di Emato-oncologia Pediatrica, A.O. “PuglieseCiaccio” Catanzaro
Riassunto
Si definisce adolescenza il periodo della vita che inizia con la comparsa dei primi segni morfo-funzionali e/o psicosociali di maturazione puberale e si
conclude con l’acquisizione, nell’ambito della società, dell’indipendenza e di un ruolo responsabile. È un periodo che può essere definito “a rischio” e in cui
si deve attuare un valido piano di prevenzione e di promozione alla salute. In questo lavoro vengono esaminati alcuni aspetti medici dei principali comportamenti a rischio nell’adolescente.
Summary
Adolescence may be defined as period starting at puberty onset – considering both the physical and psychological changes – and ending with the acquisition of an independent and responsible role in society. This season of the life represent a particular period which, above all, are defined as “at risk” and
along which valid prevention and health promotion programs should be efficiently put into practice. This paper examine some health related problems of
adolescent taking-risk behaviours.
Introduzione
L’adolescenza rappresenta il periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta e, oltre a varie condizioni mediche o psicologiche, anche
aspetti comportamentali e condizioni di disagio sociale ne possono
alterare il fisiologico decorso con ripercussioni negative non solo
in questa età ma per tutta la vita. I dati sulla “Situazione sanitaria
del Paese” (Min. Sal., 2008a) dimostrano una situazione particolarmente preoccupante per quanto riguarda alcuni comportamenti
degli adolescenti, come alimentazione, abuso di sostanze (alcol, tabacco, droga), precoce inizio dell’attività sessuale, suggerendo che
i programmi di prevenzione fino ad oggi finanziati non hanno dato i
risultati sperati (Bertelloni e Raiola, 2007). Stanno inoltre emergendo nuovi problemi di salute, come testimoniato anche dalla cronaca
quotidiana, legati al fenomeno del bullismo, che troppo spesso sfocia
in atti di vera e propria criminalità minorile (Burgio e Verri, 2007), del
doping (Zuccaro et al., 2006), delle modificazioni del corpo (Raiola et
al., 2006), degli incidenti (WHO, 2008).
In questo articolo saranno presi in esame alcuni dei problemi comportamentali degli adolescenti, facendo riferimento, per quanto possibile, a dati epidemiologici italiani.
Alimentazione
Le mutate condizioni di vita familiare e lavorativa, il consumismo,
la moda e la pubblicità influiscono spesso in maniera negativa sul
comportamento alimentare dei giovani (WHO, 2004; Bertelloni et al.,
2007). Sempre più frequentemente gli adolescenti mangiano troppo,
con incremento di sovrappeso/obesità (Fig. 1) (Lobestein e International Obesity Task Force, 2005), o troppo poco, con disturbi che va-
Prevalenza
Sovrappeso
%
Figura 1.
Andamento del sovrappeso in Europa nei ragazzi di età scolare e confronto con i dati attesi in rapporto all’incremento dei dati di prevalenza
negli anni 1980-1990 (da IOFT, Childhood Obesity Report, 2004; Lobestein, 2005).
riano dal semplice “dieting” all’anoressia nervosa (Tab. I) (Gonzales,
2007; Morris e Twaddle, 2007).
Gli adolescenti comunque troppo spesso mangiano male e, non infrequentemente, utilizzano il cibo sia come strumento autolesivo che di
socializzazione (Curie et al., 2004). In effetti, nell’adolescenza il corpo rappresenta lo specchio di un processo evolutivo psico-somatico
e anche un importante elemento di relazione con l’ambiente esterno.
In questa epoca può quindi facilmente verificarsi un’insoddisfazione
per il proprio corpo e per la propria immagine, che risultano alla
base degli alterati comportamenti alimentari. Tale situazione è oggi
accentuata dai media che propongono modelli standardizzati di bellezza in cui è dominante da un lato l’ideale della donna alta e magra
dall’altro quello dell’uomo alto, aitante e muscoloso (Bertelloni et al.,
199
G. Raiola et al.
Tabella I.
Disturbi della condotta alimentare: dati epidemiologici (III causa di patologia cronica in adolescenza [dopo obesità e asma] I causa di morte per
malattie psichiatriche in età adolescenziale e adulta).
Sesso
Rapporto F: M
Età, anni
Frequenza, %
Anoressia nervosa
Bulimia nervosa
femminile
femminile
9:1*
20:1/30:1
8-24 (picco 14-17)
16-35
0,4-3,7
1,2-4,2
Classi a rischio
medio-alte**
medio-alte**
Paesi a rischio
occidentali (razza bianca)
occidentali (razza bianca)
* con variazioni in rapporto all’età: prepuberi 1:1; prima/media adolescenza 1:10; tarda adolescenza 1:20 (Gonzales, 2007); ** attualmente, tendenza alla
diffusione in tutta la popolazione (Gonzales, 2007; Morris e Twaddle, 2007).
2007; Strasburger, 2004); di fatto questa esasperata enfatizzazione
della linea e della forma non trasmette messaggi positivi ai fini di
una sana alimentazione e di una corretta attività motoria, rischiando di indurre, in uno status psicologico particolarmente vulnerabile
come quello degli adolescenti, comportamenti alimentari incongrui,
a volte nevrotici (Bertelloni e Raiola, 2007). Questo è favorito anche
dall’“inganno” dei prodotti pubblicizzati, usualmente ipercalorici o
nutrizionalmente squilibrati (Maffeis, 2006), ma consumati nei media da interpreti con perfette silhouette, caratterizzazione “positiva” e spesso praticanti scarsa attività fisica (Bertelloni et al., 2007;
Klein, 2005). Di conseguenza, si assiste sempre più frequentemente
a giovani che si sottopongono a diete nutrizionalmente scorrette, a
volte associate a un eccesso di attività fisica, anche in ambienti dove
il rischio doping è particolarmente presente (Zuccaro et al., 2006), a
volte a inattività, anche perché la pratica di attività sportive spesso
si riduce in adolescenza, in particolare nelle ragazze (Kimm et al.,
2002; Brodersen et al., 2007).
Inoltre, sebbene per gli adolescenti il cibo possa rappresentare
un’importante “momento” di socializzazione, si tratta quasi sempre
di alimenti consumati nei fast food e nei pub, anche questi caratterizzati da un eccesso di calorie, grassi saturi, colesterolo, sale,
zucchero e una scarsa quantità di fibre, vitamine e sali minerali
(Maffeis, 2006; Brodersen et al., 2007). Altre osservazioni hanno
messo in evidenza che la grande maggioranza di quelli che vengono
definiti “suggerimenti commerciali” trasmessi durante i programmi
televisivi per minori nei vari paesi europei incoraggia il consumo di
alimenti nutrizionalmente non adeguati per un adolescente (WHO,
2004; Maffeis, 2006).
Alcol
L’alcol viene usualmente considerato dalla popolazione come un alimento, per cui sia il suo uso che il suo abuso sono spesso non etichettati come comportamenti a rischio. Probabilmente anche per tale
motivo, il consumo di alcol tra i giovani è un fenomeno in costante
aumento e preoccupante (Fig. 2) (ISTAT, 2007). Ma l’alcol è una sostanza psicotropa capace di indurre dipendenza. Un recente studio ha
dimostrato che il 15% dei soggetti alcol-dipendenti ha sperimentato
la sua prima dipendenza prima dei 18 anni, il 47% prima dei 21 e
circa 2/3 prima dei 25 anni (Hingson, 2006). Inoltre, i soggetti con più
precoce alcol-dipendenza sperimentano ricadute “croniche” e soprattutto richiedono più tardivamente un intervento terapeutico rispetto a
quelli con dipendenza esordita in età più avanzata (Hingson, 2006).
Negli USA l’alcol è ritenuto uno dei maggiori problemi di salute pubblica e riguarda circa il 90% degli studenti di scuola media superiore
200
Figura 2.
Andamento del consumo di alcolici fuori pasto (ultimi 10 anni) negli
adolescenti di 14-17 anni: Δ-incremento 1998/2007:
Totale
+62,7%
Maschi +49,3%
Femmine +84,5%
(ISTAT, 2007)
(Min. Sal., 2006), avendo anche un ruolo chiave nel determinare le
quattro prime cause di morte tra gli adolescenti: incidenti stradali, ferimenti non intenzionali, omicidi e suicidi (Raiola et al., 2004). Nell’Unione Europea (UE), l’alcol è responsabile della morte di circa 200.000
persone/anno (WHO, 2005), per cause che vanno dagli incidenti stradali, agli omicidi, suicidi, cirrosi epatica, patologie neuropsichiatriche
e depressione, cancro; ed è attribuito all’alcol il 25% della mortalità
giovanile tra i maschi e il 10% tra le femmine. Si stima inoltre che i
prodotti alcolici siano responsabili del 9% del carico totale di malattia
con un costo sociale e sanitario pari al 3-5% del Prodotto Interno Lordo europeo (Raiola et al., 2004; WHO, 2005).
Nel nostro paese, tra il 1980 e il 2001 si è verificata una diminuzione del consumo medio pro-capite di alcol (–33,3%), dovuto in
gran parte al forte calo dei consumi di vino (Raiola et al., 2004).
Negli ultimi anni questa tendenza sembra invece essersi interrotta;
tra il 2001 e il 2003 il consumo medio pro-capite di alcol è passato
da 9,1 litri a 10,5 litri nella popolazione al di sopra di 15 anni; tra il
1998 ed il 2006 si è inoltre avuto un impressionante aumento del
consumo di alcolici fuori pasto nella popolazione 14-17 anni con un
aumento complessivo di circa il 50% nei maschi e di oltre l’80%
nelle femmine (Fig. 2), anche se i dati 2007 dimostrano una leggera
flessione almeno per i maschi (Fig. 2) (ISTAT, 2007). Particolarmente
Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici
preoccupante appare il dato relativo ai ragazzi tra gli 11 e i 15 anni,
per i quali vige il divieto di somministrazione di alcolici (Legge 30
marzo 2001, n. 125: Legge quadro in materia di alcol e problemi
alcol-correlati) tra i quali quasi il 20% dichiara di aver bevuto alcolici
nel corso del 2005 (ISTAT, 2007). La Tabella II dimostra inoltre che il
consumo di almeno una bevanda alcolica/die rimane più frequente
nei maschi rispetto alle femmine per ogni fascia di età e che l’uso
quotidiano sta probabilmente aumentando in particolare nelle fasce
più giovani (Tab. II) (ISTAT, 2007; Raiola et al., 2004).
L’analisi qualitativa dimostra che gli adolescenti assumono ogni
tipo di bevanda alcolica (vino, birra e superalcolici) (Raiola et al.,
2004); sta divenendo inoltre comune l’uso degli alcol-pops. Si tratta
di bevande a basso tenore alcolico (5-6%), dal colore invitante, dal
sapore dolce e gradevole, presentate come “trasgressive”, caratteristica che le rende ricercate dai giovani. Date le loro caratteristiche
organolettiche, può non essere percepita la quantità reale di alcol
assunto con possibile intossicazione acuta e/o induzione di dipendenza (Raiola et al., 2004).
In aumento è il rito dell’happy hour (per 17,4% delle teenagers è
questa l’occasione principale per bere alcolici) e il numero di giovani
che bevono fuori pasto per ubriacarsi o per fare baldoria (il cosiddetto binge drinking, cioè l’abuso concentrato in singole occasioni). A
questo proposito, merita di essere rilevato che nel 2005 quasi il 50%
dei giovani maschi tra i 20 e i 29 anni ed il 14,6% di quelli fra i 18 e
19 anni ammette di essersi ubriacato almeno una volta (ISTAT, 2007;
Hingson, 2006; Raiola et al., 2004). Tale fenomeno riguarda anche gli
adolescenti di età inferiore a quella legale per la somministrazione di
bevande alcoliche (16 anni), tra i quali ammette di essersi ubriacato
almeno una volta il 3,2% (Hingson, 2006; Raiola et al., 2004).
L’alcol può avere un effetto negativo su diversi aspetti della qualità di
vita, danneggiando la salute, la felicità, la vita familiare, le amicizie,
lo studio, il lavoro e/o le opportunità di lavoro e, conseguentemente,
la situazione finanziaria (Raiola et al., 2004). Inoltre, il consumo di
sostanze alcoliche si associa spesso al consumo di sostanze stupefacenti (Ellickson PL et al., 1992), induce problemi di comportamento, scadenti performance scolastiche (Mason e Windle, 2001), anche
legate a fenomeni di maggiore assenteismo (Gruber et al., 1996),
condotte sessuali a rischio (Bailey, 1999; Flisher e Chalton, 2001),
interferendo con la normale transizione dall’età adolescenziale a
quella adulta (Schulenberg et al., 1996).
La riduzione dei danni causati dall’alcol è una delle più importanti
azioni di salute che gli stati dovrebbero favorire per migliorare la
qualità della vita, attraverso una efficace azione di educazione, informazione e prevenzione (Hingson, 2006; Raiola et al., 2004; WHO,
2005), erudendo i giovani sui possibili effetti negativi del consumo
occasionale o abituale di alcol sullo stato di salute (WHO, 2005; EU
Commission, 2006). Questa attività di prevenzione dovrebbe cercare
di salvaguardare gli adolescenti anche dalle pressioni mediatiche; il
consumo d’alcol, infatti, viene proposto come parte normale, integrante ed appagante, della vita quotidiana, propagandando in maniera diretta o occulta il concetto del bere, incoraggiandone, di fatto,
l’utilizzo (Bertelloni et al., 2007; Strasburger VC, 2004).
Inoltre, nell’attuale società, come in quella passata, all’alcol – e ai
locali dove viene commercializzato – viene conferita una funzione
di socializzazione, di rafforzamento dei gruppi e dei rituali collettivi.
Così bar, birrerie, osterie, circoli ricreativi vengono identificati quali
luoghi privilegiati dove la solidarietà tra gli individui viene sviluppata
e mantenuta; luoghi dove i ragazzi ricercano, e a volte trovano, quell’atmosfera che può, purtroppo, mancare all’interno delle famiglie,
favorendone la frequentazione.
Fumo di sigaretta
L’abitudine al fumo comporta pesanti ripercussioni sullo stato di salute (cancro, bronchite cronica, enfisema, arteriosclerosi, infarto, ipertensione, ictus, angina pectoris, gastrite, ulcera gastrica e duodenale,
esofagite cronica, ecc.), rappresentando, tra le cause di malattia, quella più facilmente evitabile (Min. Sal., 2008a; Pacifici, 2008).
In Italia sono oltre un milione e duecentomila i giovani fumatori: circa
il 20% tra i 15 e i 24 anni con un costante incremento con l’età (Tab.
III) (Pacifici, 2008). Recenti dati dimostrano un’età media di inizio del
fumo intorno ai 17 anni, senza differenze significative tra maschi
(17,2 anni) e femmine (17,8 anni), inoltre solo una minoranza inizia
a fumare oltre i 18 anni, mentre 1/5 dei fumatori acquisisce l’abitudine prima dei 15 anni (Tab. IV) (Pacifici, 2008), derivandone che
per ridurre la diffusione del fumo nei soggetti adulti è indispensabile
ridurre il numero delle persone che iniziano a fumare in giovane età
mediante interventi molto precoci di prevenzione primaria (Min. Sal.,
2008a; Bertelloni e Raiola, 2007).
L’inizio dell’abitudine al fumo di sigaretta è il frutto di un complesso
processo comportamentale individuale, ambientale e sociale, mentre solo raramente è riconducibile ad un singolo evento. Il giovane
emula l’adulto fumatore per sentirsi “grande” e parte integrata di un
gruppo sociale (rito di iniziazione) e per affermare la propria personalità (Bertelloni e Raiola, 2007; Curie et al., 2004; Pacifici, 2008).
Fin dagli anni sessanta la scuola è stata considerata il luogo più
idoneo a diffondere informazioni sulla salute (De Luca, 2007); ma è
anche vero che proprio in ambiente scolastico molti giovani iniziano
a fumare, stimolati dall’esempio dei coetanei e purtroppo, a volte,
anche da quello degli insegnanti. Inoltre, sebbene in Italia sia presente il divieto per la pubblicità diretta delle sigarette (Legge n. 165
del 10/04/62), è tuttavia possibile quella indiretta (sponsorizzazioni
Tabella II.
Consumo quotidiano (%) di almeno una bevanda alcolica negli adolescenti di 11 e più anni e nei giovani adulti (dati per sesso ed età)*: confronto
2006 vs. 2007.
Età, anni
Maschi
Femmine
Totale
2006
2007
2006
2007
2006
2007
11-15
1,7
1,3
0,2
0,7
1,0
1,0
16-17
7,8
8,8
3,8
1,4
5,6
5,2
18-19
9,6
14,1
2,4
4,6
6,2
8,0
20-24
17,9
21,5
4,9
6,2
11,6
13,1
25-29
28,6
29,0
8,1
6,2
18,5
18,0
(ISTAT, 2007)
201
G. Raiola et al.
metodi di consumo, come il bong, e la migliore purificazione dei prodotti ha determinato una maggiore pericolosità di tutti i tipi di droga,
anche di quelle in passato definite come “leggere”, quasi a volerne
erroneamente giustificare una minore pericolosità (Chabrol, 2007).
Dal punto di vista epidemiologico, in Italia il numero dei decessi per
droga ha presentato una diminuzione nell’ultima decade, ma con
un certo incremento negli ultimi anni (Tab. V) (Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Non sono noti casi di decesso per overdose in minori
di 15 anni e solo una minoranza riguarda la fascia 15-19 anni (Tab.
V) (Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Questo dipende probabilmente
anche dal fatto che i decessi sono in larga prevalenza dovuti all’utilizzo di eroina, che risulta attualmente la droga meno utilizzata dagli
adolescenti (Tab. V).
La sostanza maggiormente utilizzata dagli adolescenti rimane la
cannabis, di cui circa 1/3 degli studenti delle scuole superiori ha
fatto uso almeno una volta nella vita e circa 1/4 nell’ultimo anno
(Min. Sal., 2008a; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007). Il confronto tra
i consumi riferiti tra il 2000 e il 2006/2007 dimostra che questi rimangono sostanzialmente stabili per le varie sostanze ad eccezione
dell’eroina che ha mostrato un consistente calo; l’uso delle varie
droghe è di maggiore appannaggio del sesso maschile anche se nei
soggetti più giovani vi è la tendenza a consumi analoghi tra i due
sessi (Tab. V). I dati epidemiologici mostrano inoltre che, con l’età,
il consumo dei vari tipi di droga aumenta progressivamente e vi è
una tendenza alla sperimentazione di più sostanze, soprattutto nei
consumatori abituali, tanto che il policonsumo è aumentato di circa
il 60% tra il 2000 ed il 2005 (Ferrero, 2005) e nel 2007 tra gli studenti che hanno fatto uso di droghe illegali il 12% ha utilizzato due
sostanze ed un altro 12% tre sostanze (Giovanardi, 2007).
Le prime sostanze sperimentate dai giovani sono legali, tabacco e/o
alcol, poi si aggiungono le droghe illegali (Bertelloni e Raiola, 2007;
Curie et al., 2004 ; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007).
Tabella III.
Fumo di sigaretta negli adolescenti e nei giovani adulti.
Età, anni
Fumo abituale
11-14
–
15-17
7,4%
18-20
23,5%
21-24
25,9%
(Pacifici, 2008)
di eventi sportivi, eventi culturali e utilizzo del marchio di sigarette
per linee di abbigliamento sportivo), che rappresenta un ulteriore
fattore di stimolo per l’inizio di questa abitudine. Si deve infine considerare che in adolescenza il fumo di sigaretta spesso precede o
si associa all’abuso di alcol e/o di droga con tutte le conseguenze
negative che ne conseguono a breve e a lungo termine (Bertelloni e
Raiola, 2007; Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007).
Droghe
In età adolescenziale l’uso delle droghe può essere occasionale (il
cosiddetto sballo) o abituale. La prima modalità di assunzione deriva
dal fatto che molti giovani (circa il 20%) non considerano pericoloso,
ad esempio, l’uso ricreativo e moderato dei cannabinoidi, ritenendolo
compatibile con gli impegni quotidiani (scuola, lavoro, attività sportiva, relazioni familiari e sociali), o ne ritiene dannoso solo l’utilizzo
esagerato (35%) (Min. Sal., 2008a; Curie et al., 2004; Ferrero, 2005;
Giovanardi, 2007). Tuttavia è oggi ben noto come si possa instaurare
una vera e propria condizione di dipendenza psico-fisica anche nel
primo caso (Chabrol, 2007). Si deve inoltre considerare che gli attuali
Tabella IV.
Età di inizio del fumo di sigaretta*.
Anni
Maschi, %
Femmine, %
Totale, %
< 15
17,9
15,7
17,0
15-17
48,1
39,7
44,8
18-20
24,6
33,7
28,2
> 20
9,4
10,9
10,0
* Inizio prima dei 18 anni: 61,8% (Indagine DOXA-ISS, 2008)
Tabella V.
Decessi per droga e uso di sostanze stupefacenti negli adolescenti italiani.
Uso negli ultimi 12 mesi
2000
2005
Uso frequente
2007
rapporto M/F
2007
%
%
%
15 aa
19 aa
1002**
652**
589**
9,3/1°
–
Cannabinoidi
23,6
23,8
23,0
1,4/1
1,5/1
2,7
Cocaina
3,4
3,5
4,2
~ 1/1
2,3/1
0,4
Eroina
3,0
1,6
1,4
~ 1/1
1,4/1
0,4
Allucinogeni
1,9
2,1
2,7
1,4/1
2,1/1
0,4
Stimolanti
2,6
1,7
3,0
~ 1/1
2,3/1
0,5
Policonsumo
5,0
8,0
24,0
–
Decessi*
*
%
–
**
Valore più basso periodo 1996-2005: anno 2003 (n. = 517) (Giovanardi, 2007); maschi: > 90% per tutti gli anni; non registrati decessi per soggetti di
età < 15 anni; 15-19 anni: 2-3% dei decessi per overdose.
202
Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici
Tabella VI.
Fattori protettivi e favorenti l’utilizzo di droga.
Fattori protettivi
Fattori favorenti
Non essere fumatore
Assenteismo scolastico
Non essersi ubriacato nell’ultimo mese
Essere stati coinvolti in risse o incidenti
Percepire interessamento nei propri confronti da parte dei genitori
Aver avuto rapporti sessuali non protetti, anche a causa di alcol o droghe
Avere una positiva relazione con i genitori
Avere fratelli o amici che abusano di alcol e/o utilizzano droghe
Avere un rendimento scolastico medio-alto
Aver fatto uso di psicofarmaci con e, ancor più, senza prescrizione
medica
Partecipare ad attività sportive
Eccessivo consumo di denaro senza controllo dei genitori
Avere percezione dei rischi correlati all’uso di droghe
Uscire di casa ogni sera
Avere cura della casa e/o delle proprie cose
Partecipare a giochi in denaro
I fattori protettivi e favorenti all’utilizzo di sostanze illegali, a cui dovrebbe prestare particolare attenzione il pediatra, sono riassunti in
Tabella VI (Ferrero, 2005; Giovanardi, 2007).
Un aspetto emergente è rappresentato dai cosiddetti smart-shops
– in Italia sono già circa un centinaio – che sono dei negozi specializzati nella vendita di particolari prodotti erboristici, diversi per
origine o formulazione ma con marchio CE, chiamati genericamente
smart-drugs (droghe furbe) (Pichini et al., 2008). Si tratta di una serie di composti, sia di origine vegetale che sintetica, che contengono
vitamine e principi attivi di estratti vegetali, tra cui i più diffusi sono
l’efedrina, la caffeina, la taurina, ma anche sostanze con caratteristiche allucinogene (Pichini et al., 2008). Negli smart-shops, vengono
inoltre venduti degli accessori destinati ad ottimizzare l’effetto derivato dall’assunzione di sostanze legali ed illegali, come cartine, filtri,
pipe, bong, vaporizzatori.
L’espressione “droghe furbe” sembrerebbe prendere origine dal
fatto che queste sostanze non sono perseguite o perseguibili dalla
legge in quanto non presenti, come tali o come principi attivi in esse
contenuti, nelle tabelle legislative che proibiscono l’uso di sostanze
stupefacenti o psicotrope. I commercianti di queste droghe furbe
promettono lo “sballo” e/o il miglioramento delle performance intellettive e fisiche con l’impiego di prodotti” naturali”, erboristici, quindi
proposti come “innocui”, mentre è assolutamente ingannevole affermare che una sostanza è “buona” perché “biologica” (Pichini et
al., 2008); basti pensare all’eroina e alla cocaina, che sono prodotti
di origine vegetale. I frequentatori degli smart-shops appartengono
a varie categorie: adolescenti, che ricercano in questi negozi stimolanti cerebrali dal basso profilo tossicologico per incrementare
la performance scolastica o per i loro presunti effetti psichedelici o
semplicemente per curiosità, adulti 40-60enni, soprattutto maschi,
che ricercano alcune smart-drugs ritenute afrodisiache o capaci di
migliorare le prestazioni sessuali. Problemi inerenti questi composti
sono la facilità di acquisto, anche via Internet (il fatturato totale delle
smart-drugs ammonta, secondo gli esperti, al miliardo di dollari l’anno), e la scarsissima letteratura scientifica su molti prodotti (principi
attivi, tossicità, farmacocinetica, farmacodinamica ecc.), soprattutto
per quel che riguarda gli effetti sull’uomo (Pichini et al., 2008).
Comportamenti sessuali a rischio
L’adolescenza è il periodo della vita in cui, di regola, inizia l’attività
sessuale e con essa il rischio di contrarre e diffondere malattie a
trasmissione sessuale (MST) o di andare incontro a gravidanze indesiderate (Bertelloni e Raiola, 2007).
Le MST sono un problema di particolare rilevanza per l’età adole-
scenziale (Bertelloni e Raiola, 2007). Si stima che nel mondo la fascia 15-24 anni rappresenti il 25% della popolazione sessualmente
attiva e circa il 50% tutti i nuovi casi di MST (Da Ros et al., 2008).
Purtroppo i dati disponibili sono molto eterogenei e probabilmente
sottostimati, anche perché alcune infezioni possono essere asintomatiche o non notificate. Spesso si tratta di infezioni multiple (Da
Ros et al., 2008; Mo et al., 2005). Negli USA le MST occupano il
secondo posto dopo le infezioni delle prime vie respiratorie. In Italia
non si hanno dati nazionali omogenei; dal gennaio 1990 al dicembre 2005 sono stati segnalati al Sistema Nazionale di Sorveglianza
18.243 nuovi casi di MST tra i giovani di 15-24 anni; circa il 20% di
tutti i casi segnalati (Salfa et al., 2008). La distribuzione per sesso
ha dimostrato una lieve prevalenza per quello maschile (51,7%); nel
92,5% si trattava di individui eterosessuali e nel 21% di soggetti non
italiani. Quasi il 50% ha riferito di non aver utilizzato alcun metodo
contraccettivo negli ultimi 6 mesi. In Tabella VII è riportata la distribuzione delle cause di MST nei due sessi.
Gli adolescenti contraggono più frequentemente patologie virali o
caratterizzate da scarsa sintomatologia come cerviciti da C. trachomatis e vaginiti aspecifiche, ma anche patologie meno frequenti tra
gli adulti come la gonorrea (Schwarzenberg e Buffone, 2000); i giovani rappresentano inoltre circa il 60% dei nuovi casi di infezione da
HIV (Da Ros et al., 2008).
La diffusione delle MST è influenzata da numerosi fattori: giovane
età d’inizio dell’attività sessuale, partner sessuali multipli, rapporti
omosessuali, basso livello socio economico, appartenenza a minoranze etniche, disinformazione sul rischio del contagio sessuale, non
utilizzo di metodi contraccettivi di barriera, concomitante uso di alcol
o sostanze stupefacenti, presenza di fattori immunologici e maturativi dell’apparato riproduttivo (Mo et al., 2005).
Tabella VII.
MST nei giovani di 15-24 anni (n. = 18.243, anni 1991-2005) notificate al Sistema Nazionale di Sorveglianza Sentinella.
MST
Femmine, %
Maschi, %
Condilomi acuminati
49,3
48,7
Clamydia trachomatis
18,5
9,2
Herpes genitale
9,1
8,4
Sifilide latente
9,6
4,1
Sifilide I-II stadio
2,8
4,2
Gonorrea
2,3
10,8
Altre cause
8,4
14,6
203
G. Raiola et al.
Tabella VIII.
Indicazioni per la prevenzione delle MST in età adolescenziale.
Primaria
Secondaria
Terziaria
Ritardare l’inizio dei rapporti sessuali
Prevenire l’acquisizione delle MST nell’adole- Negli adolescenti che hanno acquisito una MST
scente sessualmente attivo/a o in procinto d’ini- • effettuare una valutazione medica e psicoziare l’attività sessuale
sociale;
Istituire programmi d’informazione prima che Incoraggiare l’adolescente (maschio e femmina) • evitare che l’adolescente diffonda ulteriormente la MST;
l’adolescente inizi ad avere rapporti sessuali
ad usare sempre e corretta-mente i metodi di
•
assistere i giovani ad alto rischio di reinfezione
barriera
Vaccinazione HPV
Effettuare programmi di screening per le MST
delle adolescenti (età < 18 anni) abbia effettuato un IVG nel corso del
2006 (valori assoluti < 15 anni: 289; 15-19 anni: 10.422); l’assenso
per l’intervento è stato rilasciato dai genitori in circa il 70% dei casi. Ad
ogni modo, il tasso di abortività in Italia tra le donne con età < 20 anni
rimane tra i più bassi in Europa (Tab. IX) (Min. Sal., 2008b).
Per quanto riguarda i parti, L’analisi dell’evento nascita mediante il
certificato di assistenza al parto (Boldrini e Di Cesare, 2005; Boldrini
e Di Cesare, 2007; Boldrini et al., 2008) mette in evidenza come
tra l’1,5% e il 4,0% dei nati in Italia sia attribuibile ad adolescenti;
i valori più bassi sono stati rilevati nell’anno 2005 (Tab. X) (Boldrini
e Di Cesare, 2005; Boldrini e Di Cesare, 2007; Boldrini et al., 2008).
La stessa tabella permette di rilevare l’importante contributo di giovani immigrate, che raggiunge valori quasi quadrupli nelle ragazze
dell’Europa dell’Est rispetto a quelle italiane (Tab. X) (Boldrini e Di
Cesare, 2007; Boldrini et al., 2008).
Nel loro insieme questi dati, simili a quelli rilevati anche in aree
territorialmente omogenee (Strambi e Lombardi, 2007), sottolineano la necessità di un miglioramento delle strategie preventive per
quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti sessuali degli
adolescenti. Le metodologie utilizzate non hanno infatti pienamente
raggiunto il loro scopo, anche per una probabile inadeguatezza delle
modalità di comunicazione tra le agenzie educative e il mondo giovanile (Bertelloni e Raiola, 2007; Strambi e Lombardi, 2007).
Tabella IX.
Tasso di abortività in donne di età inferiore a 20 anni: confronto tra
dati internazionali.
Paese
Anno
Tasso di abortività,
‰
Germania
2007
6,2
Italia
2006
7,8
Olanda
2006
9,4
Finlandia
2004
15,2
Norvegia
2006
15,8
Danimarca
2006
16,3
Francia
2004
16,4
Inghilterra/Galles
2005
23,0
Svezia
2006
25,4
Ungheria
1996
30,4
USA
1996
30,6
Bulgaria
1996
34,2
Nella Tabella VIII vengono riportate alcune indicazioni relative alla
prevenzione della MST negli adolescenti.
L’altro aspetto legato all’inizio dei rapporti sessuali è quello legato alla procreazione responsabile. In Italia, l’interruzione volontaria
della gravidanza (IVG, legge 194, del 22 maggio 1978) ha mostrato
una netta tendenza a calare, negli ultimi 20 anni (2005 vs. 1982:
-44,8%) (Bertelloni e Raiola, 2007; Min. Sal., 2008b), anche se negli
ultimi 2 anni vi è stato un certo incremento nelle regioni del Nord per
il più ampio contributo delle cittadine straniere (Min. Sal., 2008b).
Nelle giovani di età inferiore a 20 anni, si è avuta una riduzione
del tutto marginale delle IVG (tasso di abortività: 1983 = 8,0‰;
2006 = 7,8‰), probabilmente anche dovuto al contributo di giovani donne straniere coinvolte nel giro della prostituzione (Bertelloni e
Raiola, 2007; Min. Sal., 2008b; Burgio et al., 2007a). L’ultimo rapporto al Parlamento (aprile 2008) mette in evidenza come il 4,9‰
Tatuaggi e piercing
La pratica degli ornamenti corporei è in netto aumento tra i giovani
(Raiola et al., 2006); un recente studio svizzero su oltre 7000 adolescenti ha dimostrato la presenza di almeno un piercing in oltre il 20% dei
ragazzi tra 16 e 20 anni con una netta prevalenza per il sesso femminile
(ragazze 33,8% vs. ragazzi 7,4%) (Suris et al., 2007). Per i tatuaggi non
è stata rilevata una significativa differenza tra i sessi, ma sono risultati
maggiormente presenti negli studenti di sesso maschile praticanti attività agonistica rispetto ai non atleti (Mayers et al., 2002).
In alcuni casi il ricorso agli ornamenti corporei può rappresentare una vera e propria pratica autolesiva con possibili complicanze secondarie (Raiola et al., 2006). Per il piercing è stata riportata
Tabella X.
Distribuzione dei parti nelle adolescenti per fascia di età (anni 2003-2005) e per area geografica di provenienza della madre (anno 2005).
Età, anni
% (totale)
% per area geografica (2005)
2003
2004
2005
Italia
UE
Europa
est
Africa
America
CS
Asia
Altro
12-14
0,4
0,16
0,01
0,01
–
0,02
0,01
0,03
0,02
–
15-19
2,45
3,78
1,55
1,28
0,47
4,80
2,71
2,97
1,10
2,64
UE: Unione Europea; CS: centro-sud.
204
Comportamenti a rischio in età adolescenziale: aspetti medici
un’incidenza di complicanze mediche pari al 17% (sanguinamento,
trauma tissutale e infezioni batteriche; queste ultime soprattutto nel
piercing dell’ombelico), mentre non sono state riscontrate complicanze mediche secondarie alla pratica del tatuaggio (Mayers et al.,
2002), sebbene sia stata raccomandata la necessità di eseguire nei
soggetti con piercing o tatuaggi un follow-up che comprendesse la
sorveglianza sierologica (Mayers et al., 2002).
Tatuaggi o piercing si associano inoltre ad una maggiore predisposizione ad assumere comportamenti a rischio (disturbi del comportamento alimentare, uso di droghe leggere e pesanti, condotta sessuale a rischio e suicidio) (Suris et al., 2007; Carroll et al., 2002); in
particolare, è stato riscontrato un maggior grado di comportamenti
violenti nei maschi con tatuaggi e in femmine con piercing. Il consumo di droghe cosiddette “leggere” è risultato associato sia ai tatuaggi che ai piercing nei soggetti più giovani, mentre il consumo di
droghe “pesanti” aumenta con l’incremento del numero di piercing.
Un maggiore rischio di suicidio è stato osservato nei soggetti con tatuaggi o piercing sin dall’età più giovane: in generale questo rischio
sembra essere maggiormente presente nelle ragazze con tatuaggi
(Carroll et al., 2002; Roberts et al., 2004).
La presenza di tatuaggi e piercing in adolescenti non indica necessariamente l’assunzione di comportamenti a rischio, anche se deve
allertare i genitori, gli insegnati e i medici, che devono assicurare
migliori misure preventive (Raiola et al., 2006) e il rilievo obiettivo di
ornamenti corporei deve rappresentare un’opportunità per iniziare
con l’adolescente una discussione su possibili rischi comportamentali (Suris et al., 2007).
Incidenti stradali e trauma cranico
Gli incidenti, soprattutto quelli stradali, rappresentano una delle
principali cause di morte, in particolare nel sesso maschile e nella
fascia di età 10-14 anni e 20-24 anni, mentre sono di gran lunga
la causa principale tra i 15 e i 19 anni (WHO, 2008; Burgio et al.,
2007b). Spesso questa evenienza è causata da comportamenti a
rischio come guida in stato di ebbrezza o sotto l’azione di droga,
mancato utilizzo di mezzi di protezione (casco, cinture), mancato
rispetto dei limiti di velocità, gare con moto ed auto, ecc. (Burgio
et al., 2007b). Dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità confermano che questo problema planetario è di non facile risoluzione
(WHO, 2008) e deve impegnare istituzioni diverse, in primo luogo
quelle di tipo governativo anche mediante l’emanazione di regole
che aumentino la sicurezza attiva e passiva (WHO, 2008). Tuttavia, il
coinvolgimento dei pediatri in progetti di prevenzione degli incidenti in età pediatrica sta probabilmente portando a un miglioramento
della situazione, almeno per le fasce più giovani (Di Pietro, 2007).
Un’importante causa di morbilità in età adolescenziale conseguente
agli incidenti è rappresentato dal trauma cranico (TC), che si configura
oggi come uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Negli Stati
Uniti, l’incidenza annuale è intorno a 200 casi per 100.000 abitanti;
di questi almeno il 10% sono fatali e il 20-40% di gravità moderata o
severa (Frankswki et al., 2005). La causa principale è rappresentata
dagli incidenti stradali e il TC viene considerato il principale killer e la
prima causa di disabiltà in età pediatrico-adolescenziale: lo subiscono circa 2 milioni di persone ogni anno e comporta lesioni gravi con
residua invalidità in circa 80.000 americani (Frankswki et al., 2005;
Thurman et al., 1999). In Europa è stata indicata una incidenza intorno 235/100.000 abitanti/anno, ma con consistenti variazioni tra i vari
paesi (Tagliaferri et al., 2006). In Italia, vengono ricoverati per TC 300500/100.000 abitanti/anno, quindi con un’incidenza simile a quella
riportata in altri paesi europei, il rapporto maschi/femmine è pari a
16/1 e l’età di massima incidenza è tra i 10 e i 30 anni (Tagliaferri et
al., 2006). Il TC è spesso correlato all’abuso di alcol (WHO, 2008; Tagliaferri et al., 2006). Ne possono conseguire gravi danni cerebrali con
deficit motori e sensoriali, che compromettono in maniera devastante
la qualità di vita, soprattutto di un adolescente (WHO, 2008; Frankswki
et al., 2005; Tagliaferri et al., 2006).
Un aspetto emergente, spesso misconosciuto, è rappresentato dal
fatto che molti TC possono danneggiare le strutture ipotalamicheipofisarie, causando un quadro di ipopituitarismo. Un singolo deficit
neuroendocrino è stato riscontrato nel 35-50% dei soggetti con TC
(Lieberman et al., 2001; Tanriverdi et al., 2006); la più frequente
anomalia riscontrata è il deficit di ormone della crescita (50%), seguito da altri deficit di tropine ipofisarie [TSH (40%), ACTH (30%),
FSH (30%) ed LH (20%)] (Barreca et al., 1980). Dati analoghi sono
stati rilevati in alcuni studi anche nell’adolescente, anche se altri
studi hanno prospettato una minore incidenza di complicanze neuroendocrine in questa fascia di età (Einaudi e Bondone, 2007). Un
recente studio in giovani adulti ha dimostrato che dopo un anno di
follow-up circa il 60% dei deficit endocrini ipofisari presenti in fase
acuta si è risolto spontaneamente, mentre si sono manifestate alterazioni endocrine in più della metà dei soggetti con normale funzione ipofisaria nelle prime ore dopo il trauma. Inoltre, non è stata
rilevata alcuna correlazione tra la gravità del trauma o la situazione
endocrina post traumatica e l’evoluzione a 12 mesi (Tanriverdi et al.,
2006). La valutazione in fase acuta non è quindi in grado di predire
l’evoluzione a distanza. Il deficit di ACTH è particolarmente insidioso
in quanto di non facile individuazione e, poiché gli ormoni surrenalici
sono indispensabili per la vita, la mancata rilevazione di quest’ultima
anomalia endocrina può mettere a rischio di sopravvivenza il giovane. Il deficit di gonadotropine può compromettere la vita sessuale
e le capacità riproduttive. Tutti i ragazzi con dato anamnestico di
trauma cranico da modesto a grave andrebbero pertanto tenuti sotto
osservazione per quanto riguarda la loro funzione neuroendocrina.
Il bullismo: un preoccupante fenomeno
Il bullismo costituisce oggi, nel mondo occidentale, un deprecato
fenomeno di estrema rilevanza etico-sociale (Burgio e Verri, 2007).
Non può considerarsi un fenomeno in sé e per sé nuovo, ma ne
sono certamente nuove la dimensione (quantitativa) e la perversità
(qualitativa) troppo spesso tristemente raggiunte: viene stimato che
il 12,1% dei minorenni sia vittima di una certa aggressività fisica
ripetuta da parte di coetanei; il 20,2% si dichiara minacciato da coetanei o da ragazzi più grandi, e ne viene derubato il 4,8% (Caffo e
Fara, 2005; Burgio e Bertelloni, 2007). La cronaca è piena di ulteriori
esempi (lanci di sassi da parte di ragazzi contro treni o dai cavalcavia, atti di teppismo-vandalismo, violenze-aggressioni sessuali
e non; turbolenze esasperate negli stadi e fuori da essi; malvagità
e violenza psicologiche su soggetti deboli; stupri di gruppo; ecc.),
che sfiorano veri e propri atti di criminalità minorile (Burgio e Verri, 2007). Un recente lavoro (Alikasifoglu et al., 2007) ha tentato di
quantificare il fenomeno, esaminando i comportamenti di bullismo in
un ampio campione di adolescenti (n. = 3519, maschi 50,5%, femmine 49,5%; età 16,4 ± 1,1 anni), mettendo in evidenza che:
• il 22% del campione era stato vittima di atti di bullismo, con una
percentuale più alta nei maschi (26,4%) rispetto alle femmine
(17,5%);
• una percentuale quasi uguale di soggetti è risultata bullo (9,3%;
maschi 12,2%, femmine 6,1%) o bullo e vittima contemporaneamente (9,5%; maschi 13,5%, femmine 5,3%);
205
G. Raiola et al.
• il 59% degli adolescenti non era stato oggetto di bullismo né
aveva compiuto atti di bullismo (maschi 49%, femmine 71%);
• i bulli hanno più facilmente presentato altri comportamenti a rischio, come guardare la TV per più di 4 ore/giorno, non usare i
sistemi di sicurezza alla guida di motoveicoli, adottare comportamenti violenti, assenteismo scolastico. Inoltre, sia i bulli che i
bulli/vittime più facilmente fumavano, bevevano alcol e si ubriacavano, risultavano sessualmente attivi e dedicavano un tempo
eccessivo ai videogiochi;
• le vittime sono più facilmente ragazzi di più basso livello socioeconomico e con difficoltà ad instaurare relazioni con i coetanei.
Inoltre, comportamenti di bullismo possono essere predittivi di disturbi psichiatrici in età adulta (Sourander et al., 2007). In Italia
la Polizia di Stato ha formulato un decalogo di consigli (www.poliziadistato.it/pds/ps/consigli/bullismo.htm) per cercare di arginare
questo fenomeno, ma indispensabile risulta una collaborazione tra
istituzioni diverse, in particolare tra famiglia e scuola. Genitori affetti
da “insufficienza sociale” hanno, infatti, notoriamente colpa grave
delle attività aberranti dei figli e del degrado morale di questi (Burgio
e Bertelloni, 2007). Opporsi alle prime e al secondo, in famiglia e
nella scuola, con il sostegno delle autorità impegnate nel sociale,
ma anche dei pediatri, “socialmente sensibili”, contribuirebbe alla
civiltà dei comportamenti, che è un bene di tutti e che tutti devono
responsabilmente difendere (Burgio e Verri, 2007; De Luca, 2007;
Burgio e Bertelloni, 2007).
Conclusioni
Insita nel concetto di “promozione alla salute” è la necessità di intervenire per impedire o limitare il verificarsi e/o il diffondersi di comportamenti sfavorevoli e/o dannosi, attraverso un’azione preventiva;
ciò si dovrebbe realizzare con la presa in carico globale del ragazzo,
anche educandolo a saper riconoscere ed evitare le principali situazioni a rischio per la salute (Burgio e Raiola, 2007; Strambi e
Lombardi, 2007; Omar et al., 2005).
Le nuove strategie di prevenzione devono essere orientate verso la
scoperta e il potenziamento delle risorse personali e sociali proprie
di ogni individuo; lo scopo è quello di mettere al centro del percorso
l’adolescente nella sua interezza psico-fisica, superando i “vecchi”
programmi centrati sulle malattie e sulle situazioni a rischio, orientando maggiormente la prevenzione verso il sostegno ai bisogni naturali di crescita, piuttosto che alla sola riduzione dei fattori di rischio
e sulle ricadute sociali dei propri comportamenti (Burgio e Raiola,
2007; Strambi e Lombardi, 2007). Tutto questo implica forte e costante raccordo tra le varie istituzioni, integrazione di differenti risorse, innovazione dei programmi assistenziali, in grado di realizzare
modelli organizzativi che sappiano tenere conto della complessità
del problema, intesa come inseparabilità degli aspetti sociali, educativi, relazionali, affettivi dello sviluppo infantile e adolescenziale
(Strambi e Lombardi, 2007).
Per raggiungere questi scopi è comunque fondamentale una diversa formazione degli operatori che dovrebbero essere pienamente
consapevoli che le varie problematiche sanitarie e comportamentali sono spesso tra loro embricate, e che il concetto “salute” non
si identifica solo sull’assenza di malattia o infermità, ma piuttosto
come uno stato generale di benessere fisico, psichico e sociale e
rappresenta un diritto umano fondamentale (Declaration of AlmaAta, 1978). Inoltre, i vari operatori sanitari dovrebbero essere formati
a fornire “motivazioni forti” per indurre i giovani a modificare i loro
comportamenti a rischio, aiutandoli nella loro crescita umana e sociale e rivolgendo particolare attenzione ai soggetti che sembrano
essere maggiormente deboli o esposti a un maggior rischio socioambientale, anche mediante un sistema assistenziale maggiormente dedicato ai loro bisogni di salute (Raiola et al., 2007).
Si deve infine considerare che i giovani sono una risorsa e possono
contribuire positivamente alla risoluzione di molti dei loro problemi;
per tale motivo è indispensabile che essi vengano coinvolti nelle attività di prevenzione a essi destinate (Raiola et al., 2007; Kleinert,
2007; Bertelloni et al., 2008). Gli adolescenti, dietro quell’apparente
patina d’indifferenza, superficialità e ignoranza che a volte sembra
caratterizzarli, sono infatti quasi sempre attenti e sensibili ai problemi sociali; questa loro caratteristica va indirizzata e valorizzata
in modo che non venga dispersa dal mondo degli adulti (Bertelloni
et al., 2008).
Box di orientamento
•
•
•
Comportamenti sociali incidono profondamente sullo stato di salute degli adolescenti e potenzialmente anche sulla successiva vita adulta.
I programmi di prevenzione fino ad oggi realizzati/finanziati non hanno dato i risultati sperati, determinandosi dal punto di vita epidemiologico un
peggioramento di diversi indicatori di salute.
Particolare attenzione da parte del pediatra necessitano vecchi (alimentazione, uso/abuso precoce di alcol/fumo, droghe, comportamenti sessuali)
e nuovi (incidenti stradali e loro conseguenze, tatuaggi/piercing, bullismo) comportamenti degli adolescenti nell’ottica di sviluppare nuovi approcci
di prevenzione con il coinvolgimento attivo anche di altre istituzioni (famiglia, scuola, ecc.).
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Corrispondenza
dott. Silvano Bertelloni, Medicina dell’Adolescenza, Dipartimento di Materno-infantile, Ospedale Santa Chiara, via Roma 67, 56125 Pisa • E-mail:
[email protected]
208
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 209-214
ADOLESCENTOLOGIA
Osteoporosi in età adolescenziale
Giampiero I. Baroncelli, Francesco Vierucci, Silvano Bertelloni
U.O. Pediatria II, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa
Riassunto
Diverse condizioni patologiche possono esporre l’adolescente al rischio di osteoporosi. La diagnosi, oltre che su accurati criteri clinici, si basa su indagini
strumentali sia radiologiche che densitometriche. Le metodiche densitometriche consentono una stima quantitativa dello stato minerale osseo del paziente
che è fondamentale per la diagnosi e per il decorso clinico. Le metodiche densitometriche attualmente più utilizzate nella pratica clinica sono la densitometria ossea a doppio raggio-X applicata alle vertebre lombari, al corpo in toto e al collo femorale, e l’ultrasuonografia quantitativa con misurazione a livello
delle falangi della mano, della tibia e del calcagno.
I bisfosfonati rappresentano il trattamento più efficace dell’osteoporosi nell’adolescente anche se l’esperienza è attualmente limitata solo ad alcune condizioni patologiche. I bisfosfonati devono essere somministrati da personale medico con specifica esperienza nel settore e previo consenso informato dei
genitori.
Summary
Various disorders, by different mechanisms, may affect bone health in adolescents. The diagnosis of osteoporosis in adolescents is based on an accurate
history and clinical examination in addition to radiologic and densitometric evaluation. Densitometric techniques have a key role not only in the diagnosis
but also in the follow-up of patients with osteoporosis. They give a quantitative estimation of bone mineral status. Dual energy X-ray absorptiometry at
lumbar spine, whole body, or femoral neck, and quantitative ultrasound at phalanges of the hand, tibia, or calcaneus are the main densitometric techniques
used in adolescents to assess bone mineral status.
Bisphosphonates treatment is the more efficacious approach for adolescents with osteoporosis but the experience is limited only to few patients and some
disorders. Therefore, bisphosphonates should be administered only in selected patients by experts in the field and after informed consent by parents.
Definizione di osteoporosi e di osteopenia
nell’adolescente
L’osteoporosi è definita “una malattia scheletrica caratterizzata da
una compromissione della resistenza ossea che predispone un individuo ad un aumentato rischio di frattura” (NIH Consensus Statements, 2000). Tale definizione è valida non solo per l’adulto ma
anche per il bambino e l’adolescente. Con il termine di osteopenia
si intende invece una riduzione (> 30%) del contenuto minerale osseo valutato mediante radiografia tradizionale oppure una riduzione
ben definita (vedi sotto) dei valori di densità minerale ossea (comunemente abbreviata come BMD da Bone Mineral Density) misurata
mediante tecniche densitometriche.
Dal punto di vista quantitativo, l’osteoporosi e l’osteopenia possono
essere definite in base all’entità della riduzione dei valori di BMD.
Nella donna di origine caucasica, l’OMS definisce osteopenia una
riduzione dei valori di BMD compresa tra -1 e -2,5 DS rispetto al
valore medio trovato nelle giovani donne adulte (c.d. T-score, che
corrisponde al valore medio del picco di massa ossea) ed osteoporosi una riduzione dei valori di BMD di oltre 2,5 DS rispetto a questo parametro. È definita come osteoporosi grave quella condizione
nella quale una riduzione dei valori di BMD superiore a -2,5 DS si
associa ad una o più fratture. Questi criteri non possono però essere
applicati all’adolescente in quanto non sono stati ancora stabiliti né
la soglia di frattura né i criteri per la diagnosi di osteoporosi sulla
base dei valori di BMD. L’International Society for Clinical Densitometry (Lewiecki et al., 2008) ha suggerito che, per quanto riguarda
la densitometria a doppio raggio-X (dual energy X-ray absorptiometry, DXA), in età pediatrica dovrebbe essere utilizzata la definizione “ridotti valori di densità minerale ossea per l’età cronologica”
quando i valori densitometrici risultano inferiori o uguali a -2 DS
rispetto ai valori di riferimento per l’età ed il sesso (c.d. Z-score),
in sostituzione dei termini osteopenia ed osteoporosi. Alcuni autori
(Baroncelli et al., 2005; Antoniazzi et al., 2006) hanno suggerito di
applicare il limite di -2 DS per tutte le metodiche densitometriche
impiegate nei minori.
Dimensioni del problema e diagnosi
A tutt’oggi la prevalenza di osteoporosi nell’infanzia e nell’adolescenza non è conosciuta. Questo probabilmente è il risultato di diversi fattori tra i quali la mancata diagnosi per scarse conoscenze
culturali o la difficoltà di eseguire accertamenti strumentali adeguati,
l’assenza di studi epidemiologici, l’assenza di una soglia per la diagnosi di osteoporosi mediante tecniche densitometriche e l’evidenza
che l’osteoporosi può essere asintomatica. Tuttavia, la maggiore sopravvivenza di pazienti con patologie croniche e il ricorso con sempre maggiore frequenza ad indagini densitometriche ossee hanno
determinato un aumento dei casi di osteoporosi nell’adolescente.
Infatti, molte condizioni patologiche, alcune delle quali molto rare,
possono associarsi a fratture da osteoporosi (Tab. I) (Baroncelli et al.,
2005; Saggese et al., 2001). Le condizioni associate ad osteoporosi
primaria sono rare e sono rappresentate essenzialmente da forme
genetiche. Solo in alcune condizioni, come l’osteogenesi imperfetta, è stata dimostrata una fragilità ossea dovuta ad una alterazione
primitiva di alcune componenti strutturali, ed in particolare del tessuto collageno. Infatti, l’osteoporosi che si associa a molte patologie
genetiche potrebbe essere dovuta, almeno parzialmente, anche ad
altri fattori, come scarso uso, ipotonia muscolare, alterazioni del metabolismo osseo, malassorbimento, disturbi nutrizionali, alterazioni
209
G.I. Baroncelli et al.
Tabella I.
Principali condizioni patologiche associate ad osteoporosi in età evolutiva*.
Forme primarie
• Immunologiche (mastocitosi sistemica, sindrome da iper-IgE)
• Osteoporosi idiopatica giovanile
Malattie endocrine
Difetti genetici
• Ipogonadismo
• Osteogenesi imperfetta
• Sindrome da insensibilità agli estrogeni
• Omocistinuria
• Sindrome da insensibilità agli androgeni
• Sindrome di Marfan
• Deficit di ormone della crescita
• Sindrome di Ehlers-Danlos
• Panipopituitarismo
• Sindrome di Bruck
• Sindrome di Weill-Marchesani
• Sindrome di Menkes
Forme secondarie
Errori congeniti del metabolismo**
• Fenilchetonuria
• Acidemia propionica
• Glicogenosi
• Galattosemia
• Malattia di Wilson
• Ipertiroidismo
• Sindrome di Cushing
• Iperparatiroidismo primitivo
• Sindrome di McCune Albright
Malattie cromosomiche
• Sindrome di Turner
• Sindrome di Klinefelter
Alterazioni nutrizionali
• Anoressia nervosa
• Malattia di Gaucher
• Intolleranza alle proteine del latte
• Fibrosi cistica
• Carenza di calcio, rame
Iatrogene
• Diete vegetariane
• Corticosteroidi
• Malnutrizione
• Anticonvulsivanti (fenobarbital, fenitoina, carbamazepina)
• Carenza di vitamina C, K, D
• Chemioterapici
• Nutrizione parenterale totale
• Analoghi del GnRH
• Eccessivo consumo di bevande a base di cola
• Dosi elevate di L-tiroxina
Malattie maligne
• Terapia antiretrovirale in pazienti HIV positivi
• Leucemia
• Anticoagulanti
• Linfoma
Malattie croniche
• Tumori solidi
• Reumatiche (artrite giovanile idiopatica, lupus eritematoso sistemico,
dermatomiosite)
Miscellanea
• Renali (insufficienza renale cronica, acidosi tubulare renale, ipercalciuria idiopatica)
• Infiammatorie intestinali (malattia di Crohn, colite ulcerosa)
• Epato-biliari (forme colestatiche)
• Cardiache (insufficienza cardiaca congestizia)
• Ematologiche (talassemia, emocromatosi ereditaria, emofilia A, anemia a cellule falciformi)
• Immobilizzazione-scarso uso (malattie neuromuscolari, malattie neurologiche con paralisi cerebrale)
• Post-trapianto
• Morbo di Paget giovanile
• Ipofosfatasia
• Malattie osteolitiche
• Malattia di Rett
*
Per una più ampia descrizione delle varie forme di osteoporosi si rimanda alle voci bibliografiche Baroncelli et al., 2005 e Saggese et al., 2001.
Alcune condizioni potrebbero associarsi ad una alterazione primitiva della struttura ossea ed essere quindi incluse nel capitolo delle forme primarie, ma i
dati sono ancora insufficienti per confermare tale possibilità.
**
endocrine, ecc. (Baroncelli et al., 2005; Saggese et al., 2001). La
diagnosi di osteoporosi idiopatica giovanile si basa sulla esclusione
di tutte le cause conosciute di osteoporosi. Questa rara condizione
deve essere differenziata soprattutto dalle forme lievi di osteogenesi
imperfetta.
Le forme di osteoporosi secondaria, che rappresentano la grande
maggioranza, possono essere dovute a varie cause; le più frequenti sono le malattie croniche, l’uso prolungato di alcuni farmaci, in
particolare dei corticosteroidi, alterazioni nutrizionali, disordini me-
210
tabolici, malattie endocrine e immobilizzazione/scarso uso. La patogenesi è spesso multifattoriale.
Le cause di osteoporosi in età adolescenziale sono sostanzialmente
le stesse del bambino in età prepuberale. Tuttavia, durante il periodo
adolescenziale alcune forme, come quelle associate a malattie croniche o a disordini metabolici, che spesso si associano ad un ritardato sviluppo puberale e ad una scarsa maturazione ossea, possono
mostrare un aggravamento dovuto ad un ridotto accumulo di massa
ossea, che potrebbe anche causare il raggiungimento di un ridotto
Osteoporosi in età adolescenziale
Tabella II.
Condizioni nelle quali sospettare la presenza di osteoporosi.
Patologie nelle quali è stata dimostrata una possibile associazione con
un ridotto stato minerale osseo*
Insorgenza di fratture spontanee o causate da un minimo trauma**
Fratture recidivanti
Presenza di dolori ossei (soprattutto a carico delle vertebre) e deformità
scheletriche invalidanti e permanenti
Evidenza di osteopenia radiologica in qualsiasi sede scheletrica esaminata
Evidenza di un ridotto stato minerale osseo mediante tecniche densitometriche
* vedi Tabella I; ** l’insorgenza di una frattura in conseguenza di un impatto ad alta energia non esclude “a priori” una condizione di osteoporosi
picco di massa ossea (a livello del collo femorale e delle vertebre il
picco di massa ossea viene acquisito entro i 18-20 anni) che sembra
essere una delle cause principali di fratture da osteoporosi nell’età
giovane-adulta (Baroncelli et al., 2005). Una condizione tipica dell’adolescenza che spesso si associa ad osteoporosi, fino a circa il
50% dei pazienti, è l’anoressia nervosa.
La diagnosi di osteoporosi è in primo luogo clinica e deve prendere in considerazione tutte le condizioni patologiche che possono
associarsi a tale patologia. In Tabella II sono riportate le principali situazioni nelle quali dovrebbe essere sospettata la presenza di
osteoporosi. Fratture spontanee o causate da un minimo trauma o
recidivanti rappresentano un sintomo importante che deve essere
adeguatamente indagato. Nella maggior parte dei casi le fratture
sono determinate da una patologia precedentemente diagnosticata
ma probabilmente non ben indagata per quanto riguarda la possibile
presenza di osteoporosi. In alcuni casi l’insorgenza di una frattura o
di deformità a carico del rachide può essere il sintomo rivelatore di
una patologia associata ad osteoporosi.
Le fratture nell’adolescenza
L’insorgenza di una frattura è una evenienza abbastanza frequente
nel bambino e nell’adolescente. È stato stimato che circa il 2% di
tutti i minori si frattura almeno una volta nella vita, e che nell’infanzia circa il 7% dei bambini sono ospedalizzati per frattura (Cheng et
al., 1993). Nel Regno Unito la prevalenza di fratture in età pediatrica
varia dall’1,6% (Stark et al., 2002) al 3,6% (Lyons et al., 2000). Uno
studio svedese ha rilevato che all’età di 16 anni il 42% dei ragazzi ed
il 27% delle ragazze hanno presentato almeno una frattura (Landin,
1983). Un altro studio in soggetti fino a 18 anni ha evidenziato una
incidenza di fratture recidivanti del 12-20%; inoltre, il 66% del numero totale di fratture era avvenuto nei soggetti che avevano avuto
più di una frattura (Goulding et al., 2001). Il picco massimo di frattura avviene durante l’adolescenza, intorno a 14 anni nei ragazzi e
a 11 anni nelle ragazze; l’incidenza di fratture a tali età risulta molto
simile a quella riportata nel soggetto anziano.
Studi recenti hanno dimostrato che, in adolescenti in apparente
buona salute, un ridotto stato minerale osseo, misurato con la DXA
(Goulding et al., 1998; Ma D et al., 2003; Manias et al., 2006) o con
metodiche ad ultrasuoni (quantitative ultrasound, QUS) (Suriniemi et
al., 2003; Schalamon et al., 2004), potrebbe esporli ad un aumentato rischio di fratture. Goulding (Goulding et al., 2000) ha calcolato
che una riduzione di 1 DS dei valori di BMD aumenta il rischio di
frattura di circa 2 volte, mentre uno studio prospettico condotto su
oltre 6000 bambini di circa 10 anni, seguiti per un periodo di 2 anni,
ha messo in evidenza che il rischio di frattura aumenta di circa il
90% per ogni riduzione dei valori di BMD di 1 DS (Clark et al., 2006).
Tuttavia, questi studi non hanno consentito di individuare una soglia
ben definita di frattura nei soggetti in età evolutiva, né i criteri per
la diagnosi di osteoporosi sulla base dei soli valori di BMD. Probabilmente, come è avvenuto nell’adulto, sarà necessario identificare,
tra le variabili cliniche, quelle più importanti da associare alla valutazione densitometrica dello stato minerale osseo per aumentare le
possibilità di diagnosi di osteoporosi.
Le cause dell’aumentata incidenza di fratture durante l’adolescenza
non sono ancora chiare. È stato ipotizzato che una rapida crescita
staturale che non si accompagni ad un contemporaneo ed adeguato
accumulo della massa ossea possa essere correlata ad un aumentato rischio di frattura (Bonjour et al., 1994; Faulkner et al., 2006).
Secondo un’altra ipotesi l’aumento della porosità dell’osso corticale
che avviene fisiologicamente durante il periodo puberale (che riflette un aumentato rimodellamento intracorticale) può contribuire
alla transitoria fragilità ossea osservata durante lo scatto di crescita
adolescenziale (Parfitt, 1994). Infine, potrebbe essere in causa uno
squilibrio tra incremento dei tessuti molli (massa grassa e massa
muscolare) ed aumento della massa ossea (Goulding et al., 2005).
L’aumentata incidenza di fratture osservata durante l’adolescenza in
soggetti peraltro sani non deve essere interpretata come una condizione di osteoporosi e non richiede alcun trattamento medico che,
Tabella III.
Caratteristiche principali delle metodiche densitometriche utilizzate in età evolutiva.
Tecnica
Sito di misurazione
Componente ossea
misurata
Precisione, %
Accuratezza, %
ED, μSv
Durata esame,
min
Doppio raggio-X* (DXA)
Vertebre lombari,
collo femore, radio,
corpo in toto
Corticale e trabecolare
integrata
0,7-2,6
4-7
0,02-4.6**
2-15**
Tomografia computerizzata
quantitativa periferica (pQCT)
Radio/ulna, tibia
Corticale e trabecolare
separate
1-3
5-14***
3-10
3-5
Ultrasonografia quantitativa
(QUS)
Falangi della mano,
calcagno, tibia
Corticale e trabecolare
integrata
0,4-5,4
-
Nessuna
5
ED: dose radiante effettiva.
* Metodi pencil beam. Per i metodi fan beam il tempo di scansione è di 10-30 sec. con ED 6,7-48,3 μSv.
** Colonna lombare, femore e corpo in toto.
*** Limiti riferiti alla densità minerale ossea volumetrica corticale e trabecolare.
211
G.I. Baroncelli et al.
oltre ad essere inutile, può risultare dannoso (v. dopo). Tuttavia, i
soggetti che presentano una recidiva di fratture, in particolare per
traumi apparentemente banali, devono essere adeguatamente indagati per escludere una condizione di osteoporosi.
Valutazione dello stato minerale osseo
Lo stato minerale osseo di un individuo può essere misurato in diverse
sedi scheletriche mediante varie metodiche densitometriche (Tab. III).
La DXA è attualmente la metodica maggiormente utilizzata sia nell’adulto che nel bambino e nell’adolescente per la bassa dose radiante, la breve durata dell’esame e l’ampia diffusione delle apparecchiature sul territorio nazionale. Le sedi scheletriche più frequentemente
misurate con la DXA sono le vertebre lombari, il collo femorale o il
corpo in toto (Antoniazzi et al., 2006). I valori di BMD ottenuti mediante
questa tecnica, che si basa su una valutazione bi-dimensionale della
massa ossea, dovrebbero essere corretti, almeno in parte, per le dimensioni del segmento osseo esaminato, poiché queste, che sono in
relazione con le caratteristiche auxologiche del soggetto, influiscono
sensibilmente sulla stima dello stato minerale osseo. Comunque, non
vi è ancora accordo su quale sia il metodo migliore per per correggere
i valori di BMD nel bambino e nell’adolescente.
L’altra metodica che in questi ultimi anni ha mostrato un interesse
sempre crescente in pediatria, in particolare per l’assenza di esposizione del soggetto a radiazioni ionizzanti, la trasportabilità delle apparecchiature ed il basso costo, è la QUS. Le sedi scheletriche comunemente valutate con questa tecnica sono le falangi prossimali della
mano, il calcagno e la tibia (Antoniazzi et al., 2006). Le metodiche QUS
si differenziano tra loro non solo per la sede scheletrica di valutazione
ma soprattutto per le caratteristiche tecniche che ne determinano le
prestazioni e l’applicazione clinica (Baroncelli, 2008). Date le caratteristiche fisiche degli ultrasuoni queste metodiche possono fornire utili
informazioni, non solo sulla densità ossea, ma anche sulla struttura e
sulle proprietà meccaniche dell’osso (Baroncelli, 2008).
La tomografia computerizzata quantitativa (quantitative computed
tomography, QCT) della colonna vertebrale e della porzione mediale
del femore è una metodica molto precisa in quanto misura la densità
ossea volumetrica, ma richiede la disponibilità di apparecchiature
costose, ambienti protetti e dedicati, e personale specializzato. La
dose radiante effettiva varia a seconda dell’esame da 3 a 30 μSv.
Una valida alternativa è rappresentata dalla QCT periferica (pQCT)
che misura la densità ossea volumetrica a livello del radio, dell’ulna
o della tibia (Antoniazzi et al., 2006). Tuttavia, questa metodica è
ancora poco utilizzata sia perché i valori di riferimento per la popolazione normale ed i risultati nelle patologie del metabolismo minerale
ed osseo sono attualmente piuttosto scarsi sia per la disponibilità
molto limitata delle apparecchiature.
In sintesi, le tecniche attualmente impiegate per la valutazione dello
stato minerale osseo nel bambino e nell’adolescente sono la DXA
con misurazione a livello delle vertebre lombari o del corpo in toto e
la QUS falangea o calcaneale. Per una corretta applicazione di tutte
le metodiche densitometriche nella pratica clinica è fondamentale la
disponibilità di accurati valori di riferimento per ciascuna metodica,
considerando che questi variano tra apparecchiature DXA e QUS in
relazione al loro produttore.
Tabella IV.
Possibili meccanismi d’azione dei bisfosfonati.
• Inibizione della differenziazione e del reclutamento dei precursori degli
osteoclasti
• Induzione dell’attività degli osteoblasti tramite l’inibizione del riassorbimento osseo
• Stimolazione degli osteoblasti a secernere un fattore anti-osteoclastico
• Effetti sugli osteoclasti maturi:
- inibizione del metabolismo
- distruzione del citoscheletro e dell’orletto a spazzola
- inibizione della produzione degli enzimi lisosomiali e blocco delle
pompe acidificanti
- inibizione di protein-chinasi e fosfatasi che regolano il citoscheletro
- induzione dell’apoptosi
- inibizione della prenilazione delle proteine (via metabolica del mavelonato)
sibile solo in alcune condizioni, come le endocrinopatie, le alterazioni
nutrizionali o in alcune malattie croniche. Quando tale approccio non
è realizzabile, o in associazione alla terapia della malattia di base
quando questa si dimostra insufficiente a garantire un soddisfacente recupero dello stato minerale osseo, possono essere impiegati
alcuni farmaci in grado di stimolare la formazione ossea e/o inibire
il riassorbimento osseo.
Negli anni passati sono stati utilizzati soprattutto la vitamina D o i
suoi metaboliti, spesso in associazione con sali di calcio, e la calcitonina per via sottocutanea o per spray nasale, con risultati piuttosto
scarsi. Un adeguato apporto di calcio e di vitamina D, sulla base dei
fabbisogni raccomandati, deve essere comunque assicurato in tutti i
pazienti affetti da osteoporosi in quanto è dimostrato che essi hanno
un ruolo importante nel processo di acquisizione della massa ossea. Un altro fattore molto importante nell’acquisizione della massa
ossea è l’attività fisica, soprattutto se di tipo weight-bearing (cioè
con effetto di carico corporeo; es. salto, corsa, ginnastica). Infatti, lo
scarso uso rappresenta un fattore patogenetico primario di osteoporosi, come evidenziato nei pazienti affetti da disordini neurologici con paralisi muscolare (Baroncelli et al., 2005). Questi pazienti,
quando possibile, devono essere regolarmente sottoposti, ad opera
di personale specializzato, a mobilizzazione passiva e ad esercizi
Tabella V.
Potenza farmacologica relativa (in rapporto all’etidronato), via di
somministrazione e dosaggio dei principali bisfosfonati utilizzati in
età pediatrica.
Potenza
relativa
Via di
somministrazione
Dosaggio in età
pediatrica
Etidronato
1
os
20 mg/kg
Clodronato
10
os, ev, im
2 mg/kg (ev, im)
1200 mg/die (os)
Pamidronato
100
ev
0,5-1,5 mg/kg
Neridronato
100
ev, im
2 mg/kg
Terapia
Alendronato
1000 - 2000
os
5-10 mg/die;
70 mg/sett.
La terapia dell’osteoporosi si basa, prima di tutto, su un adeguato
trattamento della patologia che l’ha determinata. Questo è però pos-
Zoledronato
10000
ev
0,0125 – 0,025 mg/kg
212
Bisfosfonato
Osteoporosi in età adolescenziale
fisici “assistiti” che consentano di creare un effetto di carico, dovuto
al peso corporeo, sulle strutture articolari e ossee.
Negli ultimi anni, tra i vari farmaci utilizzati nell’adulto per la terapia
dell’osteoporosi, solo i bisfosfonati hanno trovato, per il momento,
applicazione in età pediatrica. Infatti, diversi studi hanno dimostrato
che i bisfosfonati possono migliorare lo stato minerale osseo ma
soprattutto possono ridurre la prevalanza di fratture in diverse forme di osteoporosi dell’adolescente (Allgrove, 2002; Koné Paut et al.,
2002; Batch et al., 2003; Ward et al., 2007). Attualmente le maggiori
esperienze cliniche sono state acquisite nel trattamento dell’osteogenesi imperfetta (Antoniazzi et al., 2007) e di alcune condizioni di
osteoporosi da scarso uso. Il meccanismo d’azione dei bisfosfonati
non è interamente conosciuto; in Tabella IV sono riportate alcune
possibili azioni dei bisfosfonati sul metabolismo osseo.
I bisfosfonati hanno una diversa potenza farmacologica che è legata
alla loro struttura chimica, ed in particolare alle due catene laterali R1
e R2 (28) (Fig. 1). La capacità di legarsi al tessuto osseo è maggiore
quando la catena laterale R1 è rappresentata da un gruppo idrossilico
OH, il quale aumenta l’affinità per il calcio. È stato dimostrato che è
necessaria l’intera molecola del bisfosfonato per svolgere la sua azione sul riassorbimento osseo. I due gruppi fosfonati della molecola del
bisfosfonato ed il gruppo idrossilico della catena laterale R1 agiscono
insieme come un bone hook (gancio osseo), determinando la grande
affinità dei bisfosfonati per il tessuto osseo (Russell et al., 1999). La
catena laterale R2 determina invece la potenza con cui i bisfosfonati
esercitano il loro effetto antiriassorbitivo osseo. In Tabella V sono riportati i principali bisfosfonati utilizzati in età pediatrica per la terapia
dell’osteoporosi, la via di somministrazione ed il dosaggio.
Un aspetto molto importante per quanto riguarda la terapia con bisfosfonati nel bambino e nell’adolescente è che attualmente solo un
farmaco (neridronato) ha come unica indicazione terapeutica l’impiego nell’osteogenesi imperfetta. In tutte le altre forme di osteoporosi e per tutti gli altri bisfosfonati l’utilizzo è off label (assunzione
non prevista) e quindi il medico deve assumersi, previo consenso dei
genitori (che devono essere adeguatamente informati sui possibili
benefici ma anche sui possibili effetti indesiderati), la responsabilità
della loro somministrazione.
Generalmente i bisfosfonati sono ben tollerati anche se possono
Figura 1.
Comparazione tra la struttura chimica del pirofosfato e di un bisfosfonato. Il legame P-C-P, caratteristico dei bisfosfonati, è responsabile della
forte affinità di tali farmaci per il tessuto osseo. La sostituzione dell’atomo di ossigeno (O) con un atomo di carbonio (C) consente alla molecola
di legare due catene laterali, chiamate R1 e R2, che determinano le
differenze tra i vari bisfosfonati.
determinare la comparsa di eventi avversi soprattutto durante i primi cicli di somministrazione (febbre, artralgie, mialgie, ipocalcemia)
(Antoniazzi et al., 2007; Russell et al., 1999). In Tabella VI sono riportati gli eventi avversi osservati nell’adulto e nel bambino. I dati a
lungo termine nei pazienti pediatrici sono comunque piuttosto scarsi e sono necessari ulteriori studi su casistiche ampie ed omogenee
per verificarne l’efficacia clinica ed evidenziare eventuali eventi
avversi in rapporto ad un uso prolungato. In particolare, la lunga
emivita di tali farmaci (> 10 anni) pone dei quesiti ancora irrisolti
sui possibili effetti teratogeni sullo sviluppo scheletrico in future
gravidanze di ragazze trattate durante l’adolescenza. Uno studio
recente ha dimostrato che l’assunzione di bisfosfonati prima del
concepimento o durante il primo trimestre di gravidanza non sembra esporre il feto ad un aumentato rischio di malformazioni (Levy
et al., 2009). Comunque i bisfosfonati devono essere utilizzati con
molta prudenza e solo in casi accuratamente selezionati considerando, caso per caso, i rischi ed i benefici. La loro somministrazione
deve essere effettuata sotto stretto controllo medico e in centri con
provata esperienza nel loro uso.
Tabella VI.
Possibili eventi avversi in seguito alla somministrazione di bisfosfonati.
Bisfosfonato Eventi avversi*
Etidronato
Più frequenti: nausea, diarrea, stipsi, dolori addominali.
Rari: reazioni cutanee (angioedema, orticaria, prurito), iperfosfatemia transitoria, cefalea, parestesie e neuropatia periferica, disturbi
ematologici (leucopenia, agranulocitosi, pancitopenia), rachitismo, osteonecrosi della mascella (solo nell’adulto).
Clodronato
Più frequenti: disturbi digestivi, dolori addominali, disturbi della deglutizione, stipsi, diarrea, dolori ossei, mialgie, artralgie, cefalea.
Rari: osteonecrosi della mascella (descritto solo nell’adulto).
Pamidronato
Più frequenti: febbre, mialgie, artralgie, dolori ossei, astenia, ipocalcemia.
Neridronato
Più frequenti: febbre, mialgie, artralgie, dolori ossei, ipocalcemia.
Rari: ipofosfatemia, vertigini, eruzioni cutanee, orticaria.
Alendronato
Più frequenti: disturbi digestivi, dolori addominali, disturbi della deglutizione, stipsi, diarrea, dolori, ossei, mialgie, artralgie, cefalea.
Rari: ipocalcemia, prurito, dolori oculari, sclerite, episclerite, allergie, ulcere esofagee, gastriche o duodenali (se le compresse vengono
trattenute in cavità orale: ulcere bocca e faringe), sindrome di Stevens-Johnson, necrosi epidermica tossica.
Zoledronato
Più frequenti: febbre, mialgie, artralgie, cefalea, astenia, dolori ossei, ipocalcemia.
Rari: nausea, vomito, uveite, episclerite, irite, congiuntivite, insufficienza renale acuta, allergia, vertigini, insonnia, ipotensione, anemia, linfocitopenia, trombocitopenia, leucopenia, ipofosfatemia, ipomagnesemia, ipopotassiemia, osteonecrosi della mascella (descritto solo nell’adulto).
• riportati nel foglietto illustrativo e/o dalla letteratura.
213
G.I. Baroncelli et al.
Box di orientamento
•
•
•
•
•
L’osteoporosi può insorgere anche nel bambino e nell’adolescente ed è causata da diverse condizioni patologiche.
La manifestazione clinica dell’osteoporosi è la comparsa di una o più fratture.
L’adolescente è particolarmente esposto al rischio di frattura, anche in assenza di osteoporosi.
Le metodiche densitometriche sono fondamentali per una valutazione quantitativa dello stato minerale osseo.
I bisfosfonati possono essere utili per il trattamento di alcune forme di osteoporosi ma il loro uso deve essere limitato a casi selezionati e sotto stretto
controllo medico.
• Gli effetti indesiderati a lungo termine del trattamento con bisfosfonati eseguito durante l’età evolutiva non sono ancora completamente conosciuti.
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Corrispondenza
dott. Giampiero I. Baroncelli, U.O. Pediatria II, Ospedale Santa Chiara, via Roma 67, 56126 Pisa • Tel. +39 050 993168 • Fax +39 050 992641 • E-mail:
[email protected]
214
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 215-220
ADOLESCENTOLOGIA
La sindrome metabolica in età evolutiva
Lorenzo Iughetti*, Patrizia Bruzzi**, Barbara Predieri*, Giulia Vellani**, Michele De Simone***
*
Clinica Pediatrica, ** Scuola Specializzazione in Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia; *** Dipartimento
Materno-infantile, Università de L’Aquila
Riassunto
La prevalenza di sovrappeso e obesità nei bambini è aumentata rapidamente negli ultimi anni in molte regioni del mondo. Al giorno d’oggi, l’aumentata
prevalenza di obesità tra i bambini e gli adolescenti è uno dei principali problemi di salute pubblica. L’obesità si associa a problemi di salute rilevanti ed è
un importante fattore di rischio di morbilità e mortalità in età adulta. Molte delle complicanze metaboliche e cardiovascolari dell’obesità si possono riscontrare già durante l’infanzia o l’adolescenza e sono strettamente correlate alla presenza di insulino-resistenza o iperinsulinemia, la più comune alterazione
presente nei soggetti obesi. L’insulino-resistenza è la componente principale della sindrome metabolica, un insieme di fattori di rischio cardiovascolari,
riscontrabili in una gran parte di adolescenti obesi. L’insorgenza precoce di obesità in bambini e adolescenti, accompagnata da un progressivo peggioramento della sua gravità, può essere responsabile di uno stato di insulino-resistenza di lunga durata che può spiegare il concomitante esordio precoce di
intolleranza glicidica o diabete tipo 2. Oggigiorno uno degli obiettivi principali dei pediatri risulta quindi la prevenzione dell’obesità.
Summary
The prevalence of overweight and obesity in childhood has rapidly increased over the past years in many regions of the world. Although this trend for
increase seems to be uniform within each country, the prevalence of overweight and obesity in children differs considerably between countries.
The rise in the prevalence of obesity in children and adolescents is one of the most alarming public health issues facing the world today. Obesity is
associated with significant health problems and is an important early risk factor for adult morbidity and mortality. Many of the metabolic and cardiovascular complications of obesity are already present during childhood and are closely related to the presence of insulin-resistance or hyperinsulinemia,
the most common abnormality seen in obesity. Insulin-resistance is the main component of the metabolic syndrome that a large number of overweight
adolescents already show. The earlier onset of obesity in children and adolescents, accompanied by a worsening of its severity, may be responsible of
the longer duration of the insulin-resistant status that may thus explain the concomitant earlier onset of impaired glucose tolerance and type 2 diabetes.
Today prevention of obesity is one of the main goal of the pediatricians.
Introduzione
L’obesità rappresenta oggi il disordine nutrizionale più importante e
frequente in tutte le fasce d’età ed è attualmente considerato uno
dei maggiori problemi di salute pubblica nei paesi industrializzati. Gli
studi in letteratura stimano la sua presenza in età pediatrica tra il 6 e
il 22%, con una crescita dell’incidenza direttamente proporzionale al
miglioramento delle condizioni economiche e sociali. La pandemia
sembra essere incontrollabile: circa il 7% della popolazione mondiale, pari a 250 milioni di persone, è obesa; due o tre volte maggiore
è il numero di persone in sovrappeso e nel 2006, per la prima volta
nella storia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato
maggiore, a livello planetario, il numero dei soggetti in sovrappeso
rispetto a coloro che sono affetti da denutrizione.
Negli Stati Uniti, nel corso degli ultimi quattro decenni, la prevalenza
dell’obesità in età evolutiva si è duplicata nei bambini di età compresa
tra i 6 e gli 11 anni ed è addirittura triplicata nei ragazzi dai 12 ai 17 anni
(Kimm et al., 2002). Approssimativamente il 14-15% dei quindicenni
americani può essere classificato come obeso (Ogden et al., 2002).
I tassi di prevalenza variano nei diversi stati. In Europa è stata osservata una prevalenza maggiore di obesità nelle regioni orientali e
meridionali, sia in età infantile che in età adulta. I paesi che si affacciano sul bacino Mediterraneo mostrano tassi di prevalenza di sovrappeso infantile del 20-40%, mentre gli stati settentrionali hanno
tassi del 10-20%. Anche in Italia questa tendenza appare evidente:
negli ultimi decenni l’incremento della prevalenza sembra salito del
40% circa nelle regioni del centro-sud (Maffeis et al., 2006).
L’obesità del bambino e dell’adolescente deve essere considerata
come una condizione gravata da complicanze sia a breve che a lungo termine.
La sindrome metabolica (SM) è definibile come un insieme di condizioni di rischio associate allo sviluppo di complicanze (morbilità
e mortalità) cardiovascolari e metaboliche. Fino a pochi anni fa la
SM veniva considerata come esclusiva dell’età adulta, ma a causa
del trend pandemico dell’obesità in età evolutiva, alcune condizioni
metaboliche, cliniche e vascolari tipiche della SM sono state diagnosticate già in bambini ed adolescenti obesi o in sovrappeso (Bitsori e
Kafatos, 2005; Cruz e Goran, 2004).
Definizione di sindrome metabolica
La SM è stata per la prima volta definita da Reaven come combinazione di diversi fattori di rischio per malattie cardiovascolari presenti
in un individuo, tra cui l’obesità, l’insulino-resistenza, l’intolleranza
glucidica, l’ipertensione arteriosa e una caratteristica dislipidemia
(riduzione dei livelli di lipoproteine ad alta densità, HDL, associata ad
elevati valori di trigliceridi) (Reaven et al., 1989).
Tre grandi organi di sanità pubblica, quali la World Health Organization (WHO), il National Cholesterol Education Program-Third Adult
Treatment Panel (NCEP ATP III) e la International Diabetes Federation
(IDF) hanno redatto le proprie definizioni cliniche di SM in età adulta.
Tutte includono sostanzialmente i fattori di rischio proposti da Reaven, ma ognuna con cut-offs differenti dei parametri valutati (Tab. I)
(NCEP, 2001; IDF; De Ferranti e Osganian, 2007). Le differenze prin-
215
L. Iughetti et al.
Figura 1.
Cut-off points dei parametri della sindrome metabolica (circonferenza
addominale, HDL-C, pressione arteriosa, trigliceridi) (da Jolliffe e Janssen, 2007, mod.).
I cut-points all’età di 20 anni corrispondono ai cut-points della definizione di sindrome metabolica ATP III e IDF in età adulta.
cipali tra le diverse definizioni di SM riguardano le tecniche utilizzate
per stimare l’adiposità (Body Mass Index – BMI o circonferenza vita)
e per valutare il metabolismo glucidico (glicemia a digiuno, insulinemia a digiuno, HOMA index, test con carico orale di glucosio).
In campo pediatrico non esiste una definizione unanimemente accettata di SM.
Per lungo tempo, nell’ambito della ricerca in età evolutiva, sono stati
utilizzati i criteri di diagnosi di SM degli adulti, dimenticando che le
complicanze che caratterizzano la sindrome si sviluppano gradual-
mente, in funzione dei cambiamenti età-correlati dell’obesità, e che
le basi patogenetiche e le caratteristiche della SM vengono influenzate dalla crescita e dallo sviluppo puberale.
Inoltre nei diversi studi su popolazioni pediatriche, i cut-offs dei
parametri indagati per definire la SM sono stati fissati discrezionalmente dagli autori. Di frequente sono state usate, come riferimento per i diversi parametri diagnostici, curve percentili età e
sesso-specifiche arbitrarie, perché costruite su database nazionali.
Questo ha comportato difficoltà nella stima della prevalenza di SM
nei diversi paesi del mondo e nel confronto dei risultati ottenuti dai
diversi studi.
Nel 2007, Jolliffe e Janssen hanno proposto nuovi criteri di diagnosi
di SM in età adolescenziale. Sulla base dei criteri proposti dalla NCEP
ATP III e dalla IDF per gli adulti, questi autori hanno estrapolato da un
database composto da 6000 adolescenti (con età superiore ai 12 anni,
di ambo i sessi) del National Health and Nutrition Examination Survey
(NHANES) dei cut-offs età-dipendenti dei singoli parametri diagnostici
di SM (fatta eccezione per i livelli di glicemia a digiuno considerati patologici se superiori ai 5,6 mmol/l) (Fig. 1) (Jolliffe e Janssen, 2007).
Recentemente anche l’IDF ha proposto una nuova definizione di SM
in età evolutiva con lo scopo di rendere più facile e pratica la sua
identificazione e quindi di individuare quei bambini ed adolescenti
a rischio di sviluppare diabete tipo 2 (Zimmet et al., 2007). Come
per gli adulti (Tab. I), la misura della circonferenza addominale è
rimasta la componente principale e costante per definire la SM ma,
piuttosto che i valori assoluti, sono state proposte curve percentili di
circonferenza addominale al fine di compensare le variazioni tipiche
del processo evolutivo e dell’origine etnica.
Inoltre la nuova definizione di SM proposta dall’ IDF varia a seconda
di distinte fasce d’età:
• in bambini di età compresa tra i 6 e 10 anni si consiglia di non
utilizzare il termine di SM, ma di identificare come condizioni ad
alto rischio di evoluzione quei casi di obesità centrale (circon-
Tabella I.
Confronto tra le definizioni di sindrome metabolica in età adulta di WHO, IDF e NCEP ATP III (De Ferranti e Osganian, 2007).
WHO
IDF
NCEP ATP III
Obesità centrale
(CA o BMI o rapporto CA:CF)
BMI > 30 kg/m2 o rapporto CA/
CF > 0,9 in M e > 0,85 in F
Alterazioni del metabolismo
glucidico
Glicemia a digiuno: 110-125 mg/dl Glicemia a digiuno > 100 mg/dl
o precedente diagnosi di diabete
o intolleranza glucidica (glicemia
dopo 2 ore da carico di glucosio
tipo 2
140-199 mg/dl) o diagnosi di diabete tipo 2 o di insulino-resistenza *
Pressione arteriosa
SP ≥ 140 mmHg o DP ≥ 90 mmHg
e/o uso di farmaci anti-ipertensivi
SP ≥ 130 mmHg o DP ≥ 85 mmHg
SP ≥ 130 mmHg o DP ≥ 85 mmHg
o precedente diagnosi di ipertensio- e/o uso di farmaci anti-ipertensivi
ne in trattamento farmacologico
Riduzione del HDL
Valori < 35 mg/dl nei M e
< 39 mg/dl in F
Valori < 40 mg/dl nei M e
< 50 mg/dl in F o precedente diagnosi di dislipidemia in trattamento
specifico
Valori < 40 mg/dl nei M e
< 50 mg/dl in F o precedente diagnosi di dislipidemia in trattamento
specifico
Aumento dei livelli di trigliceridi
Valori a digiuno ≥ 150 mg/dl
Valori a digiuno ≥ 150 mg/dl o
precedente diagnosi di dislipidemia
in trattamento specifico
Valori a digiuno ≥ 150 mg/dl o uso
di farmaci ipo-lipidemizzanti
Albuminuria
≥ 20 μg/min o rapporto albumina:
creatinina ≥ 30 mg/g
Non valutata
Non valutata
*
CA > 94 cm in M caucasici,
CA > 80 cm in F caucasiche (valori
razza-specifici)*
CA > 102 cm in M e > 88 cm in F
caucasiche (valori razza-specifici)
Glicemia a digiuno > 110 mg/dl o
uso di farmaci ipoglicemizzanti
criteri necessari; CA: circonferenza addominale; CF: circonferenza fianchi; BMI: indice di massa corporea; SP: pressione sanguigna sistolica; DP: pressione sanguigna diastolica; HDL: lipoproteine ad alta densità; p°: percentile per età e sesso; M: maschi; F: femmine.
216
La sindrome metabolica in età evolutiva
Tabella II.
Studi di prevalenza della sindrome metabolica in età evolutiva (modificato da De Ferranti e Osganian, 2007).
Autore, paese,
anno,
Tipo di studio
Num. partecipanti
Età partecipanti
(anni)
Criteri di diagnosi
di SM
Prevalenza
SM (%)
De Ferranti et al.,
USA, 2006
Studio di popolazione NHANES 1988-1994
1960
12-19
CA ≥ 75° p
SP o DP ≥ 90°p
TG ≥ 100 mg/dl
HDL < 45 mg/dl in
M 15-19 anni, < 50
per altri
G ≥ 110 mg/dl
9,2
M 9,5
F 8,9
De Ferranti et al.,
USA, 2006
Studio di popolazione NHANES 1999-2000
1960
12-19
CA ≥ 75° p
SP o DP ≥ 90°p
TG ≥ 100 mg/dl
HDL < 45 mg/dl in
M 15-19 anni, < 50
per altri
G ≥ 110 mg/dl
12,7
M 13,8
F 11,6
Duncan et al.,
USA, 2004
Studio di popolazione NHANES 1999-2000
991
12-19
CA ≥ 90° p
SP o DP ≥ 90°p
TG ≥ 110 mg/dl
HDL < 40 mg/dl
G ≥ 110 mg/dl
6,4
M 9,1
F 3,7
Cook et al.,
USA, 2003
Studio di popolazione NHANES III1988-94
2430
12-19
CA ≥ 90° p
SP o DP ≥ 90°p
TG ≥ 110 mg/dl
HDL < 40 mg/dl
G ≥ 110 mg/dl
4,2
M 6,1
F 2,1
Raitakari et al.,
Finlandia, 1994
Studio di popolazione
Cardiovascular Risk in Young
Finns Study
3457
3-18
Somma delle pliche
bicipitali, sottoscapolari e tricipitali ≥ 75°
p
SP ≥ 75° p
LDL ≥ 75°p
3,1
M 3,56
F 2,64
9-12 anni:
M 3,48
F 2,80
15-18 anni:
M 4,49
F 2,92
Retnakaran et al.,
Canada, 2006
Studio di comunità Oji-Cree
Canadian Children
236
10-19
CA ≥ 90° p
SP o DP ≥ 90°p
TG ≥ 1,1mmol/l
HDL < 1,2 mmol/l in
M 15-19 anni, < 1,3
mmol/l in altri
G ≥ 110 mg/dl
18,6
M 14,3
F 21,4
Morrison et al.,
USA, 2007
Coorte scolastica
Princeton Lipid Research
Clinic 1973-76
771
6-19
BMI ≥ 90° p
SP o DP ≥ 90°p
G ≥ 110 mg/dl
TG ≥ 110 mg/dl
HDL < 40 mg/dl M,
< 50 mg/dl F
4
Lambert et al.,
Canada, 2004
Coorte scolastica
The Quebec Child and
Adolescent Health and
Social Survey
1369
13-16
BMI ≥ 85° p
SP o DP ≥ 75°p
Insulina a digiuno ≥ 75° p
TG ≥ 75° p
HDL ≥ 25°p
G ≥ 110 mg/dl
11,5
13 anni:
M 11,9
F 11,8
16 anni:
M 12,2
F 10,8
Katzmarzyk et al.,
USA, 2004
Coorte scolastica
Bogalusa Heart Study
2597
5-18
SP o DP ≥ 80°p
TG ≥ 80° p
HDL ≥ 20°p
LDL ≥ 80°p
G ≥ 80°p
Insulina a digiuno ≥ 80° p
Caucasici:
M 18,2
F 16,5
Afro-americani
M 17,3
F 16,6
(continua)
217
L. Iughetti et al.
(Tabella II segue)
Autore, paese,
anno,
Tipo di studio
Num. partecipanti
Età partecipanti
(anni)
Criteri di diagnosi
di SM
Prevalenza
SM (%)
Freedman et al.,
USA, 1999
Coorte scolastica
Bogalusa Heart Study
9167
5-17
SP o DP ≥ 95°p
Insulina a digiuno ≥ 95° p
TG ≥ 130 mg/dl
HDL < 35 mg/dl
LDL ≥ 130 mg/dl
5-10 anni: 2
In sovrappeso: 11%
11-17 anni: 2
In sovrappeso: 10%
No differenze tra
caucasici e afro-americani
Viner et al.,
Inghilterra, 2005
Studio clinico
103
2-18
BMI ≥ 95° p
SP o DP ≥ 95°p
G ≥ 110 mg/dl
TG ≥ 95°p o ≥ 1,75
mmol
HDL < 0,9 mmol
Obesi: 33
M 34
F 33
2-11 anni: 30
12-18 anni: 36
Caucasici: 37
Afro-americani 13
Asiatici: 22
Invitti et al., Italia,
2006
Studio clinico in pazienti
obesi
588
6-16
BMI o CA ≥ 97° p
G ≥ 100 mg/dl
TG ≥ 95°p
HDL ≥ 5°p
SP o DP ≥ 95°p
23,3
No differenze
tra M e F
Cruz et al., USA,
2004
Studio clinico in pazienti
obesi con familiarità per
diabete tipo 2
126
8-13
CA ≥ 90° p
SP o DP ≥ 90°p
TG ≥ 90°p
HDL ≥ 10°p
Glicemia dopo 2 ore
(OGTT): 140-199
mg/dl
30
Weiss et al., USA,
2004
Studio clinico in pazienti
obesi
439
4-20
BMI > 97° p
SP o DP > 95°p
TG > 95°p
HDL < 5 °p
Glicemia dopo 2 ore
(OGTT): 140-199
mg/dl
Obesità moderata:
38,7
Obesità severa: 49,7
Calcaterra et al.,
Italia, 2008
Studio clinico in pazienti
obesi
191
8-15
BMI > 97° p
SP o DP > 95°p
TG > 95°p
HDL < 5 °p
Glicemia dopo 2 ore
(OGTT): 7,8-11,1
mmol/l
13,9
Obesità moderata:
12
Obesità severa:
31,1
CA: circonferenza addominale; SP: pressione sanguigna sistolica; DP: pressione sanguigna diastolica; BMI: indice di massa corporea; HDL-C: lipoproteine
ad alta densità; TG: triglicerdi, G: glicemia a digiuno; p°: percentile per età e sesso; M: maschi; F: femmine.
ferenza addominale superiore al 90° percentile) con familiarità
positiva per SM e/o diabete tipo 2 e/o dislipidemia e/o malattie
cardiovascolari e/o ipertensione e/o obesità;
• in adolescenti di età compresa tra i 10 e i 16 anni, la diagnosi di
SM viene formulata se si associano ad un valore di circonferenza
addominale superiore al 90° percentile almeno 2 dei seguenti
criteri:
-
glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl o diagnosi di diabete tipo 2;
-
pressione sistolica ≥ 130 mmHg o pressione diastolica ≥ 85
mmHg;
-
livelli di trigliceridi a digiuno ≥ 150 mg/dl
-
livelli di HDL-C < 40 mg/dl;
218
• in adolescenti di età superiore ai 16 anni vengono proposti gli
stessi criteri diagnostici utilizzati per gli adulti (Tab. I).
Tale definizione appare piuttosto restrittiva. Sorprende poi la scelta
di considerare patologici anche in età evolutiva gli stessi valori di
rischio di pressione arteriosa degli adulti.
Prevalenza
I risultati emersi dagli studi epidemiologici condotti in età evolutiva
sembrano confermare l’aumento della prevalenza della SM con l’aumentare dell’età. Weiss et al. hanno dimostrato un rapporto direttamente proporzionale tra peggioramento del grado di obesità e aumento dell’incidenza di SM (Weiss et al., 2004). I dati in letteratura devono
però essere interpretati con cautela. Ogni studio utilizza infatti criteri
arbitrari di definizione di SM e i risultati ottenuti subiscono l’influen-
La sindrome metabolica in età evolutiva
za delle diverse condizioni ambientali e genetiche delle popolazioni
studiate (Tab. II). A conferma di ciò, studiando un’unica popolazione
composta da 1205 adolescenti caucasici in sovrappeso, Reinehr et al.
hanno ottenuto percentuali di prevalenza di SM oscillanti tra il 6 e il
39% a seconda dei criteri diagnostici usati (Reinehr et al., 2007).
Negli studi condotti in USA, la SM raggiunge il 30% circa negli adolescenti con BMI superiore o uguale al 95° percentile adeguato per
età e sesso e scende al 7,1% nella classe con BMI compreso tra
85° e il 95° percentile ed intorno allo 0,1% negli adolescenti con
BMI inferiore al 85° percentile (Duncan et al., 2004). Altri studi statunitensi non hanno confermato percentuali così elevate. I risultati
emersi dall’analisi del database NHANES 1988-1994, ad esempio,
hanno evidenziato una prevalenza di SM in età evolutiva pari al
9,2% e l’analisi del database NHANES 1999-2000, pur mostrando
un incremento del 38% della prevalenza della SM, ne ha dato una
stima pari al 12,7% nella fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni
(De Ferranti et al., 2006). Nel 2007 Jolliffe e Janssen studiando
la stessa popolazione NHANES hanno calcolato che la prevalenza
della SM è pari al 7,6% utilizzando i criteri diagnostici della NCEP
ATP III e pari al 9,6% secondo i criteri della IDF (Jolliffe e Janssen,
2007). Dati americani meno recenti hanno addirittura quantificato
la prevalenza della SM pari al 2% in età evolutiva (Freedman et al.,
1999). Tale dato è giustificato dal fatto che sono state considerate
diagnostiche di SM solo le modificazioni vascolari e metaboliche
tipiche della sindrome.
Anche i primi dati europei hanno descritto uno scenario estremamente preoccupante seppure con frequenze leggermente inferiori a
quelle della popolazione statunitense. Recentissimi sono i dati italiani di Calcaterra et al. che hanno stimato la prevalenza di SM in una
popolazione di 191 adolescenti obesi (età media 11,15 ± 3,4 anni)
pari al 14% circa, con percentuali oscillanti tra il 12% negli obesi di
grado moderato (BMI z-score 2-2,5) e il 30% nei casi più gravi (BMI
z-score > 2,5) (Calcaterra et al., 2007).
Come accade in età adulta, la prevalenza della SM sembra variare a
seconda del sesso e delle etnie indagate. Gli studi condotti sulla popolazione NHANES hanno dimostrato una maggior incidenza di SM
nei maschi e nei bianchi rispetto ai neri non-ispanici (probabilmente
perché questi ultimi presentano un miglior profilo lipidico) (De Ferranti et al., 2006, Cook et al., 2003). Altri studi americani non hanno
confermato il dato (Freedman et al., 1999; Katzmarzyk et al., 2004).
Anche i recenti dati italiani non hanno rilevato alcuna differenza statisticamente significativa tra i 2 sessi (Calcaterra et al., 2007).
Eziopatogenesi
L’obesità è il maggior fattore di rischio per l’insorgenza di alterazioni
metaboliche e della SM sia in età evolutiva che in età adulta. Il Bogalusa Heart Study, un importante studio epidemiologico condotto
attraverso un follow-up a lungo termine in una popolazione di adolescenti divisi per etnia, età, sesso e BMI, ha dimostrato un aumento
del rischio di sviluppare SM in età adulta 11,7 volte maggiore negli
adolescenti con BMI elevato rispetto ai coetanei normopeso (Srinivasan et al., 2002). Altri autori hanno confermato un aumento del
rischio di SM di circa tre volte negli adulti già in sovrappeso in età
evolutiva (Vanhala et al., 1998). Emerge che la presenza della SM
nei genitori condiziona, in età pediatrica, un aumento medio significativo di BMI, circonferenza addominale, pliche adipose tricipitali e
subscapolari, percentuale di grasso corporeo e livelli postprandiali di insulina. Ciò, oltre a dimostrare la possibilità di diagnosticare
precocemente la SM, ne conferma una sua possibile trasmissione
familiare (Pankow et al., 2004).
Il meccanismo attraverso il quale l’obesità, da sola o nell’ambito
della SM, contribuisce al processo aterosclerotico responsabile del
danno cardiovascolare non è completamente noto, ma sembra correlato all’attivazione di un stato infiammatorio nel quale svolgono
un ruolo fondamentale la produzione da parte del tessuto adiposo di
citochine infiammatorie, in particolare Tumor Necrosis Factor (TNF),
Interleuchina-6 (IL-6), Reactive C Protein (PCR).
In età evolutiva il sovrappeso sembra accelerare l’insorgenza di
diabete tipo 2 mediante un’esposizione precoce delle cellule βpancreatiche ad una condizione cronica di insulino-resistenza potenzialmente responsabile di una disfunzione secretoria insulinica
permanente. La prevalenza di SM aumenta infatti significativamente
all’aumentare della resistenza insulinica (Weiss et al., 2004). In bambini prepuberi l’aumento della circonferenza addominale sembra
strettamente correlato alle alterazioni del profilo insulinico e al peggioramento di quello lipidico (Maffeis et al., 2001). Nel Cardiovascular
Risk in Young Finns Study i livelli di insulina a digiuno sembrano avere
valore predittivo nei confronti dell’insorgenza di SM (Raitakari et al.,
1994). A livello eziopatogenetico, gli effetti dell’aumentata insulino-resistenza sono molteplici ed includono: aumento della sintesi epatica di
lipoproteine a molta bassa densità, resistenza all’azione dell’insulina
sulle lipoproteinlipasi nei tessuti periferici, aumento della sintesi di colesterolo, della degradazione delle HDL e dell’attività nervosa simpatica, proliferazione delle cellule muscolari lisce dei vasi ed aumentata
formazione delle placche aterosclerotiche.
Conclusioni
L’età evolutiva deve essere considerata un momento cruciale nel
controllo della SM, non solo per il potenziale peggioramento dei
fattori di rischio, ma anche per le difficoltà diagnostiche elencate.
Sebbene attualmente manchino linee-guida per lo screening e management della SM in età evolutiva, il pediatra deve essere innanzitutto consapevole dell’importanza di una diagnosi precoce e ancora
prima del suo ruolo nella promozione di una cultura preventiva.
Box di orientamento
Cosa ricordare
• La prevalenza di obesità sta aumentando rapidamente in tutti gli stati del mondo.
• L’obesità è correlata ad alterazioni metaboliche e cardiovascolari che aumentano la morbilità e mortalità in età adulta.
• L’iperinsulinismo e l’insulino-resistenza legati all’obesità favoriscono l’insorgenza di intolleranza glicidica e diabete tipo 2.
• La sindrome metabolica, considerata fino a pochi anni fa appannaggio dell’età adulta, è invece già riscontrabile in bambini e adolescenti sovrappeso e obesi.
• Fondamentale è il ruolo del pediatra nella diagnosi precoce ma soprattutto nella promozione di uno stile di vita che prevenga l’obesità.
219
L. Iughetti et al.
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Corrispondenza
prof. Lorenzo Iughetti, Dipartimento Integrato Materno Infantile, U.O. Pediatria, Università di Modena e Reggio Emilia, via del Pozzo 71, 41100 Modena •
E-mail: [email protected]
220
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 221-231
MALATTIE METABOLICHE
Malattie metaboliche ereditarie di interesse
pediatrico: nuove patologie, nuovi geni-malattia
e novità nel campo della diagnosi e della terapia
Daniela Melis, Federica Deodato*, Rossella Parini**, Carlo Dionisi-Vici*
Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli; * Dipartimento di Pediatria, Ospedale Bambino Gesù,
Roma; ** Dipartimento di Pediatria, Ospedale San Gerardo, Monza
Riassunto
La letteratura recente ha testimoniato un importante approfondimento delle conoscenze nel campo degli errori congeniti del metabolismo.
In particolare la disponibilità di nuovi strumenti diagnostici, il follow-up a lungo termine di patologie che in passato determinavano una precoce mortalità,
e le nuove conoscenze eziopatogenetiche, hanno permesso rispettivamente la conferma diagnostica, il delinearsi della storia naturale e l’identificazione
di approcci terapeutici specifici per molte malattie metaboliche. Forniscono un esempio la disponibilità dello studio dell’attività di specifici enzimi e delle
proteine di trasporto su fibroblasti ottenuti da biopsia cutanea e dell’analisi molecolare per la diagnosi di difetti di glicosilazione. Ancora la disponibilità di un
follow-up a lungo termine per i pazienti con glicogenosi tipo1, ha permesso di dimostrate la presenza, in tali pazienti di un coinvolgimento multi sistemico
che inficia notevolmente la qualità di vita e la sopravvivenza dei pazienti. Inoltre l’identificazione di mutazioni del gene che codifica per una α-aminoadipico
semialdeide deidrogenasi (ALDH7A1/antiquitina), e del gene che codifica per la piridossamina fosfato ossidasi (PNPO), ha permesso di dimostrare l’efficacia della somministrazione di piridossina e piridossalfosfato nelle epilessie neonatali; così come la identificazione di mutazioni di CoQ10 ha permesso di
dimostrare l’efficacia della terapia con ubiquinone.
Infine la disponibilità di sofisticate tecniche biochimiche e molecolari ha permesso l’identificazione di geni le cui alterazioni sono responsabili di quadri
clinici e/o biochimici noti, permettendo di inquadrare tali fenotipi come errori congeniti del metabolismo. Ne sono un esempio l’identificazione di mutazioni
del gene MPV17 in pazienti con sindrome epatocerebrale (MIM 137960), di deficit acil-CoA deidrogenasi 9 (ACAD 9) (MIM 611126) in pazienti con quadri
multisistemici con interessamento epatico, muscolare e cardiaco, deficit di glutammina sintetasi (GS) (MIM 610015) e di di fosfoserina amino transferasi
(MIM 610992) in pazienti con anomalie cerebrali, ed infine di mutazioni del gene SUCLA2 in pazienti con encefalopatia ad esordio precoce con grave ipotonia/ritardo psicomotorio, progressiva distonia/atetosi, sordità neurosensoriale e lesioni dei gangli basali a tipo sindrome di Leigh, con pressoché esclusivo
coinvolgimento di putamen e caudato.
Summary
The recent literature has testified an increase in the studies on the inborn errors of metabolism. The availability of new diagnostic facilities, long-term
follow-up of several diseases and the new etiopathogenetic findings, have open the route to the increase in the number of the diagnosis of IEM, the
definition of the natural history and the identification of specific therapeutic approaches for several IEM. In particular, the possibility to study the activity
of specific enzyme and of the transport protein on fibroblast and the availability of the molecular analysis have increased the number of diagnosis of
carbohydrate glycosilation defect. The availability of a long-term follow-up for most of the patients affected by glycogen storage disease type 1, have
demonstrated the presence, in these patients of a multi-systemic involvement which impair the quality of life of the patients and are responsible of the
mortality of the disease. Furthermore, the identification of mutation in the gene coding for alpha-aminoadipic semialdehyde dehydrogenase (ALDH7A1/
antiquitin) and in the gene coding for pyridoxine-5’-phosphate oxidase (PNPO) has explained the efficacy of pyridoxal phosphate as well as pyridoxine
in the management of infants and young children with intractable seizures.
Moreover, with the availability of biochemical and molecular investigation facilities, new gene have been identified as responsible of clinical and
biochemical phenotype of known inborn error of metabolism. Examples are: the identification of mutation of MPV17 gene in patients affected by
hepatocerebral syndrome (MIM 137960), of Acil-CoA dehydrogenase deficiency (MIM 611126) in patients with liver, muscle and heart involvement, of
GLUTAMINE SYNTHASE DEFICIENCY (MIM 610015) and of PHOSPHOSERINE AMINOTRANSFERASE DEFICIENCY(MIM 610992) in patient with cerebral
anomalies and of SUCLA2 mutation in patients with encephalopathy and showing severe hypotonia and developmental delay, progressive dystonia,
deafnees and involvement of basal ganglia.
Introduzione
Le malattie metaboliche ereditarie rappresentano un capitolo sempre più rilevante nell’ambito della patologia pediatrica. Le recenti
innovazioni tecnologiche e la conseguente modernizzazione delle
tecniche di diagnostica biochimica e genetico-molecolare hanno
portato nel corso degli anni ad una crescita significativa delle conoscenze in questo settore. In particolare negli ultimi anni l’attenzione è stata rivolta alla comprensione dei meccanismi fisiopatologici
di malattie già note da tempo, alla scoperta di geni responsabili di
quadri clinici/biochimici noti, alla ridefinizione di fenotipi clinici e al
conseguente tentativo di correlazioni genotipo-fenotipo, nonché allo
sviluppo di nuovi approcci terapeutici (Campeau et al., 2008).
Sebbene rare, se considerate individualmente, le malattie metaboliche rappresentano una causa rilevante di morbilità e mortalità in età
pediatrica. Si tratta di malattie che possono avere un’espressione
multisistemica con conseguente coinvolgimento dei vari organi ed
221
D. Melis et al.
apparati, pertanto i sintomi d’esordio e le complicanze sono spesso
eterogenei e possono coinvolgere inizialmente il pediatra generalista così come il pediatra ospedaliero e/o universitario o specialisti in
neurologia, nefrologia, cardiologia, ecc.
Questo articolo affronta alcuni temi più rilevanti e riguardanti le novità emerse dalla revisione della letteratura recente.
Per evitare di affrontare in maniera sistematica le differenti patologie abbiamo raggruppato in due principali capitoli gli argomenti in
modo da rendere la lettura più interessante e comprensibile anche
al lettore non specialista.
Novità in tema di ipoglicemia
L’ipoglicemia rappresenta un evenienza di frequente osservazione in
epoca pediatrica, sia nel periodo neonatale che nelle età successive.
Per semplificare, le ipoglicemie possono essere classificate su base
clinica o su base patogenetica (Tab. I).
Iperinsulinismo
La PET scan nella diagnosi di forme focali e/o diffuse di iperinsulinismo
L’iperinsulinismo congenito è la causa più comune di ipoglicemia
persistente in età pediatrica e rappresenta un’entità eterogenea che
comprende condizioni clinicamente, geneticamente e morfologicamente distinte, tutte accomunate da inappropriata secrezione insulinica da parte delle cellule β-pancreatiche (Tab. II). Generalmente si
manifesta in epoca neonatale o nella prima infanzia con ipoglicemia
ad andamento “capriccioso”, senza compromissione d’organo, con
assenza di chetoni urinari e pronta risposta alla somministrazione
di glucagone.
Anatomicamente si riconoscono forme focali e forme diffuse, indistinguibili clinicamente, ma sostenute da meccanismi molecolari e genetici
differenti. Le forme focali, che rappresentano circa il 30% dei casi, sono
caratterizzate da iperplasia delle cellule β-pancreatiche in una porzione
limitata del pancreas, nel contesto di una ghiandola normale (Delonlay
et al., 2007). La forma diffusa, che comprende tutte le forme genetiche
attualmente note, recessive e dominanti, corrisponde ad un’abnorme
secrezione insulinica da parte di tutte le cellule β-pancreatiche, che
presentano nuclei di dimensioni aumentate e disseminate in tutta la
ghiandola. Le forme “focali” sono sporadiche e riconoscono un preciso
meccanismo di tipo genetico caratterizzato, esclusivamente a livello
delle cellule coinvolte dalla lesione iperplastica, da una perdita dell’allele materno a livello della regione del braccio corto del cromosoma 11.
L’allele paterno, che è invece portatore di mutazioni dei geni SUR1 o
KIR6.2, risulta quindi attivo in maniera emizigote. Esiste infine un 10%
di casi atipici non classificabili.
Tabella I.
Classificazione delle ipoglicemie.
Clinica
Modalità d’insorgenza
A digiuno – postprandiale – capricciosa
Età d’insorgenza
Neonatale – prima infanzia – seconda infanzia
Chetoni urinari
Presenti – assenti
Risposta al glucagone
Presente – assente
Coinvolgimento d’organo
Fegato – cuore – muscolo scheletrico – sistemico
Etio-Patogenetica
Forme metaboliche
Glicogenosi, difetti gluconeogenesi, difetti ossidazione acidi grassi, malattie
mitocondriali, intolleranza al fruttosio, galattosemia, ipoglicemia chetotica,
ecc.
Forme endocrine
Iperinsulinismi, difetti ormoni controinsulari
Forme transitorie
Prematurità/dismaturità, diabete materno, ecc.
Forme secondarie
Epatopatie, farmaci, ecc.
Tabella II.
Classificazione degli iperinsulinismi.
Genetica
Forme autosomiche dominanti
Mutazioni gk, gdh (iperinsulinismo – iperammoniemia), slc16a1 (ipoglicemia indotta da esercizio)
Forme autosomiche recessive
Mutazioni sur, kir6.1, Schad, pmi (cdg1b)
Forme sporadiche
Forme focali, mutazioni gdh (iperinsulinismo-iperammoniemia)
Istopatologica
Forme diffuse
Trattamento farmacologico, indicazione chirurgica solo nei casi resistenti
Forme focali
Indicazione chirurgica elettiva
Clinica
Risposta ai farmaci
(diazossido – somatostatina – nifedipina)
Presente – assente (indicazione chirurgica elettiva)
GK: glucochinasi; GDH: glutammato deidrogenasi; SLC16A1: trasportatore dei monocarbossilati 1; SUR: recettore delle sulfaniluree; SCHAD: idrossiacilCoA deidrogenasi a catena corta.
222
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico
Il trattamento delle forme focali vede l’indicazione chirurgica elettiva
con risoluzione completa della sintomatologia. Nelle forme diffuse
l’approccio terapeutico è più conservativo e si basa sull’uso di diazossido, somatostatina e, più raramente, nifedipina; l’indicazione
chirurgica è limitata ai soli casi non rispondenti ai farmaci per l’elevato rischio di insorgenza di diabete iatrogeno. La diagnosi differenziale tra forma focale e forma diffusa rappresenta pertanto un
elemento chiave per la prognosi e la qualità di vita di questi pazienti
e le loro famiglie. Purtroppo le metodiche di imaging convenzionali
(ecografia, TC, RM) non permettono di identificare e localizzare le
forme focali.
Fino a pochi anni fa la diagnosi differenziale tra le due forme si basava sul cateterismo venoso pancreatico, tecnica estremamente
complessa e di fatto limitata ad un unico centro in tutto il mondo. Recentemente è stata utilizzata una tecnica innovativa di più
facile uso basata sulla PET (Fig. 1), utilizzando come tracciante la
[18F]Fluoro-L-DOPA (Otonkoski et al., 2003; Ribeiro et al., 2005). La
capacità di captare L-DOPA e convertirla in dopamina è correlata
alle caratteristiche neuroendocrine delle cellule pancreatiche iperfunzionanti rispetto alle β-cellule normali. Il potere di risoluzione
delle lesioni focali con la PET è di circa 1 mm di diametro, con una
sensibilità del 94% ed una specificità del 100% in confronto con
l’istochimica (Hardy et al., 2007).
Per ottimizzare la risoluzione della PET è necessaria l’integrazione e
la fusione delle immagini con quelle ottenute con le TC o con RMN
(Barthlen et al., 2008) mentre, per l’esatta delimitazione della lesione focale, è comunque necessario l’esame istologico estemporaneo
durante l’intervento chirurgico.
Box 1
Fino a pochi anni fa la diagnosi differenziale tra le forme di iperinsulinismo focale e diffuso era possibile solo mediante cateterismo pancreatico, tecnica invasiva, rischiosa, realizzabile in
pochissimi centri al mondo.
Oggi la 18F-DOPA PET si è dimostrata strumento capace di distinguere le due forme istologiche.
L’utilizzo combinato della PET /TC è in grado di definire con precisione la localizzazione anatomica con ovvio vantaggio vista
l’indicazione chirurgica elettiva nelle forme focali
Complicanze della glicogenosi I
La glicogenosi tipo I (GSDI) è un errore congenito del metabolismo
del glicogeno causato dal difetto del sistema della glucosio 6-fosfatasi; sono note due forme, la GSD1a e la GSD1b. Entrambe le forme
si presentano con epatomegalia, ipoglicemia da digiuno, latticoacidemia ed iperlipidemia; nella forma Ib è presente neutropenia con
deficit funzionale dei neutrofili e suscettibilità a infezioni severe e
malattie infiammatorie croniche intestinali.
La terapia, basata sulla somministrazione di pasti frequenti, supplementazione con amido di mais crudo (maizena) e/o alimentazione enterale notturna, risulta efficace nel prevenire l’ipoglicemia, gli episodi
di scompenso metabolico acuto e l’accumulo di glicogeno e lipidi nel
fegato e ha determinato un cambiamento nella storia naturale della
glicogenosi tipo 1, permettendo il prolungamento della sopravvivenza.
Parallelamente a questo fenomeno si è però osservata la comparsa di
tardivo coinvolgimento di diversi organi ed apparati. Relativamente a
queste tematiche, grazie anche al contributo di ricerche cliniche condotte in Italia, sono emerse negli ultimi anni alcune novità di rilievo.
La nefropatia glomerulare
In molti pazienti con GSD1 la funzione renale si caratterizza con una
fase iniziale di iperfiltrazione glomerulare, seguita da comparsa di
proteinuria e ipertensione e successiva insufficienza renale cronica.
Un recente studio multicentrico ha valutato retrospettivamemente in
95 pazienti provenienti da 9 centri di riferimento italiani l’efficacia
degli ACE-inibitori nel ridurre l’iperfiltrazione, la microalbuminuria
e la proteinuria (Melis et al., 2005). Lo studio ha dimostrato l’efficacia degli ACE-inibitori nel ridurre l’iperfiltrazione glomerulare,
permettendo di ritardare l’evoluzione del danno renale cronico, ma
solo a condizione che il trattamento venga iniziato nelle fasi iniziali
del coinvolgimento renale; gli ACE-inibitori sono invece risultati inefficaci nel ridurre la microalbuminuria e la proteinuria. Attualmente
è in corso una prosecuzione dello studio su base prospettica per
confermare i risultati del precedente lavoro, nonché per validare approcci terapeutici alternativi più efficaci sulla microalbuminuria e la
proteinuria.
L’ipotirotidismo
La frequente osservazione di una bassa statura nei pazienti con
GSD ha suggerito la presenza di alterazioni della funzione endocrina per il possibile coinvolgimento dell’asse Growth Hormone,
insuline-like growth factor (GH-IGF1) e/o della funzionalità tiroidea.
Sulla base di queste ipotesi precedentemente proposte, è stata
recentemente dimostrata l’elevata prevalenza di ipotiroidismo – in
entrambe le forme di GSDI – e di autoimmunità nei soli pazienti
GSD1b (Melis et al., 2007). L’alterazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide, che sembra peraltro peggiorare il controllo metabolico,
è caratterizzata da una riduzione dei livelli di FT4, con aumentati
livelli basali di Thyroid-stimulating hormone (TSH) e aumentata risposta del TSH al test dinamico. Nei soli pazienti con GSDIb è stato
osservato aumento di autoimmunità tiroidea, un fenomeno probabilmente ascrivibile alla neutropenia e /o al deficit funzionale dei
neutrofili, che. come è noto, rappresenta un fattore di rischio per
lo sviluppo di patologie autoimmuni. L’ipotesi che i pazienti GSD1b
siano a rischio per lo sviluppo di patologie autoimmuni è inoltre
supportata dall’osservazione di Miastenia Gravis nella GSD1b (Melis et al., 2008).
Nuove malattie associate a ipoglicemia
Mutazioni del gene MPV17 associate a sindrome epatocerebrale
(MIM 137960)
Seppur rare, le malattie da deplezione del DNA mitocondriale ad
espressione prevalentemente epatica possono causare, oltre ad
acidosi lattica, ipoglicemia. Negli ultimi anni sono state identificate
numerose forme genetiche responsabili di sindrome da deplezione
(POLG, TWINKLE, TK2, DGUOK, TP, ANT1, SUCLA2, SUCLG1) associate a miopatie, encefalomiopatie e quadri epatocerebrali. A questo
ultimo gruppo appartiene la malattia causata da mutazioni del gene
MPV17 recentemente descritta da un gruppo italiano (Spinazzola et
al., 2006). Il quadro clinico è un continuum tra una forma ad esordio nei primi mesi di vita con gravi ipoglicemie, modesta iperlatticoacidemia e danno epatocellulare, che conduce a cirrosi e morte
entro l’anno di vita – ed una con epatopatia più lieve con maggior
sopravvivenza e con coinvolgimento neurologico che si manifesta
negli anni successivi. Complessivamente finora sono stati descritti
34 pazienti di cui 24 affetti dalla forma precoce e 10 dalla forma
lieve. È stato recentemente messo in evidenza l’efficacia terapeutica di un regime dietetico simile a quello utilizzato nelle glicogenosi
(Parini et al., 2008).
223
D. Melis et al.
Il deficit acil-CoA deidrogenasi 9 (ACAD 9) (MIM 611126)
Numerose sono le malattie legate a deficit della β-ossidazione
responsabili di quadri multisistemici con interessamento epatico,
muscolare e cardiaco. Caratteristico è il riscontro di ipoglicemia
ipochetotica indotta da digiuno o stress associata a aumento delle
transaminasi (talvolta con manifestazioni acute a tipo sindrome
Reye), cardiomiopatia, rabdomiolisi e mioglobinuria intermittente.
Il deficit di ACAD9 è stato descritto per la prima volta nel 2007 in
3 pazienti di età pediatrica (He 2007), il primo dei quali è un ragazzo di 14 anni che, dopo assunzione di aspirina nel corso di un
episodio febbrile, ha presentato ipoglicemia e un quadro tipo sindrome di Reye con iperammoniemia, iperCKemia ed iperLDHemia;
l’evoluzione clinica successiva è stata fatale con edema cerebrale,
morte e riscontro autoptico di steatosi epatica. Gli altri due pazienti
hanno sviluppato intorno al primo anno di vita insufficienza epatica
acuta in seguito ad una malattia intercorrente. L’evoluzione successiva è stata caratterizzata da episodi ricorrenti di ipoglicemia con
ipertransaminasemia/iperCKemia, debolezza muscolare e difficoltà
nella marcia sempre scatenati da eventi trigger. Il primo caso è stato
complicato da un infarto lacunare ai gangli della base, il secondo da
una cardiomiopatia dilatativa che ha condotto a morte a 4 anni. Per
la diagnosi è stato dirimente lo studio biochimico degli acidi organici
urinari e delle acilcarnitine.
Nuove malattie e nuove cause genetiche di patologie
neurometaboliche
Malattie metaboliche con epilessia
L’epilessia raramente riconosce come agente etiologico una malattia metabolica quando si presenta isolata da altri segni e sintomi,
mentre la presenza di episodi convulsivi in contesti clinici multisistemici rappresenta un segno comune in numerosi errori congeniti
del metabolismo. Negli ultimi anni in questo settore si è osservato
un notevole incremento delle conoscenze con ricadute pratiche di
rilievo per il riconoscimento di nuove forme trattabili.
Nel presente paragrafo verranno discusse le nuove cause metaboliche di epilessia nel neonato e affrontata la diagnostica differenziale
con altre forme già note.
Epilessia piridossina-dipendente (PDE) (MIM 266100)
Si presenta nei primi giorni di vita con convulsioni generalizzate
resistenti al trattamento anticonvulsivante convenzionale. Sono
state descritte inoltre casi con convulsioni prenatali che esordiscono intorno alle 20 settimane di gestazione (Wolf et al., 2005).
Nel 30% dei neonati viene riportata una sindrome neurologica
neonatale con ipereccitabilità, irritabilità ed aumentata sensibilità agli stimoli; tale quadro può essere accompagnato da segni
sistemici quali distress respiratorio, distensione addominale, vomito ed acidosi metabolica. Possono essere presenti anomalie
cerebrali quali ipoplasia del corpo calloso, idrocefalo, emorragia
cerebrale, ipoplasia cerebellare ed anomalie della sostanza bianca
(Surtees e Wolf, 2007). L’ Elettroencefalogramma (EEG) è alterato
ma non diagnostico. Gli episodi critici e le alterazioni rilevate all’EEG rispondono prontamente, generalmente entro pochi minuti,
alla somministrazione endovenosa di 100 mg di piridossina, una
terapia che deve essere protratta per tutta la vita. Nei casi trattati
precocemente la prognosi è generalmente buona anche se talora essi possono presentare nel tempo difficoltà di apprendimento
224
o ritardo del linguaggio. Se il trattamento è ritardato, i bambini
sviluppano un severo ritardo mentale con distonie e disturbi sensoriali. Un’alterazione del gene che codifica per una α-aminoadipico semialdeide deidrogenasi (ALDH7A1/antiquitina), presente
nel sistema nervoso centrale, è stata riscontrata in diversi pazienti
affetti da PDE. Il deficit del suddetto enzima determina un accumulo di α−aminoadipico semialdeide (α-AASA) che è in equilibrio
reversibile con la piperideina-6-carbossilato che può condensarsi
con il piridossalfosfato e inibire la sua attività. Pertanto nella PDE è
presente un deficit secondario di piridossalfosfato, la forma attiva
della piridossina o vitamina B6. L’accumulo di AASA nel plasma e
nelle urine rappresenta il marker specifico della PDE causata da
deficit di aminoadipico semialdeide deidrogenasi. Un altro metabolita della via di degradazione della lisina è l’acido pipecolico,
che può risultare aumentato nella PDE ma risulta meno specifico
e sensibile di AASA. Entrambi i marcatori risultano presenti anche
durante il trattamento con piridossina.
Deficit di piridossamina fosfato ossidasi (PNPO) (epilessia rispondente al piridossalfosfato oppure epilessia piridossal-fosfato dipendente) (MIM 610090)
Il deficit di PNPO si manifesta con sofferenza fetale negli ultimi mesi
di gestazione. Le convulsioni compaiono nei primi giorni di vita e
sono resistenti agli anticonvulsivanti, l’EEG mostra un’alterazione
dell’attività di fondo e scariche di punta-onda, mentre inizialmente
la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) encefalo non mostra alterazioni della struttura cerebrale. Le convulsioni non rispondono alla
piridossina, mentre si ha una risposta immediata e persistente alla
somministrazione orale di piridossal-fosfato (di qui il nome alternativo di convulsioni piridossal-fosfato dipendenti) (Clayton et al.,
2003). Il trattamento tempestivo si associa a prognosi favorevole, a
differenza dei casi non trattati o con inizio tardivo, in cui si osserva
morte entro il primo anno o presenza di danni neurologici severi con
grave atrofia cerebrale.
Dal punto di vista biochimico i marcatori del deficit di PNPO sono
presenti nel liquor, nel plasma e nelle urine. Il deficit di piridossalfosfato determina una ridotta attività della L-aminoacido aromatico
decarbossilasi, del sistema di clivaggio della glicina e della treonina deidratasi. I pazienti mostrano una caratteristica riduzione nel
liquor di acido omovanillico e 5-idrossi-indolacetico con aumento
di 3-metossitirosina; nel liquor e nel plasma si riscontra un lieve
aumento nella concentrazione di glicina e treonina mentre nelle urine è presente l’acido vanil-lattico. Tali alterazioni biochimiche non
sono necessariamente presenti in tutti i pazienti ma, se presenti, si
normalizzano con il trattamento.
Convulsioni rispondenti all’acido folinico oppure folinico-dipendenti
I pazienti presentano nei primi giorni di vita convulsioni resistenti ai
comuni antiepilettici e possono essere presenti i segni di una encefalopatia neonatale. L’EEG è alterato con punte-onda multifocali ma
non diagnostico e la RMN encefalo è normale. Sono riportati casi con
transitoria risposta alla piridossina ma il trattamento elettivo si basa
sulla somministrazione di acido folinico. Gli episodi critici possono
ripresentarsi successivamente e talora rispondono ad un aumento
della dose di acido folinico, talvolta richiedendo l’aggiunta di antiepilettici. In assenza della terapia specifica questa encefalopatia
risulta letale ma anche nei pazienti trattati è riportato un aumentato
rischio di mortalità e di difficoltà cognitive. Nel liquor è presente
un marcatore biochimico, ancora non ben definito, ma identificabile
per le sue caratteristiche cromatografiche in HPLC, che si riduce in
corso di trattamento (Surtees e Wolf, 2007).
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico
Deficit del trasportatore del glutammato mitocondriale (MIM
609304)
Recentemente sono stati descritti 4 bambini con epilessia mioclonica precoce, microcefalia progressiva, pattern elettroencefalografico a tipo burst suppression, alterazione dei potenziali evocati
visivi e atrofia cerebrale alla RM nei quali, attraverso studi genetici
di linkage, è stato possibile documentare la presenza di una mutazione missenso del gene SLC25A22 codificante per la sintesi di un
carrier mitocondriale specifico per il co-trasporto del glutammato
con ioni H+ in scambio con ioni OH-. Gli studi di espressione hanno
mostrato come questa proteina sia specificamente espressa durante lo sviluppo in aree del sistema nervoso centrale (Molinari et al.,
2005). Questa nuova malattia, seppur priva di marcatori biochimici
e di trattamento, dimostra l’associazione tra il metabolismo mitocondriale del glutammato e l’epilessia mioclonica offrendo nuove
indicazioni, sia diagnostiche che fisiopatologiche, nell’approccio alle
epilessie neonatali con burst suppression.
La flow-chart diagnostica delle epilessie neonatali prevede in prima
battuta l’esclusione di condizioni precipitanti quali infezioni, ipoglicemia, alterazione elettrolitica. Sono comunque applicabili due approcci
alla diagnosi. Il primo è basato sulla verifica della risposta clinica alla
somministrazione del supplemento vitaminico, il secondo è invece
basato sulla ricerca dei marcatori biochimici. Quest’ultimo approccio
richiede però la collaborazione e/o la disponibilità di un laboratorio
altamente specializzato e va inoltre sottolineato che oltre alle difficoltà metodologiche e ai lunghi tempi di risposta non tutti i pazienti
mostrano alterazioni utili per la diagnosi (Hoffmann et al., 2007). La
Figura 2 e la Tabella III illustrano in dettaglio questi aspetti.
Box 2
Sono state identificate nuove malattie metaboliche, la maggior
parte delle quali è suscettibile di trattamento con vitamine, che
causano epilessia in epoca neonatale
Malattie metaboliche con malformazioni cerebrali
Le malattie metaboliche spesso si associano ad un coinvolgimento
del sistema nervoso centrale ma solo alcune di esse causano quadri
di tipo malformativo/displastico (es. malattie perossisomiali, deficit di
piruvico deidrogenasi, glutarico aciduria tipo I). Recentemente sono
state descritte due nuove patologie da difetto nella sintesi di aminoacidi che determinano alterazioni nella morfogenesi cerebrale.
Deficit di glutammina sintetasi (GS) (MIM 610015)
Il deficit di GS è stato descritto per la prima volta nel 2005 (Häberle et al., 2005) in due neonati con esito infausto che presentavano
già in età prenatale alterazioni ecografiche cerebrali all’ecografia,
con dilatazione ventricolare e della fossa cranica posteriore e cisti
paraventricolari. In un caso erano presenti polidramnios e micromelia. Alla nascita erano presenti convulsioni, severa ipotonia, tratti
grossolani del volto, insufficienza respiratoria e la RM mostrava una
grave atrofia con completa agiria in uno e grave ritardo di girazione
nell’altro, immaturità della sostanza bianca e numerose cisti paraventricolari subependimali frontali e temporali. Le indagini metaboliche mostravano livelli bassissimi di glutammina nel siero, urine e
liquor mentre lo studio del gene GS evidenziava mutazioni missense
in omozigosi. Questa osservazione è importante in quanto evidenzia
gli effetti della carenza di un singolo aminoacido sulla morfogenesi
cerebrale; il quadro clinico, principalmente neurologico e malformativo e con modeste dismorfie facciali, entra in diagnosi differenziale
con le malattie dei perossisomi e con i difetti mitocondriali.
Deficit di fosfoserina amino transferasi (MIM 610992)
È stato descritto nel 2007 in 2 fratelli, entrambi portatori di mutazioni nel gene PSAT1 (Hart et al., 2007), che mostravano livelli ridotti di
serina e glicina nel liquor. Dal punto di vista clinico, il primo paziente
presentava all’età di 2 mesi convulsioni farmacoresistenti, ipertono,
microcefalia acquisita e quadro RM con atrofia cerebrale, ipoplasia
del verme cerebellare e alterazioni della sostanza bianca. In seguito
al riscontro delle alterazioni metaboliche, il bambino è stato trattato
con supplementazione di glicina e serina, ma tale trattamento non
ha modificato il grave quadro neurologico progressivo con successivo decesso all’età di 7 mesi. La sorella minore, trattata invece fin
dalle prime ore di vita, ha avuto un normale sviluppo della circonferenza cranica ed è risultata asintomatica a 3 anni di vita
La serina è un aminoacido non essenziale che viene scarsamente
trasportata attraverso la barriera ematoencefalica, un fenomeno che
sottende la probabile sintesi de novo nel sistema nervoso centrale
necessaria per il funzionamento e la morfogenesi cerebrale. La serina è inoltre il substrato per la sintesi della glicina, il che spiega il
riscontro di livelli ridotti di glicina nel deficit del metabolismo della
serina. La normale circonferenza cranica alla nascita suggerisce la
funzione vicaria della placenta per il mantenimento di un livello adeguato di serina nel cervello fetale.
Questa malattia è suscettibile di trattamento in fase presintomatica e pertanto risulta cruciale il suo riconoscimento precoce. Per la
diagnosi è necessario il dosaggio degli aminoacidi liquorali, poiché
i livelli plasmatici di serina e glicina possono risultare solo di poco
ridotti. L’attività enzimatica nei fibroblasti è ridotta parzialmente e
probabilmente il deficit totale è incompatibile con la vita.
Box 3
Due nuove malattie metaboliche causate da un difetto nella sintesi di aminoacidi causano malformazione cerebrale.
Nuove forme di acidemia metilmalonica
Forme “atipiche”
Le metilmalonico acidurie (MMA) raggruppano una categoria geneticamente eterogenea di malattie autosomiche recessive che coinvolgono il metabolismo del metilmalonato e della cobalamina nella
conversione del metilmalonil-CoA a succinilCo-A. Le cause genetiche responsabili delle forme “classiche” di MMA comprendono il difetto dell’apoenzima metilmalonil-CoA mutasi e i difetti della sintesi
del cofattore adenosilcobalamina (cblA, cblB, cblH).
Accanto a queste forme di MMA sono state recentemente descritte e caratterizzate forme “atipiche di MMA associata a difetti della
succinil-CoA sintetasi (SCS), il complesso enzimatico che catalizza
la conversione del succinil-CoA a succinato nel ciclo di Krebs. Mutazioni del gene SUCLA2 codificante la β-subunità della SCS sono
state descritte in pazienti con moderata metilmalonico aciduria e
deplezione del DNA mitocondriale (mtDNA) che presentavano un
peculiare fenotipo clinico, biochimico e neuroradiologico (Elpeleg et
al., 2005; Carrozzo et al., 2007; Ostergaard et al., 2007a). Si tratta
di una encefalopatia ad esordio precoce con grave ipotonia/ritardo
psicomotorio, progressiva distonia/atetosi, sordità neurosensoriale
225
D. Melis et al.
Tabella III.
Errori congeniti del metabolismo in pazienti con convulsioni neonatali.
Patologia
Parametri diagnostici
Terapia
Responsive al trattamento
Epilessia piridossino-dipendente
Acido pipecolico e del α−aminoadipico semial- Piridossina 15 mg/kg/die
deide nel liquor
Deficit di piridossamina-fosfato-ossidasi
Aumento di 3-metossitirosina, glicina e treonina Piridossale / fosfato 30-50mg/kg
nel liquor
Riduzione dei livelli di acido omovanillico e di acido 5 idrossi indolacetico nel liquor
Convulsioni folinico-dipendenti
Metabolita caratteristico in HPLC
Acido folinico 2,5-5 mg x 2/die
Deficit di biotinidasi
Attività plasmatica della biotinidasi
Trial terapeutico con biotina
Biotina 5-10 mg 2 vv/die
Altre epilessie metaboliche suscettibili di trattamento
Dieta chetogena
Deficit di trasportatore del glucosio (GLUT1)
Livelli di glucosio nel liquor < 2,2 mM
Rapporto glucosio liquor/plasma < 0,5
Studio del trasporto di glucosio negli eritrociti
Analisi molecolare del gene SLC2A1
Deficit di serina
Livelli sierici di serina ridotti a digiuno
Serina 200-600 mg/kg/die
Livelli di serina e glicina ridotti nel liquor
Dosaggio enzimatico di 3-fosfoglicerato deidrogenasi (PHGDH) e fosfoserina aminotrasferasi
(PSAT1) nei fibroblasti
Analisi molecolare di PHGDH e PSAT1
Deficit di creatina
Rapporto creatina/creatinina nelle urine
Creatina 0,5-2g/kg/die
Rapporto Guanidinoacetato/creatinina nelle urine Ornitina 100 mg/kg/die
Ridotta creatina nel liquor
Dieta ristretta in arginina
Riduzione picco creatina + creatinina alla RMN
spettroscopica
Attività guanidino-acetato-metiltrasferasi nei fibroblasti
Analisi molecolare dei geni guanidino-acetatometiltrasferasi (GAMT) arginino-glicina amidinotrasferasi (AGAT), SLC6A8
Fenilchetonuria non trattata
Fenilalanina plasmatica
Analisi molecolare del gene fenilalanina
idrossilasi
Dieta ristretta in fenilalanina
Altre epilessie metaboliche non trattabili o scarsamente rispondenti
Deficit di solfito ossidasi isolato
o combinato con deficit di xantina ossidasi
Ipouricemia
Positività Sulfitest urine
Nessun trattamento specifico
Iperglicinemia non chetotica
Aumento glicina liquor e sangue
Rapporto glicina liquor/glicina sangue > 0,02
Scarsa/assente risposta a Benzoato
e Destrometorfano
D-2-idrossiglutarico aciduria
Presenza di acido D-2-idrossiglutarico
nelle urine
Nessun trattamento specifico
Malattia di Menkes
Ridotto rame e ceruloplasmina nel sangue
Rame istidinato sottocute
Malattie perossisomiali
Aumento VLCFA, ac. fitanico sangue
Epossidicarbossilico aciduria
Nessun trattamento specifico
Deficit del trasportatore mitocondriale
del glutammato
Nessun marker biochimico
Nessun trattamento specifico
Modificata da Surtees e Wolf, 2007.
e lesioni dei gangli basali a tipo sindrome di Leigh, con pressoché
esclusivo coinvolgimento di putamen e caudato. Il profilo biochimico
è diagnostico ed è caratterizzato da acidosi lattica, moderata MMA
associata alla presenza nel sangue e nelle urine di un caratteristico
estere della carnitina, la C4-dicarbossilico-carnitina, corrispondente
alla succinil-carnitina.
Analoghe alterazioni biochimiche sono state riscontrate in tre pa-
226
zienti provenienti da una famiglia consanguinea, che presentavano
un gravissimo quadro neonatale caratterizzato da dismaturità, encefalopatia, epatopatia e fatale acidosi lattica. L’analisi di linkage ha
permesso di identificare nei pazienti la presenza di una mutazione
nel gene SUCLG1, codificante la α-subunità della SCS (Ostergard et
al., 2007).
Infine, in altri pazienti con MMA atipica, è stato recentemente de-
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico
Tabella IV.
Acidurie Metilmaloniche classiche, atipiche e difetti del metabolismo della cobalamina.
Gene
MUT
Gruppo di complementazione
Mut0/mut
Enzima/proteina
Metaboliti caratteristici
Metilmalonil-CoA mutasi
MMA elevato
Propionil-carnitina
MMAA
cblA
Trasporto mitocondriale
della cobalamina
MMA elevato
Propionil-carnitina
MMAB
cblB
ATP: cobalamina
adenosyl-transferase
MMA elevato
Propionil-carnitina
MMACHC
cblC
Trasporto citosolico
della cobalamina
MMA medio/elevato
Omocisteina
MMADHC
cblD
trasporto citosolico
della cobalamina
MMA medio/elevato
Omocisteina
MMADHC
cblD var1
trasporto citosolico
della cobalamina
Omocisteina
MMADHC
cblDvar2
trasporto citosolico
della cobalamina
MMA medio
?
cblE
Rilascio lisosomiale
della cobalamina
Omocisteina
?
cblF
?
MMA medio/elevato
Omocisteina
?
cblG
Metionina sintasi
Omocisteina
MCEE
Metilmalonil-CoA epimerasi
MMA basso
SUCLA2
Succinil-CoA sintetasi βsubunità
MMA basso
Succinil-carnitina
SUCLG1
Succinil-CoA sintetasi αsubunità
MMA basso
Succinil-carnitina
MMA: acido metilmalonico urinario
scritto un nuovo difetto genetico a carico del gene della metilmaloni-CoA epimerasi, associato ad una lieve MMA ed una ampia
eterogeneità fenotipica, che comprende forme asintomatiche, casi
con grave acidosi metabolica, o quadri clinici con atassia, disartria
e parapresi spastica (Dobson et al., 2006; Bikker et al., 2006; Gradinger et al., 2007).
Identificazione dei geni responsabili dei difetti di cobalamina C
e cobalamina D
Sono noti nove differenti difetti del metabolismo intracellulare della
cobalamina (cbl) inizialmente definiti attraverso studi di complementazione cellulare (Tab. IV). I difetti cblA, cblB, e cblH causano
MMA isolata, mentre i difetti di cblE e cblG causano omocistinuria
isolata. I difetti cblC, e cblF causano MMA associata ad omocistinuria in quanto interferiscono nella conversione della cobalamina
nelle due forme metabolicamente attive, l’adenosilcobalamina e
la metilcobalamina, cofattori rispettivamente della MMA mutasi e
della metionina sintasi. Il difetto di cblD è più complesso in quanto
può determinare MMA isolata, MMA con omocistinuria come anche
omocistinuria isolata.
Nel 2006 è stato mappato il locus cblC sul cromosoma 1 mediante
analisi di linkage e successivamente mediante analisi di aplotipo è
stato identificato il gene MMACHC; l’esatta funzione del prodotto genico non è tuttora chiara ma sembra che sia coinvolto nell’uptake
intracellulare della cobalamina (Lerner-Ellis et al., 2006).
Nel 2008 infine è stato individuato il gene MMADHC responsabile
della forma cblD (Coelho et al., 2008). Questo lavoro appare molto
interessante dal punto di vista biologico in quanto ha permesso di
differenziare i differenti fenotipi biochimici. Nei casi con MMA isolata
le mutazioni MMADHC sono localizzate nella porzione N-terminale
della proteina e consistono in mutazioni nonsense, duplicazioni e
frame-shift; nei casi con sola omocistinuria le mutazioni, tutte missense, sono localizzate nella regione C-terminale; infine, nei casi
con MMA e omocistinuria le alterazioni genetiche sono presenti nella
regione C-terminale e consistono in mutazioni nonsense, delezioni
splice-site, e duplicazioni frame-shift. Questa chiara correlazione
genotipo-fenotipo si spiega con la presenza di almeno due domini
funzionali della proteina che, in base alla localizzazione ed al tipo di
mutazione, sono in grado di alterare la sintesi della sola adenosilcobalamina, della sola metilcobalamina o di entrambe.
Difetti di sintesi del coenzima Q10
Il coenzima Q10 (CoQ10) è situato nella membrana mitocondriale
interna e ha un ruolo di primo piano nel metabolismo ossidativo in
quanto trasporta gli elettroni dal complesso I e II al complesso III
della catena respiratoria. I difetti di CoQ10 sono stati inizialmente
descritti alcuni anni fa, ma solo ultimamente sono stati identificati
i geni malattia. I difetti di CoQ10 possono essere classificati in 4
forme cliniche (Rötig et al., 2007):
1) una forma encefalomiopatica con debolezza muscolare, atassia,
convulsioni, difficoltà di apprendimento e mioglobinuria;
2) una forma sistemica con encefalopatia tipo sindrome di Leigh,
tipicamente associata a sindrome nefrosica nella primissima
infanzia e/o epatopatia (meno frequente) e coinvolgimento dell’occhio e dell’orecchio;
227
D. Melis et al.
3) una forma puramente miopatica con intolleranza allo sforzo,
mioglobinuria e miopatia;
Box 4
Fino a pochi anni fa erano note le cause genetiche delle cosiddette forme “classiche” di metilmalonico aciduria (il difetto
dell’enzima metilmalonil CoA mutasi e/o del suo cofattore adenosilcobalamina)
Oggi conosciamo alcune delle cause responsabili di forme
“atipiche” di metilmalonico aciduria che si presentano con
quadri clinici e biochimici caratteristici. La corretta definizione
del fenotipo clinico (ipotonia/ritardo psicomotorio e successiva
distonia, sordità) e neuroradiologico (iperintensità di putamen
e caudato), associato ad uno studio biochimico accurato (lieve metilmalonico aciduria, aumento della succinil-carnitina)
orienta verso la corretta diagnosi genetica (mutazioni SUCLA2)
evitando l’esecuzione di complesse ed invasive procedure quali la biopsia muscolare.
La diagnosi differenziale della MMA associata ad omocistinuria,
dapprima possibile solo mediante complessi studi di complementazione cellulari, è oggi possibile con l’analisi molecolare
di geni recentemente identificati, responsabili dei difetti di cblC
e cblD
4) una forma atassica con convulsioni, ipotrofia cerebellare o alterazioni dei gangli della base.
Dal punto di vista biochimico è presente acidosi lattica; caratteristicamente, la biopsia muscolare mostra normale attività dei
complessi della catena respiratoria mitocondriale se analizzati singolarmente, mentre se analizzati in maniera combinata è presente
ridotta attività dei complessi CoQ10 dipendenti I+III e II+III. Nell’uomo sono noti almeno 11 geni codificanti le proteine necessarie
per la biosintesi del CoQ10 e solo negli ultimi 2 anni sono stati
scoperti alcuni dei determinanti genetici responsabili del difetto. In
ordine cronologico è stata prima descritta la presenza di mutazioni
COQ2 in due pazienti con encefalomiopatia e nefropatia (Quinzii
et al., 2006), successivamente mutazioni del gene PDSS2 in un
paziente con sindrome di Leigh e nefropatia (Lòpez et al., 2006),
poi di mutazioni del gene PDSS1 in due pazienti con una forma
sistemica meno grave (Mollet et al., 2007) ed infine sono state
descritte contemporaneamente da due gruppi di autori mutazioni
del gene COQ8/ADCK3/CABC1 nei pazienti con la forma atassica
(Mollet et al., 2008; Lagier-Tourenne et al., 2008. È (invece) probabile, invece, che il difetto di CoQ10 sia di origine secondaria nei
Tabella V.
Classificazione dei difetti congeniti di glicosilazione: difetti della N-glicosilazione.
Disordine
Proteina alterata
Gene mutato
Quadro clinico
CDG-Ia
Fosfomannomutasi II
PMM2
Ritardo di crescita, anomalie del sistema nervoso centrale, retinite pigmentosa,
cardiomiopatia, capezzoli invertiti, epatomegalia, fibrosi epatica, sindrome nefrosica, osteoporosi, alterata distribuzione del grasso sottocutaneo, ipotiroidismo,
trombocitosi
CDG-Ib
Fosfomannosio isomerasi
MPI
Ritardo di crescita, epatomegalia, fibrosi epatica, vomito diarrea, atrofia dei villi,
ipoglicemia iperinsulinemica, trombocitosi
CDG-Ic
Glucosil-trasferasi I
ALG6
Ritardo dello sviluppo psicomotorio, convulsioni, note dismorfiche
CDG-Id
Mannosiltrasferasi VI
ALG3
Artrogripposi, atrofia ottica
CDG-Ie
Dol-P-Man sintasi I
DPM1
Strabismo, coinvolgimento del sistema nervoso centrale, deficit del fattore XI
CDG-If
Man-P-Dol utilizzazione 1
MPDU1
Note dismorfiche, encefalopatia severa, contratture, difetti cutanei ittiosi formi
CDG-Ig
Mannosiltrasferasi VIII
ALG12
RSPM, note dismorfiche, riduzione del fattore XI
CDG-Ih
Glucosiltrasferasi II
ALG8
Enteropatia protido-disperdente, epatomegalia, bassi livelli di fattore XI, proteina
C, antitrombina, ipoplasia polmonare, anomalie del sistema nervoso centrale,
oculari, pan citopenia
CDG-Ii
Mannosiltrasferasi II
ALG2
Coloboma, cataratta, spasmi infantili, ipsaritmia, dismielinizzazione alla RMN
encefalo, bassi livelli di fattore IX
CDG-Ij
UDP-GlcNAc:
Dol-P-GlcNAc-P trasferasi
DPAGT1
Note dismorfiche, spasmi infantili, RSPM
CDG-Ik
Mannosiltrasferasi I
ALG1
Epilessia, severo RSPM, cardiomiopatia, epatopatia, sindrome nefrosica, ipogonadismo, riduzione delle cellule ed infezioni severe, atrofia cerebrale alla RMN
encefalo.
CDG-Il
Mannosiltrasferasi I
ALG9
RSPM, convulsioni, microcefalia, epatomegalia.
CDG-IIa
N-acetilglucosoamiltrasfe- MGAT2
rasi II
Bassa statura, note dismorfiche, osteopenia, cifoscoliosi, ritardo mentale, difetto
dei fattori IX, XI,XII, proteina C ed S
CDG-IIb
glucosidasi I
Ipotonia severa
CDG-IIc
trasportatore di fucosio- SLC35C1/FUCT1
GDP
Immunodeficienza con ridotta funzionalità dei neutrofili, neutrofilia, scarsa crescita, ritardo mentale
CDG-IId
B 1,4 galactosiltrasferasi
RSPM, malformazione di Dandy Walker, idrocefalo, miopatia, epatopatia colestatica, riduzione di IGF-I e IGF-BP3 nonostante una crescita normale
Modificato da Jaeken and Matthijs, 2007.
228
GLS1
B4GALT1
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico
Tabella VI.
Quadri clinici dei difetti congeniti di glicosilazione: difetti di O-glicosilazione e difetti combinati.
Difetti di O-glicosilazione
Disordine
Proteina alterata
Gene mutato
Quadro clinico
Difetti di O-xilosilglicani
Esostosi cartilaginee
multiple
Sindrome di Ehlers
Danlos
Glucuroniltrasferasi/N-acetilgluco- EXT1/EXT2
samiltrasferasi b-1,4 galattosiltra- B4GALT7
sferasi7
Esostosi cartilaginee multiple
Sindrome di Ehlers Danlos
Difetto di O-Nacetilgalattosamilglicani
Calcinosi familiare
tumorale
Polipeptide N-acetilgalattosamiltra- GALNT3
sferasi 3
Calcinosi familiare tumorale: deposizione ricorrenti
di calcio nei tessuti sottocutanei associata sia a livelli normali che elevati di fosfato sierico
Difetto di O-mannosilglicani
Sindrome di WalkerWarburg
Malattia muscolo-occhiocervello
O-mannosiltrasferasi 1
POMT1/POMT2
O-mannosio b-1,2-N-acetilglucosa- POMGnT1
miltrasferasi
Sindrome di Walker-Warburg: anomalie strutturali
del SNC e dell’occhio, distrofia muscolare
Distrofia muscolare dei cingoli: ritardo mentale, microcefalia, distrofia muscolare
Malattia muscolo-occhio-cervello Distrofia muscolare congenita associata a difetto della migrazione
neuronale
Difetto di O-fucosil-glicano
Disostosi spondilo-costale
tipo III
O-fucosio-specifico b-1,3-N-acetil- SCD03
glucosamiltrasferasi
Disostosi spondilo-costale tipo III: disordine della
segmentazione vertebrale
Difetti combinati di N e O-glicosilazione
Miopatia ereditaria inclusion UDP-GlcNAc epimerasi/chinasi
body
GNE
CDG-II/COG7
Complesso oligomerico conservato COG7
del Golgi subunità 7
Note dismorfiche, encefalopatia, epatopatia col
estatica, ritardi di crescita pre e post-natale
Deficit del trasportatore del
CMP-acido sialico
Trasportatore del CMP-acido sialico
Macrotrombocitemia, neutropenia, sanguinamenti
spontanei di cute e mucose
CDG-II/COG1
Complesso oligomerico conservato COG1
del Golgi subunità 1
SLC35A1
Ipotonia generalizzata, disturbo dell’alimentazione,
microcefalia, rime palpebrali rivolte in basso ed
all’esterno, mani e piedi piccoli, bassa statura rizomelica
Difetto di glicosilazione dei lipidi
Epilessia infantile Amish
Lattosilceramide a-2,3 sialiltrasfe- SIAT9
rasi
Epilessia, RSPM con regressione, atrofia cerebrale
alla RMN encefalo.
Deficit di
glicosilfosfatidilinositolo
Fosfatidilinositologlicano
Convulsioni, trombosi vena porta
Epilessia infantile Amish
Lattosilceramide a-2,3 sialiltrasfe- SIAT9
rasi
PIGM
Epilessia, RSPM con regressione, atrofia cerebrale
alla RMN encefalo.
Modificato da Melis 2002; Jaeken and Matthijs, 2007.
pazienti con atassia e con mutazioni sul gene apratassina/APTX,
responsabile della sindrome atassia e aprassia oculomotoria tipo 1
(AOA1) (Quinzii et al., 2005), e nei pazienti miopatici con glutarico
aciduria tipo II e mutazioni nel gene ETFDH (Gempel et al., 2007).
L’importanza dell’espandersi delle conoscenze in questo settore è
soprattutto legata alla possibilità di trattare una buona parte dei
pazienti con difetto di CoQ10 con alte dosi di ubiquinone (30-50
mg/kg/die). In particolare, un recentissimo lavoro italiano documenta la completa normalizzazione della funzione renale (sindrome nefrosica) e la prevenzione del danno neurologico in una neonata trattata con supplementazione di CoQ10 fin dai primi giorni
di vita, il cui fratello maggiore con mutazioni COQ2 presentava un
quadro sistemico con interessamento neurologico progressivo e
insufficienza renale cronica per la quale si era reso necessario il
trapianto di rene (Montini et al., 2008).
Novità nei difetti della glicosilazione delle proteine
I disordini congeniti della glicosilazione (CDG) sono patologie secondarie al difetto o all’aumento della glicosilazione di glicoconiugati,
principalmente glicoproteine e glicolipidi. Le proteine sintetizzate nei
ribosomi vengono trasportate dal reticolo endoplasmico al Golgi e
dal Golgi agli endosomi, ai lisosomi e alla membrana plasmatica
mediante vescicole di trasporto. Durante tale processo nell’apparato del Golgi si verifica una serie di modifiche post-trascrizionali
quali glicosilazione, sulfurazione di tirosine, assemblaggio di proteine multimeriche. Il legame covalente di un glicano ad una proteina
costituisce il processo di glicosilazione, una modifica che regola la
struttura tridimensionale, la stabilità e l’interazione tra glicoproteine.
La glicosilazione può essere divisa in N-, O- e C-glicosilazione: gli Nglicani sono attaccati ad un amminogruppo di asparagine, gli O-glicani al gruppo idrossile di serine e/o treonina e i C glicani all’atomo
229
D. Melis et al.
Box 5
I difetti di sintesi del CoenzimaQ10 sono stati recentemente
identificati, si presentano con quadri clinici eterogenei che interessano il sistema nervoso centrale ma anche, in maniera isolata
o combinata, l’apparato renale.
A differenza di altre malattie mitocondriali per le quali non esistono terapie efficaci, i difetti di CoenzimaQ10 rispondono al
trattamento sostitutivo con ubiquinone.
C2 del triptofano. Recentemente è stato sottolineato come l’assemblaggio delle strutture di glicani sulle glicoproteine ad opera degli
enzimi della glicosilazione, dipenda dalla distribuzione degli stessi
all’interno dell’apparato del Golgi. Tale compartimentalizzazione viene raggiunta attraverso un bilanciamento tra il flusso anterogrado
e retrogrado delle vescicole. Quando tale equilibrio viene alterato,
l’apparato di glicosilazione non ha una corretta localizzazione, come
avviene nei difetti del Complesso Oligomerico conservato del Golgi
(COG) che sono associati al fenotipo CDG-II (Zeevaert et al., 2008).
Lo spettro fenotipico dei CDG è estremamente variabile e comprende patologie gravi come anche disordini lievi, spesso si ha un interessamento multi sistemico, ma possono essere presenti quadri che
interessano un solo organo o sistema (Jaeken e Matthijs, 2007). Dal
1980, anno in cui venne descritto il primo paziente, il gruppo dei
CDG si è ampliato rapidamente; ad oggi sono noti 28 difetti: 16 nella
N-glicosilazione delle proteine, 6 nella O-glicosilazione delle proteine, 4 nella N e O-glicosilazione delle proteine, 2 nella glicosilazione
dei lipidi (Tabb. V, VI). È stato infine suggerito che mutazioni che determinano un aumento della glicosilazione possano avere un ruolo
patogenetico. In particolare sono stati descritti tre bambini con una
suscettibilità a sviluppare infezioni da micobatteri; in tali pazienti è
stata descritta una mutazione missense nel gene del recettore del-
l’Interferon gamma che crea un nuovo sito di N-glicosilazione (Vogt
et al., 2005). Esiste inoltre un gruppo di CDG in cui il gene mutato è
stato identificato, ma nei quali non è stata ancora scoperta la funzione della proteina. Tali condizioni vengono definite CDG putative
(Jaeken e Matthijs, 2007). Viceversa, con il termine CDG-x vengono
indicate tutte le condizioni in cui viene fortemente sospettata una
diagnosi di CDG, ma nelle quali non è stato ancora identificato il
gene responsabile; rientrano in tale gruppo: l’anemia diseritropoietica tipo II (Lanzara et al., 2003), la epatopatia isolata (Mandato et al.,
2006) e la sindrome glomerulopatia-buftalmia.
Il test screening utilizzato per lo studio dei disordini della N-glicosilazione e per il deficit di acido sialico è basato sull’isoelectrofocusing della trasferrina sierica. Nei disordini dell’assemblaggio degli
N-glicani viene ottenuto un pattern tipo 1 caratterizzata da un aumento della disialo- e asialotrasferirna. Il pattern tipo II identifica i
difetti del processamento degli N-glicani e mostra un aumento di
trisialo- e monosialo trasferrina. Lo screening per i difetti di O-glicosilazione non è ancora perfettamente standardizzato e si basa sull’isoelectrofocusing della proteina apo-CIII, una glicoproteina esclusivamente O-glicosilata. Nei difetti di N e O-glicosilazione lo studio
in isoelectrofocusing della trasferrina mostra un pattern tipo II e lo
studio della Apo-CIII un pattern di ipoglicosilazione. Nei pazienti con
diagnosi clinica di GSD-II senza un pattern specifico all’isoelectrofocusing andrebbe ricercata una eventuale presenza di difetti del COG
mediante analisi di Western blot effettuata sulle proteine estratte da
fibroblasti cutanei (Zeevaert et al., 2008).
Lo studio dell’attività dei singoli enzimi e delle proteine di trasporto
è possibile su fibroblasti ottenuti da biopsia cutanea (Jaeken e Matthijs, 2007) e l’analisi molecolare è disponibile per molti dei geni
responsabili di CDG.
Una terapia specifica è ipotizzabile, oltre che con il mannosio nella
CDG1b, anche per il deficit di glicosiltrasferasi II (CDG-Ih) attraverso
una dieta povera in grassi e supplementazione di acidi grassi essenziali.
Box di orientamento
•
•
•
•
Le malattie metaboliche ereditarie rappresentano un capitolo sempre più rilevante nell’ambito della patologia pediatrica.
Sono stati identificati diversi geni le cui alterazioni sono causa di ipoglicemia.
Le malattie metaboliche possono essere causa di malformazioni cerebrali ed epilessia neonatale; recentemente sono stati identificati i meccanismi
molecolari che spiegano l’efficacia della terapia con piridossina e piridossale fosfato nelle epilessie neonatali.
In presenza di quadri clinici specifici quali ritardo nell’acquisizione delle tappe dello sviluppo psicomotorio associato a sordità, anomalie del sistema
nervoso centrale associate a nefropatia, interessamento multi sistemico, considerare nella diagnostica differenziale, le metilmalonicoaciduria, i
difetti di sintesi del Coenzima Q10 ed i difetti di glicosilazione delle glicoproteine.
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230
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Uscito in contemporanea al lavoro di Ostergard, entrambi descrivono una
nuova forma atipica di metilmalonico aciduria causata da un deficit del ciclo
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Il lavoro descrive come il difetto di sintesi di serina possa causare una
grave encefalopatia con microcefalia postatale, trattabile se precocemente
identificata)
He M, Rutledge SL, Kelly DR, et al. A new genetic disorder in mitochondrial
fatty acid b-oxidation:ACAD9 deficiency. Am J Hum Genet 2007;81:87-103.
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Il lavoro descrive un nuovo difetto a carico della via osidativa degli acidi
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Lavoro originale che per la prima volta suggerisce la necessità di monitorare il profilo tiroideo nei pazienti con Glicogenosi tipo 1.
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Lavoro originale che descrive la presenza di un difetto nel trasporto mitocondriale del glutammato in bambini con epilessia mioclonica.
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Uscito in contemporanea al lavoro di Carrozzo, entrambi descrivono una
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Il lavoro documenta la possibilità di differenziare le forme focali di iperinsulinismo dalle forme diffuse attraverso la PET.
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Corrispondenza
dott. Carlo Dionisi-Vici, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, p.zza Sant’Onofrio 4, 00165 Roma • E-mail: [email protected]
231
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 232-240
MALATTIE METABOLICHE
Lo screening neonatale allargato per malattie
metaboliche ereditarie:
l’esperienza degli Stati Uniti d’America
Silvia Tortorelli, Piero Rinaldo
Biochemical Genetics Laboratory, Department of Laboratory Medicine, Mayo Clinic College of Medicine, Rochester, MN, USA
Riassunto
Nell’ultimo decennio la spettrometria di massa è stata adottata in un numero sempre maggiore di laboratori di screening neonatale. L’introduzione di questa
metodica ha radicalmente cambiato la concezione stessa di screening e si è passati dall’idea “un test-una malattia” all’identificazione di diverse decine di
condizioni con un solo rapido test.
Allo scopo di standardizzare i programmi di screening neonatale statunitensi, l’American College of Medical Genetics ha compilato una lista uniforme di
patologie. Parallelamente sono state portate avanti altre iniziative, quali l’elaborazione di linee guida riguardanti la presa in carico dei casi positivi e l’iter da
seguire per aggiungere nuove condizioni alla lista originaria.
In Minnesota a partire dal giugno 2004 è stata varata una parternship pubblico-privata tra Dipartimento della Salute Pubblica, Università del Minnesota e
Mayo Clinic. Una delle aree in cui il nostro laboratorio è particolamente attivo è la riduzione del numero di falsi positivi, con l’istituzione di un sistema a due
livelli. Questo sistema si avvale della disponibilità di tests specifici per markers, quali acido metilmalonico, omocisteina, acido metilcitrico, alloisoleucina
per citarni alcuni, che permettono di aumentare la specificità di analiti altrimenti non sufficientemente specifici.
Altro punto discusso è lo sviluppo e il monitoraggio di obiettivi e parametri di valutazione comparabili da inserire come parte integrante dei programmi di
screening.
In conclusione viene brevemente analizzata la situazione attuale in Italia.
Summary
In the last decade tandem mass spectrometry has been widely adopted in newborn screening laboratories. The introduction of this technique has profoundly
changed the idea of screening, going from the “one-test-for-one disease” concept to a multiplex approach that allows for the identification of more than
40 conditions.
To help standardize newborn screening program across US, the American College of Medical Genetics developed a uniform condition panel and related
projects, like the formulation of guidelines for follow up of abnormal results and a nomination process for new conditions to be included in the panel.
In June 2004 a public-private partnership has been launched, involving Minnesota Health Department, University of Minnesota and Mayo Clinic. Our laboratory is being particularly active in the effort to reduce the number of false positive results by developing a second-tier test strategy.
Another point of discussion is the development and monitoring of objective performance metrics as integral part of newborn screening programs.
We’ll end the review with a brief analysis of the today’s newborn screening situation in Italy.
Introduzione
L’efficacia di un test di screening neonatale si basa sulla capacità di
diagnosticare una patologia prima dell’apparire dei sintomi in modo
da intervenire tempestivamente riducendo morbidità e mortalità
connesse alla malattia in questione. Diverse patologie metaboliche
ben si adattano a questo tipo di approccio, in quanto una terapia
appropriata instaurata in fase preclinica è in grado di modificare
radicalmente la prognosi. I criteri di selezione delle patologie da
screenare si sono parzialmente modificati negli ultimi anni, in relazione anche all’acquisizione di nuove tecniche e metodiche. Non
solo vengono reputati importanti le caratteristiche cliniche della patologia, ma anche la disponibilità di approcci terapeutici, di tests di
screening specifici e sensibili, e di esperti professionisti.
Nell’arco degli ultimi dieci anni, un numero sempre maggiore di
laboratori di screening neonatale ha adottato la spettrometria di
massa (MS/MS). Questa metodica si basa sulla capacità di analizzare molecole dopo la loro conversione in ioni in funzione del loro
232
rapporto massa/carica. Il test si basa sull’analisi di amino acidi ed
acilcarnitine su uno spot del diametro di circa 5 mm di sangue essicato su carta bibula, preferibilmente in seconda giornata di vita. Il
tempo necessario per analizzare un singolo campione è poco più di
un minuto.
Come conseguenza diretta dell’introduzione di questa tecnica è aumentato notevolmente il numero di condizioni diagnosticabili con un
unico test.
Questo cambiamento se da una parte ha migliorato la diagnosi e
prevenzione di malattie metaboliche e non nel neonato, è stato seguito da notevoli discussioni e controversie (Tarini et al., 2006; Pollitt, 2007).
In questa review saranno presi in considerazione alcuni degli aspetti
e sviluppi più recenti che hanno caratterizzato questo processo di
trasformazione.
In particolare, saranno considerati:
• il processo di standardizzazione tra i vari laboratori statunitensi
Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie
con l’identificazione della cosiddetta lista uniforme di patologie da
screenare, elaborazione di linee guida riguardanti le suddette condizioni e di una strategia comune per aggiungere nuove malattie;
• il modello Minnesota come esempio di collaborazione tra diversi
enti e parti coinvolte nei programmi di screening neonatali;
• la creazione di un sistema con tests di secondo livello per diminuire il numero di falsi positivi, riducendo i costi complessivi e
migliorando la percezione dei programmi di screening neonatali
sia da parte dei pediatri di base che da parte dei genitori;
• i parametri di valutazione da inserire come parte integrante del
programma di screening, allo scopo di monitorarne e migliorarne le performances;
• lo sviluppo di programmi di collaborazione con l’obiettivo di utilizzare al meglio le risorse disponibili;
role newborn screening su siti quali Pubmed e Medline genera una
quantità impressionante di citazioni (più di 500.000 articoli).
Per questo motivo e visti gli scopi di questa review, la ricerca bibliografica è stata circoscritta solo ad alcune delle tematiche emergenti
in cui il nostro laboratorio è particolarmente coinvolto.
Oltre ad utlizzare i convezionali succitati modelli di ricerca bibliografica, sono stati consultati i seguenti siti:
• http://www.acmg.net;
• http://region4genetics.org/;
• http://genes-r-us.uthscsa.edu/index.htm;
dove sono reperibili informazioni utili sia per gli addetti ai lavori (personale di laboratorio, specialisti metabolici) sia per pediatri e specialisti di altre discipline, coinvolti nella gestione di risultati positivi.
Standarizzazione dei programmi di screening
• la situazione italiana.
Lista uniforme
Obiettivo e metodologia della ricerca bibliografica
L’argomento screening neonatale ha ricevuto una grande attenzione
negli ultimi anni. Una generica ricerca bibliografica inserendo le pa-
La MS/MS permette di analizzare rapidamente e in contemporanea
amino acidi e acilcarnitine in poche gocce di sangue. In questo modo,
è possibile screenare per oltre 40 malattie con un unico test (Tab. I).
Nonostante negli ultimi anni la MS/MS sia stata quasi universalmen-
Tabella I.
Elenco delle patologie incluse nella lista uniforme raccomandata dall’ACMG, raggruppate secondo la loro appartenenza al core panel o ai secondary targets.
Core panel
MS/MS
Non MS/MS
Acidurie organiche
Difetti della β-ossidazione
Aminoacidopatie
Emoglobinopatie
Acidemia isovalerica
Acidemia glutarica tipo I
Deficit di 3-idrossi
3-metil-glutaril CoA liasi
Acidemie metilmaloniche
(deficit di mutasi e di cobalamina A e B)
Deficit di 3-metilcrotonilCoA carbossilasi
Acidemia propionica
Deficit di β-chetotiolasi
Deficit di acil-CoA deidrogenasi a catena media
Deficit di acil-CoA deidrogenasi a catena molto lunga
Deficit di idrossiacil-CoA
deidrogenasi a catena lunga
Deficit della proteina
funzionale
Deficit del trasportatore
della carnitina
Fenilchetonuria
Malattia delle urine a
sciroppo d’acero
Omocistinuria
Citrullinemia tipo I
Acidemia Argininosuccinica
Tirosinemia tipo I
Anemia a cellule falciformi
Malattia da emoglobina
S-β-talassemia
Malattia da emoglobina S-C
Altre condizioni
Ipotiroidismo congenito
Deficit di biotinidasi
Sindrome adreno-genitale
Galattosemia
Ipoacusie
Fibrosi cistica
Secondary targets
MS/MS
Non MS/MS
Acidurie organcihe
Difetti della β-ossidazione Aminoacidopatie
Emoglobinopatie
Altre condizioni
Acidemie metilmaloniche
(deficit di cobalamina C e D)
Acidemia malonica
Deficit di isobutiril-CoA
deidrogenasi
Aciduria 2-metil 3-idrossi
butirica
Deficit di 2-metil butiril-CoA
deidrogenasi
Aciduria 3-metil glutaconica
Deficit di acil-CoA deidrogenasi a catena corta
Deficit multiplo di acil-CoA
deidrogenasi
Deficit di idrossiacil-CoA
deidrogenasi a catena
media/corta
Deficit di carnitina palmitoil
transferasi tipo II
Deficit del carnitina-acilcarnitina translocasi
Deficit di carnitina palmitoil
transferasi tipo IA
Deficit di dienoil reduttasi
Malattie da varianti
emoglobiniche
Deficit di galattochinasi
Deficit di uridin-difosfato
galattosio-4-epimerasi
Iperfenilalaninemie
Tirosinemia tipo II
Difetti della biosintesi del
cofattore biopterina
Argininemia
Tirosinemia tipo III
Difetti della rigenerazione
del cofattore biopterina
Ipermetioninemia
Citrullinemia tipo II
233
S. Tortorelli, P. Rinaldo
Figura 1.
Distribuzione della lista uniforme nei vari programmi di screening neonatale in US. La figura mostra come è distribuito il numero di patologie appartenenti al core panel (in grigio chiaro) e ai secondary targets (in grigio scuro) tra i vari programmi di screening neonatale in US.
te adottata come parte delle tecniche di screening nei vari laboratori
americani, esiste a tutt’oggi una notevole disparità riguardo al numero
di patologie screenate. Allo scopo di colmare tali differenze, l’American
College of Medical Genetics (ACMG) sotto l’egida del Maternal and Child Health Bureau ha sviluppato linee guida inerenti non solo al numero
e tipo di malattie da screenare ma riguardanti anche la standardizzazione e ottimizzazione del processo stesso (ACMG, 2006). Inizialmente
sono state prese in considerazione 84 patologie basandosi sui seguenti
criteri: quadro clinico, comprese incidenza, età d’esordio e storia naturale; esistenza e caratteristiche di appropriati test di laboratorio, con
particolare enfasi su metodiche in grado di analizzare più metaboliti
contemporaneamente e di utilizzare sangue raccolto su carta bibula;
benefici derivati da diagnosi precoce e disponibilità di esami diagnostici, terapie efficaci e personale specializzato per la presa in carico. Dalla
revisione dei dati generati, sono emersi tre gruppi di patologie:
• malattie che soddisfano tutti i criteri presi in cosiderazione e che
sono state incluse nella cosidetta lista uniforme o core panel;
• condizioni che pur non soddisfacendo appieno i criteri di valutazione entrano nella maggior parte dei casi in diagnosi differenziale con la malattie del gruppo precedente: i secondary
targets;
• malattie non adatte per lo screening neonatale, principalmente
per mancanza di appropriati tests diagnostici
Ad oggi (settembre 2008) la maggior parte degli stati americani ha
adottato lo screening allargato neonatale, includendo tutte o almeno la maggioranza delle patologie incluse nel core panel. Per legge
la lista uniforme di condizioni raccomandata dall’ACMG è applicata
Tabella II.
Descrizione del processo di nomina che deve seguire ogni patologia prima di essere inclusa nella lista uniforme.
Fase
Azione
Fase 1
Compilazione del modulo per la candidatura (comprensivo delle caratteristiche chiave della patologia, riguardanti attributi clinici, disponibilita terapeutiche ed analitiche e qualifiche dei proponenti)
Fase 2
Verifica della completezza del modulo e dell’idoneità della nomina alla revisione scientifica
Fase 3
Revisione scientifica (evidenced-based) da parte di un gruppo di esperti del materiale presentato
Inclusione nella lista uniforme
Esclusione nella lista uniforme
Richiesta di ulteriori studi
234
Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie
al 98% dei neonati statunitensi (Fig. 1). Per una lista aggiornata e
completa delle condizioni screenate nei diversi stati degli USA vedi
http://genes-r-us.uthscsa.edu/nbsdisorders.pdf.
ACMG fact sheets
Diversi studi hanno evidenziato la scarsa familiarità e preparazione da
parte dei medici e pediatri di base nei riguardi delle malattie metaboliche comprese nella lista uniforme (Thompson et al, 2005; Gennaccaro
et al, 2005). Per aiutare i professionisti coinvolti nella gestione di un
risultato positivo, l’ACMG ha dato vita ad un’altra iniziativa, parallela e
complementare alla precedente, riguardante la formulazione di linee
guida concernenti le azioni da attuare in seguito ad un risultato anormale. Esperti nei settori della endocrinologia, ematologia, malattie genetiche e metaboliche hanno formulato ACTion sheets specifiche per
ogni analita screenato, visibili all’indirizzo internet http://www.acmg.
net/resources/policies/ACT/condition-analyte-links.htm.
Tali documenti sono rivolti principalmente proprio ai pediatri e medici di famiglia e forniscono informazioni su diagnosi differenziale,
sintomatologia, prognosi e conseguenze cliniche, e tests di conferma diagnostica; forniscono inoltre direttive su come agire per l’immediato follow-up. Sono inoltre disponibili algoritmi diagnostici per
i diversi marker biochimici di facile consultazione che forniscono
un lista completa delle analisi di follow-up che devono essere intraprese ogni qualvolta un neonato viene diagnosticato positivo allo
screening per determinare l’autenticità del risultato.
Aggiunta di altre condizioni
La lista uniforme di malattie raccomandate dall’ACMG è destinata a
crescere. Alcune condizioni non necessitano di nuove metodiche o tecnologie e potranno essere screenate semplicemente utilizzando diversi
cut-offs e tests di secondo livello già utilizzati per differenti scopi (vedi
paragrafo Sistema a due livelli). Già numerose patologie sono state
prese in considerazione come futuri nuovi targets (Rinaldo, 2008). Per
molte di tali condizioni sono già in atto validazione clinica e studi pilota
(Meikle et al, 2006; Gelb et al, 2006; Kroll et al, 2006; Hubbard et al,
2006; Carducci et al, 2006). Dall’anno scorso è stato pubblicato l’iter
che una patologia deve seguire per poter essere aggiunta al core panel
(Tab. II) (Green et al, 2007). Tra i requisiti essenziali per l’inserimento
sono la disponibilità di studi pilota prospettici e alta specificità e sensibilità dei metodi utilizzati. Un’altra caratteristica preferenziale è la possibilità di screenare più condizioni con la stessa metodica.
Il “modello Minnesota”
Nel giugno 2004 è stata varata una partnership pubblico-privata tra
Dipartimento della Salute Pubblica del Minnesota (MDH), Università
del Minnesota e la Mayo Clinic. Questo modello presenta diversi elementi innovativi, alcuni dei quali sono elencati di seguito:
• la parte analitica è suddivisa tra Mayo Clinic, responsabile dello
screening mediante MS/MS, e MDH che screena per emoglobinopatie, ipotiroidismo congenito, fibrosi cistica, deficit di biotinidasi, galattosemia, e sindrome adrenogenitale;
• disponibilità di tests di secondo livello allo scopo di ridurre il
numero di falsi positivi;
Figura 2.
Il Modello Minnesota. La figura mostra come le diverse componenti coinvolte nel programma di screening neonatale del Minnesota siano interconnesse.
235
S. Tortorelli, P. Rinaldo
• rapido e tempestivo follow-up, con estesa comunicazione (tramite telefono, fax e sito web sicuro) tra le diverse parti e coinvolgimento dello specialista clinico sin dall’inizio del processo
diagnostico (Fig. 2).
Lo scopo è di espandere e migliorare l’intero processo di screening
ad iniziare dalla parte analitica per continuare con la tempestiva ed
efficace comunicazione di un risultato anormale sino a conferma
diagnostica e presa in carico del paziente.
La notifica di un risultato anormale utilizza diversi canali, quali
telefono, fax e sito web sicuro. In particolare l’utilizzo di un sito
web sicuro permette di comunicare in tempo reale con tutte le
persone coinvolte nel processo rispettando le leggi federali riguardo la privacy. Nel momento in cui al pediatra di famiglia viene
notificato un risultato anormale, sono informate anche tutte le
altre parti interessate (MDH, laboratorio, specialista metabolico).
In questo modo la conferma diagnostica e la presa in carico da
parte dello specialista avvengono in modo appropriato e senza
ritardi. Un altro vantaggio è la rapida esecuzione del follow-up a
breve termine, che nella maggior parte dei casi viene completato
entro 24 ore.
Dal gennaio 2006 è stato istituito un protocollo specifico per i neonati di peso inferiore ai 1800 grammi. In questi casi, oltre allo screening iniziale prelevato in seconda giornata di vita, vengono richiesti
due successivi prelievi a 14 e 30 giorni allo scopo di minimizzare il
numero di falsi positivi, legati ad artefatti terapeutici o dietetici, e
negativi, dovuti principalmente a terapia steroidea (Gatelais et al,
2004) e ad immaturità dell’asse ipotalamico-ipofisario con inadeguata sintesi di hTSH nel prematuro (Tylek-Lemanska et al, 2005),
che possono mascherare rispettivamente casi di sindrome adrenogenitale e di ipotiroidismo congenito.
Sistema a due livelli (2nd tier testing)
Contenere il numero di falsi positivi è uno degli obiettivi primari di
un programma di screening neonatale. Lo scopo è duplice: riduzione
dei costi associati al follow-up, e inoltre controllo dell’aumento del
livello di stress e del rischio di un’alterata relazione genitore-figlio,
che diversi studi hanno evidenziato anche nei casi di risultati falsi
positivi (Hewlett e Waisbren, 2006; Gurian et al, 2006).
A questo proposito, un’attenta e accurata interpretazione post-analitica, pur indispensabile, non sempre è sufficiente ad evitare followup clinici e laboratoristici non necessari.
Per ovviare a questa situazione, il nostro laboratorio è attivamente coinvolto nello sviluppo di tests di secondo livello per migliorare
l’outcome di metodi (immunoassay per la sindrome adreno-genitale)
e analiti (tirosina come marker diagnostico per la tirosinemia tipo
I, metionina per l’omocistinuria, isoleucina/leucina per la malattia
delle urine a sciroppo d’acero, propionilcarnitina per acidemie metilmalonica e propionica) particolarmente problematici.
Sindrome adreno-genitale
I tests immunologici utilizzati per lo screening della sindrome adreno
genitale (SAG) sono associati ad un alto numero di falsi positivi, con
un conseguente valore predittivo positivo (PPV) < 1% (Olgemoller
et al., 2003). Numerose cause contribuiscono alla scarsa sensibilità del test. Gli anticorpi usati reagiscono aspecificamente con altri
steroidi, in particolare con il 17-idrossipregnenolone che tende ad
essere elevato nei neonati, l’enzima 11-β-idrossilasi è immaturo nel
prematuro, e i livelli di 17 idrossiprogesterone (17OHP) sono elevati
in neonati con gravi patologie (Gatelais et al., 2004).
236
Tutti i casi positivi al test immunoenzimatico vengono ritestati in
meno di 24 ore mediante un metodo che utilizza la LC-MS/MS e
che misura non solo il 17OHP, ma anche altri steroidi, permettendo
la valutazione di altri parametri, quali l’aumento di androstenedione
e riduzione di cortisolo (Lacey et al, 2004). Questo approccio ha permesso di ridurre il numero di falsi positivi allo 0,06% e di aumentare
il valore predittivo positivo a 7.3% nel periodo compreso tra giugno
2004 e marzo 2007 (Matern et al, 2007).
Tirosinemia tipo I – Succinilacetone
Per quanto riguarda altri tests di secondo livello entrati nella nostra
pratica clinica, il dosaggio del succinilacetone mediante LC-MS/MS
è diventato obsoleto quando, nel maggio del 2007, tale metabolita
è diventato parte degli analiti misurati nel test di primo livello (Turgeon et al, 2008; La Marca et al, 2008). Dal gennaio 2005 ad aprile
2007, ogni valore di tirosina superiore a 150 μmol/L (corrispondente
al 97 percentile della popolazione normale) veniva rianalizzato per
la presenza di succinilacetone. Diversi parametri venivano adottati
per neonati di peso inferiore a 2500 grammi e/o di età gestazionale
inferiore alle 36 settimane (Magera et al, 2006). In questo modo si è
ridotto notevolmente il numero di falsi positivi dovuti alla molto più
frequente ipertirosinemia transitoria benigna del neonato. Tuttavia
è noto che neonati affetti da tirosinemia tipo I possono avere livelli
di tirosina completamente comparabili con la popolazione normale
nei primi giorni di vita (Tanguay, 2001; Turgeon et al, 2008). Quindi
la pratica di analizzare per la presenza di succinilacetone solo i casi
con elevata tirosina rischia di non identificare circa il 25% di casi di
tirosinemia tipo I (Turgeon, Magera et al, 2008).
Metilmalonico acidemie, propionico acidemia e omocistinuria
– Acido metilmalonico, e omocisteina
Un aumento di propionilcarnitina è un evento relativamente frequente, circa 1 campione ogni 2000 testati. Come nel caso della
tirosina, basandosi solo sulla propionilcarnitina come marker per
la diagnosi delle metilmalonico acidurie, il numero di falsi positivi
è troppo elevato, e la possibilità di non diagnosticare casi di difetti
di cobalamina C è tangibile, in quanto circa il 10% di questi casi
si presenta alla nascita con un valore di C3 < 5.25 μmol/L. Questi
dati hanno portato allo sviluppo di un metodo che analizza omocisteina e acido metilmalonico nello stesso campione mediante
LC-MS/MS (Cuthbert, 2005). Questo stesso test si rileva utile anche per aumentare la specificità analitica della metionina, come
marker per l’omocistinuria. Inoltre, bassi livelli di metionina sono
stati riscontrati in neonati con difetti di rimetilazione, un gruppo di
patologie che trae notevole giovamento da una diagnosi presintomatica (Strauss et al, 2007). È quindi possibile screenare anche
per questo gruppo di malattie, in quanto si presentano alla nascita
con livelli di metionina inferiore all’1 percentile della popolazione e
con elevata omocisteina.
Malattie delle urine a sciroppo d’acero – Alloisoleucina
L’ultimo, in ordine di tempo, test di secondo livello ad essere inserito nella nostra pratica è il dosaggio dell’alloisoleucina, marker
patognomonico per malattie delle urine a sciroppo d’acero (MSUD)
(Oglesbee et al., 2008). Lo screening con MS/MS permette la misurazione degli amino acidi a catena ramificata. Tuttavia non permette la distinzione tra gli isomeri leucina, isoleucina, alloisoleucina
e idrossiprolina. Inoltre un aumento dei questi analiti è un evento
che coinvolge circa lo 0,1% di tutti i campioni analizzati nel nostro
laboratorio (Matern et al, 2007). La possibilità di quantificare specificamente l’alloisoleucina, permette di ridurre notevolmente il nu-
Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie
mero di falsi positivi, spesso correlati a artefatti dietetici (nutrizione
parenterale totale).
Parametri di valutazione (Performance metrics)
Specificità e sensibilità sono da sempre considerati i parametri
ideali per la valutazione delle prestazioni di un test. In particolare,
viene preferita l’assenza di falsi negativi, ovvero una sensibilità del
100%, a discapito di un maggior numero di falsi positivi. Tuttavia
una specificità del 99,76% in una popolazione annua di 4.1 milioni
come quella degli Stati Uniti determina ipoteticamente un numero
insostenibile di falsi positivi (Rinaldo, 2008). Altri parametri sembrano più appropriati per determinare la validità di un programma di
screening neonatale, quali il tasso di identificazione (detection rate:
DR), il valore predittivo positivo (positive predictive value: PPV) e il
tasso di falsi positivi (false positive rate: FPR). La Tabella III elenca
i dati estrapolati dalla letteratura. Dall’introduzione dello screening
con MS/MS in Minnesota, il PPV è passato dal 4% nel 2001 al 54%
nei primi 8 mesi del 2008 con una riduzione del numero di falsi
positivi ed un incremento del tasso di identificazione (Fig. 3). L’introduzione nella pratica clinica di tests di secondo livello ha sicura-
mente contribuito in modo determinante ad aumentare specificità e
sensibilità. Un altro importante strumento, a questo proposito, è la
determinazione dei cosiddetti disease ranges, ovvero i valori degli
analiti di interesse nei casi con patologia confermata (vedi paragrafo
successivo).
Region 4 Genetics Collaborative
Il Region 4 Genetics Collaborative è uno dei sette consorzi regionali
(Fig. 4) nati nel 2004 a seguito dello stanziamento di fondi da parte dell’agenzia governativa Maternal Child Health Bureau of Health
Resources and Service Administration (MCHB/HRSA) allo scopo di
migliorare ed uniformare i programmi di screening neonatale, promuovendo la collaborazione tra i vari laboratori e dipartimenti della
salute.
Sette stati nella regione dei Grandi Laghi fanno parte di tale progetto
con circa 730.000 nati all’anno.
Uniformità nel numero di malattie screenate nella regione, miglioramento delle performances analitiche, e riduzione delle differenze di
accesso ai servizi di diagnosi e cura sono alcuni degli obiettivi iniziali
del progetto di collaborazione.
Figura 3.
Distribuzione dei parametri di valutazione (tasso di individuazione (Det. Rate 1:XXXX), tasso di falsi positivi (FPR) e valore predittivo positivo (PPV))
dal 2001 al maggio 2008 per quanto riguarda lo screening neonatale allargato in Minnesota. Mentre il tasso di falsi positivi si e’ ridotto nel tempo
con conseguente aumento del valore predittivo positivo, il tasso di individuazione e’ rimasto stabile.
237
S. Tortorelli, P. Rinaldo
Tabella III.
Comparazione dei dati pubblicati riguardo ai parametri di valutazione in diversi programmi di screening neonatale.
Programma
USA – North Carolina
DR
PPV
FPR
Durata dello
studio
Volume
Referenza
bibliografica
1:4300
53%*
ND
8 anni (1997-2005)
944078
Frazier et al, 2006
8%§
9%
0,3%
2 anni
>160.000
Zytkovicz et al, 2001
USA – New England
Germania
1:2400
11,31%
0,33%
3 anni 5 mesi
250.000
Schulze et al, 2003
USA – California
1:6939
11%
0,49%-0,07%
18 mesi
353894
Feuchtbaum et al, 2006
Mexico
(Stato di Neuvo Leon)
1:5000
4%
0.22%
2 anni
42.264
Torres-Sepulveda et al,
2008
Australia –
New South Wales
1:6350
10%
0,1%
4 anni
362.000
Wilcken et al 2003
(Wilcken, Wiley et al. 2003)
4 anni 2 mesi
371.519
Dati non pubblicati
USA – Minnesota
1:1652
44%
0,08%
Valori ideali
1:3000
>20%
< 0,3%
* Per gli anni 2003-2004; § rispettivamente per amino acidi e acilcarnitine; ND: non disponibile
Figura 4.
Divisione delle Region Genetics Collaboratives. Gli Stati Uniti sono divisi
in sette consorzi regionali. Ogni gruppo comprende da 5 stati a 10 stati
raggruppati geograficamente.
NEGC: New England Genetics Collaborative
NYMAC: New York – Mid Atlantic Consortium for Genetic and Newborn
Screening Services
MSGRCC: Mountain States Genetics Regional Collaborative Center
Uno dei punti principali del progetto è lo sviluppo di standards e
parametri di valutazione basati sull’evidenza clinica, creando le premesse per attiva collaborazione, comunicazione e confronto tra laboratori. Tale iniziativa non è solo riservata ai laboratori facenti parte
della Region 4 Genetics Collaborative ma è estesa ad ogni laboratorio
americano o internazionale che sia disposto a contribuire attivamente alla raccolta dati. Ad oggi (settembre 2008), 95 laboratori hanno
aderito all’iniziativa. I dati raccolti riguardano la strumentazione in
uso, percentili nella popolazione normale per tutti gli analiti e relativi
rapporti, valori di riferimento utilizzati, numero di casi positivi che in
8 anni sono stati confermati con altri test biochimici e/o molecolari
(5809 casi, Fig. 5) e parametri di valutazione, quali quelli discussi nel
precedente paragrafo.
Nel 2005 in Kentucky è passata la legge che aumentava il numero delle condizioni da screenare alla nascita da 4 a 31, con successiva introduzione della MS/MS come metodica integrante dello
screening. Nei primi undici mesi di vita del nuovo programma, sono
238
Figura 5.
Numero dei casi positivi confermati suddivisi per provenienza geografica.
stati testati 59,605 neonati e sono stati identificati 46 casi con 10
diverse patologie, con un tasso di identificazione di 1:1295 e un
tasso di falsi positivi dello 0,21% (Lim, 2007). La costituzione della
Region 4 Genetics Collaborative è stata particolarmente funzionale
al raggiungimento di tali parametri in un tempo relativamente breve.
I tests di secondo livello, disponibili nel nostro laboratorio, sono stati
inclusi nella pratica quotidiana allo scopo di aumentare la specificità
di alcuni analiti.
La situazione italiana
In Italia, la legge-quadro n. 104 del 5 maggio 1992 e la legge n. 548,
23 dicembre 1993, Decreto del Presidente del Consiglio, 9 luglio
1993 hanno stabilito l’obbligatorietà, nel periodo neonatale, degli
accertamenti utili alla diagnosi precoce delle malformazioni e del
controllo per l’individuazione e il tempestivo trattamento dell’ipotiroidismo congenito, della fenilchetonuria e della fibrosi cistica.
Da allora, in alcuni programmi regionali lo screening è stato esteso
ad altre patologie quali leucinosi, galattosemia, sindrome adrenogenitale, difetto di biotinidasi e il deficit di G6PD.
Una delibera regionale del 2004 prevede lo screening allargato ob-
Lo screening neonatale allargato per malattie metaboliche ereditarie
bligatorio per tutti i neonati toscani a cui si sono aggiunti nel 2006
anche quelli appartenenti all’ASL 1 umbra. Inoltre alcuni altri centri
hanno iniziato negli ultimi anni studi pilota con l’utilizzo della spettrometria di massa (Cerone et al, 2007). I dati pubblicati riguardanti
lo screening di 170.983 neonati indicano un tasso di identificazione
(1:1878) simile a quello derivato dalle esperienze di altri paesi.
Recentemente, la legge finanziaria 2008 (Legge 244 del 24 dicembre 2007), che prevede uno stanziamento di tre milioni di euro per
l’estensione dello screening neonatale allargato in tutto il territorio
nazionale (disegno di Legge n.1815), è stata approvata in via definitiva dal Senato.
La situazione Italiana attuale è molto simile a quella degli Stati Uniti
di diversi anni fa, con alcuni centri altamente qualificati che offrono
uno screening esteso ma solo nella loro regione, mentre la grande
maggioranza dei neonati rimane esclusa. Ci si augura che il successo americano di standardizzazione e particolarmente l’esempio
del Region 4 Genetics Collaborative, a cui partecipano ben sette laboratori Italiani, possano portare in tempi brevi ad una situazione
di simile uniformità nel nostro paese. A prescindere dai principi di
universalità e di uguali diritti dei cittadini, vale la pena di ricordare
che ulteriori espansioni del pannello uniforme di screening neonatali
sono molto probabili nei prossimi anni, con un rischio tangibile di
trovarsi ancora più in ritardo in confronto ai paesi all’avanguardia in
questo settore molto importante di medicina pediatrica preventiva.
Box di orientamento
L’adozione della spettrometria di massa ha rivoluzionato l’ approccio tradizionale allo screening neonatale, creando notevoli vantaggi e anche sollevando alcune questioni:
• espansione del numero di malattie screenabili con un unico test, utilizzando un unico campione;
• necessità di standardizzare vari programmi di screening, con la creazione di una lista uniforme di malattie uguale per tutti e formulando linee guida
per il follow up dei casi positive e una strategia comune per aggiungere nuove patologie alla suddetta lista;
• strategie di riduzione del numero di falsi positivi, quali lo sviluppo di tests di secondo livello, mantenendo basso il numero di falsi negativi e contenendo i costi complessivi legati ai tests di conferma;
• inclusione di parametri di valutazione quali tasso di identificazione (detection rate), valore predittivo positivo (positive predictive value) e tasso di
falsi postivi (false positive rate) nella pratica laboratoristica per monitorare le prestazioni dei programmi di screening;
• opportunità di migliorare le performances analitiche e ridurre le differenze di accesso ai servizi di diagnosi e cura con la creazione di progetti di
collaborazione tra enti specializzati.
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Corrispondenza
prof. Piero Rinaldo, Biochemical Genetics Laboratory, Department of Laboratory Medicine and Pathology, 200 First Street SW, Rochester, Minnesota
55905, USA • E-mail: [email protected]
240
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 241-248
MALATTIE METABOLICHE
Terapia genica per le malattie metaboliche
ereditarie
Nicola Brunetti-Pierri
Department of Molecular and Human Genetics, Baylor College of Medicine, Houston, TX, USA
Riassunto
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie si basa su terapie dietetiche, farmacologiche e cellulari (trapianto epatico). Nonostante tali interventi
queste malattie continuano ad avere una sostanziale morbidità e mortalità ed è pertanto necessario sviluppare terapia alternative. Sono trascorsi circa
20 anni da quando sono cominciati i primi trial clinici di terapia genica per le malattie genetiche. Nonostante ci sia stato un significativo progresso nella
sperimentazione preclinica con una ampia varietà di modelli animali e di vettori di terapia genica, la sperimentazione nell’uomo è stata finora abbastanza
deludente. Attualmente i principali sforzi sono concentrati nell’elucidare le interazioni ospite-vettore e nella manipolazione di tali interazioni per migliorare
l’indice terapeutico dei vettori per la terapia genica. Il futuro degli studi clinici sarà determinato da un’attenta analisi del bilancio tra l’indice terapeutico
dei vettori e la storia naturale della malattia.
Summary
The treatment for inborn errors of metabolism has focused on dietary, pharmacological, enzyme replacement, and cell therapies (liver transplantation).
However, significant morbidity and mortality still remain and alternative strategies are needed. It has been about 20 years since human gene therapy trials
were initiated for genetic diseases. Although there has been a significant progress in the preclinical arena in a variety of disease models with a variety of
gene therapy vectors, sustained effect in humans has still eluded the field. Current efforts are aimed at understanding host-vector interactions and at the
manipulation of these interactions to increase the therapeutic index of gene therapy vectors. The balance between the therapeutic index and the disease
natural history will determine the future of clinical studies and their outcomes.
Introduzione
Per la maggior parte delle malattie metaboliche ereditarie, gli attuali
approcci terapeutici si basano su interventi dietetici, su somministrazione di vitamine, cofattori di reazioni enzimatiche e farmaci che
Figura 1.
Numero di trial clinici di terapia genica e rispettive indicazioni. 110 trial
clinici, pari all’8,2% del totale, sono diretti al trattamento delle malattie
monogeniche. I dati sono riportati dal sito web The Journal of Gene Medicine Clinical Trial che fornisce informazioni aggiornate su trial di terapia
genica passati e in corso in tutto il mondo (sito web: http://www.wiley.
co.uk/wileychi/genmed/clinical/; data di accesso: 4 Maggio, 2008).
attivano vie metaboliche alternative o che aumentano l’eliminazione
di prodotti intermedi tossici, e sulla terapia enzimatica sostitutiva.
Purtroppo la maggior parte di questi interventi è spesso insufficiente, soprattutto in occasione di malattie intermittenti o quando vi è
attivazione di uno stato catabolico. In anni recenti il trapianto epatico
ha modificato in maniera significativa la prognosi di alcune di queste
malattie ma la mortalità peritrapianto, la morbidità a lungo termine e
le complicazioni legate alla terapia immunosoppressiva rimangono
dei problemi importanti nel considerare questa opzione terapeutica.
Il trapianto di cellule epatiche offre alcuni vantaggi rispetto al trapianto, tuttavia questa strategia non è ancora molto efficace e non
esclude il bisogno della immunosoppressione. La terapia genica ha
l’enorme potenziale di poter curare in maniera definitiva molte di
queste malattie. Sebbene fosse stata sviluppata per il trattamento
delle malattie genetiche, la terapia genica ha progressivamente trovato applicazioni soprattutto nel campo delle malattie oncologiche,
infettive e cardiovascolari (Fig. 1). L’ampia varietà di applicazioni cliniche dimostra come la terapia genica si stia imponendo come una
nuova realtà della medicina con una caratteristica unica rispetto agli
altri farmaci: la possibilità di applicazioni in molteplici discipline. Malattie neurologiche, respiratorie, cardiache, infettive possono infatti
essere influenzate dalla nostra capacità di trasferire geni terapeutici
alle cellule.
Terapia genica: principi generali
La terapia genica utilizza una classe di farmaci biologici nuova e
complessa. Questi farmaci sono composti, nella maggioranza dei
casi, da molteplici proteine precisamente assemblate e dal DNA
come principio attivo. Nonostante la complessità farmacologica,
241
N. Brunetti-Pierri
Figura 2.
Trasduzione della cellula bersaglio. La particella virale contenente il
gene terapeutico (o reporter) si lega alla cellula mediante un meccanismo di riconoscimento recettoriale. Il capside virale viene disassemblato (uncoating) nel citoplasma e il genoma del vettore raggiunge il
nucleo nel quale può persistere in uno stato episomiale o integrarsi nel
genoma della cellula ospite. In entrambi i casi il gene terapeutico (o
reporter) ha la capacità di esprimere il suo prodotto proteico.
l’obiettivo è semplice: aggiungere uno specifico gene alle cellule
di un tessuto bersaglio. Questo processo è definito “trasduzione”
(Fig. 2). La terapia genica ha applicazioni nelle malattie genetiche
in cui il gene terapeutico può sostituirsi al gene endogeno incapace
di esercitare la sua normale funzione. Nella maggioranza dei casi la
terapia genica è praticata utilizzando virus geneticamente modificati, denominati “vettori”, in cui le proprietà litiche sono eliminate
mentre è preservata la capacità di trasferire geni. Tipicamente, l’efficacia e la sicurezza dei vettori per la terapia genica viene valutata
prima in cellule in coltura e poi nei topi di laboratorio. Al contrario
della maggioranza dei farmaci in cui gli studi preclinici fino a questo livello possono essere sufficienti, per i vettori di terapia genica
sono indispensabili ulteriori studi in animali di grossa taglia (Fig. 3).
Le proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche dei vettori sono
infatti notevolmente differenti dal topo all’uomo e le prove tossicologiche nei topi sono molto imprecise nel predire i risultati nell’uomo.
I vettori adenovirali rappresentano un classico esempio di questa
discrepanza di reazioni. L’uomo infatti può manifestare segni di tossicità alle stesse dosi di vettore (calcolate per kg di peso corporeo)
che vengono invece tollerate molto bene dai topi. Quando è possibile i test negli animali di grossa taglia vanno effettuati nel modello
animale della malattia che si vuole trattare, in quanto sia l’efficacia
che la sicurezza possono essere valutate in maniera concomitante.
Se ciò non è possibile, gli esperimenti vengono condotti in grossi
animali non affetti e usando un gene reporter il cui prodotto può
essere localizzato o misurato nei tessuti o nel sangue. Va precisato
però che anche gli animali di grossa taglia non sono assolutamente
predittivi della risposta nell’uomo. Un tipico esempio è la risposta
mediata dai linfociti T citossici (CTL) contro i vettori adeno-associati
(AAV) che nella fase preclinica non fu osservata in nessuna delle
242
Figura 3.
Percorsi dalla sperimentazione preclinica all’uomo. L’efficacia e la sicurezza dei vettori per la terapia genica viene valutata in cellule in coltura,
poi nei topi di laboratorio e infine negli animali di grossa taglia prima di
passare alla sperimentazione nell’uomo. Se possibile andrebbero usati
animali di grossa taglia affetti dalla stessa malattia che si vuole trattare
nell’uomo. Ciò ad esempio è stato possibile per l’emofilia B perché esiste un modello canino della malattia che ricapitola fedelmente la malattia umana. Tuttavia vi è un ristretto numero di modelli di malattie umane
in animali di grossa taglia e animali non affetti iniettati con vettore che
esprime un gene reporter vengono usati in alternativa. I primati sono
preferiti come animali di grossa taglia perché più fedelmente predicono
la risposta nell’uomo.
specie (topi, cani, primati) analizzate ma fu poi evidenziata nel trial
clinico (Manno et al., 2006).
Nell’ambito del trattamento delle malattie genetiche vi è un altro
potenziale problema, indipendente dal tipo di vettore usato, costituito dal rischio di risposta immune contro il prodotto del gene terapeutico. Il rischio di risposta immune è più elevato nei pazienti
con mutazioni null, in cui il sistema immune non è stato mai stati
esposto alla proteina. Alcune strategie di immunomodulazione sono
state considerate per superare questo importante problema (Jiang
et al., 2002).
Strategia della ricerca
La terapia genica per le malattie genetiche ha avuto un considerevole sviluppo a livello preclinico negli ultimi anni e in un numero
limitato di casi è stata intrapresa la sperimentazione nell’uomo. In
questa revisione abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla terapia genica diretta alle malattie metaboliche ereditarie trattando
non ciascuno dei vari studi, ma piuttosto affrontandone i risultati
generali, i principi e i limiti e considerando alcuni esempi specifici.
La ricerca bibliografica è stata per queste ragioni “mirata” agli studi
giudicati più significativi e con maggiore potenzialità clinica.
Tappe principali nello sviluppo della terapia genica
Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, gli studi con oncoretrovirus aviari e murini hanno dimostrato che i retrovirus hanno
la capacità di trasferire determinati geni alle cellule eucariotiche
rendendole cancerose. Da questi esperimenti è nata l’idea di usare
i virus per trasferire geni a scopo terapeutico. Prima che i virus potessero essere usati per finalità terapeutiche, era però necessario
che fossero modificati in modo da renderli incapaci di replicarsi e
danneggiare le cellule infettate. Questo obiettivo fu raggiunto eliminando i geni coinvolti nella replicazione virale mediante tecniche di
biologia molecolare. In effetti, una delle prime applicazioni di terapia
Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie
genica è stata effettuata proprio in un modello di malattia metabolica, la sindrome di Lesch-Nyhan, usando retrovirus per trasferire
ex vivo il gene HPRT a cellule del midollo osseo (Miller et al., 1984).
Questi studi posero le basi per i primi trial clinici di terapia genica, incluso il trial per la deficienza di adenosina deaminasi (Aiuti et
al., 2002; Bordignon et al., 1995) e per la immunodeficienza severa
combinata (SCID) X-linked (Cavazzana-Calvo et al., 2000). Da quel
momento in poi c’è stata una considerevole espansione negli studi
di terapia genica con lo sviluppo di nuovi sistemi di vettori per il
trasferimento genico e la loro applicazione ad una vasta gamma di
modelli animali di malattie genetiche e acquisite. Dopo i retrovirus, i
vettori adenovirali hanno avuto una significativa attenzione e furono
usati prima in un trial clinico per la fibrosi cistica (Crystal et al.,
1994) e poi in uno per il difetto di ornitina transcarbamilasi (OTC)
(Raper et al., 2002). Purtroppo il trial per la fibrosi cistica ha dato
risultati deludenti e quello per il difetto di OTC fu sospeso in seguito
alla morte di uno dei pazienti arruolati. Poco dopo fu la volta degli
AAV a dominare la scena della sperimentazione clinica con un primo trial per via intramuscolare e con un secondo per via sistemica
per la terapia diretta al fegato. Sfortunatamente entrambi gli studi,
eseguiti in pazienti con emofilia B, non hanno mantenuto le aspettative generate. Negli stessi anni però si è ottenuto, in una forma di
SCID, un chiaro esempio di successo della terapia genica nell’uomo
usando vettori retrovirali per trasdurre ex vivo cellule emopoietiche
(Hacein-Bey-Abina et al., 2002). Tuttavia, anche in questo caso la
terapia genica non è stata completamente priva di complicazioni
con lo sviluppo di leucemia linfoblastica acuta a cellule T in alcuni
dei pazienti trattati (Hacein-Bey-Abina et al., 2003). È stato stabilito
che questa complicazione è secondaria all’integrazione del vettore
retrovirale in prossimità di un proto-oncogene con conseguente aumento dell’espressione e trasformazione maligna (Deichmann et al.,
2007; Hacein-Bey-Abina et al., 2003). L’insorgenza di queste severa
reazione avversa ha sollevato preoccupazioni, ma tali rischi vanno
valutati alla luce della completa risoluzione della immunodeficienza
in una forma altrimenti letale di malattia.
I vettori per la terapia genica
Molteplici sistemi vettoriali sono attualmente disponibili per il trasferimento genico e ciascuno di questi ha un suo caratteristico tropismo e specifici vantaggi e svantaggi (Tab. I). Le caratteristiche fiosiopatologiche di una determinata malattia possono indirizzare nella
scelta del vettore più adatto per quella specifica applicazione. La
capacità di esprimere il gene terapeutico a lungo termine è una caratteristica che i vettori devono garantire per la terapia delle malattie
metaboliche. Alcuni di questi vettori usati nelle malattie metaboliche
ereditarie sono discussi in dettaglio nei successivi paragrafi.
Retrovirus
I vettori retrovirali (RV) trasducono in maniera efficiente cellule in
fase attiva di replicazione e le cellule del sistema emopoietico in
particolare. Perciò i RV hanno trovato principale applicazione nelle
malattie ematologiche mentre hanno un uso limitato per la terapia
genica diretta al fegato. I RV possono integrare il loro genoma in
maniera efficiente nel genoma della cellula ospite e garantire così
l’espressione a lungo termine del gene terapeutico. L’integrazione
tuttavia aumenta il rischio di cancerogenesi inserzionale, come evidenziato dal trial per la SCID. Sono in corso studi che hanno come
obiettivo la produzione di RV che integrano in siti specifici del genoma riducendo così il rischio di tumorigenesi.
Lentivirus
I vettori lentivirali (LV) sono derivati dal retrovirus responsabile dell’HIV e al contrario dei RV possono trasferire geni anche a cellule che non sono in fase di divisione attiva. I LV possono trasdurre
cellule staminali ematopoietiche e sono promettenti per la terapia
di malattie ematologiche. In seguito alla somministrazione per via
sistemica, la trasduzione degli epatociti è in genere ridotta perché la
maggioranza delle cellule epatiche infettate da LV sono di tipo non
parenchimale, soprattutto cellule di Kupffer. I LV hanno un buon tropismo verso le cellule del sistema nervoso centrale (SNC) e stanno
Tabella I.
Principali vettori per la terapia genica.
Vantaggi
Svantaggi
RV
• Assenza di risposta immune
• Espressione a lungo termine
• Rischio di carcinogenesi
• Trasduzione solo di cellule in mitosi
LV
• Trasduzione in cellule quiescienti
• Assenza di risposta immune
• Espressione a lungo termine
• Integra in geni trascrizionalmente attivi
• Rischio di generare HIV competente per replicazione
Ad
• Trasduzione in cellule quiescienti
• Ampia capacità di clonaggio
• Alti livelli di trasduzione
• Espressione a lungo termine (HDAd)
• Tossicità acuta
AAV
• Trasduzione in cellule quiescienti
• Espressione a lungo termine
• Capacità di clonaggio limitata
• Reazione immune CTL-mediata
HSV
• Trasduzione in cellule quiescienti
• Espressione a lungo termine
• Possibili problemi di immunità innata e adattiva
pDNA
• Trasduzione in cellule quiescienti
• Assenza di risposta infiammatoria
• Ampia capacità di clonaggio
• Espressione a lungo termine
• Facilità di produzione
• Bassa efficienza di transduzione
• Assenza di un metodo clinicamente rilevante per efficiente
trasferimento genico
Abbreviazioni: RV = vettori retrovirali; LV = vettori lentivirali; Ad = vettori adenovirali; AAV = vettori adeno associati; HSV= vettore derivato dal virus
herpes simplex; pDNA = DNA plasmidico nudo; “HDAd = vettore adenovirale helper-dipendente
243
N. Brunetti-Pierri
trovando grossa applicazione in malattie neurologiche (Kordower et
al., 2000). Finora il problema della carcinogenesi inserzionale non è
stato riportato in animali trattati con LV e sembra che la integrazione
dei LV non sia casuale ma specifica per geni trascrizionalmente attivi
(Mitchell et al., 2004).
Adenovirus
I vettori adenovirali possono trasdurre un’ampia varietà di cellule
quiescienti. I primi vettori adenovirali usati, gli adenovirus di prima
generazione (FGAd), sono deleti soltanto per i geni responsabili
della replicazione e perciò sono incapaci di replicare e produrre
una infezione attiva. Iniettati per via sistemica, hanno un’alta efficienza di trasduzione epatica. Tuttavia poiché il genoma virale
contiene alcune sequenze virali codificanti che esprimono a bassi
livelli alcune proteine virali, le cellule trasdotte vengono riconosciute ed eliminate dal sistema immune causando una risposta
tossica e perdita di espressione del gene terapeutico dopo poche
settimane dell’iniezione. Pertanto i FGAd non sono in grado di produrre espressione a lungo termine del gene terapeutico. Questo
problema è stato superato con lo sviluppo dei vettori adenovirali
helper-dipendenti (HDAd) in cui tutte le sequenze codificanti virali sono state eliminate. Al contrario dei vettori FGAd, gli HDAd
consentono espressione a lungo termine del gene terapeutico,
non hanno alcuna tossicità cronica e si sono dimostrati capaci di
correggere il fenotipo di numerosi modelli animali di malattia (Brunetti-Pierri and Ng, 2008). Purtroppo, come i vettori FGAd, i vettori
HDAd, dopo iniezione sistemica ad alte dosi, inducono una risposta
tossica acuta dovuta all’attivazione del sistema immune e caratterizzata da alti livelli di citochine infiammatorie. Questa risposta
indotta dalle proteine del capside virale è dose-dipendente ma è
indipendente dall’espressione dei geni virali (Brunetti-Pierri et al.,
2004). Varie strategie sono in corso di studio per minimizzare/abolire questa reazione o per favorire la trasduzione preferenziale degli epatociti (Brunetti-Pierri et al., 2007).
AAV
Gli AAV sono derivati da parvovirus umani che non sono responsabili
di nessun tipo di malattia nell’uomo. Come gli HDAd, i vettori AAV
generati in laboratorio sono totalmente privi di geni virali codificanti. Sono stati isolati numerosi sierotipi di AAV e nuovi sierotipi con
diverso tropismo vengono continuamente aggiunti alla lista (Gao et
al., 2002) fornendo un repertorio di vettori per le più diverse applicazioni. I vettori AAV hanno dimostrato di poter correggere a lungo
termine il fenotipo di numerosi modelli animali. Un limite degli AAV è
la capacità di impacchettare nel loro capside genoma di grandezza
fino a 4-5 Kb. Pertanto gli AAV non possono essere usati per situazioni in cui il gene terapeutico ha dimensioni superiori a tale capaci-
tà. Nuovi sierotipi con capacità di impacchettamento maggiore (~ 9
Kb) sembrano poter estendere lo spettro di applicazioni degli AAV
(Allocca et al., 2008).
La maggioranza dei vettori AAV non si integra nel genoma della cellula ospite ma una certa quota di genomi virali può integrarsi aumentando il rischio di cancerogenesi inserzionale (Donsante et al.,
2007). Tuttavia il potenziale ruolo oncogenico degli AAV è ancora
dibattuto (Kay, 2007).
DNA plasmidico nudo
Il DNA plasmidico nudo (pDNA) offre una vasta gamma di vantaggi
rispetto ai vettori virali come ad esempio una minore tossicità, la
mancanza di una risposta umorale contro il vettore e la facilità di
produzione. Il pDNA può indurre espressione a lungo termine del
gene terapeutico. Tuttavia, la principale limitazione di questi vettori
è la mancanza di una via di somministrazione che sia clinicamente valida. Infatti quando il pDNA è iniettato per via intravenosa la
quantità di vettore che raggiunge il fegato è molto bassa perché
la maggior parte di esso è degradato in circolo. Per ottenere una
significativa efficienza di trasferimento genico al fegato nei topi e
nei ratti (10-15% degli epatociti) il pDNA deve essere somministrato
mediante una iniezione rapida e in un grosso volume. Sebbene questa metodica nono sia direttamente applicabile all’uomo, sono stati
sviluppati alcuni metodi clinicamente rilevanti che usando cateteri
intravascolari a palloncino posizionati nella circolazione epatica riescono a favorire il passaggio delle molecole di pDNA negli epatociti
(Eastman et al., 2002; Alino et al., 2007; Fabre et al., 2008).
Terapia genica delle malattie metaboliche ereditarie
Nel considerare una malattia come possibile candidata per la terapia
genica vi sono vari elementi che vanno tenuti in considerazione:
1) il difetto molecolare e la fisiopatologia della malattia devono essere ben conosciuti;
2) l’efficacia della terapia deve essere facilmente stabilita mediante un semplice test;
3) la correzione di una piccola percentuale di cellule deve produrre
un effetto clinicamente apprezzabile;
4) il gene terapeutico non deve essere sottoposto a fine regolazione
e la sua produzione eccessiva o ectopica non deve comportare
effetti collaterali;
5) modelli animali di piccola e grossa taglia devono essere disponibili per la sperimentazione preclinica.
L’emofilia A e B ed alcune malattie metaboliche soddisfano questi
criteri e sono buoni modelli per la terapia genica. Nel valutare un tale
approccio sperimentale è però necessario tenere anche conto del
rapporto rischi/benefici in relazione alle terapie disponibili.
Terapia genica delle malattie congenite del metabolismo epatico
Figura 4.
Percentuali di trasduzione epatica richieste per la correzione del fenotipo di alcune malattie metaboliche ereditarie (MPS = mucopolisaccaridosi).
244
Il fegato svolge un ruolo cruciale nel metabolismo e numerose malattie metaboliche sono dovute a difetti in enzimi espressi primariamente a livello epatico. Pertanto lo sviluppo della terapia genica diretta al fegato è potenzialmente applicabile a numerosi errori
congeniti del metabolismo. La percentuale di trasduzione epatica
Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie
necessaria per ottenere la correzione della malattia è determinante
nel successo della terapia genica. Tale percentuale dipende dall’entità del flusso metabolico attraverso il pathway biochimico coinvolto
nella malattia; in generale i difetti del ciclo dell’urea o l’ipercolesterolemia familiare richiedono una più alta percentuale di trasduzione
epatica rispetto a malattie come la sindrome di Crigler-Najjar o le
malattie lisosomiali (Fig. 4).
Una delle prime dimostrazione in vivo di correzione di una malattia
metabolica è stata ottenuta nel modello murino di deficienza di OTC
utilizzando FGAd (Stratford-Perricaudet et al., 1990). Simili risultati
confermati da altri gruppi hanno successivamente condotto ad uno
studio di fase I in soggetti adulti con parziale deficienza di OTC,
usando un vettore adenovirale infuso nell’arteria epatica. Lo studio
è proseguito attraverso 6 coorti di pazienti iniettati con dosi crescenti di vettore ma senza chiara evidenza di trasferimento genico
e un certo livello di tossicità (Raper et al., 2002). Sfortunatamente,
il secondo soggetto iniettato alla dose più alta ha sviluppato una
risposta molto diversa dai precedenti 17 soggetti e caratterizzata
da una letale reazione infiammatoria sistemica (Raper et al., 2003).
Questa risposta è stata causata da una esagerata risposta dell’immunità innata alle proteine del capside e ha determinato un sostanziale abbandono dei vettori adenovirali per applicazioni cliniche nelle
malattie genetiche (i vettori adenovirali continuano ad avere ampia
applicazione nella terapia del cancro). Al contrario dei vettori adenovirali di prime generazioni, i vettori HDAd hanno dimostrato un
enorme potenziale correggendo a lungo termine numerose malattie
metaboliche. Miglioramenti dell’indice terapeutico di questi vettori
potrebbero facilitarne l’utilizzazione clinica.
Gli AAV, specie quei sierotipi con più spiccato epatotropismo, hanno
mostrato buone potenzialità nei modelli murini di malattie metaboliche incluso il deficit di OTC (Moscioni et al., 2006) (Tab. II). Nel trial
clinico per la terapia genica del fegato dell’emofilia B tuttavia, dopo
poche settimane dell’infusione di AAV esprimente fattore IX (FIX), è
stata osservata una risposta CTL-mediata rivolta contro le cellule
epatiche trasdotte. Questa reazione ha causato una epatite subclinica e una sostanziale perdita di espressione del FIX (Manno et al.,
2006; Mingozzi et al., 2007). Intensi studi sono in corso per cercare
di abolire questa risposta immunitaria e permettere l’espressione
del gene terapeutico a lungo termine.
Terapia genica per le malattie lisosomiali:
principi generali
La maggioranza delle malattie lisosomiali è dovuta ad una severa riduzione o completa assenza dell’attività enzimatica. Un sottogruppo
di malattie lisosomiali è invece causato dalla deficienza di proteine
non-enzimatiche come proteine attivatrici o protettrici, proteine della
membrana lisosomiale e proteine coinvolte nel traffico degli enzimi
lisosomiali (Neufeld and Muenzer, 2001). Le malattie dovute a deficit
enzimatico primario sono candidate ottimali per la terapia genica.
Le malattie lisosomiali hanno un coinvolgimento multi-sistemico
dovuto al fatto che la maggior parte degli enzimi lisosomiali sono
espressi in molteplici tessuti. Ciò richiede che il vettore di terapia
genica trasduca efficientemente molteplici tipi cellulari e purtroppo
al momento non esiste nessun vettore con tale capacità. Tuttavia
un vantaggio nelle malattie lisosomiali è dato dalla cross-correction, ossia dalla capacità degli enzimi lisosomiali di penetrare nelle
cellule dei vari tessuti mediante il recettore del Mannosio-6-fosfato
(M6-P). Pertanto il prodotto proteico del gene terapeutico trasferito
ad un ristretto numero di cellule può essere secreto e captato a
distanza dai vari tessuti. Difetti delle proteine attivatrici o protettrici
sono suscettibili a interventi di terapia genica perché queste proteine vengono captate dai lisosomi con un meccanismo simile agli enzimi lisosomiali (Hahn et al., 1998; Leimig et al., 2002). Purtroppo la
terapia genica di malattie lisosomiali il cui difetto risiede in proteine
di membrana è più complesso perché queste proteine non vengono
captate dal recettore del M6-P.
La terapia genica offre, rispetto alla terapia enzimatica sostitutiva, il
vantaggio dell’espressione a lungo termine per cui livelli persistenti di
enzima possono essere ottenuti dopo un singolo trattamento. Inoltre
gli approcci di terapia genica consentono di raggiungere livelli costanti
di enzima nei vari tessuti e non variabili, a seconda della distanza dall’infusione, come nel caso della terapia enzimatica sostitutiva.
Nonostante la cross-correction consente di ottenere un’ampia diffusione dell’enzima carente nei vari tessuti, la penetrazione nel SNC
è complicata dalla presenza della barriera emato-encefalica che limita il passaggio degli enzimi lisosomiali. Tuttavia il raggiungimento
di livelli plasmatici suprafisiologici di enzima lisosomiale potrebbe
favorire una maggiore penetrazione a livello cerebrale (Cardone et
al., 2006).
Terapia genica per via sistemica
delle malattie lisosomiali
Lo scopo della terapia genica per via sistemica è di fornire livelli
terapeutici dell’enzima deficiente ai tessuti affetti. Questo scopo può
essere raggiunto con strategie terapeutiche ex vivo o in vivo.
Terapia genica ex vivo
L’obiettivo di questa strategia terapeutica è di modificare geneticamente le cellule del paziente ex vivo e poi reimpiantarle in modo da
costituire una fonte continua di enzima per i vari tessuti. Le cellule
trasdotte possono anche ripopolare il sistema reticolo-endoteliale e
secernere l’enzima direttamente negli organi affetti. Le cellule più
comunemente adoperate come bersaglio terapeutico sono le cellule
staminali del sistema emopoietico (HSC). Gli studi preclinici, usando
HSC trasdotte ex vivo dai RV, hanno generato risultati molto incoraggianti in vari modelli di malattia (Wolfe et al., 1992; Zheng et
al., 2004) (Tab. II). Il passaggio alla sperimentazione clinica però è
stato deludente. In un trial clinico, usando questo approccio per la
malattia di Gaucher, i livelli enzimatici ottenuti sono stati sub-terapeutici (Dunbar et al., 1998), probabilmente a causa dell’assenza di
un regime di condizionamento mieloablativo o mieloriduttivo prima
del trapianto che può aver limitato l’attecchimento delle cellule geneticamente modificate. Infatti, al contrario della terapia genica per
la SCID, le cellule che hanno ricevuto il gene per l’enzima lisosomiale non hanno nessun vantaggio selettivo (Soper et al., 2001). I LV
possono superare molti di questi problemi perché possono trasdurre
le cellule quiescienti con maggiore efficienza (Hofling et al., 2004).
Terapia genica in vivo
La terapia genica in vivo è stata praticata in numerosi modelli animali di malattie lisosomiali usando diversi tipi di vettori (Tab. II). I RV
hanno la capacità di trasdurre solo cellule che sono in fase attiva di
divisione e perciò il loro uso è limitato nella terapia diretta al fegato.
Se però l’iniezione dei RV è associata all’uso di fattori di crescita degli epatociti (HGF) (Gao et al., 2000) o se viene praticata nel periodo
neonatale quando le cellule sono ancora in fase di attiva divisione,
l’espressione dell’enzima lisosomiale risulta ad alti livelli e protratta
nel tempo (Ponder et al., 2002). I problemi legati all’uso di HGF e i
245
N. Brunetti-Pierri
Tabella II.
Malattie metaboliche ereditarie in cui è stata sperimentata la terapia genica.
Proteina deficiente
Vettore
Organo bersaglio
Specie
Malattie congenite del metabolismo epatico
Acidemie organiche (MMA)
Metilmalonil-CoA mutasi
Ad
Fegato
Topo
Difetti del ciclo dell’urea
OTC, ASS
Ad, AAV
Fegato
Topo, Mucca, Uomo*
Sindrome di Crigler-Najjar
UGT1A1
Ad, AAV, RV, LV, pDNA
Fegato, Muscolo
Ratto
Fenilchetonuria
Fenilalanina idrossilasi
Ad, AAV, pDNA
Fegato, Muscolo
Topo
Glicogenosi di tipo 1
Glucosio-6-fosfatasi
Ad, AAV
Fegato
Topo, Cane
Ipercolesterolemia familiare
Recettore LDL
Ad, AAV, RV
Fegato
Topo, Uomo*
Deficienza di Lipoproteina Lipasi
Lipoproteina Lipasi
Ad, AAV
Fegato, Muscolo
Topo, Gatto, Uomo**
Porfiria acuta intermittente
Porfobilinogeno deaminasi
Ad, pDNA
Fegato
Topo
Tirosinemia di tipo 1
Fumarilacetoacetato idrolasi RV, Ad, AAV, pDNA
fegato
Topo
Aspartilglucosaminuria
Aspartil-glucosaminidasi
Ad
Cervello
Topo
Malattia di Batten infantile
Palmitoil tioesterasi
AAV
Cervello
Topo
Malattia di Batten tardo-infantile
Tripeptidil peptidasi
AAV
Cervello
Topo, Primati, Uomo**
Malattia di Fabry
α-galattosidasi
RV, Ad, AAV, pDNA
Fegato, Muscolo, Polmone, Topo
Rene, Cuore
Galattosialidosi
Proteina protettrice/ catep- RV
sina A
HSC
Topo
Gangliosidosi GM1
β-galattosidasi
Ad, AAV
Cervello
Topo
Leucodistrofia metacromatica
Arilsolfatasi A
LV, AAV
Cervello, HSC
Topo
Malattia di Gaucher
α-glucosidasi
RV, LV, Ad, AAV
HSC, Fegato
Topo, Uomo*
Malattia di Krabbe
Galattocerebrosidasi
LV, Ad, AAV
Cervello
Topo
Mannosidosi
α-mannosidasi
AAV
Cervello
Gatto
Mucopolisaccaridosi di tipo I
α-iduronidasi
RV, LV, AAV, pDNA
HSC, Fegato, Cervello
Topo
Malattie Lisosomiali
Mucopolisaccaridosi di tipo II
Iduronato solfatasi
AAV
Fegato
Topo
Mucopolisaccaridosi di tipo IIIB
α-N-acetil-glucosaminidasi
RV, LV, AAV
Cervello, HSC, Fegato
Topo
Mucopolisaccaridosi di tipo VI
Arilsolfatasi B
AAV
Fegato
Ratto, Gatto
Mucopolisaccaridosi di tipo VII
β-glucuronidasi
RV, LV, Ad, AAV, HSV
HSC, Fegato, Muscolo,
Cervello
Topo, Cane
Malattia di Niemann-Pick A e B
Sfingomielinasi acida
RV, AAV
HSC, Cervello, Fegato
Topo
Malattia di Pompe
α-glucosidasi
Ad, AAV
Fegato, Muscolo
Topo, Quaglia
Malattia di Sandhoff
β-esosaminidasi
LV, Ad, AAV, pDNA
Cervello, Fegato
Topo
Malattia di Tay-Sachs
α-esosaminidasi
RV, Ad, HSV
Cervello, Fegato
Topo
Malattia di Wolman
Lipasi acida
Ad
Fegato
Topo
Abbreviazioni: RV = vettori retrovirali; LV = vettori lentivirali; Ad = vettori adenovirali; AAV = vettori adeno associati; HSV = vettore derivato dal virus herpes simplex; pDNA = DNA plasmidico nudo; MMA = acidemia metilmalonica; ASS = argininsuccinico sintetasi; HSC = cellule staminali ematopoietiche
* Trial clinici (Raper et al., 2002; Kozarsky et al., 1996; Dunbar et al., 1998); ** trial clinci attivi o in fase di arruolamento (Crystal et al., 2004; Rip et al., 2005).
rischi di trasformazione maligna dovuta a carcinogenesi inserzionale
rimangono degli ostacoli significativi per questo tipo di approccio.
Sia i vettori HDAd che AAV hanno dato risultati incoraggianti in termini di espressione a lungo termine (Tab. II). Gli AAV sono stati utilizzati
anche per trasferire geni codificanti enzimi lisosomiali nel muscolo
che viene così utilizzato come fonte dell’enzima. Il principale vantaggio di questo approccio è quello di utilizzare una via di somministrazione, l’iniezione intramuscolare, che è più sicura dell’iniezione
intravascolare. Tuttavia, il principale problema di questo approccio
è la ridotta efficienza. Per esempio, anche nel caso dell’emofilia, in
cui poco più dell’1% dei valori normali di fattore della coagulazione è richiesto per un effetto terapeutico, i risultati nell’uomo sono
246
stati insufficienti (Kay et al., 2000). La ragione di questo insuccesso è probabilmente dovuta al fatto che il numero di fibre muscolari
trasdotte con ogni singola iniezione è molto limitato. Sulla base di
questi risultati, è prevedibile che questo approccio sia sub-ottimale
anche nel caso delle malattie lisosomiali.
Terapia per le malattie lisosomiali diretta
al sistema nervoso centrale
La terapia delle manifestazioni neurologiche nelle malattie lisosomiali è particolarmente complicata. La terapia enzimatica sostitutiva ha poche possibilità di successo perché è improbabile che
Terapia genica per le malattie metaboliche ereditarie
l’enzima ricombinante possa essere somministrato ripetutamente
nel SNC dei pazienti affetti. L’iniezione di vettori di terapia genica
al livello cerebrale per via stereotassica è stata praticata per varie
malattie neurologiche e sta dando risultati incoraggianti soprattutto nei casi in cui è affetta una discreta area cerebrale come nel
morbo di Parkinson (Kaplitt, 2007). Tuttavia è difficile prevedere
come il ridotto volume di vettore iniettato, che in genere non si
estende che per pochi mm oltre il sito dell’iniezione, possa correggere l’interessamento cerebrale diffuso tipico delle malattie
lisosomiali.
vanno tenuti in considerazione per spiegare questo ritardo. Il primo
è che la terapia genica utilizza una classe di farmaci biologici completamente nuova. Il secondo è che lo sviluppo di una nuova classe
di farmaci in genere richiede dai 20 ai 30 anni a partire dai primi test
negli animali di laboratorio. Tempi simili sono stati impiegati per lo
sviluppo del trapianto di midollo osseo, degli anticorpi monoclonali e
della terapia enzimatica sostitutiva. Nonostante le numerose difficoltà rimane il fatto che la terapia genica è diventata un approccio terapeutico innovativo nella medicina e rappresenta un’area di ricerca
clinicamente rilevante che necessita ulteriori studi.
Conclusioni
Ringraziamenti
L’avanzamento della terapia genica verso applicazioni cliniche è stato
difficile e sebbene ad oggi sia stata studiata per oltre 20 anni, non è
ancora riuscita a fornire una reale alternativa terapeutica nei pazienti con malattie metaboliche ereditarie. Tuttavia, almeno due fattori
NB-P riceve supporto dal National Institutes of Health (K99 DK077447),
da Telethon – Italy (Fellowship GFP04008), dall’American Heart Association (Beginning Grant-in-Aid 0765032Y) e dal Texas Medical Center Digestive Disease Center (Pilot/Feasibility Award).
Box di orientamento
Terapia genica: principi generali
• La terapia genica utilizza una nuova e complessa classe di farmaci biologici con l’obiettivo di trasferire geni alle cellule di un tessuto bersaglio. Le
prove precliniche per valutare l’efficacia e la sicurezza dei vettori per la terapia genica sono complesse e spesso imprecise nel predirre i risultati
nell’uomo.
Tappe principali nello sviluppo della terapia genica
• In una prima fase i trial clinici di terapia genica hanno usato prevalentemente i retrovirus che hanno dimostrato un chiaro successo nella SCID. Per
la terapia diretta al fegato i vettori adenovirali e AAV hanno mostrato problemi la cui risoluzione e’ attualmente oggetto di intenso studio.
I vettori per la terapia genica
• Molteplici sistemi di vettori per la terapia genica sono attualmente disponibili, ciascuno di questi ha un suo caratteristico tropismo e i propri specifici
vantaggi e svantaggi.
Terapia genica delle malattie metaboliche ereditarie
• La terapia genica è stata applicata a numerosi modelli preclinici di malattie metaboliche. Una attenta valutazione del rapporto rischi/benefici in
relazione alle esistenti terapie disponibili è fondamentale nella scelta della malattia candidata per la sperimentazione clinica.
Terapia genica delle malattie congenite del metabolismo epatico
• La terapia genica diretta al fegato è potenzialmente applicabile a numerosi errori congeniti del metabolismo. I diversi disordini richiedono diverse
percentuali di trasduzione epatica. AAV e HDAd hanno dimostrato eccellenti risultati in ambito preclinico ma vi sono ostacoli che devono essere
superati per una loro applicazione clinica.
Terapia genica per le malattie lisosomiali: principi generali
• Nelle malattie lisosomiali la “cross-correction” consente di ottenere correzione multi-sistemica dopo terapia genica ristretta anche a un solo tessuto.
La correzione delle manifestazioni neurologiche rimane però difficile.
Terapia genica per via sistemica delle malattie lisosomiali
• La terapia genica per via sistemica delle malattie lisosomiali può essere condotta mediante strategie ex vivo o in vivo. Nell’approccio ex vivo le cellule
del paziente vengono trasdotte ex vivo e poi reimpiantate. Nell’approccio in vivo il vettore viene iniettato direttamente per via intravascolare o in uno
specifico tessuto.
Terapia per le malattie lisosomiali diretta al sistema nervoso centrale
• La terapia genica delle manifestazioni neurologiche delle malattie lisosomiali è complicata perché non è disponibile una strategia efficace per trasferire il gene terapeutico in maniera diffusa a livello cerebrale.
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In questo lavoro viene elucidato il meccanismo responsabile della trasformazione neoplastica nei pazienti con SCID trattati con terapia genica ex vivo con RV.
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In questo articolo è descritto il decorso clinico e le indagini post-mortem del
paziente con deficienza di OTC deceduto in seguito all’infusione di un vettore
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Questo articolo riporta il design del trial clinico per il deficit di lipoproteina lipasi.
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Corrispondenza
Nicola Brunetti-Pierri, M.D., Assistant Professor, Department of Molecular and Human Genetics, Rm T607, Baylor College of Medicine, Houston, TX, One
Baylor Plaza, Houston, TX 77030 • E-mail: [email protected]
248
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 249-258
FRONTIERE
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
Luigi Daniele Notarangelo
Division of Immunology, Children’s Hospital, Harvard Medical School, Boston, USA
Riassunto
Nel corso degli ultimi anni, importanti progressi sono stati conseguiti nella riprogrammazione nucleare di cellule somatiche di tessuti adulti al fine di
generare cellule staminali pluripotenti. In particolare, sia il trasferimento nucleare che, più recentemente, la generazione di cellule staminali pluripotenti
indotte rappresentano due diversi esempi coronati da successo. Parallelamente a questi importanti sviluppi tecnologici, è aumentata la conoscenza sui
meccanismi epigenetici di controllo dell’espressione genica e sulle differenze che esistono nel profilo di espressione genica e nell’assetto epigenetico tra
cellule staminali pluripotenti e cellule differenziate. È verosimile che dall’insieme di questi avanzamenti scientifici possano presto scaturire nuove frontiere
terapeutiche nella cura di malattie degenerative e nella correzione di malattie genetiche dell’uomo.
Summary
During the last years, significant advances in nuclear reprogramming of adult somatic cells have allowed generation of pluripotent stem cells, as exemplified by nuclear transfer and by generation of induced pluripotent stem cells. Along with these important biotechnology advances, much has been learnt on
the epigenetic mechanisms that control gene expression and on the differences in gene expression profile and epigenetic status of pluripotent stem cells
on the one hand, and differentiated somatic cells on the other. It is likely that altogether these scientific achievements will open novel therapeutic frontiers
in the treatment of human degenerative disorders and genetic diseases.
Introduzione
Le cellule staminali rappresentano la principale area di ricerca a
livello internazionale in campo biomedico. Tale ricchezza di investimenti ha una duplice giustificazione: a) l’invecchiamento progressivo
della popolazione determina un incremento costante e significativo
del numero di soggetti affetti da patologie degenerative, per curare
le quali le cellule staminali costituiscono una importante speranza in
virtù della loro capacità di rinnovare e sostituire le cellule ormai degenerate; b) gli sviluppi tumultuosi, ancorché tuttora incerti nei risultati, della terapia genica, permettono di immaginare che un numero
crescente di malattie genetiche potrà in futuro essere trattato modificando cellule staminali dei pazienti affetti (Daley et al., 2008).
Accanto a queste considerazioni di carattere strettamente biomedico, il dibattito sulla ricerca relativa alle cellule staminali è stato connotato da una forte impronta bioetica che ha portato alcuni Paesi, tra
i quali l’Italia, ad adottare politiche di tipo restrittivo ed altri, come
la Gran Bretagna, assai più liberali. Uno degli argomenti più controversi è rappresentato dall’utilizzo delle cellule staminali embrionali
o, in alternativa, di cellule somatiche (derivate da soggetti adulti)
opportunamente riprogrammate in modo da reindirizzarle verso la
staminalità. In questo articolo, verranno illustrate e discusse le due
principali strategie che mirano alla riprogrammazione nucleare delle cellule somatiche: il trasferimento nucleare (Hochedlinger et al.,
2003; Hochedlinger et al., 2006) e la generazione di cellule staminali
pluripotenti indotte (iPS, induced pluripotent stem cells) (Jaenisch et
al., 2008; Silva et al., 2008).
Classificazione e potenzialità differenziativa delle
cellule staminali
La caratteristica fondamentale delle cellule staminali è rappresentata dall’auto-rinnovamento (self renewal) che permette di preservare
in via indefinita un pool di cellule (staminali) da cui deriveranno per
differenziazione elementi cellulari maturi. Proprio il potenziale dif-
ferenziativo permette di identificare diversi tipi di cellule staminali
(Tab. I). Le cellule staminali totipotenti sono quelle in grado di dare
origine a tutti i tessuti dell’organismo, compresa la linea germinale e
i tessuti extraembrionari (placenta e sacco vitellino) (Rossant, 2008).
In natura, questa capacità differenziativa così ampia è propria esclusivamente dello zigote e delle cellule ai primissimi stadi di divisione
blastomerica, ma viene persa nel momento in cui si formano trofoectoderma, trofoblasto, endoderma primitivo ed epiblasto (Fig. 1).
Questi ultimi due formano la cosiddetta massa cellulare interna della
blastocisti. Nel corso dello sviluppo embrio-fetale, il trofoectoderma
dà origine ai tessuti placentari e l’endoderma primitivo contribuisce a
formare il sacco vitellino, mentre la formazione di tutti i tessuti fetali
è assicurata dall’epiblasto. Proprio dalla massa cellulare interna della blastocisti sono state derivate, prima nel topo e successivamente
Figura 1.
Costituzione della blastocisti in epoca pre-impianto. La blastocisti è
organizzata in uno strato esterno di trofoectoderma, da cui derivano i
tessuti placentari e in una massa cellulare interna localizzata ad un polo
della blastocisti stessa. Tale massa cellulare interna contiene cellule
dell’endoderma primario (che danno origine al sacco vitellino una volta
iniziato il processo di gastrulazione) e cellule dell’epiblasto. Quest’ultimo dà successivamente origine a tutti i tessuti fetali.
249
L.D. Notarangelo
Tabella I.
Definizione delle proprietà differenziative delle cellule staminali.
Potenziale
differenziativo
Definizione
Esempio
Cellule staminali totipotenti
In grado di dare origine a tutte le linee cellulari,
compresi i tessuti extraembrionari
Zigote, cellule ai primi stadi di divisione
blastomerica
Cellule staminali pluripotenti
In grado di dare origine a tutti i tessuti dell’organismo, ma non a Cellule ES
linee extraembrionarie
Cellule staminali multipotenti
In grado di dare origine a cellule diverse, appartenenti alla stessa Cellula staminale ematopoietica
linea differenziativa
Cellule staminali unipotenti
In grado di dare origine solo a cellule di uno stesso tipo
in altre specie compreso l’uomo, le cellule staminali embrionali (ES,
embryonic stem cells), che rappresentano un esempio di cellule staminali pluripotenti, in grado cioè di dare origine a tutti i tessuti fetali,
ma non a quelli extraembrionali (Murry et al., 2008). Come vedremo
in seguito, le cellule ES possono essere coltivate ed espanse in vitro e rappresentano quindi una interessantissima sorgente di cellule
staminali. Si definiscono cellule staminali multipotenti quelle che,
oltre autorinnovarsi, sono in grado di dare origine a cellule diverse,
ma appartenenti tutte alla stessa linea differenziativa (Orkin et al.,
2008). Ne sono esempio le cellule staminali ematopoietiche, quelle
neuronali, ecc. Si ammette che ogni tessuto abbia di fatto proprie
cellule staminali. In qualche caso, tali cellule staminali danno origine
esclusivamente a cellule differenziate dello stesso tipo e vengono
per tale motivo definite cellule staminali unipotenti: un esempio è
rappresentato dagli spermatogoni, da cui originano le cellule della
linea germinale (Cinalli et al., 2008).
Nel corso dell’ultimo decennio, diversi studi avevano affermato la
plasticità, o capacità trans-differenziativa, delle cellule staminali dei
tessuti somatici adulti, per cui, ad esempio, il trapianto di cellule
staminali ematopoietiche poteva dar luogo alla produzione anche
di cellule muscolari o nervose, oltre che di elementi del sangue.
Tali presunte evidenze in vivo si affiancavano a studi in vitro che
pure suggerivano si potesse, in opportune condizioni di coltura e
in assenza di manipolazione genetica, re-indirizzare il potenziale
differenziativo delle cellule. In realtà, come illustrato in Tab. II, gli
esperimenti di differenziazione in vitro rappresentano il più basso livello di evidenza della capacità differenziativa delle cellule. Inoltre, le
evidenze di trans-differenziazione ottenute in vivo erano anch’esse
soggette a possibili critiche. Ad esempio, la dimostrazione che dopo
trasferimento di cellule staminali ematopoietiche geneticamente
marcate fosse possibile dimostrare la presenza del gene marcatore
nel tessuto muscolare o in quello nervoso poteva semplicemente
identificare il traffico di elementi del sangue che avevano raggiunto
tali tessuti (Murry et al., 2004). Alternativamente, tale fenomeno poteva riflettere la fusione tra cellule del sangue (derivate dal donatore)
e cellule muscolari o nervose del ricevente, senza per questo implicare una trans-differenziazione delle cellule staminali ematopoietiche del donatore (Alvarez-Dolado et al., 2003).
Il metodo più rigoroso per valutare la capacità differenziativa delle cellule staminali è rappresentato dalla complementazione di una
blastocisti tetraploide (Tab. II) (Nági et al., 1990). In tale condizione, dopo che la blastocisti viene trasferita nell’utero di una topolina
pseudo-gravida (surrogate mother), le cellule tetraploidi non sono
in grado di dare origine a elementi cellulari dei tessuti fetali, che
verranno esclusivamente generati dalle cellule staminali iniettate,
purchè queste ultime abbiano elevata capacità differenziativa. Un
250
Cellule staminali della linea germinale
(spermatogoni)
altro metodo per valutare la multipotenzialità delle cellule staminali
è rappresentato dalla formazione di chimere (Tab. II), dopo iniezione
in blastocisti a corredo cromosomico euploide e successivo impianto di questa in topolina pseudo-gravida. La formazione di teratomi
dopo iniezione di cellule staminali in un organismo ospite è anch’essa una dimostrazione di elevata capacità differenziativa. I teratocarcinomi hanno rappresentato il primo esempio di cellule pluripotenti
identificate in mammiferi adulti (Andrews, 2002) e sono costituiti
da una rara popolazione di cellule embrionali indifferenziate (cellule
EC) associate a elementi più maturi di diverse linee differenziative.
Come detto, i metodi di differenziazione in vitro rappresentano il criterio meno stringente per valutare la potenzialità differenziativa delle
cellule staminali: per lo più essi si basano infatti sulla dimostrazione
dell’espressione di opportuni marcatori, ma ciò non permette di valutare l’acquisizione di nuove proprietà funzionali, elemento essenziale per definire la multipotenzialità.
Caratteristiche molecolari delle cellule indifferenziate pluripotenti
Nel corso degli ultimi anni, gli studi di valutazione del profilo di
espressione genica da un lato, e l’aumento di conoscenze sui meccanismi epigenetici di controllo dell’espressione dei geni dall’altro,
hanno permesso di definire con maggiore precisione le caratteristiche fondamentali delle cellule pluripotenti indifferenziate rispetto a
cellule appartenenti a stadi differenziativi più maturi. Si è così scoperto che i geni Oct4 e Nanog, che codificano per fattori trascrizionali, sono essenziali nel regolare l’identità delle cellule staminali pluripotenti. Entrambi questi geni sono espressi nelle cellule ES e nelle
cellule della massa cellulare interna della blastocisti (da cui derivano
le cellule ES stesse). L’inattivazione di uno qualunque di questi due
geni comporta la perdita della pluripotenzialità differenziativa e determina la differenziazione abnorme delle cellule verso elementi del
trofoectoderma e dell’endoderma extraembrionario (Nichols et al.,
1998; Chambers et al., 2007).
Nel corso degli ultimi anni, molto si è appreso sui meccanismi
molecolari che consentono di mantenere la pluripotenzialità differenziativa delle cellule ES. Si è scoperto che Oct4 forma eterodimeri con un altro fattore trascrizionale, Sox2 e che quest’ultimo
regola in modo positivo i livelli di espressione di Oct4. Nanog, Oct4
e Sox2 si legano ai promotori dei loro stessi geni, favorendone la
trascrizione in un circuito autoregolatorio (Boyer et al., 2005). Inoltre, questi stessi fattori trascrizionali occupano sia i promotori di
altri geni trascrizionalmente attivi nelle cellule ES che i promotori
di geni che, pur non essendo attivi nelle cellule ES, sono tra i primi
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
Tabella II.
Metodi per valutare la capacità differenziativa delle cellule staminali.
Metodo
Commenti
Complementazione di blastocisti tetraploide
Le cellule staminali vengono iniettate in una blastocisti a corredo cromosomico 4n. L’eventuale sviluppo
di embrione è dovuto esclusivamente alla capacità differenziativa delle cellule staminali iniettate, dal
momento che le cellule 4n non sono in grado di dare origine a tessuti somatici. È il test più stringente per
valutare il potere differenziativo delle cellule staminali.
Formazione di chimera
Questo approccio valuta la capacità delle cellule staminali iniettate in una blastocisti, di contribuire alla
formazione di diversi tessuti nell’embrione che ne deriva
Formazione di teratomi
Questo metodo valuta la capacità delle cellule staminali di dare origine alla formazione di teratomi (tumori comprendenti cellule di line differenziative diverse) dopo iniezione in un organismo ospite
Differenziazione in vitro
Valuta la capacità delle cellule staminali di dare origine a cellule a fenotipo diverso dopo coltura in vitro
con opportuni fattori di crescita e di differenziazione. È il test meno stringente per valutare la capacità
differenziativa delle cellule.
ad essere trascritti quando le cellule ES vengono indirizzate verso
la differenziazione (Fig. 2) (Boyer et al., 2005; Loh et al., 2006).
Questi due gruppi di geni (quelli trascrizionalmente attivi nelle cellule ES e quelli non attivi ma pronti ad essere trascritti all’inizio del
processo di differenziazione cellulare) si differenziano per impor-
tanti caratteristiche epigenetiche (Fig. 2). È stato dimostrato che
i processi di metilazione e di acetilazione degli istoni regolano in
modo molto fine l’accessibilità dei geni a fattori di trascrizione e
ad inibitori della trascrizione. In particolare, l’aggiunta di tre gruppi metilici in corrispondenza della lisina in posizione 4 nell’istone
Figura 2.
Controllo epigenetico dei geni nelle cellule staminali embrionali (ES). Pannello A. Nelle cellule ES, i geni trascrizionalmente attivi presentano un
assetto cromatinico caratterizzato dalla presenza di metilazione in posizione 4 (residuo lisinico) dell’istone 3 (K4me3). Questo permette il legame
dei fattori trascrizionali Oct4, Sox2 e Nanog, che promuovono la trascrizione dei geni per effetto dell’azione della RNA polimerasi di tipo 2 (Pol2).
Panello B. Per converso, nelle stesse cellule ES i geni implicati negli stadi precoci di differenziazione sono caratterizzati da domini funzionali bivalenti. Infatti, in corrispondenza di tali geni la cromatina è caratterizzata sia da un profilo che promuove la trascrizione (K4me3) sia dalla presenza di
gruppi metilici in corrispondenza della lisina in posizione 27 (K27me3), con significato soppressorio. Questo determina che il promotore di questi
geni sia occupato sia dai fattori trascrizionali Oct4, Sox2 e Nanog (che promuovono la trascrizione) sia da proteine repressore del gruppo Polycomb
(Pc) che reprimono l’elongazione della molecola nascente di RNA. La presenza di segnali differenziativi determina la demetilazione in posizione K27
e consente quindi il distacco del complesso repressore Polycomb, attivando cosi’ i processi di trascrizione e la differenziazione cellulare.
251
L.D. Notarangelo
3 (H3K4me3) è importante per il legame dei fattori trascrizionali
Nanog, Oct4 e Sox2 e promuove l’attività della RNA polimerasi di
tipo II (Pol2), inducendo quindi l’espressione dei geni-bersaglio.
Analogo significato hanno anche i processi di acetilazione dell’istone 3 in corrispondenza della lisina 7 e della lisina 9. Al contrario, l’aggiunta di tre residui metilici in posizione 27 dell’istone 3
(H3K27me3) recluta la proteina PRC1, una componente del gruppo
di proteine Polycomb (Pc). Tali proteine promuovono processi di
condensazione della cromatina e reprimono la trascrizione genica,
non permettendo che Pol2 completi l’elongazione della molecola
nascente di RNA (Azuara et al., 2006; Guenther et al., 2007). Lo
studio dell’assetto epigenetico dei geni nelle cellule ES ha rivelato
due diverse situazioni per i geni cui si legano i fattori trascizionali
Oct4, Nanog e Sox 2: infatti, i geni che sono trascrizionalmente
attivi nelle cellule ES (compresi quindi gli stessi geni Oct4, Nanog
e Sox2, ma anche geni che codificano per enzimi che controllano
la metilazione e l’acetilazione istonica) solno metilati in posizione
K4 nell’istone 3 (Fig. 2, pannello A). Al contrario, i geni che codificano per proteine coinvolte nei primi stadi di differenziazione
delle cellule ES si trovano in una situazione particolare, presentando sia modificazioni epigenetiche che promuovono la trascrizione
(H3K4me3) sia modificazioni di tipo repressivo (H3K27me3) (Fig.
2, pannello B): sono quindi caratterizzati da domini funzionalmente
“bivalenti”. Stimoli differenziativi portano, attraverso meccanismi
ancora non ben definiti, alla demetilazione del residuo H3K27, determinando così il distacco del complesso Polycomb e la trascrizione dei geni bersaglio implicati nella differenziazione cellulare
(Boyer et al., 2006).
Un altro aspetto del controllo epigenetico che differenzia nettamente
le cellule ES con assetto cromosomico di tipo femminile rispetto a
cellule differenziate dei tessuti adulti di animali di esso femminile
è costituito dalla riattivazione del cromosoma X silente (Tada et al.,
2001); tale fenomeno si associa ad una completa riprogrammazione
del pattern di metilazione della cromatina associata al cromosoma
X. Nell’insieme, quindi, le cellule ES sono caratterizzate da una vera
e propria “firma epigenetica”.
Segnali di controllo dell’automantenimento e della
differenziazione delle cellule staminali pluripotenti
I segnali che mantengono le cellule ES in uno stato indifferenziato
e quelli che al contrario le indirizzano verso la differenziazione sono
molteplici e sono stati abbastanza ben definiti nel modello murino;
non necessariamente tuttavia questi meccanismi di controllo sono
gli stessi in diverse specie animali. È interessante osservare come
tra i geni regolati positivamente da Oct4 e Sox2 vi sia il gene Fgf4
(Fibroblast growth factor 4), il cui prodotto attiva la via di segnale
dipendente da Erk, che rende le cellule ES sensibili a ulteriori stimoli di differenziazione, quali Notch e FGF. Quindi, oltre a mantenere la pluripotenzialità, Oct4 e Sox2 rendono le cellule ES pronte
a rispondere a stimoli differenziativi. Nello stesso tempo, alcune vie
di segnale proteggono le cellule ES dalla perdita della pluripotenzialità. Un ruolo fondamentale in questo senso è svolto dalla molecola
LIF (Leukemia Inhibitory Factor) che agisce inducendo l’attivazione
del fattore trascrizionale STAT3 nelle cellule ES, ma anche dal morfogeno BMP4 (Bone Morphogenetic Protein 4) (Ying et al., 2003).
È interessante notare come gli stessi segnali possano impedire la
differenziazione verso alcune linee, ma favorirla verso altre: è così
per la via di segnale Wnt-β catenin (Hochedlinger et al., 2006; Silva
et al., 2008; Jaenisch et al., 2008). Infine, alcune molecole note per
le loro proprietà di induzione della differenziazione cellulare, come
l’acido retinico, agiscono inducendo il silenziamento del gene Oct4
e rendendo così le cellule sensibili a stimoli differenziativi (Pikarsky
et al., 1994).
Le differenze dimostrate nella capacità di diverse molecole di mantenere la pluripotenzialità o di indirizzare verso la differenziazione
cellulare possono anche dipendere dal tipo di cellula pluripotente.
Come si è detto, le cellule ES derivano dalla massa cellulare interna
della blastocisti prima che questa si sia impiantata nell’utero. Una
volta avvenuto l’impianto, l’epiblasto si espande e assume una struttura epiteliale di tipo colonnare. In questo stadio, le cellule dell’epiblasto murino mantengono importanti capacità differenziative verso
molteplici linee cellulari, come dimostrato dal fatto che danno luogo
a teratomi se introdotte in topi adulti, ma non sono più in grado di
partecipare alla formazione di embrioni se introdotte nella blastocisti
e se questa viene impiantata nell’utero di una topolina pseudo-gravida. Le cellule derivate dall’epiblasto in questo stadio vengono definite cellule staminali dell’epiblasto (EpiSC, Epiblast stem cells). FGF
e activina (che come abbiamo visto indirizzano le cellule ES verso
la differenziazione) sono essenziali per automantenere in coltura le
cellule EpiSC (Brons et al., 2007; Tesar et al., 2007). È interessante
notare come le cellule ES umane non dipendano da LIF (come invece
fanno le cellule ES murine) per l’automantenimento, ma piuttosto
proprio da FGF e da activina (Vallier et al., 2005) (Tab. III), lasciando
intendere quindi che forse si tratta di cellule ad uno stadio differenziativo diverso rispetto alle cellule ES murine. È possibile che il fatto
che FGF e activina siano utilizzate per ottenere e mantenere in coltura cellule ES umane selezioni contro “vere” cellule ES e favorisca invece cellule di tipo EpiSC (Lovell-Badge, 2007); si tratta ovviamente
di considerazioni molto importanti non solo sotto il profilo biologico,
ma anche per possibili implicazioni terapeutiche (al di là di ovvie
considerazioni di carattere bioetico).
Tabella III.
Confronto delle proprietà di diversi tipi di cellule staminali pluripotenti.
Tipo di cellule
Origine
Capacità
differenziativa
In vitro
Formazione
di chimere
ES murine
EpiSC murine
Masserella cellulare interna della blastocisti
+
+
LIF, BMP4
Epiblasto (in stadi precoci dopo l’impianto)
+
–
FGF, activina
iPS murine
Riprogrammazione nucleare di cellule
somatiche mediante trasferimento genico
+
+
LIF
ES umane
Masserella cellulare interna della blastocisti
+
non nota
FGF, activina
252
Fattori di crescita
necessari per mantenere la
staminalità
(self-renewal)
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
Strategie di riprogrammazione nucleare:
trasferimento nucleare e fusione cellulare
Come si è visto, la caratteristica di pluripotenzialità, che rende la ricerca sulle cellule staminali particolarmente interessante per la cura
di patologie degenerative e di malattie genetiche, è strettamente
legata a modificazioni epigenetiche e a profili di espressione genica
che rendono tali cellule pluripotenti sostanzialmente diverse rispetto
a cellule somatiche di tessuti adulti. Per tale motivo, qualsiasi tentativo di creazione in vitro di cellule pluripotenti partendo da cellule
somatiche differenziate deve necessariamente basarsi su una opportuna riprogrammazione nucleare. In pratica, tre sono le strategie principali che possono essere utilizzate per raggiungere questo
obiettivo (Fig. 3): il trasferimento nucleare, la fusione cellulare e la
riprogrammazione nucleare con impiego di opportuni vettori retrovirali. Tanto nel trasferimento nucleare quanto nella fusione cellulare
è necessario che, accanto alla cellula somatica da “riprogrammare”
si disponga di elementi cellulari indifferenziati, rappresentati rispettivamente da oociti enucleati o da cellule ES.
Il trasferimento nucleare si basa sul trasferimento del nucleo di una
cellula somatica adulta in un oocito enucleato; scopo finale di questo approccio è quello di generare cellule indifferenziate in grado di
dar luogo ad embrioni la cui costituzione genica è identica a quella
della cellula somatica donatrice (clonazione animale) (Hochedlinger
et al., 2003). Come illustrato in Figura 4, una volta che la cellula che
deriva dal trasferimento nucleare sia stata iniettata nella blastocisti,
quest’ultima può essere introdotta nell’utero di topoline pseudo-gravide (per dare origine ad un animale clonato, come la pecora Dolly)
o può essere utilizzata per ottenere in vitro cellule ES, che possono
quindi essere indirizzate verso linee differenziative di interesse con
opportuni fattori di crescita. Queste due diverse strategie di utilizzo del trasferimento nucleare corrispondono, rispettivamente, alla
clonazione riproduttiva e alla clonazione terapeutica (Hochedlinger
et al., 2003; Hochedlinger et al., 2006). I successi riportati dopo trasferimento nucleare hanno dimostrato che le differenze di espressione genica tra cellule dei primi stadi differenziativi embrionali e
cellule somatiche adulte sono legate a modificazioni epigenetiche
reversibili. Tuttavia, il fatto che la generazione di animali clonati avvenga con grande difficoltà (la maggior parte dei cloni muore infatti
precocemente dopo l’impianto) e sia caratterizzata da significative
anomalie di sviluppo in una quota rilevante degli animali che vengono generati, dimostra che il processo di riprogrammazione nucleare
sia caratterizzato da bassa efficienza e sia inficiato da “errori” assai
rilevanti sotto il profilo biologico: spesso gli animali clonati hanno
dimensioni superiori alla norma e sono comuni patologie a carico di
vari organi (polmoni, reni, cuore, fegato, sistema nervoso centrale)
Figura 3.
Strategie di riprogrammazione nucleare. Le cellule somatiche derivate da tessuti differenziati adulti possono essere riprogrammate utilizzando tre
diverse strategie. Il trasferimento del nucleo della cellula somatica in un oocita enucleato innesca processi di modificazione dello stato epigenetico
del nucleo donatore, con conseguente riprogrammazione verso un pattern tipico delle cellule ES. Tali cellule possono essere utilizzate per processi
di clonazione animale. Alternativamente, processi di fusione cellulare tra cellule somatiche differenziate e cellule ES determinano anch’esse
fenomeni di riprogrammazione nucleare, con de-differenziazione dell’ibrido somatico così generato. Infine, le cellule soamtiche possono essere
riprogrammate a seguito del trasferimento (con vettori retrovirali) di opportuni fattori trascrizionali (Oct4, Sox2, c-myc e Klf4), generando in tal
modo cellule pluripotenti staminali indotte (iPS).
253
L.D. Notarangelo
Figura 4.
Trasferimento nucleare, clonazione terapeutica e clonazione riproduttiva. A seguito del fenomeno di riprogrammazione nucleare conseguente al
trasferimento del nucleo di una cellula somatica differenziata in un oocito enucleato, viene generata una cellula staminale pluripotente che, dopo
iniezione in blastocisti, può essere espansa in vitro, generando in tal modo cellule di tipo ES. Queste ultime possono, in opportune condizioni di
coltura in vitro, essere indotte a differenziare verso diverse linee, dando così origine a cellule somatiche di tessuti diversi. Tale strategia viene definita “clonazione terapeutica” ed è possibile immagine l’utilizzo per il trattamento di patologie degenerative o per la correzione di malattie geniche.
In alternativa, la blastocisti può essere impiantata nell’utero di topoline pseudo-gravide, dando cosi’ origine ad animali clonati, il cui assetto genico
è del tutto identico a quello della cellula somatica di partenza. Questa strategia, definita “clonazione riproduttiva”, è stata ad esempio impiegata
per produrre la pecora Dolly.
che compromettono la vitalità e la durata di sopravvivenza (Tamashiro et al., 2002; Ogonuki et al., 2002). I difetti a carico dei processi di
riprogrammazione epigenetica osservati negli animali clonati sono
diversi e riguardano soprattutto alterazioni nel corretto stato di metilazione e acetilazione dei geni e difetti di imprinting (Young et al
1998; Humphreys et al 2002). In considerazione del ruolo svolto da
geni soggetti ad imprinting nella funzione placentare e nella crescita
dei tessuto fetali, proprio i difetti di imprinting possono giustificare le
anomalie feto-placentari osservate negli animali clonati.
Diversi fattori influenzano il grado di efficienza delle procedure di trasferimento nucleare. In primo luogo, è indispensabile che la cellula
donatrice e l’oocita che viene enucleato (e che deve essere arrestato
in metafase) siano sincronizzati per quanto attiene al ciclo cellulare.
In secondo luogo, appare evidente che lo stadio differenziativo della
cellula donatrice gioca un ruolo importante nel dettare l’efficienza del
processo di generazione di cellule ES e di animali clonati dopo trasferimento nucleare. In particolare, studi nel topo hanno dimostrato che
la clonazione animale avviene con efficienza assai più elevata se si
utilizzano come donatrici del nucleo le cellule ES rispetto a cellule dif-
254
ferenziate come fibroblasti o cellule di Sertoli (Tab. IV). Questa diversa
efficienza riflette differenze nello stato epigenetico, come dimostrato
dal fatto che se si utilizzano fibroblasti ingegnerizzati in modo da ridurre i livelli globali di metilazione cellulare, l’efficienza della clonazione diviene simile a quella che si ottiene utilizzando cellule ES (Blelloch
et al., 2006). Il fenomeno per cui le cellule del clone generato tendono
a mantenere almeno in parte un pattern di modificazioni epigenetiche
che riflette quello delle cellule donatrici viene anche definito “memoria
epigenetica” (Ng et al., 2005) ed è alla base, come si è visto, di alcune
delle anomalie di sviluppo osservate nei cloni prodotti. Tale memoria
epigenetica viene peraltro persa con il passaggio attraverso la linea
germinale, così che la progenie di animali clonati non presenta di regola significative anomalie (Tamashiro et al., 2002). In netto contrasto
con i problemi osservati nel corso della clonazione animale, la generazione di cellule ES in coltura non sembra risentire dell’utilizzo di cellule
somatiche differenziate come donatrici del nucleo (Hochedlinger et
al., 2006). Pertanto, la generazione di cellule ES dopo trasferimento
nucleare seleziona in qualche modo cellule nelle quali la riprogrammazione epigenetica è avvenuta in modo corretto.
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
Tabella IV.
Efficienza di clonazione dopo trasferimento nucleare. Ruolo dello stadio differenziativo della cellula donatrice (Hochedlinger, 2006 – parzialmente
modificata).
Cellula donatrice del nucleo
Efficienza di generazione di topolini dopo
trasferimento della blastocisti in topolina
pseudo-gravida (%)
Efficienza di generazione di cellule ES in
vitro (%)
Uovo fertilizzato
60-80
25-68
Cellula ES
11-23
50
Cellula staminale neuronale
n.e.
64
Cellula del Sertoli
6
27
Fibroblasto
1
13-33
n.d.: non effettuato
La possibilità di generare cellule di tipo ES mediante trasferimento
nucleare apre anche importanti prospettive di cura per le malattie
genetiche basate non già su strategie convenzionali di trasferimento
genico mediante vettori retro- o lenti-virali (che purtroppo comportano il rischio di mutagenesi inserzionale) bensì sull’utilizzo della
ricombinazione omologa, che avviene con assai maggiore efficienza
in cellule ES rispetto a cellule somatiche differenziate. A dimostrazione di ciò, il gruppo di Jaenisch ha prelevato fibroblasti dalla coda
di topi affetti da una forma di immunodeficienza combinata grave
(SCID) da difetto del gene rag2. Il nucleo di tali fibroblasti è stato
introdotto in oociti murini enucleati. Dopo avere ottenuto cellule ESsimili secondo il principio già esposto, il gruppo di ricercatori ha
utilizzato procedure di ricombinazione omologa per correggere il difetto a carico del gene rag2. Le celule ES-simili sono quindi state indotte a differenziare dapprima in corpi embrioidi e successivamente
in cellule staminali ematopoietiche mediante l’espressione forzata
del fattore trascrizionale HoxB4. Così corrette, tali cellule sono state
iniettate in topi rag2-deficienti irradiati, con piena ricostituzione dello sviluppo dei linfociti T e B (Rideout et al 2002).
Cellule staminali pluripotenti indotte (iPS)
Le strategie di riprogrammazione basate sul trasferimento nucleare hanno offerto la dimostrazione che è possibile riprogrammare il
nucleo di cellule staminali adulte differenziate. Tuttavia, l’impiego di
tale strategia nell’uomo comporta evidenti problemi di natura bioetica legati al fabbisogno di oociti umani. Benché il tentativo di generare blastocisti clonate mediante trasferimento di nuclei di cellule
umane in oociti enucleati di coniglio sia stato coronato da successo
(Chen et al., 2003), non è stato possibile generare linee ES stabili
da tali blastocisti, probabilmente a causa di incompatibilità nucleomitocondriale (Dey et al., 2000).
Un approccio totalmente innovativo per generare linee di cellule staminali pluripotenti è stato realizzato con l’impiego di vettori retrovirali contenenti i geni che codificano per quattro fattori trascrizionali:
Oct4, Sox2, c-myc e Klf4. Tali vettori sono stati utilizzati con successo per trasdurre e riprogrammare fibroblasti embrionali murini
(MEF) e adulti in cellule ES-simili (Takahashi et al., 2006). Con questo sistema, è possibile selezionare cellule che esprimono Fbx15,
un gene bersaglio di Oct4. Queste cellule sono state definite iPS
(induced pluripotent stem cells) in considerazione del fatto che sono
in grado di formare teratomi. In realtà la sola espressione di Fbx15
non è sufficiente ad assicurare piena pluripotenzialità; ad esempio,
queste cellule non sono in grado di formare chimere se iniettate
in blastocisti. Tuttavia, le cellule iPS che, oltre ad esprimere Fbx15,
esprimono anche i geni endogeni Oct4 e Nanog, condividono con
le cellule ES pluripotenti le caratteristiche di configurazione della
cromatina e la riattivazione del cromosoma X inattivo se la cellula di
partenza aveva assetto cromosomico di tipo femminile (Takahashi
et al 2006; Maherali et al 2007, Okita et al 2007; Wernig et al 2007).
Tali iPS danno luogo a formazione di chimere dopo impianto nella
blastocisti e generano embrioni se introdotte in blastocisti tetraploidi: hanno quindi tutte le caratteristiche delle cellule ES.
I meccanismi attraverso cui il trasferimento dei quattro geni esogeni
Oct4, Sox2, c-myc e Klf4 determina riprogrammazione nucleare è
stato oggetto di intensi studi. Si è osservato che i geni Oct4 e Sox2
attivano la trascrizione di geni-bersaglio implicati nella modificazione della cromatina (metil-transferasi, demetilasi), così come avviene
nelle cellule ES. Il rimodellamento della cromatina rappresenta quindi il primo evento nella riprogrammazione nucleare che porta alla
generazione di cellule iPS (Fig. 4). Il ruolo del proto-oncogene c-myc
e del fattore trascrizionale Klf4 sono meno chiari. Benché essi non
siano strettamente indispensabili per generare iPS, in loro assenza
il processo avviene con assai bassa efficienza. Per c-myc si ipotizza
che esso possa da un lato indurre l’immortalizzazione delle cellule
transfettate (così da avvicinarle al fenotipo ad elevata crescita delle cellule ES) (Yamanaka 2007); dall’altro, è possibile che proprio
l’induzione di una attività replicativa elevata possa favorire, anche
con meccanismi stocastici, fenomeni di riorganizzazione dell’assetto
epigenetico della cellula (Dominguez-Sola et al., 2007). Klf4 sembra
invece regolare l’espressione di alcuni geni specifici delle cellule
ES, come Lefty1, (Nakatake et al., 2006). È importante osservare
come retrovirus di tipo Moloney (come quelli utilizzati nella generazione di cellule iPS) sono oggetto di silenziamento in cellule ES, per
effetto di fenomeni di attivazione di metiltransferasi che bloccano
l’espressione dei geni contenuti nel vettore retrovirale stesso. Pertanto, il mantenimento nel tempo del fenotipo iPS non dipende dai
geni transfettati, bensì dall’attivazione dei geni endogeni Oct4, Sox2
e Nanog, secondo i meccanismi discussi in precedenza (Maherali
et al., 2007; Okita et al., 2007; Wernig et al., 2007; Meissner et al.,
2007; Brambrink et al., 2008) (Fig. 4). Una importante differenza
tra la riprogrammazione nucleare ottenuta mediante trasferimento
nucleare e quella conseguita con trasferimento genico per generare
iPS è che il primo processo è assai rapido, mentre nel secondo caso
sono necessarie circa 3-4 settimane. È probabile che ciò abbia a che
fare con la relativa inefficienza della riprogrammazione nucleare nel
generare cellule iPS. Si ammette infatti che tale processo avvenga
attraverso stadi intermedi ed una serie di eventi stocastici; di volta
in volta, verrebbero selezionate in coltura le cellule con le proprietà
più vicine a quelle di cellule pluripotenti. Certamente, il processo di
255
L.D. Notarangelo
Figura 5.
Generazione di cellule iPS. L’utilizzo di vettori retrovirali contenenti i geni Oct4, Sox2, Klf4 e c-myc per transfettare cellule somatiche differenziate di tessuti adulti (nell’esempio in figura: fibroblasti) determina la riprogrammazione di tali cellule, attraverso una serie di eventi molecolari.
Inizialmente, l’espressione dei geni Oct4, Sox2, c-myc e Klf4 contenuti nei vettori retrovirali innesca la trascrizione di geni implicati nei processi di
metilazione, acetilazione e demetilazione della cromatina, determinando così il rimodellamento della cromatina stessa e dell’assetto epigenetico
della cellula. Ciò porta, in ultima analisi, all’attivazione della trascrizione di diversi geni, tra cui Fbx15. In questo stadio, le cellule, oltre ad autoreplicarsi se esposte al fattore di crescita LIF, sono già parzialmente riprogrammate, in quanto sono in grado di formare teratomi, ma non sono in
grado di supportare la generazione di cloni animali se introdotte in blastocisti. Nel corso di una ulteriore selezione in coltura, pur se l’espressione
dei geni Oct4, Sox2, c-myc e Klf4 contenuti nel vettori retrovirali viene silenziata, inizia e si mantiene nel tempo l’espressione dei geni endogeni
Oct4, Sox2e Nanog, che permette il completamento della riprogrammazione nucleare a la generazione di celule iPS, con caratteristiche simili alle
cellule staminali embrionali.
generazione di cellule iPS passa necessariamente anche attraverso
l’inibizione di geni di differenziazione mediata da proteine del gruppo Polycomb, nonché attraverso fenomeni di rimodellamento della
cromatina.
Se l’utilizzo di iPS murine per generare topi è stato coronato da successo, un problema rilevante è rappresentato dall’elevato tasso di
tumori riscontrato in questi animali (Okita et al., 2007), dato non del
tutto sorprendente considerando che c-myc e Klf4 sono due proto-oncogeni. Guardando a possibili applicazioni all’uomo, non solo
bisognerebbe evitare di utilizzare procedure basate sul trasferimento di tali oncogeni, ma più in generale sarebbe opportuno fare a
meno di tecniche di manipolazione genetica per la riprogrammazione nucleare di cellule somatiche. Qualche passo importante in
questa direzione è già stato compiuto: anzi tutto sono state prodotte
cellule iPS umane a partire da fibroblasti (Takahashi et al., 2007; Yu
et al., 2007); inoltre, si è dimostrato che c-myc non è strettamente
indispensabile per indurre la riprogrammazione sia nel topo (Yu et
al., 2007; Nakagawa et al., 2008; Wernig et al., 2008) sia nell’uomo, dal momento che iPS umane sono state ottenute esponendo
fibroblasti solo a Oct4, Sox2 e lin28, una proteina che lega RNA (Yu
256
et al., 2007). Ancora una volta, tuttavia, l’analisi comparativa delle
proprietà delle iPS murine e di quelle umane ha svelato significative
differenze nei fattori di crescita necessari per mantenere l’attività
autoreplicativa delle cellule: LIF per le iPS murine, FGF per le iPS
umane (Takahashi et al., 2006; Takahashi et al., 2007). È quindi probabile che iPS murine ed umane corrispondano come riprogrammazione nucleare a cellule in stadi differenziativi leggermente diversi;
sarà quindi importante proseguire nel tempo gli studi di caratterizzazione di tali cellule.
Pur con questi limiti, la straordinaria potenzialità di utilizzo delle cellule iPS nel trattamento di patologie geniche è stata illustrata dalla
correzione di un modello umanizzato di anemia a cellule falciformi
nel topo (Hanna et al., 2007). In questo modello murino, i geni αglobinici murini sono sostituiti dagli equivalenti geni umani, mentre
i geni β-globinici murini sono sostituiti dai geni umani hAγ e hβS;
quest’ultimo conferisce quindi al topo il tratto genetico falciforme.
I topi omozigoti per hβS sviluppano anemia severa con caratteristiche tipiche dell’anemia a cellule falciformi (compresa una elevata
incidenza di infarti splenici). Partendo da fibroblasti ottenuti dalla
coda di questi topi, Hanna e collaboratori hanno generato cellule
Riprogrammazione nucleare e cellule staminali
iPS dopo transfezione con vettori retrovirali contenenti i geni Oct4,
Sox2, Klf4 e c-myc. Successivamente, dopo avere rimosso il gene
c-myc ectopico, hanno sottoposto le cellule iPS ad elettroporazione
con un costrutto contenente il gene umano hβA e hanno selezionato
i cloni in cui il gene mutato hβS era stato corretto per ricombinazione omologa dal gene umano normale hβA. Attraverso espressione
ectopica del fattore trascrizionale HoxB4, le cellule iPS così corrette
sono state indotte a differenziare in progenitori umani ematopoietici.
Infine, queste cellule sono state trapiantate in topi riceventi hβS/hβS
irradiati, con piena correzione del fenotipo falcemico.
Conclusioni
Nel giro di pochissimi anni, le ricerche sulle cellule pluripotenti hanno compiuto progressi non facilmente anticipabili. Se le presunte
proprietà di plasticità delle cellule staminali dei tessuti adulti sono
state largamente poste in discussione, due nuove strategie (il tra-
sferimento nucleare e la generazione di cellule iPS) ha portato a
sviluppi clamorosi, rendendo ipotizzabile, almeno in via teorica, un
futuro impiego clinico di tali strategie per la cura di patologie degenerative e genetiche. È verosimile che ulteriori progressi in questo settore verranno dallo studio dell’espressione di micro-RNA in
cellule ES, iPS e in cellule riprogrammate mediante trasferimento
nucleare (Wang et al., 2007). Tuttavia, gli importanti avanzamenti
di conoscenze in questi settori non devono ovviare alla necessità di
proseguire, laddove consentito, gli studi sulle cellule staminali embrionali umane (Hyun et al., 2008), sia in considerazione dei rischi
di tumorigenicità che al momento limitano il possibile impiego delle
cellule iPS, sia per il fatto che proprio dagli studi delle cellule staminali embrionali potrebbero venire spunti decisivi per il progredire
delle ricerche. In fin dei conti, non va dimenticato che l’impulso allo
sviluppo di iPS umane è venuto dalla dimostrazione che era possibile riprogrammare cellule somatiche umane mediante fusione con
cellule ES (Cowan et al., 2005).
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
• È noto da tempo che esistono diversi tipi di cellule staminali, accomunati tra loro dalla capacità delle cellule di autoreplicarsi, ma diversificati dal
potenziale differenziativo che in alcuni casi consente (sotto l’effetto di particolari fattori di crescita) di indurre la differenziazione verso linee cellulari
diverse, mentre in altri casi permette solo di ottenere cellule mature appartenenti alla stessa linea differenziativa o dello stesso tipo
• Alcune evidenze in vitro e in vivo avevano lasciato supporre che le cellule staminali di tessuti adulti (es: cellula staminale ematopoietica) possedessero una “plasticità” differenziativa, in grado di convertirle, in condizioni opportune, in cellule appartenenti a linee differenziative diverse (muscolare,
neuronale, ecc.), ad indicare quindi un processo di “trans-differenziazione cellulare”.
• L’esistenza di cellule ad elevata potenzialità differenziativa è esemplificata dai teratomi, nei quali cellule tumorali indifferenziate coesistono e danno
origine a elementi cellulari matruri appartenenti a linee differenziative diverse.
• Infine, era noto che cellule staminali embrionali, cellule staminali di tessuti adulti e e cellule somatiche differenziate si diversificano tra loro per
importanti differenze nel profilo di espressione genica e per una diverso stato di imprinting genico e di inattivazione del cromosoma X
Che cosa sappiamo adesso
• Sono stati ben definiti i meccanismi molecolari che a livello epigenetico condizionano l’espressione genica, con particolare riferimento a modificazioni della mutilazione ed acetilazione istonica. Tali fenomeni giocano un ruolo essenziale nel determinare le differenze tra cellule staminali pluripotenti
e cellule differenziate.
• La capacità trans-differenziativa delle cellule staminali è stata posta fortemente in discussione da una analisi critica dei dati precedentemente ottenuti
• Sono state sviluppate tecniche di riprogrammazione nucleare basate sul trasferimento nucleare, la fusione cellulare e sulla transfezione di cellule
somatiche con vettori retrovirali contenenti i geni che codificano per alcuni fattori trascrizionali di primaria importanza per mantenere l’attività autoreplicativa e la pluripotenzialità differenziativa delle cellule staminali. Con questo ultimo approccio, è possibile generare cellule iPS.
• È possibile mantenere in coltura cellule ES e celule iPS sia di origine murina che umane.
E per la pratica clinica …
• Lo sviluppo di tecniche di riprogrammazione nucleare ha aperto nuove frontiere verso la possibile generazione in vitro di cellule staminali pluripotenti,
che potrebbero entrare presto nella pratica clinica per il trattamento di malattie degenerative e per la correzione di patologie genetiche
• Questi recenti sviluppi consentono anche di guardare con maggiore ottimismo al possibile superamento di conflitti bioetica che hanno diviso l’opinione pubblica, relativamente all’impiego delle cellule staminali embrionali.
• Al di là delle possibili applicazioni delle cellule iPS e delle tecniche di trasferimento nucleare, l’aumento di conoscenze sui meccanismi di controllo
epigenetico dell’espressione genica permette di ipotizzare lo sviluppo di nuovi farmaci basati sulla regolazione di tali meccanismi al fine di regolare in
senso permissivo o repressivo l’espressione genica. Approcci di questo genere appaiono particolarmente interessanti in campo oncologico, lasciando
intravedere la possibilità di modificare il profilo differenziativo delle cellule tumorali.
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Questo articolo dimostra come le cellule staminali pluripotenti condividano a
livello epigenetico meccanismi generali di controllo dell’espressione genica, basati sulla mutilazione e acetilazione istonica, che le differenziano dalle cellule
differenziate dei tessuti adulti.
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Questo articolo di fondamentale importanza fornisce la prima dimostrazione di
principio che le cellule iPS possono essere utilizzate per correggere difetti genetici (nella fattispecie, l’anemia falciforme in un modello murino umanizzato di
tale patologia).
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Questo articolo di revisione illustra con chiarezza i progressi e i limiti inerenti alle
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Questo articolo di revisione discute le principali strategie di riprogrammazione
nucleare, basate su trasferimento nucleare, fusione cellulare e induzione di iPS.
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Questo recente e assai completo articolo di revisione illustra i meccanismi
molecolari coinvolti a livello genico ed epigenetico per mantenere la staminalità
cellulare e discute le strategie di riprogrammazione nucleare (come la generazione di cellule iPS) che proprio sull’utilizzo di tali meccanismi si fondano.
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In questo articolo vengono rivisitate le prime tappe dello sviluppo embrionale,
al fine di definire l’origine di diversi tipi di cellule staminali (ES, EpiSC). Vengono
anche discusse le differenze tra cellule staminali embrionali e cellule iPS ottenute nel topo e nell’uomo.
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Questo articolo di revisione illustra le vie di traduzione del segnale che, operando in cellule staminali non diferenziate, prevengono o al contrario favoriscono
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Corrispondenza
prof. Luigi D. Notarangelo, Division of Immunology, Children’s Hospital Boston, Harvard Medical School, Karp Family Building, 9th floor, room 9210, 1
Blackfan Circe, Boston, MA 02115, USA • E-mail: [email protected]
258
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 259-265
FOCUS SU:
Il trattamento dell’emicrania nel bambino
Giuliano Galli Gibertini*, Laurence Morin*, Laurence Teisseyre**, Chantal Wood**,
Luigi Titomanlio* ***
*
Emergenze Pediatriche, ** Centro per la Terapia del Dolore e *** Dipartimento di Neurologia Pediatrica, Ospedale
Universitario Robert Debré, Parigi, Francia
Riassunto
L’emicrania è una patologia comune in età pediatrica. Come nell’adulto, spesso non c’è la fase prodromica (aura). L’aura è molto rara al di sotto degli 8 anni
di età. La cefalea è cronica, severa, e spesso associata a sintomi vegetativi. Nel bambino il dolore è di solito bilaterale. La valutazione iniziale del bambino
con cefalea si basa sulla diagnosi clinica differenziale dalle altre cause di cefalea secondaria.
Nell’articolo si riportano le evidenze scientifiche attualmente disponibili sul trattamento dell’emicrania in pediatria. Il trattamento consiste nell’evidenziare
i fattori predisponenti, nella presa in carico del dolore e nell’eventuale profilassi.
Il trattamento di bambini con attacchi leggeri e non frequenti si basa sul riposo e la riduzione dello stress. Il paracetamolo ed i FANS sono efficaci se presi
in una fase precoce della sintomatologia. I farmaci specifici contro l’attacco acuto di emicrania sono i triptani.
L’obiettivo primario del trattamento di fondo è quello di ridurre la frequenza e la severità degli episodi dolorosi. Farmaci di comune impiego sono il topiramato e la flunarizina.
Summary
Migraine is a common disorder among the young. As in adults, most children have migraine without aura. Headaches are chronic, typically severe, and
often associated with autonomic dysfunction. In children, the headaches are often bilateral, and aura is infrequent prior to age 8 years. Initial evaluation
focuses on excluding other conditions.
Our article reviews current evidence about migraine treatment in children. Treatment consists of identifying triggering factors, providing pain relief, and
considering prophylaxis.
The treatment of children with mild, infrequent attacks consists primarily of rest, trigger avoidance, and stress reduction. Acetaminophen and nonsteroidal
anti-inflammatory drugs (NSAIDs) are effective if taken at a high but appropriate dosage during the aura or early headache phase. Specific drugs for acute
attacks include triptans.
The primary goals of prophylactic drugs are to prevent migraine attacks and to reduce the frequency and severity of attacks. Possible medications include
topiramate and flunarizine.
Introduzione
L’emicrania è una patologia comune, che si manifesta con notevole frequenza nel bambino e nell’adolescente (Dalsgaard-Nielsen,
1970; Lipton et al., 1994; Mortimer et al., 1992; Sillanpaa, 1976),
Rientra nella categoria delle cefalee primarie, la cui diagnosi in età
pediatrica si basa principalmente su criteri clinici, come proposto
dalla International Headache Society (IHS) nel 1988 (Olesen, 1988).
Nel 2004 è stata pubblicata dalla stessa IHS una classificazione modificata delle cefalee (International Classification of Headache Disorders; Olesen, 2004) che definisce dei criteri pediatrici per le cefalee
primarie (emicranie incluse) (Tabb. I e II).
L’articolo considera le evidenze attualmente disponibili sul trattamento in acuto ed il trattamento preventivo nel bambino con emicrania.
La linea guida pubblicata nel 2004 dell’American Academy of Neurology (AAN) (Lewis et al., 2004) forniva già delle utili indicazione terapeutiche, che sono qui riviste alla luce di studi randomizzati e controllati
più recenti. Gli studi attuali sul trattamento dell’attacco acuto di emicrania si concentrano particolarmente sui triptani, molecole agoniste
del recettore della serotonina a livello cerebrale, che provocano quindi
una vasocostrizione. Si tratta di farmaci che potenzialmente inibiscono la progressione degli eventi che portano clinicamente all’episodio
doloroso. In effetti, l’emicrania viene attualmente considerata la risultante di una complessa interazione tra vasocostrizione precoce e
successiva vasodilatazione cerebrale in risposta al rilascio di neurotrasmettitori e peptidi vasoattivi. Il rilascio di queste sostanze risulta
da un’attivazione neuronale che causa una onda di depolarizzazione
cellulare, la quale procede dalle regioni occipitali verso le regioni frontali (la cosiddetta spreading depression), (Rogawski, 2008). Mentre i
triptani agiscono in una fase piuttosto precoce, per il trattamento preventivo gli studi clinici si focalizzano sui farmaci bloccanti i canali del
calcio, come la flunarizina, che inibiscono il rilascio di peptidi vasoattivi
e ridurrebbe quindi l’infiammazione cerebrovascolare secondaria che
provoca il dolore (Olesen, 1990) e gli antiepilettici, che inibirebbero la
spreading depression (Calabresi et al., 2007).
Una volta posta la diagnosi di emicrania pediatrica, che come nell’adulto può manifestarsi con o senza prodromi vegetativi (la cosiddetta aura), va quindi messo in atto un programma terapeutico
completo per trattare gli attacchi e/o prevenirli.
Le opzioni terapeutiche comprendono l’utilizzo di:
1) un trattamento acuto episodico;
2) l’uso di farmaci preventivi degli attacchi frequenti o particolarmente invalidanti;
3) la prescrizione eventuale di interventi comportamentali, di supporto al trattamento farmacologico (Silberstein, 2000).
259
G. Galli Gibertini et al.
Tabella I.
Criteri dell’IHS per l’emicrania pediatrica senza aura.
A)
Almeno 5 attacchi di cefalea che rispondono ai criteri B–D
B)
Cefalee che durano da 1 a 72 ore
C)
Cefalea con almeno due delle 4 caratteristiche seguenti:
1) localizzazione bilaterale o unilaterale (frontale/temporale)
2) dolore pulsatile
3) intensità da moderata a severa
4) Aggravazione dall’attività fisica quotidiana
D)
Almeno 1 dei seguenti sintomi accompagna la cefalea
1) nausea o vomito
2) fotofobia e fonofobia
Tabella II.
Criteri dell’IHS per l’emicrania pediatrica con aura.
A)
B)
Almeno 2 attacchi di cefalea che rispondono al criterio B
Cefalea con almeno 3 delle caratteristiche seguenti:
1) uno o più sintomi dell’aura completamente reversibili
2) i sintomi dell’aura si sviluppano progressivamente su più di 4
minuti
3) la durata di ogni sintomo non supera i 60 minuti
4) la cefalea segue l’aura dopo un intervallo massimo di
almeno 60 minuti
Il trattamento acuto
I principi generali per il trattamento acuto delle emicranie pediatriche includono principalmente:
1) trattamento rapido dell’attacco;
2) ottenimento del recupero funzionale;
3) riduzione del ricorso all’automedicazione;
4) ottimizzazione del rapporto costo/beneficio;
5) riduzione degli effetti collaterali.
I dati esistenti si concentrano principalmente sulle emicranie pediatriche senza aura (Tab. III), Tra i farmaci impiegati, si considerano gli
studi sugli anti-infiammatori, per le loro proprietà antidolorifiche, e
quelli sui triptani, per il loro meccanismo di azione specifico contro
l’emicrania.
Le terapie più efficaci sono quelle che possono essere somministrate rapidamente all’inizio dell’attacco e che agiscono velocemente, È
infatti utile ricordare che nel bambino rispetto all’adulto gli attacchi
tendono a durare meno, potendo risolversi spontaneamente in poche ore, Ciò potrebbe spiegare almeno in parte la buona efficacia del
placebo, osservata in diversi studi.
Farmaci anti-infiammatori non steroidei
e paracetamolo
L’ibuprofene è stato il farmaco anti-infiammatorio non steroideo studiato con più rigore, spesso in confronto con il paracetamolo.
260
Due studi in doppio cieco con placebo hanno dimostrato che l’ibuprofene (7,5-10 mg/kg) è sicuro ed efficace nelle emicranie del
bambino, Il primo studio (n = 88) ha confrontato l’ibuprofene (10
mg/kg) al paracetamolo (15 mg/kg) e ad un placebo (Hamalainen et
al., 1997), Alla prima e seconda ora dalla somministrazione del farmaco, l’ibuprofene e il paracetamolo si sono dimostrati entrambi più
efficaci del placebo nel determinare una diminuzione del dolore (> 2
punti di riduzione su una scala di 5 punti), Alla seconda ora il sollievo del dolore emicranico era del 56% per l’ibuprofene, 53% per il
paracetamolo e del 36% per il placebo, La differenza di efficacia fra
l’ibuprofene e il paracetamolo non era statisticamente significativa,
Il paracetamolo era comunque efficace più rapidamente dell’ibuprofene, Il secondo studio (Lewis et al., 2002) forniva risultati simili, ma
dimostrava anche una maggiore efficacia del trattamento farmacologico nei ragazzi rispetto alle ragazze: queste ultime rispondevano
in modo simile al farmaco o al placebo, Non si osservavano in questo
studio delle significative differenze tra l’ibuprofene e il paracetamolo
nella frequenza di effetti collaterali.
Il paracetamolo e l’ibuprofene agiscono principalmente come analgesici, Sia l’ibuprofene che il paracetamolo si sono dimostrati sicuri
ed efficaci, anche se il paracetamolo sembra agire più rapidamente
e potrebbe forse essere utilizzato come prima scelta, Se consideriamo i diversi studi, la probabilità di avere un vantaggio (cioè combattere efficacemente l’attacco di emicrania) con l’assunzione di uno di
questi due farmaci (versus placebo) è di circa il 50%, Difatti, come
già osservato, il placebo ha comunque un discreto effetto, Questo
ci porta ad una considerazione più generale sul dolore in pediatria
e al suo trattamento, Capita frequentemente nella pratica clinica di
chiedersi quanto realmente il dolore riferito dal bambino sia reale
o quanto sia invece una espressione del bisogno di affetto e attenzione da parte dei genitori, Ad una analisi approfondita delle cause
scatenanti gli attacchi di emicrania in ambito ambulatoriale o ospedaliero, riscontriamo spesso dei fattori di stress emotivo, e ciò particolarmente negli adolescenti, È importante ricordare, soprattutto in
questi casi, l’utilità di terapie non farmacologiche, che includono un
miglioramento dello stile di vita (igiene del sonno, esercizio fisico),
gestione dello stress, biofeedback (Damen et al., 2005), L’obiettivo di tali trattamenti è soprattutto quello di individuare i fattori che
possono giocare un ruolo nell’apparizione delle crisi dolorose, ed
evitare la cronicizzazione della patologia attraverso una migliore gestione del dolore e dello stress (MgGrath et al., 2000), L’efficacia di
questi approcci è stata riportata in diversi studi (Holden et al., 1999),
Tra le tecniche che possono essere proposte alla famiglia ci sono
l’approccio cognitivo comportamentale e la terapia fisica, Il primo
cerca di modificare il rapporto che il bambino ha con la percezione
del proprio dolore, Oltre a necessitare di un follow-up da parte di
uno psicoterapeuta, si insegnano al paziente l’ipnosi-analgesia ed
alcune tecniche di distrazione e di immaginazione visiva (Wood e
Bioy, 2008), L’approccio non farmacologico alle emicranie attraverso
la terapia fisica consiste nell’esercizio fisico, nell’agopuntura, nella
terapia termica e nella neurostimolazione transcutanea, anche se a
tutt’oggi i benefici nei bambini non sono scientificamente dimostrati e si ricavano da studi sull’adulto (Witt et al., 2008), Nella nostra
esperienza, otteniamo una gestione del dolore soddisfacente e un
miglioramento della qualità della vita riferita dal bambino con l’impiego dei due approcci in associazione, vale a dire con un esercizio
fisico regolare e delle tecniche di ipnosi-analgesia, che hanno lo
scopo ultimo di innalzare la soglia del dolore,
Più raramente si possono osservare dei bambini che simulano una
cefalea, per ottenere gli stessi vantaggi affettivi (difficilmente si riscontrano i criteri necessari alla diagnosi di emicrania), In ogni caso,
Il trattamento dell’emicrania nel bambino
Tabella III.
Riassunto delle evidenze per il trattamento degli attacchi acuti di emicrania.
Farmaco
Classe
dello studio
Numero pazienti
Efficacia
del farmaco (%)
Efficacia
del placebo (%)
p
Ibuprofene
10 mg/kg
7,5 mg/kg
I
I
88
84
68
76
37
53
0,05*
0,006
Paracetamolo
15 mg/kg
I
88
54
37
0,05*
I
I
I
14
510
83
85,7
66
64
42,8
53
39
0,03
0,05
0,003
Sumatriptan
Nasale
20 mg
5, 10, 20 mg
10, 20 mg
Orale
50, 100 mg
Sottocute
3, 6 mg
0,06 mg/kg
I
23
30
22
NS
IV
IV
17
50
64
78
—
—
—
—
Rizatriptan
Orale
5 mg
5-10 mg
I
I
296
96
66
74
56
36
NS
0,001
IV
38
85
—
—
I
171
58,1
43,3
0,05*
Zolmitriptan
Orale
2,5, 5 mg
Nasale
5 mg
*
Valori esatti di p non indicati, NS: non significativo
come già detto, l’influenza di fattori emotivi sulla percezione del
dolore a livello cerebrale spiega in parte l’effetto del placebo, che
è stato già ampiamente descritto in letteratura. In casi selezionati
si potrebbe giustificarne pertanto l’impiego, sia in ambulatorio che
in pronto soccorso, soprattutto allo scopo di evitare delle scalate
terapeutiche che non sono prive di effetti collaterali, In caso di insuccesso, e solo in questi casi selezionati, si potrà passare ad un
trattamento farmacologico vero e proprio.
Per quanto riguarda il trattamento specifico dell’emicrania, i triptani
sono le molecole attualmente più impiegate ed efficaci, anche se gli
studi nel bambino sono scarsi.
matriptan per via sottocutanea (MacDonald, 1994; Linder, 1996), Nel
primo studio, in bambini di età compresa fra 6 e 16 anni (n = 17) si è
utilizzata una dose di 6 mg per i bambini di peso > 30 kg e di 3 mg
per bambini di peso < 30 kg, Le iniezioni si rivelavano efficaci nel
64% dei casi con effetti collaterali quali senso di oppressione a livello del torace e del collo e parestesie di durata di circa 15 minuti in
15 pazienti su 17, Un secondo studio su 50 pazienti di età compresa
fra 6 e 18 anni, con dosi di 0,06 mg/kg, ha riscontrato una efficacia
nel 78% dei bambini con il 26% dei pazienti che hanno risposto
nei 30 minuti, un altro 46% nei 60 minuti, e un 6% supplementare
entro le 2 ore, Il tasso di recidiva dell’emicrania era del 6%, Anche in
questo studio, la maggioranza dei bambini (80%) presentava effetti
collaterali quali parestesie a livello del collo, testa e torace, L’impiego di sumatriptan in compresse nei bambini non ha fornito prove di
superiorità rispetto al placebo (Hamalainen et al., 1997).
Sumatriptan
Rizatriptan
Il sumatripan, disponibile nella forma di spray nasale, iniezione sottocute e compresse, è stato sottoposto a diversi studi in doppio cieco contro placebo,
Tre studi controllati e randomizzati di classe I hanno dimostrato l’efficacia e la sicurezza del sumatripan spray nasale nell’adolescente
con emicrania (Ueberall, 1999; Winner et al., 2000; Ahonen et al.,
2004), In totale, sono stati studiati più di 600 bambini ed adolescenti, e l’efficacia del sumatriptan per via intranasale contro placebo
è stata statisticamente significativa in tutti e tre gli studi, L’effetto
collaterale del sumatriptan nasale più frequentemente riportato è
stata una sensazione gustativa sgradevole (Ahonen et al., 2004),
Due studi clinici aperti (classe IV) hanno analizzato l’efficacia del su-
Gli studi sul rizatriptan nel bambino sono limitati, Uno studio di classe
I (n = 296) non ritrovava differenze da un punto di vista dell’analgesia
nelle prime due ore versus il placebo (rizatripan 66%, placebo 56%;
p = 0,79) (Winner et al., 2002), Il rizatriptan si mostrava invece efficace in uno studio più recente nei bambini di età superiore ai 6 anni
(Ahonen et al., 2006), Il rizatriptan è in genere ben tollerato, con effetti
collaterali non gravi: astenia, vertigini, secchezza delle mucosa orale.
Agonisti del recettore della 5-idrossitriptamina
(5-HT) – Triptani
Zolmitriptan
Uno studio multicentrico di classe IV sullo zolmitriptan per via orale,
condotto su adolescenti di 12-17 anni (n = 38) che avevano presentato in totale 276 attacchi di emicrania, mostrava una buona tol-
261
G. Galli Gibertini et al.
leranza al trattamento ed una efficacia del 66% (Linder e Dowson,
2000), Più recentemente, la forma intranasale veniva valutata in uno
studio contro placebo in 298 adolescenti americani (Lewis et al.,
2007), con una buona efficacia e rapidità di azione.
Alla base dell’impiego di farmaci “mirati” quali i triptani, resta la diagnosi di emicrania, che è clinica, Se si leggono attentamente i criteri
diagnostici riportati nella tabella 1, per una diagnosi di emicrania pediatrica si richiedono almeno 5 attacchi, Che fare quindi nel bambino
al terzo, quarto episodio? La scelta di tentare o meno uno dei triptani
in caso di episodi molto dolorosi e per i quali i farmaci anti-dolorifici si
sono dimostrati inefficaci, resta al medico, Ma nel caso di precedenti
episodi di durata molto lunga ed invalidanti, un tentativo è probabilmente giustificato, Tra i triptani, il sumatripan è l’agonista del recettore
5-HT che ha dato sinora delle solide prove di efficacia, con un profilo
più efficace nella sua forma di spray nasale, che è tra l’altro di comoda
somministrazione, La somministrazione nasale ha il vantaggio di poter
essere usata anche nei casi di emicrania associati a nausea o vomito,
È però importante che il sumatriptan nasale sia somministrato all’apparire dei primi sintomi, ed è quindi indispensabile avere il flacone
pre-dosato sempre a portata di mano.
Raccomandazioni
Le indicazioni recenti della letteratura consigliano di gestire l’emicrania in prima battuta con un trattamento analgesico, quale il paracetamolo (livello di evidenza B) o l’ibuprofene (livello di evidenza
A), anche per via endovenosa se necessario – tipicamente se si è al
pronto soccorso ed è presente vomito.
L’uso dei triptani, quali il sumatriptan nasale (> 12 anni, livello di
evidenza A) è riservato ai casi particolari su menzionati, ed una volta
ottenuta la diagnosi definitiva, Ci sembra molto utile ricordare che
molte patologie possono mimare degli attacchi di emicrania (cefalee secondarie) e talvolta la diagnosi resta difficile (ad esempio con
l’epilessia occipitale benigna, in quanto possono riscontrarsi anche
in casi di emicrania delle alterazioni all’elettroencefalogramma),
Il riferimento ad un neuropediatra in caso di dubbio diagnostico è
sempre indicato, soprattutto prima di iniziare un trattamento specifico.
Il trattamento preventivo
I principi generali per quanto riguarda gli obiettivi del trattamento
preventivo delle emicranie sono:
1) ridurre la frequenza, la severità e la durata degli attacchi;
2) migliorare la risposta al trattamento dell’attacco acuto;
3) migliorare la qualità di vita del paziente.
Per raggiungere questi obiettivi, ci sembra indispensabile arrivare precocemente ad una presa in carico globale del paziente, che
implichi soprattutto l’interazione con in genitori, È infatti cruciale
definire con loro gli obiettivi terapeutici a medio e lungo termine,
specificando anche la possibilità di un insuccesso, La partecipazione
dei genitori (e del bambino o adolescente) è fondamentale per avere
dei dati oggettivi sugli attacchi di emicrania, In pratica, compilare
un diario che riporti il giorno della crisi con tutte le caratteristiche
(localizzazione, intensità, durata, sintomi associati …) e con la risposta eventuale al trattamento acuto permette di meglio definire
la necessità di un trattamento preventivo, o anche di modificarlo,
L’indicazione ad un trattamento preventivo si basa su una frequenza
262
di attacchi superiore a due per settimana o di attacchi più rari ma
particolarmente invalidanti e senza efficacia dei trattamenti episodici, I farmaci a disposizione per il trattamento preventivo non sono
molto numerosi, e spesso non sono studiati sufficientemente nel
bambino, Inoltre, molti di questi studi sono datati, e per altri ci si
basa su esperienze piuttosto che su dati scientifici.
Agenti anti-ipertensivi
Beta-bloccanti
Il propanololo, beta-bloccante non selettivo, è stato studiato in tre
studi clinici di classe II con risultati discordanti, Uno studio in doppio
cieco in bambini di età compresa fra i 7 e i 16 anni (n = 28), utilizzando dosi comprese tra 60 e 120 mg al giorno, ha ritrovato una
remissione completa in 20 bambini su 28 (71%) e una riduzione
parziale nella frequenza delle crisi in 3 pazienti (10%), Nel gruppo
placebo 3 bambini su 28 hanno riportato una remissione completa e
1 su 28 un miglioramento parziale (Ludvigsson, 1974), Un secondo
studio (n = 39; Forsythe et al., 1984) non è riuscito a dimostrare
l’efficacia preventiva del propanololo a dosi comprese tra 80 e 120
mg al giorno, Un terzo studio ha messo a confronto il propanololo
(ad una dose di 3 mg/kg/die) e l’autoipnosi (Olness et al.; 1987),
Non sono stati riscontrati benefici significativi con il propanololo, ma
piuttosto importanti miglioramenti grazie all’autoipnosi.
Clonidina
Si tratta di un farmaco agonista alfa adrenergico, che è stato valutato principalmente in due studi, Il primo studio (classe II) prevedeva
due fasi, La prima fase pilota (n = 50) era disegnata come uno studio aperto: 40% dei bambini riportavano un notevole miglioramento negli attacchi acuti di emicrania rispetto ai controlli, La seconda
fase di follow-up in doppio cieco su 43 bambini non dimostrava differenze significative contro il placebo (Sills et al., 1982), Gli effetti
collaterali quali sedazione ed enuresi, attesi nel gruppo trattato con
clonidina, erano invece erano più frequenti nel gruppo placebo, Un
secondo studio ha messo a confronto la clonidina contro placebo in
gruppi paralleli (classe II) per 2 mesi (n = 57) (Sillanpaa, 1987), Non
è risultata esserci alcuna differenza significativa fra i due gruppi:
9 pazienti su 28 nel gruppo clonidina riportavano scomparsa delle
emicranie contro 9 pazienti su 26 nel gruppo placebo.
Antidepressivi
Gli antidepressivi sono diventati un caposaldo della profilassi delle
emicranie in molti paesi europei, nonostante esistano un numero
limitato di dati a sostegno di questa indicazione, Attualmente si considerano utili nei casi con associata comorbidità di tipo depressivo o
di disturbi del sonno (Shurks et al., 2008).
Amitriptilina
In uno studio aperto di classe IV su 192 bambini con cefalee frequenti
(almeno tre episodi al mese), 70% presentavano dei criteri diagnostici
compatibili con una emicrania e venivano trattati con amitriptilina (1
mg/kg/die) (Hershey et al., 2000), Oltre l’80% dei pazienti presentava una riduzione statisticamente significativa della frequenza e della
severità delle emicranie, ma nessun cambiamento per quanto riguardava la durata degli episodi, Gli effetti collaterali del trattamento erano descritti come minimi dagli autori, ma non specificati, Uno studio
retrospettivo di classe IV sull’uso degli agenti preventivi nel bambino
e nell’adolescente (n = 73) mostrava che l’amitriptilina produceva un
Il trattamento dell’emicrania nel bambino
tasso di risposte positive dell’89%, Tale tasso veniva definito come
una progressiva diminuzione della severità e della durata della cefalea, ed era valutato insieme alla tollerabilità del farmaco, La frequenza
delle cefalee veniva ridotta da una media di 11 episodi al mese a 4,1,
L’effetto collaterale più frequentemente riportato era una moderata
sedazione (Lewis et al., 2004).
Bloccanti dei canali del calcio
Flunarizina
È un farmaco che si è dimostrato efficace in uno studio clinico di
classe I su 63 pazienti, ed alla dose di 5 mg al giorno, L’effetto collaterale più frequente era l’incremento ponderale, riscontrato nel
22,2% dei casi (Sorge et al., 1988), Altri studi successivi hanno dimostrato una efficacia simile (Victor e Ryan, 2003).
Anticonvulsivanti
Considerando le visioni attuali sulla fisiopatologia delle emicranie, si
può prevedere che l’interesse degli studiosi e delle case farmaceutiche si rivolgerà sempre più verso gli anticonvulsivanti, come è successo per il topiramato o anche per il sodio valproato (Shaygannejad
et al., 2006), la lamotrigina (Gupta et al., 2007) e su altre molecole
agenti a livello neuronale.
Topiramato
Uno studio retrospettivo (classe IV) attesta l’efficacia del topiramato
nelle cefalee frequenti del bambino (più di 15 episodi al mese) (Hershey et al., 2002), Tale studio ha incluso 75 pazienti, di cui 41 si sono
presentati ad una seconda visita di follow-up, Venivano usate dosi
giornaliere di circa 1,5 mg/kg/die, ottenendo una riduzione della frequenza delle cefalee da 16,5 a 11,6 cefalee/mese (p < 0,001), Notevoli miglioramenti venivano ottenuti anche per quanto riguardava la
severità e la durata media della cefalee, Fra gli effetti collaterali più
significativamente associati a tale trattamento vi erano i deficit cognitivi (12,5%), la perdita di peso (5,6%) ed i sintomi sensitivi (2,8%),
Recenti studi multicentrici, in particolare uno americano su un campione molto numeroso (Diener et al., 2007), hanno fornito ulteriore
prova dell’efficacia del topiramato (Winner et al., 2006; Limmroth et
al., 2007; Lakshmi et al., 2007), Lo studio di Dienner et al. ha anche
fornito una possibile risposta alla durata della terapia preventiva, che
si conclude essere di 6 mesi, con una eventuale opzione di prolungarla
ancora 6 mesi in caso di ripresa importante degli episodi.
Raccomandazioni
Le indicazioni recenti della letteratura sono in favore della flunarizina e del topiramato (livello di evidenza B), Quel che ci preme
sottolineare sul trattamento preventivo dell’emicrania nella pratica clinica è l’attenzione alla sorveglianza della terapia, Assicurarsi che il trattamento sia preso regolarmente, e che non ci siano
effetti collaterali di rilievo, è il primo passo per decidere o meno
di modificarlo, Altro problema è quello dell’abuso di analgesici o
anti-emicranici, Purtroppo non si è ancora giunti ad un consenso
sul trattamento di queste dipendenze ed anche molecole che
sembravano promettenti, come il prednisolone, si sono rivelate
inefficaci (Bøe et al., 2007), È quindi importante rivolgersi ad un
centro per il trattamento delle emicranie nei casi a gestione più
complessa, particolarmente nelle emicranie farmaco-resistenti,
per affinare la diagnosi eziologica ed escludere delle cause rare
di emicranie secondarie (ad esempio quelle associate a malformazioni cardiache tipo ostium secundum (Fernandez-Maryolales
et al., 2007).
Conclusioni
Gli studi più recenti si concentrano soprattutto sul trattamento
acuto, e in particolar modo sull’efficacia di diversi triptani contro
placebo, Più rari sono gli studi comparativi versus ibuporofene,
come ad esempio quello di Evers et al. (2006), che forniscono
nello specifico risultati comparabili tra l’anti-infiammatorio e lo
zolmitriptan orale, Purtroppo sono ancora pochi gli studi comparativi tra i diversi triptani, forse anche per gli interessi delle
aziende farmaceutiche, che hanno interesse a mostrare la superiorità rispetto ad un placebo, data la prevalenza elevata della
patologia.
I principi generali della gestione del bambino e all’adolescente
con emicrania riflettono la necessità di un corretto trattamento,
sia per l’attacco acuto che per l’eventuale prevenzione delle recidive.
Gli obiettivi clinici da perseguire sono volti miglioramento della qualità di vita dei bambini con emicrania, e possono essere riassunti nei
seguenti punti:
• diminuzione della frequenza, severità e durata degli attacchi;
• riduzione dell’impiego inappropriato ed intempestivo di più farmaci allo stesso tempo nei casi acuti;
• educazione del paziente a gestire la patologia, sia formandolo al
controllo dell’attacco di emicrania (terapia del dolore), che sorvegliando un possibile calo della fiducia rispetto alla farmacoterapia, se quest’ultima si avvera mal tollerata o inefficace;
• diminuzione della sofferenza psicologica, che si riscontra soprattutto nelle emicranie di lunga durata o molto frequenti, con
la prescrizione di terapie comportamentali.
263
G. Galli Gibertini et al.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
• Le cefalee e le emicranie sono difficilmente diagnosticabili nel bambino in età scolare
• Il trattamento della cefalea nel bambino si basa sul paracetamolo
Cosa sappiamo adesso
• L’emicrania é una patologia frequente anche nel bambino
• La fisiopatologia dell’attacco di emicrania é ben conosciuta
• I farmaci attualmente in uso per l’attacco acuto sono gli anti-infiammatori ed i triptani
• I farmaci impiegati per la prevenzione degli episodi dolorosi sono la flunarizina ed il topiramato
Cosa ci attendiamo nel futuro
• Le conoscenze attuali sulla fisiopatologia dell’emicrania permetteranno di sviluppare altri farmaci mirati
• Gli studi clinici sui nuovi triptani avanzano rapidamente nell’adulto e queste molecole saranno a breve disponibili per l’età pediatrica
• L’attenzione portata anche sulla qualità di vita del bambino con cefalea consentirà una migliore presa in carico globale per tutti i pazienti.
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Corrispondenza
dott. Luigi Titomanlio, Service d’Accueil des Urgences Pédiatriques, Hôpital Robert Debré, 48 Bld Sérurier, 75019 Paris (F) • Tel. +33 01.40.03.40.05
• Fax +33 01.40.03.47.74 • E-mail: [email protected]
265
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 266-283
LINEE GUIDA
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Alessandra Marchesi, Giacomo Pongiglione*, Alessandro Rimini*, Riccardo Longhi**,
Alberto Villani
U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma, Società Italiana di Pediatria (SIP,
SIPPS); * Dipartimento Cardiovascolare, Cardiologia e Cardiologia Invasiva, Istituto Giannina Gaslini IRCCS, Genova
(SICP); **U.O. Pediatria, Ospedale S. Anna, Como (SIP)
Con la partecipazione di
Armando Calzolari, U.O.C. Medicina Cardiorespiratoria e dello Sport, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS,
Roma (GSBS)
Carmela Caputo, U.O. Pediatria Empoli ASL 11 (FI) (SIP)
Rolando Cimaz, Servizio Reumatologia Pediatrica, Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer, Firenze (SIP, Gruppo
di Studio di Reumatologia Pediatrica)
Elisabetta Cortis, U.O.C. Reumatologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP, Gruppo di Studio
di Reumatologia Pediatrica)
Michaela V. Gonfiantini, U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP)
Annalisa Grandin, U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP)
Patrizia D’Argenio, U.O.C. Immunoinfettivologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIP)
Andrea De Zorzi, U.O.C. Cardiologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SICP)
Rosa Maria Dellepiane, U.O.C. Pediatria 2, Fondazione Policlinico IRCCS, Milano (SIP, SIAIP)
Maya El Hachem, U.O.C. Dermatologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma (SIDERP)
Fernanda Falcini, Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer, Firenze (SIP, Gruppo di Studio di Reumatologia
Pediatrica)
Alberto Fischer, U.O. Pediatria, Acireale CT (SIP)
Luisa Galli, U.O. Malattie Infettive, Clinica Pediatrica I, Università di Firenze (SITIP)
Raffaella Giacchino, U.O. Malattie Infettive, Istituto Giannina Gaslini IRCCS, Genova (SITIP)
Emanuela Laicini, U.O.C. Emergenza Urgenza Pediatrica, Fondazione Policlinico IRCCS, Milano (SIP, SIAIP)
Maria Francesca Manusia, s.s.d. Cardiologia Pediatrica, A.O.U. Parma (SIP; Gruppo di Studio in Cardiologia
Pediatrica)
Maria Cristina Pietrogrande, Clinica Pediatrica II, Università di Milano, Fondazione Policlinico IRCCS (SIP, SIAIP)
Ruggiero Piazolla, Pediatra Famiglia, Barletta (BA) (FIMP)
Patrizia Salice, U.O. Cardiologia, Sezione Pediatrica, Fondazione Policlinico Mangiagalli Regina Elena IRCCS, Milano
(GSBS)
Alberto Tozzi, U.O. Epidemiologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma (SIAIP)
Francesco Zulian, Unità Reumatologia Pediatrica, Università di Padova (SIP, Gruppo di Studio di Reumatologia
Pediatrica)
Con la consulenza della Commissione Tecnica Linee Guida della SIP:
Coordinatore: Riccardo Longhi
Componenti: M. Osti, A. Palma, S. Santucci, R. Sassi, A. Villani, R. Zanini
266
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Scopo
Scopo di queste Linee Guida (LG) è definire:
blicazione in letteratura di dati che rendano le sue raccomandazioni
o il loro grading obsoleti.
• le evidenze sulla possibile eziopatogenesi della malattia di
Kawasaki;
Metodologia
• le evidenze sull’accuratezza di segni e sintomi clinici, diagnostica di laboratorio e per immagini;
Per sviluppare queste Linee Guida, la SIP ha collaborato con la Società Italiana di Cardiologia Pediatrica (SICP), la Società Italiana di
Infettivologia Pediatrica (SITIP), il Gruppo di Studio di Reumatologia
Pediatrica, la Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica (SIAIP), la Società Italiana di Dermatologia Pediatrica (SIDERP), la
Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), il Gruppo
di Studio Bambino Sportivo (GSBS), la Federazione Italiana Medici
Pediatri (FIMP), il Gruppo di Studio di Pediatria Ospedaliera (GSPO).
Questa commissione ha incluso esperti di pediatria generale, cardiologia, infettivologia, reumatologia, immuno-allergologia, dermatologia, epidemiologia, ai quali è stato chiesto di eseguire una
sistematica analisi della letteratura esistente, per definire le attuali
conoscenze circa:
• le evidenze di efficacia della terapia della fase acuta con immunoglobuline endovena ed aspirina;
• le evidenze di efficacia delle altre terapie in fase acuta;
• le evidenze di efficacia della terapia in fase cronica e delle complicanze;
• le evidenze di efficacia del follow-up a breve termine
• le evidenze di efficacia del follow-up a lungo termine.
Utilizzatori
Queste LG sono rivolte ai pediatri che lavorano sul territorio o in
strutture ospedaliere, ai medici di medicina generale e agli infermieri che si occupano di bambini affetti da malattia di Kawasaki.
Note per gli utilizzatori
Le decisioni cliniche sul singolo paziente, per essere razionali ed
adeguate alle effettive necessità del caso, richiedono sicuramente
l’applicazione di raccomandazioni condivise dalla massima parte
degli esperti e fondate sulle migliori prove scientifiche, ma non possono prescindere dall’esperienza clinica e da tutte le circostanze
di contesto. La Società Italiana di Pediatria (SIP), insieme a tutte le
Società Scientifiche che hanno collaborato alla stesura di queste
linee guida e hanno accettato di divulgarle, è lieta di mettere a disposizione del pediatra un documento di indirizzo per affrontare in
modo razionale e corretto il problema della malattia di Kawasaki del
bambino per il quale sono mancate, fino ad oggi, in Italia, direttive
diagnostico-terapeutiche condivise.
Finanziamenti
La redazione delle LG è risultata indipendente da fonti di supporto
economico. Tutti coloro che hanno partecipato all’elaborazione delle
linee guida hanno dichiarato di non trovarsi in una posizione di conflitto d’interesse.
Promulgazione, disseminazione
Il testo è stato presentato e discusso nel dettaglio durante il 63°
Congresso Nazionale della S.I.P. a Pisa nel settembre 2007 e nel
successivo 64° Congresso a Genova il 15 ottobre 2008. È stato
successivamente modificato e approvato da tutti gli autori nella sua
versione definitiva il 15 ottobre 2008.
L’impatto di questo testo nella pratica pediatrica sarà analizzato con
studi ad hoc volti a confrontare l’approccio diagnostico-terapeutico
alla malattia di Kawasaki, prima e dopo la sua lettura.
Aggiornamento
È prevista una revisione delle LG fra tre anni o prima, in caso di pub-
• le evidenze sulla possibile eziopatogenesi della malattia di
Kawasaki;
• le evidenze sull’accuratezza di segni e sintomi clinici, diagnostica di laboratorio e per immagini;
• le evidenze di efficacia della terapia della fase acuta con immunoglobuline endovena ed aspirina;
• le evidenze di efficacia delle altre terapie in fase acuta;
• le evidenze di efficacia della terapia in fase cronica e delle complicanze;
• le evidenze di efficacia del follow-up a breve termine
• le evidenze di efficacia del follow-up a lungo termine.
Come documento di base sono state utilizzate le LG americane
Diagnosis, treatment, and long-term management in Kawasaki
disease: a statement for health professionals from the committee
on rheumatic fever, endocarditis and Kawasaki disease, council on
cardiovascular disease in the young redatte dall’American Heart Association, nel 2004 1.
Inoltre è stata eseguita una ricerca bibliografica degli ultimi dieci
anni, utilizzando i data base Medline e Cochrane, e i motori di ricerca
Sumsearch, e-medicine, adc-bmjjournals.
Sono state utilizzate le seguenti parole-chiave: “bambino”, “malattia di Kawasaki”, “dilatazioni coronariche”, “aneurismi coronarici”,
“ecocardiografia”, “TC multistrato”, “angiografia”, “immunoglobuline endovena”, “aspirina”, “corticosteroidi” “pentossifilline”, “farmaci biologici”, “follow-up” e limitando l’analisi alle pubblicazioni
relative a studi condotti sull’uomo e redatti in lingua italiana ed
inglese.
L’eterogeneità delle ricerche disponibili, così come la loro scarsa numerosità, non ha permesso l’esecuzione di una formale metanalisi
per i diversi punti.
Le raccomandazioni contenute in queste LG sono basate sulle migliori evidenze disponibili. Le raccomandazioni più forti si basano
sulla disponibilità di dati di alta qualità scientifica o, in mancanza
di questi, sul forte consenso degli esperti. Le raccomandazioni più
deboli derivano da dati di minore qualità scientifica.
I livelli delle prove (evidenze) disponibili e la forza delle raccomandazioni sono stati classificati secondo il Piano Nazionale Linee Guida,
come riportato di seguito.
267
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Livelli di prova
Prove di tipo
I Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati e/o da
revisioni sistematiche di studi randomizzati.
II Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno adeguato.
III Prove ottenute da studi di coorte non randomizzati con controlli
concorrenti o storici o loro metanalisi.
IV Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o loro
metanalisi.
V Prove ottenute da studi di casistica (“serie di casi”) senza gruppo di controllo.
VI Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di
esperti come indicato in linee guida consensus conference.
Forza delle raccomandazioni
A L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è
fortemente raccomandata. Indica una particolare raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona qualità, anche se
non necessariamente di tipo I o II.
B Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura
o intervento debba sempre essere raccomandata, ma si ritiene
che la sua esecuzione debba essere attentamente considerata.
C Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento.
D L’esecuzione della procedura non è raccomandata.
E Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura.
Introduzione
La malattia di Kawasaki (MK), descritta per la prima volta in Giappone nel 1967 da Tomisaku Kawasaki 2, è una vasculite acuta
sistemica che colpisce i vasi di medio calibro di tutti i distretti
dell’organismo.
La complicanza più temibile è rappresentata dagli aneurismi coronarici, la cui incidenza viene significativamente ridotta quando i
pazienti sono trattati con immunoglobuline entro il decimo giorno
dall’esordio della febbre 3 4.
A livello mondiale, le incidenze annuali riportate variano tra 3,4 e
100/100.000 5.
La popolazione considerata in queste LG pertanto è costituita da
pazienti di età pediatrica, compresi i lattanti.
La diagnosi di malattia di Kawasaki è clinica, basata su criteri clinici
diagnostici, con il contributo di esami ematochimici e strumentali,
pertanto, spesso, è una diagnosi difficile.
Le maggiori difficoltà diagnostiche sono rappresentate dal fatto
che alcuni bambini sviluppano complicanze coronariche senza
soddisfare i criteri diagnostici e che manifestazioni cliniche diverse da quelle caratteristiche possono essere il primo sintomo.
La diagnosi precoce è però essenziale perché la prognosi della malattia è legata alla precocità del trattamento.
268
L’obiettivo di queste LG è fornire raccomandazioni il più possibile
basate sulle evidenze scientifiche per identificare i corretti percorsi
diagnostici e terapeutici, per ottimizzare i risultati prognostici.
L’utilizzazione di percorsi omogenei semplifica la gestione diagnostico-terapeutica e costituisce uno strumento utile per il personale
sanitario che può così disporre di elementi oggettivi per verificare il
proprio modus operandi.
Queste LG sono rivolte ai pediatri che lavorano sul territorio o in
strutture ospedaliere, ai medici di medicina generale e agli infermieri che si occupano di bambini affetti da malattia di Kawasaki.
Definizione di malattia di Kawasaki
Forma classica
La MK è una vasculite acuta sistemica che colpisce i vasi di medio
calibro di tutti i distretti dell’organismo, autolimitante, ad eziologia
sconosciuta, probabilmente multifattoriale, che colpisce prevalentemente lattanti e bambini nella prima infanzia.
È caratterizzata da febbre da più di 5 giorni associata a ≥ 4 dei seguenti segni o criteri clinici: iperemia congiuntivale bilaterale, eritema delle labbra e della mucosa orale, anomalie delle estremità, rash
e linfoadenopatia cervicale.
La diagnosi di MK si basa sulla presenza dei suddetti criteri clinici 1 4.
Non esistono caratteristiche cliniche patognomoniche o un test diagnostico specifico.
La complicanza più temibile è rappresentata dagli aneurismi coronarici, la cui incidenza viene ridotta dal 15-25% a meno del 5,
quando i pazienti sono trattati con immunoglobuline entro il decimo
giorno dall’esordio della febbre 3 4.
In letteratura è segnalato un numero crescente di bambini che presenta rilievo ecocardiografico di alterazioni delle coronarie (dilatazione, aneurismi) senza soddisfare pienamente i criteri diagnostici
classici, pertanto sono stati coniati i termini di MK incompleta e MK
atipica.
Forma incompleta
Il termine incompleta si riferisce ai pazienti che, in associazione alla
tipica febbre, non presentano il numero sufficiente di criteri diagnostici, pur presentando alterazioni coronariche.
Tale forma di MK è più frequente nei bambini al di sotto dei 12 mesi,
pertanto dovrebbe essere sospettata in ogni lattante di età < 6 mesi
con febbre da più di 7 giorni ed infiammazione sistemica documentata, senza una causa spiegabile.
Forma atipica
Il termine atipica si riferisce ai pazienti che presentano all’esordio, oltre
alla febbre caratteristica, sintomi diversi dalle manifestazioni tipiche,
che in genere non si rilevano nella MK (es., un coinvolgimento renale, polmonite a lenta risoluzione, pancreatite acuta, paralisi del faciale,
ecc.), in associazione alle alterazioni coronariche.
Codice identificativo
Recentemente è stata formulata la proposta di utilizzare un codice
identificativo nella malattia di Kawasaki, che dia indicazioni relative
alla forma, al coinvolgimento cardio-vascolare, al livello di rischio
(Tab. I). In particolare, si è proposto di indicare il tipo di forma con
C/I/A (ove C classica, I incompleta, A atipica), il coinvolgimento cardio-vascolare (come 0/1/2/M/V ove 0 assente, 1 presenza di dilatazione coronarica, 2 presenza di aneurisma coronario, M miocardite,
V coinvolgimento vascolare), identificando eventualmente anche la
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Tabella I.
Codice identificativo.
Forma
Coinvolgimento cardiovascolare
C classica
Tabella II.
Incidenza annuale di MK in bambini di età inferiore a 5 anni su
100.000.
I incompleta
Giapponesi
112
A atipica
Americani di origine asiatica o delle isole del Pacifico
325
0 assente
Americani africani
169
1 presenza di dilatazione coronarica
Americani ispanici
111
2 presenza di aneurisma coronario
Americani caucasici
91
M miocardite
V coinvolgimento vascolare
Coronaria interessata
D destra
S sinistra
DA discendente anteriore
Cx circonflessa
Livello di rischio
1-5 secondo la stratificazione dei
livelli di rischio
coronaria interessata (D destra, S sinistra, DA discendente anteriore,
Cx circonflessa). Infine, l’identificazione del livello di rischio verrebbe
eseguita secondo la stratificazione dei livelli di rischio da 1 a 5 (vedi
capitolo sul follow-up).
Quindi, ad esempio, C 0 R1 identificherà un paziente con forma classica, senza interessamento coronario, che appartiene alla stratificazione dei gruppi di rischio 1.
Epidemiologia
I dati epidemiologici disponibili sono americani e giapponesi, mancano in letteratura dati italiani e europei.
Tali studi evidenziano una maggiore incidenza della MK nei maschi
(rapporto maschi: femmine pari a 1.5-1.7: 1) 1.
La distribuzione per età e sesso mostra un picco tra i 9 e gli 11 mesi,
il 50% dei bambini ha età inferiore ai 2 anni e il 76% inferiore a 5
anni 1.
Anche i bambini più grandi possono esserne colpiti e, a causa di un
ritardo nella diagnosi, sono a maggior rischio di complicanze cardiovascolari.
La MK ha una maggiore prevalenza nei bambini di origine asiatica.
In Tabella II è rappresentata l’incidenza annuale di MK in bambini di
età inferiore a 5 anni su 100.000 in Giappone e nelle differenti etnie
presenti in America 5.
La letteratura mondiale riporta incidenze annuali che variano tra 3,4
e 100/100.000 5.
Per quanto riguarda le forme atipiche ed incomplete, l’incidenza è
stimata intorno al 40% nei bambini ≤ 12 mesi contro il 10-12% nei
bambini di età > 12 mesi.
Il rischio di ricorrenza e l’incidenza familiare di MK sono ben documentate solo nella letteratura giapponese, in rapporto alla maggiore
prevalenza della malattia in quella popolazione; tali percentuali potrebbero essere minori in altre etnie. In Giappone la proporzione di casi con
anamnesi familiare positiva per MK è pari all’1%; il rischio di malattia
per un fratello, entro un anno dalla comparsa del primo caso in famiglia, è dieci volte superiore rispetto a quello della popolazione generale,
pari cioè al 2,1%, mentre per i gemelli è addirittura del 13% 5. Il 50%
dei casi familiari si verifica, di solito, entro 10 giorni dal caso indice.
Per quanto riguarda le possibili complicanze, l’incidenza degli aneurismi coronarici è circa il 15-25% nei pazienti non trattati e < 5%
nei pazienti trattati con immunoglobuline entro il decimo giorno dall’esordio della febbre 3 4.
In particolare, però, nei bambini di età < 12 mesi, si stima che
l’incidenza di anomalie coronariche sia intorno al 40-50% (contro
15-25% dei soggetti di età superiore a 12 mesi), proprio perché
la diagnosi spesso risulta più difficile e pertanto il trattamento può
venire ritardato.
I decessi dipendono dalle sequele cardiologiche, sia a breve termine, con un picco di mortalità tra 15 e 45 giorni dopo l’esordio della
febbre, sia a lungo termine, anche in età adulta. Il tasso di mortalità
negli affetti da MK in Giappone era più dell’1% fino al 1974, diminuito allo 0,1-0,2 % dal 1974 al 1993, ulteriormente ridotto tra il 1993
e il 2002 a 0,02-0,09% 1.
È stata osservata una certa stagionalità, con picco di incidenza nel
tardo inverno ed inizio primavera, anche se di fatto tale associazione
nei diversi paesi non è così stretta.
Eziopatogenesi
L’eziopatogenesi della MK rimane ancora sconosciuta; sono state
suggerite diverse ipotesi (infettive, immunologiche e genetiche) che
probabilmente si integrano tra loro a delineare il quadro di una malattia multifattoriale.
L’identificazione di tali meccanismi sarebbe essenziale per elaborare
strategie preventive, primarie e secondarie, e terapeutiche (Fig. 1).
Presentazione e decorso clinico
Segni e sintomi
I segni e i sintomi diagnostici per MK, definiti anche “criteri clinici
diagnostici”, sono rappresentati da:
• febbre da più di 5 giorni;
• iperemia congiuntivale bilaterale;
• alterazioni delle labbra e della cavità orale;
• esantema polimorfo;
• alterazioni delle estremità;
• linfadenopatia cervicale 1 4.
La febbre, nella MK, è tipicamente elevata e remittente, scarsamente responsiva alla terapia antipiretica. In assenza di una terapia
adeguata, persiste in media 11 giorni, ma può continuare per 3-4
settimane, raramente anche più a lungo. Di solito si risolve dopo due
giorni di trattamento. Si è tentato di rivalutare il criterio “febbre”,
considerando pazienti con 4 giorni o meno per anticipare il tratta-
269
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Identificazione
agenti infettivi
Evitare
esposizioni
contagiose
Eziologia
agenti infettivi
superantigeni
Suscettibilità genetica
per infezioni
per alterazioni immunologiche
Vaccinazioni /
Ig iperimmuni
Identificare
ospiti
suscettibili
Superattivazione immunitaria
aumento CD4OL, citochine
ASA
IVIG
Anti-CD4OL
Inibitori i-NOS
Danno endoteliale
Vasculite
Aneurismi coronarici
Figura 1.
Interazione tra meccanismi eziopatogenetici, prevenzione e terapia.
mento con immunoglobuline (IVIG), senza però aumentare in modo
significativo il numero delle diagnosi 6.
La iperemia congiuntivale bilaterale è bulbare, risparmia il limbus,
cioè la zona avascolare intorno all’iride, generalmente non è dolorosa. Appare poco tempo dopo la comparsa della febbre. Con la
lampada a fessura è possibile rilevare una lieve iridociclite acuta o
uveite anteriore, a risoluzione rapida e raramente associata a fotofobia o dolore oculare.
Le alterazioni delle labbra e della mucosa orale comprendono eritema,
secchezza, fissurazioni, desquamazione e sanguinamento delle labbra, lingua a fragola, con eritema diffuso della mucosa orofaringea, in
assenza di vescicole, di ulcerazioni del cavo orale e di essudato.
Un rash eritematoso del tronco e delle estremità, comunemente maculo-papuloso, oppure orticarioide, o scarlattiniforme, o tipo eritema
multiforme o, raramente, finemente micropustoloso, appare generalmente entro 5 giorni dalla comparsa della febbre.
Le alterazioni delle estremità comprendono, in fase acuta di malattia, eritema palmo-plantare e/o edema duro, a volte doloroso, delle
mani e dei piedi. Entro 2-3 settimane dall’esordio della febbre si verifica una desquamazione delle dita, che solitamente inizia in regione periungueale e che può estendersi alla regione palmo-plantare.
Uno-due mesi dopo la comparsa della febbre, possono comparire le
linee di Beau, solchi trasversali profondi a livello delle unghie.
In fase acuta, inoltre, si può osservare un eritema perineale che
evolve precocemente in desquamazione. La Consensus Conference
EULAR/PRES ha recentemente proposto di modificare il criterio di
“anomalie delle estremità” in “anomalie delle estremità o dell’area
perineale” 7.
270
La linfoadenopatia laterocervicale è la meno comune delle principali caratteristiche cliniche. Generalmente è unilaterale, con uno
o più linfonodi di diametro > 1,5 cm, spesso fissi, di consistenza
parenchimatosa, senza segni di colliquazione e ricoperti da cute
integra.
Altre manifestazioni cliniche
Nella MK possono essere presenti anche altre manifestazioni cliniche, che sono elencate in Tabella III.
Decorso clinico
Dal punto di vista clinico si distinguono fase acuta, subacuta e di
convalescenza, come descritto in Tabella IV e Figura 2.
Fisiopatologia
Il processo fisiopatologico che determina le alterazioni cardiovascolari della MK può essere suddiviso in quattro stadi:
• stadio 1: comprende i primi 10 giorni di malattia, è caratterizzato
da vasculite e perivasculite acuta dei microvasi e delle piccole
arterie, tra cui i vasa vasorum delle coronarie. In questo periodo
possono comparire pericardite acuta, miocardite interstiziale,
endocardite ed infiammazione del tessuto di conduzione;
• stadio 2: compreso dall’undicesimo al venticinquesimo giorno,
è caratterizzato da peri- e pan-vasculite dei vasi di medio calibro ed in particolare delle coronarie, con interessamento elettivo
dell’intima.
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Tabella III.
Altre manifestazioni cliniche (in corsivo le più frequenti).
Cardiache: coronarite, pericardite, miocardite, endocardite, insufficienza mitralica, insufficienza aortica e tricuspidalica (in fase acuta), dilatazione bulbo
aortico (in fase più tardiva), insufficienza cardiaca, shock cardiogeno, aritmie, alterazioni coronariche (in fase subacuta)
Vascolari: fenomeno di Raynaud, gangrena periferica
Articolari: artralgia, artrite
Sistema Nervoso: irritabilità, meningite asettica, ipoacusia neurosensoriale, paresi facciale periferica unilaterale transitoria
Gastrointestinali: diarrea, vomito, dolori addominali, addome acuto, interessamento epatico, idrope acuta della colecisti
Urinari: piuria sterile, uretriti, tumefazione testicolare
Cutanei: eritema e tumefazione nel pregresso sito di inoculo del vaccino BCG, linee di Beau
Respiratori: tosse, rinorrea, noduli ed infiltrati polmonari
Tabella IV.
Fasi cliniche della MK.
Fase acuta (durata 1-2 settimane):
• presenza della febbre e degli altri segni acuti della malattia
Fase subacuta (durata fino alla 4ª settimana):
• ha inizio dopo la risoluzione della febbre e degli altri segni acuti
• possono persistere irritabilità, anoressia e congiuntivite
• si associa a desquamazione, trombocitosi, sviluppo di aneurismi coronarici
• è la fase a più alto rischio di morte improvvisa
Fase di convalescenza (durata dalla 5ª alla 8ª settimana):
• inizia alla scomparsa di tutti i segni clinici di malattia
• fino alla normalizzazione degli indici infiammatori
febbre
alterazioni ungueali
desquamazione
rash
anomalie estremità
congiuntivite
mucosite
linfoadenopatia
coronaropatia
trombocitosi
alterazione VES e PCR
1 sett.
2 sett.
Acuta
3 sett.
4 sett.
Subacuta
5 sett.
6 sett.
7 sett.
Convalescenza
8 sett.
9 sett.
Figura 2.
Decorso clinico a breve termine della MK.
271
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
In questa fase, la rottura della limitante interna può favorire la comparsa di dilatazioni e aneurismi coronarici, soprattutto alle biforcazioni ed ai segmenti coronarici prossimali, con successiva possibile
stenosi..Tipici di questa fase sono anche l’edema e la fibrosi perivascolare dei piccoli vasi e le lesioni infiammatorie del setto interatriale e interventricolare;
• stadio 3: dal ventiseiesimo al trentesimo giorno, è caratterizzato dalla possibile formazione di trombi granulomatosi con ispessimento
dell’intima delle piccole arterie, anche in assenza di aneurismi preesistenti. Scompaiono l’angioite dei vasi e l’eventuale cardite;
• stadio 4: ad inizio dal secondo mese di malattia, è caratterizzato
da proliferazione fibroblastica dell’intima, che riempie la zona
periferica del sacco aneurismatico, rispettando il lume del vaso,
con successiva cicatrizzazione e calcificazione delle coronarie.
Diagnosi differenziale
Anche nella diagnosi della forma tipica, proprio perché la diagnosi è
clinica, si raccomanda l’esclusione di altre malattie infettive in atto. In
particolare deve essere esclusa l’infezione acuta da adenovirus (mediante ricerca della DNA nel sangue con PCR) o altre infezioni batteriche da streptococco o stafilococco.
Sul piano pratico, se le indagini tese ad evidenziare un’eziologia virale possono essere utili, ma non escludono la necessità della somministrazione di immunoglobuline endovena, la possibilità di una
contemporanea infezione batterica in atto deve comportare l’effettuazione di una terapia antibiotica.
In Tabella V sono elencate le più comuni patologie che entrano in
diagnosi differenziale con la MK.
Gestione clinica
sfare i criteri diagnostici, la malattia ha un’espressione clinica polimorfa e che manifestazioni cliniche diverse da quelle caratteristiche
possono essere il primo sintomo.
La diagnosi precoce è però essenziale, perché la prognosi della malattia è legata alla precocità del trattamento. Pertanto, nel sospetto
di MK, è fondamentale ricercare nell’anamnesi l’eventuale presenza
di segni o sintomi compatibili con la diagnosi e consigliare il ricovero
ospedaliero per eseguire gli accertamenti diagnostici necessari.
Raccomandazione 1
La diagnosi di MK classica viene posta nei seguenti casi:
• febbre ≥ 5 giorni associata a ≥ 4 criteri diagnostici, anche
senza attendere l’esecuzione dell’ecocardiografia;
• febbre ≥ 5 giorni e < 4 criteri diagnostici con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie;
• febbre al quarto giorno con ≥ 4 criteri diagnostici ed anomalie ecocardiografiche.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione A) Raccomandazione 2
La diagnosi di MK incompleta viene posta in caso di:
• febbre ≥ 5 giorni associata a 2 o 3 criteri clinici diagnostici
con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie;
• lattanti < 6 mesi con febbre > 7 giorni e segni di infiammazione sistemica con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione A)
Raccomandazione 3
Diagnosi clinica (in base ai criteri diagnostici)
La diagnosi di MK atipica deve essere posta in caso di:
La diagnosi di MK si basa sulla presenza di criteri clinici diagnostici 1 4 in quanto non esistono caratteristiche cliniche patognomoniche
o un test diagnostico specifico.
Spesso si tratta di una diagnosi difficile per vari motivi: i criteri clinici
possono comparire in tempi diversi e talvolta essere così fugaci da
non essere rilevati, i segni clinici sono comuni a molte altre malattie,
i dati di laboratorio sono aspecifici ed infine la diagnosi è ancora più
complicata quando il quadro clinico è incompleto o atipico.
Le maggiori difficoltà diagnostiche sono rappresentate dal fatto che
alcuni bambini sviluppano complicanze coronariche senza soddi-
• febbre ≥ 5 giorni associata ad altre manifestazioni cliniche
con anomalie ecocardiografiche delle arterie coronarie.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione A)
L’American Academy of Pediatrics ha ideato un algoritmo diagnostico-terapeutico per supportare la decisione di trattamento in
bambini con criteri diagnostici non sufficienti, basato su dati di
laboratorio e rilievi ecocardiografici. Tale algoritmo, in assenza di
un gold standard per la diagnosi, rappresenta un forza di raccomandazione B (Fig. 3) 5.
Tabella V.
Diagnosi differenziale.
Patologie infettive
Patologie non infettive
Virali (rosolia, adenovirus, enterovirus, CMV, EBV, HSV, Parvovirus B19, HHV 6)
Reazioni da ipersensibilità a farmaci
Scarlattina
Sindrome di Stevens-Johnson
Sindrome da shock tossico
Artrite idiopatica giovanile
Staphylococcal scalded skin syndrome, linfadenite laterocervicale batterica
Panarterite nodosa
Bartonellosi
Sarcoidosi
Rickettiosi
Acrodinia da intossicazione da mercurio
Tularemia
Leptospirosi
272
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Febbre ≥ 5 gg
Presenza di 2 o 3 criteri clinici
VES e PCR
PCR < 3,0 mg/dl e VES < 40 mm/h:
seguire quotidianamente:
persiste per 2 gg
→
rivalutare caratteristiche paziente
se febbre si risolve con desquamazione cutanea
si risolve senza desquamazione cutanea →
→
neg: no tp
ECOCARDIO
nessun follow-up
pos: tp con ASA a 3-5 mg/kg/die
PCR ≥ 3,0 mg/dl e VES ≥ 40 mm/h:
≥ 3 criteri lab. suppl. * → MK (anche prima di ecocardio) ed ECOCARDIO
Positiva → MK
< 3 criteri lab. suppl. * → ECOCARDIO
Negativa
* Criteri di laboratorio supplementari:
albumina ≤ 3 g/dl
anemia con Hb < 2 DS per età
↑ ALT
PLT dopo 7 gg ≥ 450.000/mmc
GB ≥ 15.000/mmc
urine: GB ≥ 10/campo
apiressia: no MK
febbre persistente: 2a ecocardio e considerare IVIG
se non possibile altra sicura diagnosi
(Livello di prova V - forza della raccomandazione B)
Figura 3.
Algoritmo diagnostico-terapeutico per MK atipica ed incompleta (modificato da American Academy of Pediatrics 1).
Raccomandazione 4
Figura 3. Algoritmo diagnostico-terapeutico per MK atipica ed
incompleta (modificato da American Academy of Pediatrics) 1.
(livello di prova V; forza della raccomandazione B)
Indagini strumentali
Esami di laboratorio
Raccomandazione 5
I dati di laboratorio non sono specifici e possono solo supportare la diagnosi in pazienti con caratteristiche cliniche di MK o
favorirne l’esclusione (Tab. VI).
La Ecocardiografia Bidimensionale e Color Doppler è la modalità di imaging ideale per la valutazione cardiaca perché non
invasiva, ripetibile e con alta sensibilità e specificità per i tratti
prossimali delle arterie coronarie; è l’esame fondamentale per
la diagnosi delle complicanze maggiori per le arterie coronarie
nella MK, in particolare nelle fasi iniziali della malattia.
(livello di prova V; forza della raccomandazione B)
(livello di prova V; forza della raccomandazione A)
Ecocardiografia
Raccomandazione 6
273
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Tabella VI.
I principali dati di laboratorio.
EMOCROMO
↑, soprattutto PMN
↓ raramente
↓ con MCV normale
↑, tipic. II e III settimana, normalizzazione in 4-8
settimane; se ↓ indica CID
GB
GR
PLT
Indici flogosi
VES
PCR
↑↑, normalizzazione più lenta
↑, normalizzazione più rapida
Funz. Epatica
transaminasi, γGT,
bilirubina
albumina
colesterolo, HDL e apolipoproteina AI
↑
↑
se ↓ indica malattia più grave e prolungata
↓
Altro
urine
liquor
GB > 10/campo
meningite asettica (cellule mononucleate, normale glicorrachia e proteinorrachia) purulento
ma sterile
GB 125.000-300.000/mmc, normale glucosio
liquido sinoviale
I criteri adottati per il riconoscimento delle lesioni coronariche nella
MK si fondano tuttora su quelli definiti dal Ministero della Salute del
Giappone, che definiscono le anomalie delle arterie coronarie (Japan
Kawasaki Disease Committee by Japanese Ministery of Health) 52.
Raccomandazione 7
Si definiscono anomale le coronarie con le seguenti caratteristiche:
1) diametro interno del lume coronarico > 3 mm per bambini < 5 anni o > 4 mm per bambini ≥ 5 anni;
2) diametro di un vaso coronarico ≥ 1,5 volte il diametro di un
segmento adiacente;
3) evidenti irregolarità del lume coronarico.
(livello di prova V; forza della raccomandazione C)
Tali criteri sono considerati eccessivamente generici; in particolare
è stata riportata un’aumentata incidenza di dilatazioni coronariche
in diverse fasi della malattia, in casi che non soddisfacevano i criteri
del Ministero della Salute del Giappone e ritenuti pertanto normali,
confrontandoli con un gruppo omogeneo e comparabile per età e
superficie corporea 8.
Quindi, per i tratti prossimali dell’arteria coronaria destra e discendente anteriore e per il tronco comune, si raccomanda di considerare i valori normali delle arterie coronarie rispetto alla superficie
corporea e misurarne lo scostamento dalla media in unità Z (S.D.),
utilizzando appositi normogrammi (Fig. 4) od equazioni 1. Tale misurazione non va effettuata vicino agli osti coronarici né a livello delle
biforcazioni dei vasi coronarici.
Raccomandazione 8
Per i tratti prossimali dell’arteria coronaria destra e discendente anteriore e per il tronco comune, il diametro interno coronario all’ecocardio sarà:
• normale se z-score < 2,5
• dilatato se z-score ≥ 2,5 ma ≤ 4
• ectasico o aneurismatico se z-score > 4.
(livello di prova III; forza della raccomandazione B)
274
Figura 4.
Normogrammi per indicizzare i diametri coronarici per la superficie
corporea ove LAD è left anterior descending coronary artery, cioè coronaria discendente anteriore sinistra, RCA è right coronary artery, cioè
coronaria destra e LMCA è left main coronary artery, cioè coronaria
principale sinistra 8.
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Spiccata luminosità perivasale o assenza della fisiologica progressiva riduzione del calibro del vaso coronario hanno un valore aneddotico orientativo, ma non sono quantizzabili in termini di significato.
Rilievi di alterazioni della funzione ventricolare sinistra, presenza di
insufficienza mitralica di grado lieve o di versamento pericardico,
assai frequenti nelle fasi acute della MK, non sono da considerare
sufficienti per la diagnosi, in quanto rilevabili anche in altri quadri
infiammatori simili.
La sensibilità e la specificità della ecocardiografia non è ancora
chiara per anomalie maggiori come le stenosi e, in misura meno,
evidente per la trombosi. Queste lesioni si rilevano in fasi generalmente più tardive e non raramente in pazienti di età maggiore, per
i quali la visualizzazione delle coronarie diventa progressivamente
più difficoltosa.
L’esecuzione dell’esame è di pertinenza di esaminatori esperti e non
di rado si rende necessaria una sedazione, considerando la spiccata
irritabilità e lo stato sofferente dei pazienti tipico della fase acuta.
Raccomandazione 9
L’ecocardiogramma deve essere ripetuto in tutti i pazienti con
diagnosi di MK dopo 2, 4 e 8 settimane dall’inizio della malattia nei casi non complicati, perché le alterazioni coronariche
possono anche manifestarsi nelle settimane successive alla
diagnosi.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione B)
Raccomandazione 10
Nei pazienti persistentemente febbrili non-responders, con
anomalie coronariche, alterazione della funzione ventricolare
sinistra, insufficienza mitralica o versamento pericardio, possono essere necessari controlli più frequenti.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione A)
Altri esami strumentali
Gli aneurismi possono coinvolgere anche altri distretti (arterie succlavie, brachiali, ascellari, iliache, renali, mesenteriche o intercostali), pertanto è considerata obbligatoria l’esplorazione anche di tutti
questi distretti con appropriate ecografie.
L’indicazione al cateterismo cardiaco è basata sul confronto tra i
vantaggi che derivano da una migliore definizione anatomica delle
anomalie coronariche ed i rischi connessi alla procedura invasiva.
Attualmente il cateterismo cardiaco con angiografia trova indicazioni
precise nel follow-up di pazienti con livello di rischio IV e V (vedi
capitolo sul follow-up) 1.
Raccomandazione 11
Nei pazienti con livello di rischio IV, il cateterismo cardiaco con
angiografia coronarica selettiva dovrebbe essere eseguito:
• a 6-12 mesi dopo la fine della patologia acuta, o prima se
indicato dalla clinica;
• se gli studi non invasivi suggeriscono ischemia miocardia;
• se l’anatomia o la misura dell’aneurisma non possono essere chiaramente definite all’ecocardiografia;
• in presenza di dolori toracici atipici senza segni di ischemia
alle indagini non invasive;
• se l’abilità a eseguire test da sforzo è limitata dall’età.
(livello di prova IV; forza della raccomandazione B)
Raccomandazione 12
Nei pazienti con livello di rischio V, il cateterismo cardiaco con
angiografia coronarica selettiva è raccomandato:
• per stabilire le possibilità terapeutiche di by-pass o di intervento mediante cateterismo;
• per verificare l’estensione della perfusione collaterale;
• se gli esami non invasivi suggeriscono comparsa o peggioramento di ischemia miocardica;
• per valutare l’efficacia del trattamento, in pazienti sottoposti a rivascolarizzazione.
(livello di prova IV; forza della raccomandazione B)
Nell’adulto, alla Tomografia Computerizzata multistrato sono riconosciute alta sensibilità ed elevata specificità nel follow-up della
coronaropatia su base aterosclerotica. L’applicazione di tale tecnica,
già in atto sperimentalmente, per la valutazione della anatomia dell’intero albero coronarico, porterà nuovo ausilio per le sue caratteristiche di minore rischio teorico, di ridotta invasività e di conseguente
ripetibilità dell’esame. La necessità tecnica di una ridotta frequenza
cardiaca per l’esecuzione di un esame corretto limita per ora l’applicazione della procedura ad una popolazione con età maggiore di
quella pediatrica, per la quale il trattamento beta-bloccante potrebbe essere di supporto.
Anche tecniche tradizionalmente in uso come l’ecocardiografia sono
in continuo sviluppo e sistemi innovativi di analisi incruenta (Tissue Doppler Imaging, Backscatter) sono in corso di sperimentazione
o in uso presso centri di terzo livello con elevata specializzazione,
mutuando i risultati ottenuti dalla cardiologia dell’adulto in tema di
cardiopatia coronarica.
Indicazione all’ospedalizzazione
Si pone indicazione all’ospedalizzazione dei pazienti affetti da MK
nei seguenti casi:
• in tutti i pazienti all’esordio nella fase acuta di malattia (per la somministrazione di IVIG ed altre terapie antinfiammatorie, per l’esecuzione dell’ecocardiogramma, per l’educazione dei familiari);
• nei pazienti con complicanze quali la trombosi coronaria, per
l’appropriata terapia, in quanto la trombosi può causare ischemia miocardica o infarto 9.
Trattamento
Fase acuta
Trattamento iniziale
Immunoglobuline endovena
Le IVIG hanno un effetto antinfiammatorio, in quanto modulano la
produzione delle citochine, neutralizzano superantigeni batterici o
altri agenti eziologici, aumentano l’attività dei T-suppressors, inibiscono la sintesi anticorpale e forniscono anticorpi anti-idiotipo 1.
La dose raccomandata è 2 g/kg in unica somministrazione; tale
schema terapeutico si è dimostrato essere più efficace rispetto agli
altri che prevedevano la somministrazione di 400 mg/kg/die per 5
giorni nel ridurre di 5 volte l’incidenza di aneurismi coronarici e la
durata della febbre 1 10.
La terapia va iniziata nei primi 10 giorni e preferibilmente entro i
275
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
primi 7, ancora prima quando sono presenti 3-4 criteri oltre la febbre
o c’è già danno coronarico.
Un trattamento eseguito prima del quinto giorno di malattia non
sembra prevenire le sequele cardiologiche. Inoltre un trattamento
troppo precoce potrebbe rendere necessaria un’ulteriore somministrazione di IVIG 11 12 ed inoltre si rischia di trattare per MK chi ha
un’altra malattia febbrile che mima la MK.
La somministrazione va eseguita in 12 ore, in assenza di insufficienza cardiaca, ed in 16-24 ore in caso contrario 9.
Raccomandazione 16
Raccomandazione 13
Dopo la sospensione dell’aspirina ad alto dosaggio, si inizia la
somministrazione a basse dosi (3-5 mg/kg/die). Nei pazienti
senza alterazioni coronariche questa verrà eseguita per 6-8
settimane dall’esordio 1.
La somministrazione di IVIG deve essere effettuata al dosaggio
di 2 g/kg in unica somministrazione, entro il decimo giorno di
malattia.
Tale somministrazione va effettuata in 12 ore in assenza di insufficienza cardiaca, in 16-24 ore in caso contrario.
(livello di prova I; forza della raccomandazione A)
Secondo alcuni autori, in pazienti con compromissione cardiaca, le
IVIG possono anche essere suddivise in due somministrazioni giornaliere di 1 g/kg in 6 ore 13-15.
Raccomandazione 14
Nel caso in cui comunque la diagnosi venisse posta dopo il decimo giorno, al fine di limitare comunque le lesioni coronariche,
le IVIG devono essere somministrate in pazienti:
• con febbre persistente;
• sfebbrati ma con aneurismi e persistenza di elevati livelli di
VES e PCR 1 16.
(livello di prova V; forza della raccomandazione B)
Interazioni con vaccini
Dopo la somministrazione di IVIG è necessario porre attenzione all’esecuzione delle vaccinazioni con virus vivi attenuati.
Raccomandazione 15
Le vaccinazioni per morbillo, rosolia, parotite e varicella devono essere posticipate di 11 mesi dopo la somministrazione di
IVIG 17.
Un bambino ad elevato rischio di esposizione al morbillo dovrebbe però essere vaccinato e, nel caso non abbia presentato
una adeguata risposta immunitaria, rivaccinato 11 mesi dopo
le IVIG 1.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione B)
Aspirina (acido acetil-salicilico – ASA)
L’ASA è utilizzata nella fase acuta a dosi elevate per la sua attività
antinfiammatoria e nella fase di convalescenza a basse dosi come
antiaggregante.
Alcuni studi recenti non dimostrano però che il suo utilizzo riduca lo
sviluppo di anomalie coronariche 18-20.
Al momento non ci sono studi randomizzati controllati sull’uso dell’ASA nella MK 18, ma secondo le linee guida della American Heart
Association, in fase acuta, l’ASA deve essere somministrata alla
dose di 80-100 mg/kg/die in quattro somministrazioni 1. Tale dosaggio viene preferito a quello di 30-50 mg/kg/die riportato dalla
letteratura giapponese 19, in considerazione del maggiore effetto antinfiammatorio. Alcuni studi recenti non dimostrano però che il suo
utilizzo riduca lo sviluppo di anomalie coronariche 20-22.
276
Nella fase acuta della malattia, l’ASA deve essere somministrata alla dose di 80-100 mg/kg/die in quattro somministrazioni.
La durata di tale trattamento è variabile: in molti centri viene
eseguita fino a quando il bambino è apiretico da 48-72 ore, fino
ad un massimo di 14 giorni, periodo in cui inizia la piastrinosi.
(livello di prova III; forza della raccomandazione A)
Raccomandazione 17
(livello di prova III; forza della raccomandazione A)
Raccomandazione 18
Nei bambini che sviluppano coronaropatie, l’aspirina a 3-5 mg/
kg/die viene proseguita per tempo indefinito 1.
(livello di prova V; forza della raccomandazione B)
Interazioni con farmaci
La sindrome di Reye rappresenta un rischio nei bambini con varicella o influenza che assumono aspirina ad alte dosi, mentre non è
chiaro se la terapia a bassi dosaggi incrementi questo rischio 17.
Raccomandazione 19
Si consiglia di vaccinare contro l’influenza i bambini che assumono aspirina a lungo termine 22.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione B)
Per quanto riguarda la varicella, nei bambini che assumono salicilati, bisogna bilanciare il rischio conosciuto di sviluppare sindrome
di Reye in corso della malattia esantematica ed il rischio teorico di
sviluppare tale sindrome dopo la vaccinazione con il virus vivo attenuato. Per tale ragione le case farmaceutiche nei foglietti illustrativi
raccomandano di non utilizzare salicilati per 6 settimane dopo il vaccino. Si suggerisce pertanto di sostituire l’aspirina con un altro farmaco antipiastrinico durante queste 6 settimane (es. clopidogrel).
Steroidi
Gli steroidi sono generalmente il trattamento di scelta nelle vasculiti,
ma nella MK il loro utilizzo è discusso, poiché inibiscono il meccanismo di ricostruzione dal processo infiammatorio, accelerano lo
stato di ipercoagulabilità e pur permettendo significativa riduzione
della durata della febbre, minor tempo di ospedalizzazione e rapida
discesa di VES e PCR, non modificano la prognosi cardiaca.
Raccomandazione 20
Attualmente è possibile formulare una raccomandazione per l’utilizzo degli steroidi nella fase acuta di MK solo in casi selezionati.
(livello di prova I; forza della raccomandazione C)
Pentossifilline
Le pentossifilline sono composti metil-xantinici che inibiscono la
trascrizione del m-RNA per il Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α). È
stato valutato il loro utilizzo in aggiunta alla terapia standard. In
uno studio di 79 pazienti trattati con IVIG a basse dosi e aspirina,
i 22 che avevano ricevuto anche pentossifilline ad alte dosi dimostravano una minore incidenza di aneurismi e buona tolleranza
della terapia 23.
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Raccomandazione 21
Attualmente, in attesa di ulteriori conferme non è ancora possibile formulare una raccomandazione per l’utilizzo delle pentossifilline.
Terapia dei pazienti che non rispondono al trattamento iniziale
Per mancata risposta alla terapia iniziale con IVIG si intende febbre persistente o ripresa febbrile (> 38°C ascellare o rettale) dopo 36 ore dalla fine della somministrazione delle IVIG 1; secondo altri autori 24 25, si intende
invece persistenza della febbre superiore a 37,5°C (ascellare)
e mancata riduzione della PCR almeno del 50% entro 48 ore.
Tale evenienza si verifica in più del 10% dei pazienti con MK 26 27.
Allo stato attuale, non è possibile identificare con chiarezza le caratteristiche che possano distinguere tali pazienti: secondo Ham e
Silverman, questi sembrano avere maggiori anomalie all’ecocardiografia iniziale, ma non significative differenze ad un anno 28.
Secondo altri autori, invece, i pazienti non-responders hanno iposodiemia (< 133 mmol/l), aumento della AST (> 100 UI/l), neutrofili 80%, giorni di malattia al momento del trattamento iniziale ≤ 4,
PCR ≥ 10 mg/dl, età ≤ 12 mesi, conta piastrinica ≤ 30.000 /mm3 29.
Tale non-responsività alla terapia si pensa possa riflettere la gravità
della sottostante infiammazione e pertanto spiega la maggiore incidenza di anomalie coronariche.
IVIG
Molti esperti raccomandano una seconda dose di IVIG sempre al fine
di ridurre le lesioni coronariche 30.
Tale trattamento, secondo alcuni autori, dovrebbe essere anticipato
e considerato già al termine delle 24 ore successive alla prima infusione di IVIG 31.
Raccomandazione 22
In caso di persistenza di febbre, a partire dalle 48 ore dopo il
termine della prima infusione, si raccomanda una seconda infusione di IVIG 2 g/kg in unica somministrazione.
(livello di prova IV e VI; forza della raccomandazione B)
Steroidi
In attesa di studi multicentrici controllati, l’American Academy of Pediatrics raccomanda che l’utilizzo di steroidi sia limitato ai bambini
in cui più di 2 infusioni di IVIG siano state inefficaci nel diminuire la
febbre e l’infiammazione acuta 1.
Raccomandazione 23
Nei bambini in cui più di 2 infusioni di IVIG siano state inefficaci
nel diminuire la febbre e l’infiammazione acuta, si raccomanda
la somministrazione di steroidi.
Il regime steroideo più utilizzato è rappresentato da metilprednisolone 30 mg/kg e.v. in 2-3 ore, una volta al giorno, per 1-3
giorni.
(livello di prova IV; forza della raccomandazione B)
Tale trattamento appare efficace nel diminuire la febbre.
Altre terapie
Sono state riportate numerose terapie aggiuntive per i casi refrattari
alla terapia standard: plasmaferesi, Unilastatin (inibitore dell’elastasi
dei neutrofili di origine umana purificato da urine umane), Abciximab
(inibitore del recettore piastrinico glicoproteico IIb/IIIa) 32, agenti citotossici (ciclofosfamide) 27.
La loro efficacia non è però confermata da dati controllati, pertanto
al momento non è possibile formulare una raccomandazione.
Esistono solo alcuni lavori condotti con l’infliximab, la cui scarsa
numerosità richiede ulteriori conferme con altri studi per formulare
raccomandazioni più forti.
Raccomandazione 24
In caso di paziente non responder, può essere utilizzato infliximab, anticorpo monoclonale umanizzato contro il TNF-α, 5 mg/
kg e.v. in unica somministrazione 33 34.
(livello di prova II; forza della raccomandazione C)
Fase cronica
Il trattamento della patologia coronarica dipende dalla gravità e dall’estensione dell’interessamento coronarico. Le raccomandazioni
sono basate sulle attuali conoscenze della fisiopatologia, su studi
retrospettivi pediatrici e sull’estrapolazione dall’esperienza nell’adulto.
L’attivazione piastrinica è fondamentale in tutte le fasi della malattia,
pertanto gli schemi terapeutici prevedono sempre l’utilizzo di ASA a basse dosi anche in associazione ad altri anticoagulanti/antiaggreganti.
Raccomandazione 25
Il trattamento in fase cronica prevede:
pazienti asintomatici con patologia
lieve-moderata o stabile
ASA
pazienti con dilatazione coronarica
più estesa e grave
ASA + dipiridamolo
o clopidogrel
pazienti con aneurisma rapidamente
evolutivo
ASA + eparina
pazienti con aneurismi giganti
ASA + warfarin
o eparina a basso
peso molecolare
(livello di prova IV; forza della raccomandazione B)
I dosaggi consigliati sono i seguenti:
• ASA per os: 3-5 mg/kg/die;
• dipiridamolo per os: 2-6 mg/kg/die in 3 dosi;
• clopidogrel per os: 1 mg/kg/die fino a dose massima 75 mg/die;
• warfarin per os: 0,1 mg/kg/die, compreso tra 0,05 e 0,34 mg/kg/
die, per raggiungere INR desiderato, tra 2,0-2,5;
• eparina a basso peso molecolare s.c.: bambini < 12 mesi 3 mg/
kg/die in 2 somministrazioni; bambini ed adolescenti 2 mg/kg/
die in 2 somministrazioni 35.
L’eparina a basso peso molecolare, inoltre, è da prendere in considerazione nei lattanti in cui i prelievi per l’INR non sono agevoli,
o può essere usata durante la reintroduzione del warfarin in caso
di sospensione per interventi chirurgici; richiede però due iniezioni
sottocutanee giornaliere. I livelli terapeutici sono valutati dosando il
fattore Xa, che deve essere compreso tra 0,5 e 1,0 U/ml.
Trattamento delle complicanze: la trombosi coronarica
In assenza di studi randomizzati controllati nel bambino, il trattamento della trombosi coronarica è derivato da quello degli adulti con
coronaropatia acuta.
277
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Raccomandazione 26
La scelta del trattamento da utilizzare dovrebbe essere basata
sulla terapia in cui si ha maggiore esperienza e che sia disponibile nel minor tempo possibile.
(livello di prova V; forza della raccomandazione C)
Streptochinasi, urochinasi e attivatore del plasminogeno tissutale
(tPA) sono stati somministrati a pazienti descritti in vari case-reports
con risultati variabili. Tutti i regimi trombolitici includono, comunque,
aspirina ed eparina o eparina a basso peso molecolare.
In un piccolo numero di pazienti pediatrici, è stato anche utilizzato il
ristabilimento meccanico del flusso coronarico mediante angioplastica coronarica o impianto di stent.
Nuove prospettive di trattamento comprendono l’inibizione del recettore piastrinico glicoproteico IIb/IIIa (Abciximab) che, se somministrato con aspirina ed eparina sia in associazione sia in assenza
di concomitante utilizzo di trombolitici, sembra promettere un miglioramento della prognosi negli adulti con sindrome coronarica
acuta. Una dose ridotta di trombolitico associata ad Abciximab per
esempio, ristabilisce il flusso anterogrado efficacemente quanto la
terapia trombolitica a dosaggio pieno, ma è associato a minori tassi
di riocclusione e reinfarto 32.
Riportiamo di seguito un possibile schema terapeutico:
• r-tPA 0,1-0,5 mg/kg/h per 6 ore oppure urokinasi 4400 U/Kg in
10 min. poi 4400 U/Kg per 6-12 ore (monitorare aPTT, PT, fibrinogeno);
associati a:
• abciximab 0,25 mg/kg bolo in 30 min poi 0.125 μg/kg/min per
12 ore;
• aspirina 3-5 mg/kg/die;
• eparina 15 U/Kg/ h (monitorare aPTT) oppure LMWH 125 U/Kg/
dose per 2 volte al giorno (monitorare fattore Xa: 0.5-1 U/ml
dopo 6 ore dalla somministrazione).
Decorso a lungo termine
Il decorso clinico dei bambini con MK è molto variabile, in relazione
alle eventuali sequele cardiologiche che possono manifestarsi anche in età adulta.
In Tabella VII, sono indicati i principali fattori di rischio per lo sviluppo di aneurismi delle coronarie.
Fino a poco tempo fa si riteneva che i bambini senza lesioni coronariche all’ecocardiografia a qualsiasi stadio della malattia e in particolare nel primo mese, non presentassero clinicamente coinvolgiTabella VII.
Principali fattori di rischio per lo sviluppo di aneurismi delle coronarie.
Febbre persistente nonostante terapia con IVIG
Sesso maschile
Età < 1 anno
PCR elevata
Neutrofili elevati in assoluto ed in %
Hb bassa
Piastrinopenia iniziale
Sodiemia < 135 mEq/l
278
mento cardiaco e, dopo follow-up clinico di 10-20 anni, sembravano
avere un rischio di eventi cardiaci simile a quello della popolazione
generale 1. Recenti ricerche suggeriscono però che in questi pazienti
sono riscontrabili alcune anomalie subcliniche tra cui diffusa disfunzione endoteliale, maggiore rigidità delle arterie, minore riserva di
flusso miocardico e maggiori resistenze coronariche totali 36.
Inoltre la MK produce una alterazione del metabolismo lipidico
che persiste dopo la risoluzione della patologia; i pazienti con MK
sembrano avere un maggior rischio cardiovascolare con pressione
arteriosa più elevata rispetto ai controlli 37.
Per incrementare le attuali conoscenze sulla funzione miocardica,
sulle insufficienze valvolari e sullo stato coronarico a lungo termine in questi pazienti è, però, ancora necessario un periodo di
osservazione più prolungato.
Le lesioni coronariche della MK possono modificarsi nel tempo.
Il 50-70% degli aneurismi coronarici va incontro a risoluzione, dimostrata angiograficamente, 1-2 anni dopo l’esordio, con maggiore probabilità nei seguenti casi:
• aneurismi piccoli 38;
• aneurismi della coronaria destra;
• età all’esordio < 1 anno;
• struttura fusiforme dell’aneurisma;
• localizzazione in un segmento coronarico distale 38.
La regressione spontanea, solitamente, avviene per proliferazione
miointimale, più raramente per organizzazione e ricanalizzazione di
un trombo. Il trattamento per la prevenzione delle trombosi è controverso perché, a livello degli aneurismi regrediti, persistono anomalie
strutturali e funzionali delle coronarie.
Negli aneurismi giganti e in quelli della coronaria sinistra, in grado
anch’essi di recuperare un calibro normale, qualora non vadano incontro a risoluzione delle anomalie, persiste una morfologia aneurismatica oppure si sviluppano stenosi, occlusione o tortuosità. Mentre la dimensione dell’aneurisma tende a diminuire con il tempo, le
lesioni stenotiche, secondarie a marcata proliferazione miointimale,
sono spesso progressive; la prevalenza di stenosi tende ad aumentare quasi linearmente nel tempo. La maggior progressione verso
la stenosi si ha in pazienti con aneurismi di grandi dimensioni; la
peggior prognosi si ha in bambini con aneurismi giganti (diametro
massimo ≥ 8 mm) 40.
La principale causa di morte nella MK è l’infarto miocardico acuto
(IMA) causato da una occlusione trombotica in una arteria stenotica e/o aneurismatica 1. Il rischio è maggiore nel primo anno, poi si
modifica nel tempo in rapporto all’evoluzione della morfologia coronarica: lo sviluppo di trombosi o stenosi associata ad un aneurisma
aumenta il rischio di ischemia del miocardio 1.
Entro i primi mesi dopo la MK, può verificarsi anche rottura aneurismatica, ma si tratta di un’eventualità eccezionale 1.
Recenti studi istologici ipotizzano che anche la microvasculite, in
assenza di lesioni aneurismatiche e/o stenotiche, possa determinare
infarto, aritmia e morte improvvisa 41 42.
Follow-up
Follow-up a breve termine
I pazienti con MK, sin dall’esordio della malattia, devono essere sottoposti adattento monitoraggio clinico, degli esami ematochimici e
strumentali.
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Raccomandazione 27
Poiché la fase acuta di malattia è caratterizzata da cospicuo
aumento degli indici infiammatori e piastrinosi, è importante
effettuare controlli ripetuti, sino alla normalizzazione di tali
esami.
La valutazione cardiologica con ECG ed ecocardiogramma va
eseguita al momento della diagnosi, per evidenziare le complicanze precoci, e ripetuta più volte, secondo indicazione clinica,
a 2, 4 e 8 settimane di distanza dall’esordio della malattia.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione B)
La valutazione cardiologica eseguita al secondo mese permette di
suddividere i pazienti, a seconda della compromissione cardiovascolare, in classi di rischio coronarico con relativo follow-up.
Follow-up a lungo termine
Nei pazienti con MK il follow-up deve proseguire nel tempo, soprattutto
in quelli che hanno presentato complicanze cardiovascolari, senza dimenticare che non è ancora possibile escludere complicanze a distanza
anche nei pazienti che non hanno presentato anomalie coronariche.
In circa il 50% delle lesioni aneurismatiche, si assiste a regressione,
che può essere dovuta a proliferazione miointimale, ma anche a organizzazione e ricanalizzazione di un trombo.
Negli aneurismi regrediti è stata infatti dimostrata disfunzione endoteliale.
Per tutti questi motivi è di estrema importanza un attento follow-up
a lungo termine nei pazienti con complicanze in atto, in quelli con
regressione degli aneurismi, ma anche in quelli senza complicanze,
con tempi e modalità diverse.
La stratificazione in classi, in rapporto al rischio relativo di ischemia
miocardiaca stabilito dall’American Heart Association 1, è un utile ausilio per la gestione standardizzata dei pazienti, per quanto riguarda la
cadenza dei controlli, i test diagnostici necessari per un corretto followup, le indicazioni terapeutiche e quelle per un corretto stile di vita.
È da segnalare che la classe di rischio di un singolo paziente con
compromissione coronarica può variare nel corso del tempo, in relazione ad alterazioni morfologiche della parete coronarica: il verificarsi di trombosi o di stenosi associate ad aneurisma coronarico, infatti,
aumenta il rischio di ischemia miocardica.
Il follow-up ottimale dei pazienti con aneurismi coronarici regrediti
rimane invece ancora controverso in quanto è noto che, pur con la
normalizzazione del diametro del vaso, persistono alterazioni morfologiche e funzionali.
Infatti la normalità del quadro coronarico ecografico non necessariamente coincide con la normalità della funzione endoteliale; per tale
motivo è giustificata la scelta di molti centri di proseguire controlli
seriati, anche se più diluiti nel tempo per tracciare la storia naturale
della malattia anche in merito ad un possibile rischio aterosclerotico.
Le singole classi di rischio secondo l’ American Heart Association
sono riportate nella Tabella VIII.
Raccomandazione 28
Per ogni classe di rischio sono consigliati terapia e follow-up
diversificati come indicato di seguito e in Tabella IX.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione B)
Classe I
Nessuna alterazione coronarica nelle varie fasi di malattia
• Trattamento con ASA per le prime 6-8 settimane (fino a documentata normalizzazione del valore delle piastrine).
• Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6*-12 mesi
dall’esordio della malattia e successivamente ogni 3-5 anni non essendo ancora determinato il futuro rischio di malattia ischemica.
• Consigliabile esecuzione di ECG sotto sforzo prima dei 12 anni,
soprattutto in previsione di attività sportiva più impegnativa
Non necessari esami diagnostici invasivi.
*
In caso di primo esame eseguito da cardiologo non esperto.
Classe II
Ectasie transitorie delle coronarie che scompaiono entro 6-8
settimane
• Trattamento con ASA per almeno 6-8 settimane, fino a normalizzazione del valore delle piastrine e scomparsa delle lesioni
coronariche, anche minime (ecorifrangenza o tortuosità/rigidità
delle pareti vasali), possibilmente documentata da due controlli
successivi.
• Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6*-12
mesi dall’esordio della malattia, successivamente annualmente
nei primi 3 anni, poi ogni 3-5 anni.
• Consigliabile esecuzione di ECG sotto sforzo prima dei 12 anni,
soprattutto in previsione di attività sportiva più impegnativa.
L’ecografia sottosforzo (farmacologico o fisico a seconda dell’età
del paziente) potrebbe fornire ulteriori informazioni.
• Non necessari esami diagnostici invasivi.
*
In caso di primo esame eseguito da cardiologo non esperto.
Classe III
Aneurisma singolo di piccolo-medio calibro (> 3 mm < 6 mm o
tra + 3 e + 7 DS) in una o più arterie
• Trattamento con ASA almeno fino alla regressione dell’aneurisma (possibilmente documentata da due controlli successivi
negativi).
• Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6*-12
mesi dall’esordio della malattia e successivamente annuali.
• Prova da sforzo. In casi selezionati valutazione della perfusione
miocardica ogni 2 anni al di sopra dei 10 anni.
• Coronarografia se evidenziata ischemia miocardica.
Classe IV
Uno o più aneurismi ≥ 6 mm, compresi aneurismi giganti multipli e complessi senza ostruzione
• Trattamento con antiaggreganti piastrinici, a lungo termine:
Tabella VIII.
Classi di rischio cardiovascolare.
Classe I
Nessuna alterazione coronarica nelle varie fasi di malattia
Classe II
Ectasie transitorie delle coronarie che scompaiono entro 6-8 settimane
Classe III
Aneurisma singolo di piccolo-medio calibro (> 3 mm < 6 mm o tra + 3 e + 7 DS) in una o più arterie
Classe IV
Uno o più aneurismi ≥ 6 mm, compresi aneurismi giganti multipli e complessi senza ostruzione
Classe V
Ostruzioni coronariche alla angiografia
279
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
Tabella IX.
Terapia a lungo termine, follow-up in base al livello di rischio ed attività fisica 1.
Classe di rischio Terapia
Visita cardiologica + ECG + Altri esami strumentali
ecocardiogramma
Attività fisica
I
ASA per le prime 6-8 settimane
6*-12 mesi dall’esordio, poi
ogni 3-5 anni
Stress ECG all’età di 10-11
anni
Nessuna restrizione dopo 6-8
settimane
II
ASA per almeno 6-8 settimane
6*-12 mesi dall’esordio,
successivamente ogni anno
per i primi 3 anni, poi ogni
3-5 anni
Stress ECG + event. StressEcho all’età di 10-11 anni
Nessuna restrizione dopo 6-8
settimane
III
ASA almeno fino a documentata 6*-12 mesi dall’esordio e poi
regressione dell’aneurisma
annualmente per tutta la vita
Stress test con valutazione
della perfusione miocardica
ogni 2 anni al di sopra dei
10 anni
Coronarografia se
evidenziata ischemia
miocardica
Nessuna restrizione (salvo attività
agonistica) fino ai 10 anni, poi in
base a stress test.
In casi selezionati valutazione
della perfusione miocardica.
Sconsigliati sport o giochi di
collisione e contatto se terapia
antiaggregante
IV
Antiaggreganti piastrinici (ASA
+ event. associazone con
clopidogrel). Negli aneurismi
giganti terapia anticoagulante
(warfarin o eparina a basso
peso molecolare)
ogni 6 mesi
Stress test con valutazione
della perfusione miocardica
annuale. Coronarografia nei
primi 6-12 mesi, prima e
successivamente su
indicazione clinica o dei test
non invasivi
Attività fisica guidata dall’annuale
stress-test, con valutazione della
perfusione miocardica. Evitare
sport o giochi di contatto fisico o
collisione per pericolo di
emorragia
V
Antiaggreganti piastrinici (ASA
ogni 6 mesi
+ eventuale associazione con
clopidogrel)
Negli aneurismi giganti terapia
anticoagulante (warfarin o
eparina a basso peso molecolare); eventuale uso di β-bloccanti
per ridurre consumo di ossigeno
Stress test con valutazione
della perfusione miocardica
annuale.
Coronarografia per guidare
le scelte terapeutiche
Attività fisica guidata dall’annuale
stress-test, con valutazione della
perfusione miocardica.
Evitare sport o giochi di contatto
fisico o collisione per pericolo di
emorragia. Evitare vita sedentaria
In caso di primo esame eseguito da cardiologo non esperto.
*
ASA + eventuale associazione con clopidogrel negli aneurismi
multipli e complessi.
Terapia anticoagulante con warfarin, o in alternativa con eparina
a basso peso molecolare nei lattanti ed in prima infanzia, negli
aneurismi giganti.
• Controlli cardiologici (visita, ECG ed ecocardiogramma) a 6-12
mesi dall’esordio della malattia e successivamente ogni 6 mesi.
Prova da sforzo con valutazione della perfusione miocardica annuale.
• Coronarografia nei primi 6-12 mesi e successivamente su indicazione clinica o dei test non invasivi.
• Counselling finalizzato al rischio per la gravidanza nelle pazienti
di sesso femminile in terapia con anticoagulanti.
Classe V
Ostruzioni coronariche alla angiografia
• Trattamento con antiaggreganti piastrinici (ASA + eventuale
associazione con clopidogrel) a lungo termine, con o senza
terapia anticoagulante negli aneurismi giganti con warfarin o
in alternativa eparina a basso peso molecolare nei lattanti ed
in prima infanzia.
Eventuale terapia con beta-bloccanti per ridurre il consumo di
ossigeno.
• Controlli cardiologici ogni 6 mesi con ECG ed ecocardio + eventuale Holter.
280
• Prova da sforzo, con valutazione della perfusione miocardica annuale.
• Coronarografia per indirizzare le opzioni terapeutiche e in caso
di insorgenza o peggioramento di ischemia miocardica.
• Counselling finalizzato al rischio per la gravidanza nelle pazienti
di sesso femminile in terapia con anticoagulanti.
L’ischemia miocardia nei bambini con MK è generalmente silente:
la SPECT (single photon emission computer tomography) è da considerarsi/raccomandata per lo screening di ischemia miocardica
che potrebbe essere presente in bambini asintomatici ed in assenza di anomalie angiografiche 43. È possibile considerare, mutuando
l’esperienza dall’adulto, anche l’Ultrafast CT scan (64 strati) per la
valutazione morfologica delle arterie coronarie 44, in particolare in
pazienti adolescenti e nell’interim tra eventuali valutazioni invasive
con coronarografia 44.
Raccomandazioni per la prevenzione del rischio
cardiovascolare
I bambini con MK, con o senza aneurismi coronarici, sembrano
essere a maggior rischio di sviluppare aterosclerosi in relazione
alla persistenza di anomalie subcliniche come una maggiore rigidità dei vasi o una disfunzione endoteliale.
Un maggior rischio cardiovascolare nei bambini con MK è cor-
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
relato anche ad un alterato profilo lipidico (in particolare con ridotti valori di HDL), a più alti valori di pressione arteriosa ed a
sovrappeso 45 46.
In considerazione del maggior rischio aterosclerotico è importante incoraggiare l’attività fisica (in relazione al quadro coronarico)
come da raccomandazioni della 36° Conferenza di Bethesda 47 48.
Parallelamente ai controlli cardiologici sarà quindi necessario
valutare il body mass index (BMI) (valori normali per età e sesso,
disponibili sul sito www.cdc.go/growthcharts), il profilo lipidico
(con trigliceridi, colesterolo LDL ed HDL), glicemia a digiuno ed
impostare eventuale terapia con statine nei bambini di età > 10
anni, che non rispondono alle restrizioni dietetiche ed all’esercizio fisico dopo 6 mesi. È inoltre importante evitare altri noti
fattori di rischio cardiovascolare come il fumo, sia attivo che passivo, e sconsigliare una vita sedentaria, incoraggiando un’attività
sportiva adeguata alla situazione cardiologica di base.
Tabella X.
Classificazione degli Sport dell’American Academy of Pediatrics.
Contatto collisione
Boxe
Hockey su prato
Hockey su ghiaccio
Football americano
Motocross
Arti marziali
Rodeo
Calcio
Lotta
Contatto limitato e impatto
Baseball
Basket
Ciclismo
Attività subacquea
Atletica-salti (salto in alto e salto
con l’asta)
Ginnastica
Equitazione
Pattinaggio su ghiaccio ed a rotelle
Aerobica
Canottaggio
Scherma
Atletica-lanci (disco, giavellotto,
peso)
Corsa
Nuoto
Tennis
Corsa campestre
Sollevamento pesi
Senza contatto faticosi
Sci (fondo, discesa, sci d’acqua)
Softball
Squash, pallamano
Pallavolo
Senza contatto
moderatamente faticosi
Volano
Curling
Tennis tavolo
Senza contatto non faticosi
Tiro con l’arco
Golf
Tiro a segno
Raccomandazione 29
Il monitoraggio dei fattori di rischio cardiovascolare in pazienti
con MK prevede:
• controllo pressione arteriosa;
• valutazione BMI;
• valutazione profilo lipidico (colesterolo totale, LDL, HDL, trigliceridi);
• determinazione glicemia a digiuno.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione B)
Idoneità sportiva
I riferimenti sono i medici dello sport (specializzati in medicina dello
sport), che lavorano per il Servizio Sanitario Regionale o in strutture private autorizzate o in studi professionali inseriti in un apposito
elenco regionale.
Le certificazioni per l’attività sportiva non agonistica vanno redatte
dal pediatra di fiducia e/o dal medico di famiglia con la richiesta
scritta del dirigente scolastico o della società sportiva.
Nei pazienti con MK la valutazione dell’idoneità all’attività sportiva è
complicata da alcuni fattori:
• non vi sono limitazioni funzionali soggettive (i pazienti non si
sentono malati);
• il rischio cardiovascolare, presunto dal pregresso danno coronarico, generalmente è difficile da evidenziare. Anche in portatori
di aneurismi giganti, i test da sforzo con valutazione della perfusione coronarica possono risultare normali;
• essendo una malattia di recente definizione, esistono pochi dati
in letteratura che ci permettono di definire il rischio legato all’attività sportiva;
• è difficile determinare quando le dimensioni di un aneurisma
possono condizionare la concessione di una idoneità alla attività fisica; aneurismi giganti o plurimi impongono ovviamente più
prudenza che non situazioni cardiologiche meno impegnate.
Pertanto il giudizio deve essere fornito da centri con provata esperienza.
La scelta del tipo di attività fisica non è obbligata; le restrizioni, più
che alla patologia, sono legate all’eventuale terapia in corso (anticoagulanti, antiaggreganti).
Il ruolo del pediatra non è solo quello di decidere o meno la concessione di idoneità non agonistica, sentito il parere del cardiologo
pediatra, ma anche e soprattutto di dare indicazione sul tipo di attività.
La valutazione attenta della classe di rischio del paziente e dell’attività sportiva che vuole svolgere sono presupposti indispensabili per
una decisione corretta, che non limiti le aspirazioni del bambino,
ma che allo stesso tempo non lo esponga a rischi potenzialmente
anche fatali.
Utile la consultazione della tabella redatta dall’American Academy
of Pediatrics (Tab. X) 49 che riporta la classificazione degli sport in
sport da contatto e collisione, da contatto limitato e non da contatto ulteriormente classificati come molto faticosi, moderatamente
e poco faticosi. In tutti i pazienti in trattamento antiaggregante,
indipendentemente dall’età, sono sconsigliabili gli sport e giochi
con stretto contatto fisico e collisione; ai bambini che assumono
farmaci anticoagulanti, vanno sconsigliati anche gli sport da contatto limitato.
Nel caso specifico della MK, al fine di formulare un eventuale giu-
281
Malattia di Kawasaki: Linee Guida italiane
dizio di idoneità all’attività sportiva, è corretto agire nel seguente
modo:
• anamnesi familiare e personale con particolare riferimento alla
patologia in oggetto;
• visita clinica, con misurazione della pressione arteriosa;
• ECG a riposo su 12 derivazioni;
• ecocardiogramma mono- e bidimensionale Color Doppler;
• prova da sforzo al tappeto rotante per determinare:
- grado di tolleranza allo sforzo;
- comportamento di ritmo e frequenza cardiaca;
- comportamento della pressione arteriosa;
- eventuale presenza di ischemia miocardica;
• in caso di presenza o sospetto di fenomeni aritmici, elettrocardiogramma dinamico continuo delle 24 ore (Holter);
• altri esami supplementari a giudizio del medico.
Se gli esami eseguiti sono risultati nella norma, si può concedere l’idoneità alla attività fisica, solitamente per un anno, la quale idoneità può
essere agonistica aggiungendo un esame spirografico per la determinazione di flussi e volumi polmonari ed un esame urine.
Raccomandazione 30
Attività fisica consigliata:
• Classe I e II: dopo le prime 6-8 settimane nessuna restrizione
dell’attività fisica (non agonistica) se gli esami clinici e strumentali risultano nella norma.
• Classe III: dopo le prime 6-8 settimane nessuna restrizione
dell’attività fisica (non agonistica) al di sotto dei 10-11 anni,
successivamente guidata dal test da sforzo, ogni volta che viene richiesto il rinnovo del certificato di idoneità. In casi selezionati valutazione della perfusione miocardica.
• Classe IV: attività fisica guidata dall’annuale test da sforzo,
con valutazione della perfusione miocardica.
Sono consentiti sport agonistici a basso impegno cardio-vascolare.
Sono vietati sport di contatto fisico o collisione per pericolo di
emorragia.
Va effettuata la coronarografia, se evidenziata ischemia miocardica.
• Classe V: attività fisica guidata da valutazione cardiologia semestrale, con test da sforzo con valutazione della perfusione
miocardica almeno annuale.
Vietati gli sport di contatto fisico o collisione per pericolo di
emorragia.
Vietata l’attività agonistica, ma bisogna evitare uno stile di vita
sedentario, pertanto va consigliato un allenamento allo sforzo
fisico secondo i protocolli postinfartuali o ischemici dell’adulto
e va tenuto in considerazione il rischio aritmico 1 50 51.
(livello di prova VI; forza della raccomandazione A)
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Abbreviazioni
ALT: alanino aminotransferasi
ASA: acido acetilsalicilico
AST: aspartato aminotransferasi
BMI: body mass index
CID: coagulazione intravasale disseminata
CMV: citomegalovirus
DS: deviazione standard
EBV: Ebstein Barr virus
ECG: elettrocardiogramma
GB: globuli bianchi
GR: globuli rossi
Hb: emoglobina
HSV: Herpes simplex virus
INR: indice di ratio normalizzato
IVIG: immunoglobuline endovena
LG: linee giuda
MCV: volume globulare medio
MK: malattia di Kawasaki
p: percentile
PLT: piastrine
PMN: polimorfonucleati
TNF: tumor necrosis factor
Corrispondenza
dott.ssa Alessandra Marchesi, U.O.C. Pediatria Generale, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, piazza S. Onofrio 4, 00165 Roma • E-mail:
[email protected]
283
Ottobre-Dicembre 2008 • Vol. 38 • N. 152 • Pp. 284-291
LINEE GUIDA
Febbre nel bambino: dalle conoscenze
biologiche, le basi per la migliore
gestione clinica
Linee Guida della Società Italiana di Pediatria
Coordinatori
Maurizio de Martino (Firenze), Nicola Principi (Milano)
Gruppo di lavoro multidisciplinare
Paolo Becherucci, Pediatra di Famiglia, Rappresentante FIMP (Firenze)
Francesca Bonsignori, Medico (Firenze)
Elena Chiappini, Pediatra (Firenze)
Andrea de Maria, Infettivologo (Genova)
Maurizio de Martino, Pediatra (Firenze), Coordinatore di Sottocommissione
Susanna Esposito, Pediatra (Milano)
Giacomo Faldella, Pediatra Neonatologo (Bologna)
Filippo Festini, Docente di Metodologia della Ricerca, Infermiere (Firenze)
Luisa Galli, Pediatra (Firenze)
Riccardo Longhi, Pediatra, Referente per le Linee Guida SIP (Como)
Bice Lucchesi, Farmacista (Massa)
Gian Luigi Marseglia, Pediatra (Pavia)
Lorenzo Minoli, Infettivologo (Pavia)
Alessandro Mugelli, Farmacologo (Firenze)
Nicola Principi, Pediatra (Milano), Coordinatore di Sottocommissione
Paola Pecco, Pediatra (Torino)
Simona Squaglia, Infermiera (Roma)
Paolo Tambaro, Pediatra (Caserta)
Pier-Angelo Tovo, Pediatra (Torino), Coordinatore di Sottocommissione
Pasquale Tulimiero, Rappresentante dell’Associazione dei Genitori “Noi per Voi” (Firenze)
Giorgio Zavarise, Pediatra (Verona)
Società Scientifiche, Federazioni ed Associazioni rappresentate
Società Italiana di Pediatria, Società Italiana di Medicina ed Urgenza Pediatrica, Società Italiana di Malattie Infettive
Pediatriche, Società Italiana di Neonatologia, Federazione Italiana Medici Pediatri, Società Italiana di Farmacologia,
Società Italiana di Scienze Infermieristiche, Associazione dei Genitori “Noi per Voi”.
Le spese della riunione del panel sono state sostenute grazie ad un grant di ACRAF S.p.A., Angelini e Reckitt
Benckiser Healthcare (Italia) S.p.A.
284
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
Premessa
La febbre è una condizione determinata da elevazione della temperatura centrale che generalmente, ma non esclusivamente, è parte
di una risposta difensiva di organismi multicellulari nei confronti di
microrganismi o di strutture inanimate che sono riconosciute dall’ospite come patogene o comunque estranee. L’innalzamento della
temperatura corporea si determina attraverso un meccanismo fisiopatologico mediato da citochine, molecole della fase acuta, fattori endocrini ed immunologici 1. Diversamente, per ipertermia si
intende una temperatura rettale uguale o superiore a 41,6°C, legata
non all’azione di pirogeni endogeni, ma ad altri meccanismi che agiscono al di fuori del centro ipotalamico. Ad esempio, l’ipertermia si
può verificare in occasione di un aumento primitivo della produzione
endogena di calore, come in caso di ipertiroidismo o colpo di calore,
oppure in condizioni di alterata capacità di disperdere calore quali la
disautonomia familiare o la displasia ectodermica anidrotica.
te nella genesi di molte delle modificazioni metaboliche, endocrinologiche ed immunologiche che si verificano in corso di febbre, come
la vasodilatazione, l’incremento della proteolisi e della glicogenolisi
epatica e muscolare, l’aumento del consumo basale di ossigeno, la
proliferazione di fibroblasti, l’attivazione degli osteoclasti, la produzione dei fattori attivanti le piastrine, la sintesi delle proteine di fase
acuta, l’attivazione della mielopoiesi, la sintesi di ACTH e cortisolo,
insulina e catecolamine, la mobilizzazione ed attivazione di alcune
funzioni dei neutrofili, l’attivazione dei linfociti T, con incrementata
sintesi di IL-2, la proliferazione dei linfociti B.
La febbre rappresenta un fattore di difesa adattativo dell’ospite in
risposta agli agenti infettivi che si manifesta, ad esempio, attraverso
l’attivazione della risposta immunitaria specifica e la mobilitazione
di nutrienti e interferendo direttamente con la replicazione dei patogeni. In alcuni casi, tuttavia, gli eventi a catena che seguono la produzione di citochine pro-infiammatorie possono associarsi ad una
serie di segni e sintomi includenti malessere generale, ipoglicemia
chetotica, incremento della frequenza cardiaca, crisi convulsive 3.
Fisiopatologia della febbre
L’elevazione centrale della temperatura corporea si verifica in seguito all’aumentata concentrazione di prostaglandine E2 (PGE2) in specifiche aree cerebrali 1. Le PGE2, in particolare, agiscono legandosi
a 4 specifici recettori cellulari (EP1-EP4) presenti nei nuclei preottici
dell’ipotalamo anteriore, fisiologicamente deputati al controllo della
termoregolazione. In seguito a tale interazione recettoriale consegue
un’elevazione del punto di equilibrio del termostato ipotalamico 1. A
questo nuovo set point si adeguano, quindi, sia la produzione che la
perdita di calore.
Nella patogenesi della febbre svolgono un ruolo cruciale specifiche
citochine, definite pirogeni endogeni (inteleuchina [IL] 1-beta [IL-1
β], interleuchina 6 [IL-6] ed il fattore di necrosi tumorale-alfa [tumor
necrosis factor-α o TNF-α]). La maggior parte dei pirogeni esogeni,
invece, (ad esempio i componenti della membrana cellulare di alcuni
microrganismi) evocano la risposta febbrile attraverso la stimolazione della produzione di pirogeni endogeni. Ad esempio, le endotossine (lipopolisaccaridi della parete cellulare dei batteri Gram negativi)
agiscono inducendo la produzione di IL-1 β che rappresenta il segnale per il rilascio di PGE2 nella regione ipotalamica preottica.
Dati recenti suggeriscono complessi meccanismi fisiopatologici alla
base della febbre indotta da microorganismi Gram-negativi. La risposta febbrile ai patogeni endogeni inizia con il loro arrivo nel fegato per via ematica dove sono fagocitati dalle cellule del Kupffer. I microrganismi attivano, per contatto, la cascata del complemento, con
liberazione di C5a che induce la produzione di PGE2 da parte delle
cellule del Kupffer. Le citochine pirogene vengono invece prodotte
più tardivamente e non sarebbero da considerare il primo segnale
per la genesi della febbre, pur rimanendo il meccanismo causale di
tutte le manifestazioni di malessere e di sensazione di malattia che
si associano alla febbre.
Al segnale che conduce alla stimolazione dei neuroni termoregolatori situati nel nucleo preottico dell’ipotalamo, consegue il rialzo
del punto di equilibrio del termostato ipotalamico. Tale segnale si
sviluppa sia per via ematica, attraverso la diffusione di PGE2, sia per
via nervosa, attraverso l’attivazione vagale da parte dello stesso mediatore, proiettando il segnale al midollo allungato e raggiungendo
il nucleo pre-ottico tramite la via ventrale noradrenergica. Successivamente, la noradrenalina secreta stimola gli adrenocettori α1 dei
neuroni termoregolatori, determinando un rapido incremento della
temperatura centrale 2.
Le citochine pirogene (come TNF-α e IL-1) sono a loro volta implica-
Background e necessità della presente Linea Guida
La febbre è uno dei più frequenti motivi di richiesta di visita pediatrica 4. Malgrado siano stati eseguiti tentativi per semplificare
ed unificare l’approccio al bambino febbrile, la valutazione e la gestione del segno/sintomo febbre rimane controversa 5-7 e numerosi
dati in letteratura sottolineano disomogeneità di comportamento,
anche rilevanti, da parte dei medici 8 9. A ciò possono contribuire
la disponibilità di nuovi dispositivi di misurazione della temperatura
corporea e la disomogeneità dei sistemi sanitari nei vari paesi (con
peculiarità organizzative che fanno sì che alcune linee guida già sviluppate in altri contesti non siano trasferibili nella realtà italiana) 4.
La segnalazione recente da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco
(Agenzia Italiana del Farmaco. Registrazione e Farmacovigilanza.
Paracetamolo – Segnalazione esposizione a sovradosaggio – 16
febbraio 2007. sito web:www.agenziafarmaco.it) di numerosi episodi di esposizione in sovradosaggio a farmaci antipiretici avvenuti
nel nostro paese, particolarmente in bambini sotto i 5 anni di età 10
induce, inoltre, a porre l’attenzione sulla necessità di un’adeguata
informazione sulle indicazioni all’uso di tali farmaci sia per gli operatori sanitari che per i genitori. Questi dati sono in accordo con segnalazioni in letteratura di una fever-phobia comunemente segnalata tra
i genitori che non possiedono adeguate informazioni sulla gestione
del bambino febbrile 11 e che conduce frequentemente i genitori a
richiedere immotivate seconde e terze visite pediatriche 12. D’altra
parte, una non corretta gestione del bambino febbrile, rimandando
un possibile intervento diagnostico e terapeutico (di tipo generale e
non, ovviamente, diretto contro la febbre in sé), lo espone a rischi
sostanziali di sviluppare una patologia grave 4.
Scopo e destinatari
Lo scopo di questa Linea Guida è selezionare, alla luce delle migliori prove scientifiche disponibili, gli interventi efficaci e sicuri a
disposizione per la gestione della febbre in pediatria. Con l’intento
di massimizzarne l’utilità pratica, la presente Linea Guida affronta
alcune domande chiave sulla gestione della febbre in pediatria che
sono state ritenute da parte degli estensori in grado di focalizzare
gli aspetti più pressanti e controversi sull’argomento. In questo documento, non sono state affrontate tematiche inerenti all’indagine
eziologia della patologia di base né alla antibiotico-terapia, che do-
285
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
vranno essere oggetto di successive linee guida specificatamente
mirate su questi argomenti.
I destinatari della Linea Guida sono i medici pediatri di base ed ospedalieri, i medici di medicina generale, i farmacisti, gli infermieri, gli
operatori della sanità pubblica ed i cittadini. Queste raccomandazioni possono essere utili in particolare nel trattamento a domicilio ed
in ospedale del bambino febbrile, al fine di misurare correttamente
la temperatura corporea, promuovere un uso razionale dei farmaci
antipiretici, istruire correttamente i genitori sul comportamento più
idoneo nel bambino in base sia all’età che alla presenza o meno di
patologie croniche pre-esistenti.
Queste Linee Guida affrontano principalmente la gestione del segno/
sintomo febbre che insorge acutamente nel bambino e che, nella
maggior parte dei casi, è di origine infettiva. Non vengono incluse la
gestione della febbre periodica e/o su base genetica, la febbricola
persistente e la febbre persistente, che possono essere legate ad
una ampia gamma di patologie di base.
Definizione di febbre
La febbre è definita come un incremento della temperatura corporea
centrale al di sopra dei limiti di normalità. Tali limiti possono presentare variabilità individuali e si modificano secondo un ritmo circadiano. Inoltre, la misurazione della temperatura centrale (idealmente
la temperatura del sangue nell’area ipotalamica) non è routinariamente misurabile. Ai fini della seguente Linea Guida è stato pertanto
stabilito di utilizzare la definizione pratica fornita dalla Organizzazione Mondiale della Sanità che individua come temperatura centrale
normale quella compresa fra 36,5 e 37,5°C.
Metodi
Il documento è stato elaborato in accordo con la metodologia adottata dal Piano Nazionale Linee Guida (PNLG). La ricerca bibliografica
è stata svolta consultando i database di Cochrane Library e Medline
tramite PubMed, dal 1985 al 2007.
Box 1 - Definizione dei livelli
di prova e della forza delle
raccomandazioni
LIVELLI DI PROVA
I = Prove ottenute da più studi clinici controllati randomizzati
e/o da revisioni sistematiche di studi randomizzati.
II = Prove ottenute da un solo studio randomizzato di disegno
adeguato.
III = Prove ottenute da studi di coorte con controlli concorrenti o
storici o loro metanalisi.
IV = Prove ottenute da studi retrospettivi tipo caso-controllo o
loro metanalisi.
V = Prove ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza
gruppo di controllo.
VI = Prove basate sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti come indicato in linee guida o in consensus
conference, o basata su opinioni dei membri del gruppo di
lavoro responsabile di questa Linea Guida.
286
Box 1 - Definizione dei livelli di
prova e della forza delle
raccomandazioni (segue)
FORZA DELLE RACCOMANDAZIONI
A = L’esecuzione di quella particolare procedura o test diagnostico è fortemente raccomandata (indica una particolare
raccomandazione sostenuta da prove scientifiche di buona
qualità, anche se non necessariamente di tipo I o II).
B = Si nutrono dei dubbi sul fatto che quella particolare procedura/intervento debba sempre essere raccomandata/o, ma
si ritiene che la sua esecuzione debba essere attentamente
considerata.
C = Esiste una sostanziale incertezza a favore o contro la raccomandazione di eseguire la procedura o l’intervento.
D = L’esecuzione della procedura non è raccomandata.
E = Si sconsiglia fortemente l’esecuzione della procedura.
Sintesi delle raccomandazioni
Quesito n. 1. Come deve essere misurata la temperatura corporea in età pediatrica (sito e dispositivo di misurazione)?
Raccomandazione 1
Nonostante la temperatura rettale sia, da molti, ancora oggi considerata il gold standard per la misurazione della temperatura corporea,
la via di misurazione rettale della temperatura corporea non
dovrebbe essere impiegata di routine nei bambini con meno di
5 anni, a causa della sua invasività e del disagio che comporta
(livello di prova III; forza della raccomandazione D).
La misurazione rettale della temperatura può essere presa in
considerazione per i bambini critici o privi di coscienza, se misurata da operatori esperti. In ogni caso, non deve essere rilevata
in bambini immunocompromessi o con sanguinamento rettale. Si
devono adottare tutte le misure necessarie per prevenire possibili
danni causati da movimenti improvvisi del bambino. In particolare, la misurazione non deve essere fatta col bambino in posizione
supina.
Raccomandazione 2
La misurazione orale della temperatura corporea è da evitare nei
bambini (livello di prova III; forza della raccomandazione D).
Raccomandazione 3
In considerazione della cessazione della loro produzione, l’uso di
questi termometri deve essere progressivamente abbandonato.
Comunque, l’uso dei termometri a mercurio è sconsigliato nei
bambini per il rischio di rottura e di contatto col metallo (livello
di prova III; forza della raccomandazione E).
Non sono disponibili, al momento, evidenze sull’accuratezza clinica in ambito pediatrico di termometri con metalli liquidi sostitutivi
del mercurio e non esistono evidenze sufficienti a supporto dell’uso
di termometri a ciuccio. Esistono evidenze di livello non elevato a
supporto dell’uso di termometri a infrarossi cutanei. Termometri monouso chimici a viraggio di colore sono sconsigliabili perché scarsamente affidabili.
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
a) Misurazione in ambito ambulatoriale/ospedaliero, da parte di
personale sanitario
Quesito n. 3. È appropriato l’uso di mezzi fisici per ridurre la
temperatura corporea?
Raccomandazione 4
Per i bambini fino a 4 settimane, si raccomanda la misurazione
ascellare con termometro elettronico (livello di prova III; forza
della raccomandazione B).
Raccomandazione 8
L’impiego di mezzi fisici per la terapia della febbre è sconsigliato (livello di prova I; forza della raccomandazione E).
Raccomandazione 5
Per i bambini oltre le 4 settimane, si raccomanda la misurazione ascellare con termometro elettronico o quella timpanica con termometro a infrarossi (livello di prova II; forza della
raccomandazione B).
b) Misurazione a domicilio, da parte dei genitori o dei tutori
La misurazione con termometro timpanico ad infrarossi è maggiormente soggetta ad errori operatore-correlati e dovrebbe essere evitata a domicilio.
Raccomandazione 6
A domicilio, per la misurazione da parte dei genitori o dei tutori,
per tutti i bambini viene raccomandata la misurazione con termometro elettronico in sede ascellare (livello di prova II; forza
della raccomandazione B).
Raccomandazione 9
L’impiego di mezzi fisici rimane invece consigliato in caso di
ipertermia (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
Quesito n. 4. Il grado di febbre è correlato con la gravità della
patologia?
Raccomandazione 10
Non è raccomandato considerare l’entità della febbre come fattore isolato per valutare il rischio di infezione batterica grave
(livello di prova III; forza della raccomandazione E).
Raccomandazione 11
La febbre di grado elevato può essere, tuttavia, considerata
predittiva di infezione batterica grave in particolari circostanze
(come età inferiore ai 3 mesi o concomitante presenza di leucocitosi
o incremento degli indici di flogosi) (livello di prova III; forza della
raccomandazione C).
Quesito n. 2. Come considerare la febbre misurata dai genitori/tutori?
Quesito n. 5. È indicato l’uso di antipiretici nel bambino febbrile?
I bambini che si presentano all’osservazione per febbre e sono apiretici al momento della visita, ma hanno, in base alle dichiarazioni
dei familiari, un’anamnesi positiva per febbre, devono essere comunque considerati febbrili.
I valori di temperatura corporea riferiti dai familiari dei bambini con
febbre non debbono essere considerati come assolutamente certi,
specie se i familiari hanno età avanzata, appartengono a classi sociali economicamente depresse o hanno modesto livello culturale.
Raccomandazione 7
È consigliabile che, per avere una valutazione corretta dell’entità del rialzo termico, la temperatura corporea sia misurata direttamente da un operatore sanitario (livello di prova VI; forza
della raccomandazione B).
Raccomandazione 12
I farmaci antipiretici devono essere impiegati nel bambino febbrile solo quando alla febbre si associ un quadro di malessere
generale (livello di prova I; forza della raccomandazione B).
Quesito n. 6. Quali antipiretici devono essere impiegati e con
quali modalità di somministrazione?
Raccomandazione 13
Paracetamolo e ibuprofene sono gli unici antipiretici raccomandati in età pediatrica (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
Tabella I.
Principali tipi di termometro e relativi costi.
Tipologia di termometro
Metodica di misurazione
Costo al pubblico
Termometro a mercurio
Ascellare
Orale
Rettale
Range 2-5 Euro
Termometro elettronico
Ascellare
Orale
Rettale
Range 4-8 Euro
Termometro a cristalli liquidi
Strisce plastificate da mettere a contatto
con la fronte
Range 1-2 Euro
Termometri a raggi infrarossi
Auricolari
A contatto epidermico con la fronte
A distanza con puntatore
Range 30-50 Euro
Range 25-60 Euro
Range 40-90 Euro
287
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
Tabella II.
Vantaggi e svantaggi dei principali tipi di termometro.
Tipo di termometro
Vantaggi
Svantaggi
Note
A mercurio
Facile lettura.
Basso costo.
È fragile, la colonnina di mercurio
può frantumarsi.
Non può essere ritarato.
Quello classico (non prismatico)
necessita di diversi minuti prima di
una lettura stabilizzata del valore
della temperatura.
Il mercurio è tossico.
Nel 2010 sarà ritirato dal commercio in base alla normativa europea
per motivi di tossicità del mercurio.
Elettronico
Elevata affidabilità e basso costo.
Sufficiente breve tempo di permanenza nella sede di rilevazione
(1-2 minuti).
Dotati di allarme acustico alla fine
della rilevazione.
La pila può esaurirsi.
Non può essere controllata la
taratura facilmente.
Da preferire i modelli con asta
flessibile per ragioni di sicurezza.
Il tipo incorporato nel ciuccio non è
affidabile.
A striscia reattiva
Semplice impiego.
Infrangibile.
Non tossico.
Scarsa accuratezza
e riproducibilità.
Risulta più affidabile il giudizio
della madre con il semplice tocco
della mano.
A raggi infrarossi
Estrema brevità della rilevazione
(pochi secondi).
Limitatamente a quelli non di
contatto con la pelle, non è necessario disinfettare il termometro o
destinarne uno a ciascun paziente.
Assenza di standardizzazione fra i
diversi modelli
Possibilità di taratura non precisa
Difficoltà di posizionamento per
alcuni tipi (auricolare)
Criticità della distanza di rilevamento in quelli a distanza.
La misurazione auricolare può dare
risultati precisi e riproducibili in
mani esperte, ad esempio in ambiente ospedaliero; tuttavia è poco
affidabile se utilizzata dai genitori.
Raccomandazione 14
L’acido acetilsalicilico non è indicato in età pediatrica per
il rischio di sindrome di Reye (livello di prova III; forza della
raccomandazione E).
Raccomandazione 19
L’impiego di alti dosaggi di paracetamolo per via rettale (> 20
mg/kg/dose o 90 mg/kg/die) deve essere sconsigliato per l’incrementato rischio di tossicità (livello di prova I; forza della raccomandazione E).
Raccomandazione 15
I cortisonici non devono essere impiegati come antipiretici, per
l’elevato rapporto costi/benefici (livello di prova III; forza della
raccomandazione E).
Raccomandazione 16
L’uso combinato o alternato di ibuprofene e paracetamolo non è
raccomandato sulla base delle scarse evidenze disponibili riguardo la sicurezza e l’efficacia rispetto alla terapia con un singolo
farmaco (livello di prova VI; forza della raccomandazione D).
Quesito n. 7. Le vie di somministrazione orale e rettale sono
equivalenti?
Raccomandazione 17
Sebbene le formulazioni orale e rettale di paracetamolo, a dosaggi
standard, abbiano efficacia antipiretica e sicurezza sovrapponibili, la
somministrazione di paracetamolo per via orale è preferibile, in
quanto l’assorbimento è più costante ed è possibile maggiore
precisione nel dosaggio in base al peso corporeo (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
Raccomandazione 18
La via rettale è da valutare solo in presenza di vomito o di altre
condizioni che impediscano l’impiego di farmaci per via orale
(livello di prova I; forza della raccomandazione A).
288
Quesito n. 8. Gli antipiretici sono farmaci sicuri e ben tollerati
nel bambino?
Raccomandazione 20
Paracetamolo e ibuprofene sono antipiretici generalmente sicuri ed efficaci che devono utilizzati a dosaggi standard:
• paracetamolo: 10-15 mg/kg/dose (massimo 1 g/dose) per 4 o 6
somministrazioni/die (ogni 4-6 ore); dosaggio terapeutico massimo 60 mg/kg/die nel bambino fino a 3 mesi, 80 mg/kg/die nel
bambino di età superiore a 3 mesi (massimo 3 g/die) (per via orale); dosaggio tossico > 150 mg/kg in un’unica somministrazione;
• ibuprofene: 5-10 mg/kg/dose (massimo 800 mg/dose) per 3 o 4
somministrazioni (ogni 6-8 ore); dosaggio terapeutico massimo: 30
mg/kg/die (massimo 1,2 g/die); dosaggio tossico >100 mg/kg/die.
(livello di prova: I; forza della raccomandazione A).
Raccomandazione 21
L’ibuprofene non è raccomandato in bambini con varicella o in
stato di disidratazione (livello di prova V; forza della raccomandazione D).
Raccomandazione 22
Fino a quando non saranno disponibili ulteriori dati, l’impiego
di ibuprofene è sconsigliato nei bambini con sindrome di Kawa-
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
saki ed in terapia con acido acetil-salicilico, in quanto, in questi
casi, è stato segnalato un rischio di ridotta efficacia dell’attività
anti-aggregante dell’acido acetil-salicilico (livello di prova V;
forza della raccomandazione D).
Box 2 - Consigli da fornire
ai genitori/tutori ai fini di ridurre
il rischio di intossicazione
da farmaci antipiretici
Ai genitori o tutori del bambino devono essere fornite in modo
dettagliato, per scritto, anche in occasione di visite pediatriche
di controllo, tutte le seguenti informazioni:
• indicazioni corrette e dettagliate sul tipo di formulazione da
impiegare incluse dose corretta, frequenza e durata della terapia;
• insegnare a calcolare la quantità per Kg di peso e per dose,
in modo che i genitori possano applicare il calcolo anche in
occasioni successive;
• indicare la dose massima che il bambino può assumere in un
giorno;
• spiegare i rischi legati al sovradosaggio del farmaco;
• spiegare l’utilizzo corretto del dosatore, facendo ripetere al
genitore/tutore l’operazione, assicurandosi che abbia capito
(eventualmente marcare il dosatore in corrispondenza della
dose da somministrare);
• spiegare l’importanza di non impiegare nel bambino formulazioni da adulti (ad esempio, compresse da dividere);
• spiegare le differenze nella gestione di gocce e sciroppo pediatrico;
• spiegare che non è vero che “più è meglio”: cioè che dosi
maggiori di antipiretico non si associano a maggior efficacia;
• scoraggiare l’impiego contemporaneo di ibuprofene e paracetamolo, per l’aumentato rischio di intossicazione;
• scoraggiare l’uso della formulazione per via rettale senza
prescrizione medica, per la difficoltà a raggiungere dosaggi
precisi in base al peso corporeo;
• spiegare che il farmaco deve essere sempre somministrato
sotto la supervisione di un adulto;
• spiegare i possibili segni e sintomi di intossicazione dal farmaco (anoressia, nausea, vomito, malessere, oliguria, dolore
addominale, alterazioni dello stato di coscienza, ipotermia) e,
nel caso si verifichino, condurre immediatamente il bambino
presso un Pronto Soccorso.
Box 3 - Nomogramma di RumackMatthew per l’identificazione dei
pazienti che hanno assunto dosi
tossiche di paracetamolo da
sottoporre a trattamento con
acetilcisteina
In caso di overdose in singola dose, i pazienti a rischio di danno epatico e che richiedono un trattamento con N-acetilcisteina
possono essere identificati da un singolo dosaggio della concentrazione plasmatica di paracetamolo, dopo 4 ore dall’ingestione.
Se l’ora dell’ingestione non è nota, praticare due dosaggi a 4
ore uno dall’altro, al fine di calcolare l’emivita del farmaco. La
concentrazione ottenuta deve essere riportata sul grafico di trattamento con una linea di riferimento (tossicità epatica probabile)
che raggiunge i 200 mg/L a 4 ore. Alcuni autori consigliano il
trattamento già per valori superiori alla linea che raggiunge i 150
mg/L a 4 ore (tossicità epatica possibile). I pazienti a rischio per
danno epatico grave, come i soggetti malnutriti o in trattamento
con carbamazepina, fenobarbital, primidone, fenitoina, o rifampicina devono essere trattati se le concentrazioni plasmatiche di
paracetamolo sono superiori alla linea che raggiunge i 150 mg/L
a 4 ore. Per alcuni autori, è sufficiente che siano raggiunti valori superiori alla linea che raggiunge 100 mg/L a 4 ore, perché
in questi soggetti debba essere iniziato il trattamento (tratto da
Agenzia Italiana del Farmaco, disponibile al sito web http//www.
agenziafarmaco.it, modificato).
Quesito n. 9. Quali precauzioni devono essere prese per prevenire effetti tossici degli antipiretici?
Raccomandazione 23
La dose degli antipiretici deve essere calcolata in base al peso del
bambino e non all’età (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
Raccomandazione 24
La dose deve essere somministrata utilizzando specifici dosatori acclusi alla confezione (ad esempio contagocce, siringa gra-
duata per uso orale, tappo dosatore), evitando l’uso di cucchiaini da
caffè/the o da tavola (livello di prova V; forza della raccomandazione A).
289
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
Box 4 - Management del bambino con overdose da paracetamolo
in pediatria
Raccomandazione 25
È indispensabile prestare attenzione a possibili fattori concomitanti* che possano incrementare il rischio di tossicità per i due
farmaci (livello di prova V; forza della raccomandazione A).
*
Fattori concomitanti possono incrementare il rischio di tossicità da farmaci
antipiretici: per paracetamolo, contemporaneo trattamento con carbamazepina, isoniazide, fenobarbitale ed altri barbiturici, primidone, rifampicina,
290
diabete, obesità, malnutrizione, storia familiare di reazione epatotossica,
condizioni di digiuno prolungato; per ibuprofene, disidratazione, varicella
in atto, contemporaneo trattamento con ACE inibitori, ciclosporina, metotrexate, litio, baclofene, diuretici, chinolonici, dicumarolici).
Raccomandazione 26
Nel caso di sospetta intossicazione, il bambino deve essere im-
Febbre nel bambino: dalle conoscenze biologiche, le basi per la migliore gestione clinica
mediatamente riferito ad un centro anti-veleni o ad un pronto
soccorso, in quanto l’intervento precoce è associato a miglior
prognosi (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
Quesito n. 10. Si possono usare gli antipiretici nel bambino con
malattia cronica?
Raccomandazione 27
Nel bambino asmatico e nei bambini con fibrosi cistica, ibuprofene e paracetamolo non sono controindicati. Ibuprofene è controindicato nei casi di asma nota da farmaci antinfiammatori non
steroidei (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
sempre ricoverato per l’elevato rischio di patologia grave (livello di prova I; forza della raccomandazione A).
Raccomandazione 30
Il paracetamolo è l’unico antipiretico che può essere eventualmente impiegato fin dalla nascita. Nel neonato, si raccomanda
di adeguare il dosaggio e la frequenza di somministrazione all’età gestazionale (livello di prova III; forza della raccomandazione A).
Quesito n. 12. Vanno utilizzati gli antipiretici per prevenire eventi avversi associati con le vaccinazioni?
Raccomandazione 28
Nel bambino con altre malattie croniche (malnutrizione, cardiopatia cronica, epatopatia cronica, diabete), non vi sono evidenze
sufficienti per valutare l’utilizzo di paracetamolo e ibuprofene,
in quanto la maggioranza dei trials esclude questi soggetti dagli studi. È raccomandata cautela in casi di grave insufficienza
epatica o renale o in soggetti con malnutrizione severa (livello
di prova III; forza della raccomandazione C).
Raccomandazione 31
L’impiego preventivo di paracetamolo o ibuprofene in bambini
sottoposti a vaccinazione, al fine di ridurre l’incidenza di febbre
o reazioni locali, non è consigliato (livello di prova II; forza della
raccomandazione E).
Quesito n. 11. Quale è il comportamento da tenere nel bambino
di età inferiore a 28 giorni?
Raccomandazione 32
Dal momento che l’impiego preventivo di paracetamolo o ibuprofene in bambini febbrili non previene le convulsioni febbrili,
essi non devono essere utilizzati per questa finalità (livello di
prova I; forza della raccomandazione E).
Raccomandazione 29
Il bambino febbrile, con età inferiore a 28 giorni, deve essere
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Corrispondenza
prof. Maurizio de Martino, Dipartimento di Pediatria, Università di Firenze, viale Pieraccini 24, 50139 Firenze.
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